CULTURA E UNIVERSITÀ I problemi attuali di

CULTURA E UNIVERSITÀ I problemi attuali di rapporto tra cultura e Università
riflettono quelli tra cultura e società e nascono, a mio parere,
nel periodo umanistico-rinascimentale; quando decade progressi­
vamente il modello medievale del processo culturale, sotto i colpi
di buone e cattive critiche, e si mettono in opera organizzazioni
alternative del sapere - le scuole e le accademie umanistiche
- sempre piu ideologicamente aristocratiche e culturalmente
selettive.
La cultura della totalità, in vista e in funzione della teologia,
è sostituita dalla cultura dell'ammirazione e del rimpianto (verso
il mondo classico) e da quella dell'osservazione-esperienza scienti­
fica; ma appena la sostituzione avviene, gli spezzoni di quell'antica
totalità (certo imperfetta e manchevole, tanto da frantumarsi,
appunto, in spezzoni) si trovano in conflitto tra loro: Leonardo
rigetta il sapere che «principia e finisce nella mente», ma non
evita la trappola dell'empirismo assoluto affermando che «la
verità fu sola figliola del tempo»; d'altra parte, i difensori­
imitatori del passato hanno ragione di cercare nella sapienza
naturale del mondo precristiano un'esperienza della libertà ­
proprio nel senso di un esperimento della libertà individuale 1
- che il Medioevo aveva insufficientemente o limitatamente
affrontato, a causa di barriere ed errori culturali, ma hanno torto
nel ripetere l'antica divaricazione tra sapere intellettuale e manuaIN. BERDJAEV,
passim.
Il senso della storia, Jaka Book, Milano 1977, cap. VII e
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lità empirIca, e nel contrapporre, all'interno del sapere intellettua­
le, bellezza e verità, estetica e mistica, Terra e Cielo.
Il mondo antico aveva largamente assorbito nella speculazio­
ne filosofica la scienza nascente, in modo tale che la filosofia
piu concentrata in se stessa, nell'attenzione alla realtà intellegibile,
immateriale, svolgeva inconsapevolmente anche il ruolo dell'anali­
si scientifica 2 della realtà sensibile. Ne era risultata, insieme alla
confusione, la paralisi della scienza e un certo squilibrio, per
eccesso, della filosofia.
Il Medioevo non pose rimedio sufficientemente e tempesti­
vamente a quella paralisi e a quello squilibrio, come ha bene
evidenziato Maritain in quel capolavoro del pensiero che è La
philosophie de la nature 3.
Di li la grande, legittima ma in molti aspetti scomposta
reazione dei diritti conculcati della scienza: Galileo, tanto miglio­
re dei suoi persecutori non solo sul piano umano ma anche per
la comprensione dei rapporti tra teologia e scienza, non evita
però un errore, diremmo oggi epistemologico, che nel suo entusia­
smo non sospetta neppure, e che è drammaticamente all' origine
della divaricazione tra scienza e sapienza, della quale oggi tutti
soffriamo. Galileo sopravvaluta iperbolicamenmte la conoscenza
scientifica quando dice che, se Dio conosce· simultaneamente
tutta la realtà (extensive), l'uomo può, nel particolare (intensive),
conoscere come Dio 4. Ma la conoscenza che Dio ha del mondo
coincide con la sua opera, sempre attuale, di creazione dell'essere,
mentre quella che ne ha l'uomo è derivata, estrinseca, manipolatri­
ce (non creatrice) e sempre approssimata: come la fisica subatomi­
ca, al di fuori di ogni considerazione religiosa, ha ben chiarito,
da Planck a Heisenberg, con il riscontro logico del teorema di
GodeI.
2 Anche la filosofia è una scienza, e superiore, nell'ordine della conoscenza,
alle scienze che Maritain definisce empiriometriche; uso perciò una terminologia
tradizionale e di comodo, inevitabile in questo contesto, molto inesatta e non
priva di possibilità di equivoco.
3 La filosofia della natura, Morcelliana, Brescia 1977.
4 Lettera alla granduchessa Cristina di Lorcna.
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Questa doppia eredità, di paralisi e di prevaricazione poi,
della scienza - eredità dunque contraddittoria - nel quadro
della rottura dell'universalismo medievale, produce la reciproca
incomunicabilità non solo di religione e cultura, metafisica e
scienza, ma anche, con una potenzialità che gradualmente si
traduce in atto, delle singole discipline tra di loro, le quali si
inoltrano sulla via della specializzazione - processo inevitabile
e corretto - ma anche dell'estraneità reciproca, effetto e a sua
volta causa di conseguenze gravissime, che oggi stiamo misu­
rando.
A questo punto, infatti, virtualmente ma già effettivamente
(nella pratica) la cultura, ogni sua branca, ogni sua pista di
indagine e di esperienza, è frammentata, ed è finalizzata; voglio
dire finalizzata a uno scopo che non la comprende come valore
intrinseco, ma che la usa per un fine esterno ad essa; che, cioè,
la strumentalizza. È cultura per: per un vantaggio economico,
sociale, politico, persino scientifico; cioè per un fine individuale
o per una meta collettiva comunque limitati; non riposa sul suo
atto veritativo, non si riflette sulla propria origine e sul proprio
destino, che trascendono gli usi contingenti; serve (serve a qualcu­
no, a qualcosa) e non regna.
Noi riceviamo questa eredità di un molteplice asservimento
della cultura frantumata e isolata nelle sue parti proiettate centri­
fugamente. Non solo: ciò che riceviamo, e a cui siamo chiamati,
una o un'altra forma di conoscenza, ha subito e subisce l'accelera­
zione e la distorsione dell'abuso tecnocratico, della superstrumen­
talizzazione economica e consumistica. I frantumi socialmente
utili della cultura devono incessantemente produrre i loro parzia­
lissimi ma desideratissimi effetti economici; l'uomo ne diventa
il servitore senza alternative; la sua cultura, non piti cultura della
libertà, non può che rassegnarsi ad essere cultura della necessità.
Ma già piti di 150 anni fa Leopardi definiva la società del suo
tempo «stolta, che l'util chiede, / e inutile la vita / quindi piti
sempre divenir non vede» (Il pensiero dominante, 1832). E prima
di lui avevano parlato di alienazione con impressionante moderni­
tà Schiller, HolderIin, Hegel, prima di Marx e altrettanto sena­
mente.
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Nel suo scritto L'idea di una Università (1852), John Henry
Newman avverte la precisa urgenza di porre rimedio allo stato
di estraniamento da se stessa della cultura, in specie universitaria,
sottolineando la differenza incolmabile che corre tra informazione
e COf'.oscenza, tra istruzione ed educazione. «Ogni sapere - dice
- , qualunque esso sia, ricerca la verità», cioè ogni singola verità
e la connessione di tutte le verità; e proprio perché la funzione
del sapere, questa funzione, è altissima, egli può dire che il
sapere «è fine a se stesso», che «l'intelletto umano è costituito
in modo che qualsiasi conoscenza, per poco che sia una vera
conoscenza, è ricompensa a se stessa»; e ancora: che tale sapere
è «uno stato o una disposizione dello spirito», «desiderabile,
anche se non apporta utilità pratica, per il solo fatto che esso
è per se stesso un tesoro ed una ricompensa sufficiente per anni
di fatica» 5.
Oggi, le sue parole risuonano provocatorie e amare non in
se stesse, ma per l'eco che hanno nella nostra situazione di
asservimento e strumentalizzazione della cultura, cioè di noi
stessi.
Il sapere, in altre parole, non è soltanto una noetica, una
conoscenza, ma anche un'etica. E se non è anche un'etica viene
saccheggiato, privo di difesa, da ogni interesse privo di scrupoli
e di valori. E, attenzione, Newman non pensava a nessun uso,
neppure il migliore, del sapere, né in dimensione civile né in
dimensione religiosa: «l'obiettivo -;-- dice - che persegue l'Uni­
versità come tale è (. ..) indipendente dalla sua utilizzazione da
parte della Chiesa cattolica, dello Stato o di qualsiasi altro potere.
L'intelligenza deve avere la sua propria perfezione particolare
perché nulla esiste che non abbia la propria bontà specifica».
Ma qualunque piu negativa situazione, proprio perché avver­
tita come negativa, non fa in realtà che affermare, per contrasto,
l'esigenza del contrario. Noi continuiamo a desiderare che il
nutrimento del nostro lavoro di conoscenza sia ricco in se stesso,
e che questo lavoro ci permetta di crescere oltre le nostre
obbligate o calcolate intenzioni, nel senso in cui, diceva T.S.
5
In AA.VV., L'unità del sapere, Città Nuova, Roma 1977.
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Eliot, «la cultura è qualcosa che deve crescere; non potete
costruire un albero, potete soltanto piantarlo, e curarlo, e attende­
re che germogli nel tempo dovuto; e quando è cresciuto non
dovete rammaricarvi se vedete che da una ghianda è nata una
quercia, e non un olmo» (L'unità della cultura europea, 1946).
A questo punto il problema diventa estremamente concreto
e però estremamente ampio, totalmente individuale, anzi persona­
le, e totalmente umano, quindi interpersonale. Non esiste cultura
dell'individualità chiusa. Il professionista capace, che si limita
ad ottenere con il mezzo della propria cultura il fine che si era
preposto, qualunque esso sia, ha cessato da tempo, e forse da
sempre, di essere una persona colta, per rassegnarsi (si tratta,
consapevolmente o no, di rassegnazione) ad essere una persona
informata e abile. Non solo la sua branca specialistica è cultural­
mente morta, anche se scrupolosamente aggiornata, ma tutta la
sua potenzialità culturale è impedita. Perché la cultura non sarà
mai un fatto di singole, per quanto vaste, conoscenze strumentali,
ma solo e sempre una relazione tenace e aperta di tutte le
conoscenze disponibili, non anzitutto unite strumentalmente per
un fine, ma associate significativamente (formando, dunque, signi­
ficati) in un itinerarium che ha una meta.
Il primo grande errore del modello mentale della cultura
attuale è il suo fondamento cieco, fideistico, nell'intensive galileia­
no, e cioè nel valore della singola, isolata conoscenza, per di pitl
ritenuta, nella sua particolarità, esauriente la realtà. Da qui deriva
in gran parte la cultura della solitudine, dell'introversione, della
contrapposizione; e derivano tutte le evitabili tragedie dell'io
costretto a conoscere solo con la propria intelligenza il mondo,
e per frammenti, per fotogrammi «divini». L'altro grande errore
nasce da una vera e propria mozione di sfiducia nel valore
interiore anzi ontologico della conoscenza, di qualunque cono­
scenza, valore che essa ha se non perde il contatto, e cioè la
relazione di significato, con tutte le altre, con la totalità significati­
va del sapere. Nasce da non credere, cioè, che l'acquisto non
strumentale della conoscenza sia un possesso reale non espropria­
bile.
Di fronte a questo vero e proprio disastro culturale ciascuno
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deve sentire o risentire in sé (nessun altro può farlo al suo posto)
il bisogno e l'orgoglio della conoscenza libera, sovrana nel proprio
tempo interiore ed esterno, indipendente da valenze economiche
positive o negative, costruttiva, sia pure misteriosamente - o
in una progressione e in una direzione comprensibili solo nel
tempo di una pazienza assoluta - , nella dimensione dell'essere
stesso, della sua trascendenza rispetto a ogni povero successo,
arricchimento, prestigio.
«È il possesso culturale del mondo che dà felicità», scriveva
Pier Paolo Pasolini nel 1975 6 con la sua intelligente, penetrante
ingenuità. Forse la parola, anzi l'idea di felicità, in tempi di
ottuso edonismo e di ottuso consumismo, cioè oggi, può essere
pericolosa, fuorviante. Ma il possesso culturale del mondo è
possibile, è reale; se è umile, aperto, inflessibile nella sua sufficien­
za a se stesso e però altrettanto disponibile ad ogni seria rimessa
in questione, ad ogni nuova, necessaria ricerca.
L'Università può essere il luogo, il tempo del consolidamen­
to e del rilancio di questo possesso nella direzione di nuovi
equilibri, di nuove profondità, o può essere il luogo della corsa
nevrotica al potere, a qualsiasi potere, attraverso una cultura
destituita di una propria finalità; e allora si può diventare profes­
sionisti di successo, uomini di potere, procacciatori di ricchezza,
per i quali la conoscenza è superiorità e potenza: ma nel momento
esatto in cui ci si converte a questa pratica del sapere, la vita
perde il suo pregio fondamentale, non vale piu la pena, cioè
!'impegno, di essere vissuta, perché perdono il loro proprio valore
sia la fatica che la conoscenza, attraverso la fatica, della verità,
di cui un uomo diventa degno soffrendo; come già intuiva
Eschilo: «Attraverso la sofferenza la conoscenza» (Agamennone).
Il tentativo edonistico-consumistico, specificamente anticul­
turale, di abolire la sofferenza di vivere, la feconda insostituibile
sofferenza di conoscere, amare, e amando scegliere, e spendersi
nella scelta, è l'inconsapevole tentativo di rendere il mondo
incomprensibile, inabitabile, assurdo; e il passaggio nel mondo,
6 Corriere della Sera 29-5-1975, ora in Lettere tuterane, Einaudi, Torino
1976, p. 63.
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legittimamente irresponsabile. Un mondo inesplicabile abitato
da irresponsabili è un mondo preda di qualsiasi sufficiente potere.
C'è una caduta di stile, un involgarimento evidente nel
modo di vivere piti diffuso oggi. La convergenza in basso,
l'allineamento in basso del gusto, della sensibilità, della capacità
intellettuale media, del patrimonio culturale individuale, sono il
segno di una resa psicologica, di una viltà spirituale disposta a
molto, forse a tutto pur di conservare, con la vita fisica, la pura
possibilità materiale di consumare, di godere. A questo prezzo
si può anche essere intellettuali, professionisti, imprenditori di
successo, ma non certo uomini; piuttosto entità degradate, psico­
logicamente mutanti nell'avvitamento egoistico, fino all'incomuni­
cabilità, fino a una vegetale o minerale sussistenza. L'uomo non
può vivere (come uomo) senza cultura, per la semplicissima
ragione che ogni individuo umano è il frutto di un processo
culturale; che in ogni uomo non esiste la natura umana se non
già elaborata in un processo culturale che lo precede e lo coinvolge
personalmente senza mai cessare di sollecitarne la responsabilità.
La scelta unicamente possibile, allora, e doverosa, e inevita­
bile, è tra buona e cattiva cultura; tra la rinuncia consumistica
ad elaborare la propria esperienza del mondo e la scelta consape­
vole e deliberata di distillarne con pazienza perseverante un
significato non effimero.
GIOVANNI CASOLI