COSA SIGNIFICA INTEGRAZIONE? Don Luigi Ciotti Presidente di Libera e Gruppo Abele L’integrazione è la vera scommessa del nostro tempo. Un tempo di diritti negati e disuguaglianze, tempo dell’io e non del “noi”. Tempo di una crisi economica che è innanzitutto etica, culturale e politica, crisi di un sistema che ci ha impoverito tutti e ha costretto milioni di persone a lasciare terre e affetti nella ricerca, spesso troncata dalla morte, di una vita migliore. I loro volti e culture hanno cambiato la fisionomia delle nostre città, i nostri paesaggi quotidiani, e ci chiamano a misurarci con una diversità che può disorientare e intimorire. Una paura istintiva, legittima, che spesso però viene alimentata ad arte per indirizzare il consenso. Così si rafforzano i pregiudizi, le etichette, si crea il clima necessario a proporre leggi come quelle sull’immigrazione “clandestina”. Norme che rischiano di legittimare, in un circolo vizioso, i razzismi, le spedizioni punitive, un’idea della sicurezza sganciata dall’orbita del diritto, trasformata in autodifesa del cittadino. Allora è proprio l’integrazione la chiave per uscire da questo vicolo cieco. Il futuro, del resto, ci chiede di andargli incontro, non di attenderlo arroccati nella paura. Ci chiede di accoglierlo inventandoci forme di convivenza nuove, che non si limitino a una coesistenza precaria e forzata, ma si fondino sulla sintesi tra diversità che segna da sempre il cammino della vita. La vita è diversità che si afferma e rinnova attraverso lo scambio, l’incontro, la contaminazione. Le grandi culture nascono sempre dall’intreccio di relazioni, sono un “noi” dentro il quale le identità più diverse hanno trovato collocazione, dignità, riconoscimento. Integrandosi, appunto. Ecco allora che nessuno meglio delle persone immigrate incarna questo futuro che chiede di aprirgli le porte. E’ un cammino certo faticoso. L’integrazione incontra da sempre resistenze, va accompagnata passo per passo, con la giusta gradualità, sostenuta da un’informazione equilibrata. E si compie solo costruendo le condizioni perché chi arriva, oltre che accolto, si senta riconosciuto e quindi responsabile verso la comunità che lo accoglie. E’ il compito della politica, preparare il terreno. La politica, quando è davvero servizio alla comunità, è questo saper trasformare le paure in speranze, indicare orizzonti che sul momento possono risultare lontani, estranei, ma se accompagnati da testimonianze credibili, parole e atti coerenti, restituiscono il senso di una ricerca finalizzata davvero al bene comune. Anche la politica più lungimirante e coraggiosa però, quella capace di governare senza badare unicamente al consenso e agli indici di gradimento, da sola può fare molto poco. Deve poter contare sul sostegno vigile dei cittadini, sulla loro coscienza critica, sulla partecipazione attiva e responsabile di ognuno. Una partecipazione che è insieme nostro diritto e dovere, prevista da quell’articolo quarto della Costituzione che dice che compito di un cittadino è concorrere con i propri mezzi alla realizzazione del bene comune. Oggi questo patto tra cittadini e istituzioni è in crisi. Da un lato abbiamo una politica lontana dalle persone, invischiata nei giochi di potere, in interessi privati e affari non sempre leciti. Dall’altro un corpo sociale frammentato, cittadini rassegnati o indifferenti, condizionati da un’informazione troppo spesso manipolata e asservita proprio a quei poteri cui dovrebbe fare da contrappeso critico. A restare schiacciati nel mezzo sono i più deboli, i meno garantiti, gli ultimi della fila. Ecco perché l’integrazione è la sfida del nostro tempo. Una sfida che chiama in causa la politica, l’economia, l’educazione, la cultura. In una parola, la nostra umanità. Don Luigi Di Liegro, direttore della Caritas, romana diceva che “nessuna legge rivela ciò che siamo meglio di quelle sull’immigrazione”. Se guardiamo alle norme più recenti, non abbiamo davvero di che essere fieri. Ma siamo ancora in tempo, insieme possiamo ancora scegliere di cambiare strada. Senza scordarci che l’integrazione, per essere davvero porta al futuro, non deve guardare solo alle persone migranti. Dev’essere anche integrazione dei deboli, degli emarginati, degli ex detenuti, delle persone che sono materialmente povere come di quelle che sono povere “dentro”, segnate da fragilità esistenziali, incapaci di trovare un senso alla propria vita. Solo così essa è la chiave per costruire un mondo più umano e più giusto. Un mondo dove la legalità e la prossimità, le regole e l’accoglienza non siano dimensioni alternative ma complementari, facce di una medesima medaglia chiamata democrazia.