infermiera Lugo di Romagna e omicidio difensivo

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www.lucabenci.it articolo del 4 luglio 2016
Infermiera di Lugo di Romagna.
Il suo fu “omicidio difensivo”
Le motivazioni della sentenza della
Corte di assise di Ravenna
Luca Benci
Pubblicato su Quotidiano Sanità in data 4 luglio 2016 con
il titolo “Ecco le motivazioni dell’ergastolo dell’infermiera
di Lugo di Romagna: il suo fu omicidio difensivo”
http://www.quotidianosanita.it/cronache/articolo.
php?articolo_id=41260
La vicenda di D.P. – infermiera in servizio presso
il reparto di medicina dell’ospedale civile Umberto I di Lugo di Romagna - e il clamore mediatico
provocato rappresenta una vicenda processuale non
riconducibile agli usuali canoni della responsabilità
professionale per colpa. Si tratta di un fatto riconducibile al c.d. “dolo professionale” – espressione
coniata nel 1955, per la prima volta, da Francesco
Introna – e, più precisamente, a uno dei più gravi
casi di dolo professionale accaduti negli ultimi decenni.
Stiamo parlando di un processo per “omicidio volontario pluriaggravato dall’utilizzo del mezzo venefico, dai motivi abietti, dalla premeditazione, dalla minorata difesa della vittima e dall’abuso della
qualifica e dalle mansioni di infermiera” nei danni
di R.C., paziente ricoverata presso il suo reparto.
L’omicidio volontario sarebbe avvenuto “mediante
la somministrazione di due fiale di cloruro di potassio, sottratte dall’armadio farmacia del reparto”.
Il processo si è svolto presso la Corte di assise di
Ravenna e si è concluso con la condanna all’ergastolo dell’infermiera.
La Corte di assise romagnola - sentenza 11 marzo 2016 (depositata il 13 giugno) – ha ricostruito
in modo articolato tutta la vicenda disegnando uno
scenario complessivo fortemente inquietante, di
una gravità inaudita, ricostruendo apertamente uno
scenario da serial killer dalle proporzioni verosimilmente mai viste, in riferimento non soltanto alla
morte della paziente in questione, ma su “decine di
pazienti” (il processo, lo ripetiamo, era relativo solo
alla morte della paziente R.C.).
Il processo motivazionale si è snodato attraverso
varie ricostruzioni: “il teatro della vicenda”, le procedure di conservazione del cloruro di potassio, i
rapporti tra il personale e una serie numerosa di furti
a danni di pazienti, la somministrazione non autorizzata di farmaci, l’origine della notizia di reato, i
riscontri diagnostici, le “voci” e il “chiacchiericcio”
sull’imputata, le statistiche relativa alla presenza in
servizio di D.P. e la frequenza delle morti all’interno
del reparto, una serie importante di morti anomale e
improvvise, le cause della morte di R.C. e le prove
sulla causa di morte e, infine, l’attribuzione della
responsabilità a carico dell’infermiera con relativi
aggravanti che ne delineano il movente.
Si tratta, è evidente, di un processo fortemente indiziario, costruito in primo luogo sulla personalità e
sui comportamenti dell’imputata.
D.P. viene descritta come un’infermiera capace,
competente, efficiente, “apprezzata per le sue capacità professionali, da molti temuta per le sue caratteristiche soggettive, per la sua personalità e per la
sua spregiudicatezza”. Molti suoi colleghi – infermieri, oss e anche medici – “erano intimoriti dalla
personalità forte, decisa e spesso arrogante di D.P.”
Viene descritta come “abitualmente dedita ai furti
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in corsia” che si erano frequentemente registrati a
danno di pazienti con specifiche testimonianze degli
stessi derubati e di infermieri colleghi. I furti sono
stati addebitati alla D.P. senza però denunce formali
e/o provvedimenti, neanche di natura disciplinare, a
suo carico, tanto che la stessa Corte di assise si è domandata le ragioni del fenomeno ripetuto nel tempo e della impossibilità di intervenire nonostante la
notorietà della riconducibilità dei furti all’imputata.
A D.P. si è imputato inoltre una “gestione autonoma e spregiudicata dei farmaci”, accusa generica di
cui non si è chiarito il fenomeno, se non fornendo
alcuni generici e aspecifici riscontri.
Altre accuse non documentate ma ritenute credibili per la costruzione della personalità di D.P. sono
relative a “massicce somministrazioni di lassativi”
finalizzate, non a scopi evacuativi, ma a colpire le
oss con cui erano insorti dissidi.
Bisogna precisare che, anche in questo caso, non
sono mai stati presi provvedimenti contro D.P., e
questo, secondo i giudici romagnoli, le ha conferito
una sorta di convinzione di impunità.
Tutta questa pluralità di elementi raccolti non sono
“frutto di fraintendimenti o suggestioni collettive”,
ma una raccolta reale di fatti occorsi nel reparto di
Lugo.
I giudici romagnoli danno poi conto delle “voci”,
sempre più frequenti, che collegavano il decesso di
pazienti alla presenza in servizio di D.P.
Un elemento cruciale nell’accusa è stata, inoltre,
la denuncia di un ammanco di due fiale di cloruro di
potassio fatta da una collega di D.P., scomparse senza motivo e senza essere prescritte in terapia. Fatto su cui si sono adombrati i sospetti sull’imputata
senza però, anche in questo caso, trovare un reale
riscontro.
Di una decisa pregnanza sono alcune frasi due attribuite alla D.P. che al cospetto di pazienti gravi
aveva apertamente dichiarato che “due fiale di potassio potevano andare bene” e a breve il paziente
decedeva.
Le “voci” e la statistica dei decessi riferita all’infermiera imputata hanno portato la direzione sanitaria dell’azienda a denunciare il fatto alla procura
della Repubblica.
D.P. viene tolta dai turni e impiegata solo nei turni
mattutini (i più presidiati per numero di personale).
A proposito delle statistiche: nel periodo aprile
2012-aprile 2013 il numero dei decessi per settimana nel reparto di medicina di Lugo era di 5 la settimana per poi salire a 6 la settimana nell’anno successivo. Nel momento in cui la D.P. è stata sospesa
dal servizio si è passati a 4 alla settimana (si era però
registrato una diminuzione del numero complessivo
dei ricoveri dovuto all’allarme sociale della notizia
dell’arresto dell’infermiera). La media settimanale
dei decessi (imputata esclusa) era di 4,59 decessi a
settimana che salivano a 8,95 decessi a settimana
considerando la presenza di D.P.
Un eccesso di mortalità statistica, quindi, a imputata presente in servizio.
Il processo che si è tenuto presso la Corte romagnola però riguardava, lo ripetiamo, solo un decesso
di una signora – R.C. – “portatrice di protesi all’anca
destra e la ginocchio destro e di esiti di mastectomia
bilaterale”. Inoltre risultava operata recentemente al
femore e presentava un quadro complessivo complesso (anemia, astenia, diabete, ipotensione). La
mattina del 9 aprile 2014 la paziente entra improvvisamente in coma – D.P. era in servizio – e alle
9,40 viene constatato il decesso. Morte improvvisa
e inspiegabile per rapidità. R.C. muore per “schock
cardiogeno acuto” senza però che sia stato possibile
determinare, in prima approssimazione, “cosa abbia
determinato detto shock”.
Successivamente con le più sofisticate tecniche tanatologiche in uso – l’indagine sull’umor vitreo – si
è stabilito una causa di morte dovuta a un eccesso
di potassio compatibile solo con una somministrazione “esogena” dovuta non alla conseguenza di un
errore ma al “frutto di un disegno sorretto dalla volontarietà, dal dolo”.
Tutto quindi ha portato a concentrare l’attenzione
sulla persona di D.P.
Secondo i giudici romagnoli le sue responsabilità
emergono dall’esame delle “ordinarie mansioni di
competenza di ciascun infermiere”. Era lei, come
turnista, ad avere in carico la paziente, era lei che
assisteva R.C., era lei che aveva cambiato la flebo
alla paziente facendo uscire i parenti. A proposito
della fleboclisi: si sarebbe trattato di una sostituzione di un flacone più grande e non finito e con
riportato sopra il nominativo della paziente, sosti-
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tuendolo con un flacone che non riportava il nome
della paziente.
Da un deflussore ritrovato nei rifiuti – verosimilmente riferibile alla paziente R.C. prima della morte – sono state ritrovate tracce elevate di cloruro di
potassio nella “camera di gocciolamento” inserite,
secondo i giudici romagnoli, dall’infermiera D.P. e
non da altri: l’ipotesi che possa essere stato qualcun
altro “deve essere assolutamente esclusa”.
E’ verosimile, ricostruiscono i giudici, quindi che
D.P. abbia immesso il farmaco inserendolo dalla camera di gocciolamento per diluirne la portata e non
fare risultare immediata la morte come avverrebbe
in un contesto di bolo diretto. Altra ipotesi messa
in campo è stata la somministrazione concentrata in
una piccola flebo (flacone mai trovato), oppure con
una soluzione mista: una parte inserita nella camera
di gocciolamento e una parte direttamente in vena.
Quale che sia stato il fatto appare, secondo la Corte
di assise di Ravenna, irrilevante in quanto comunque ascrivibile a D.P. senza ombra di dubbio: “deve
ritenersi che R.C. non sia a sia deceduta per morte
naturale, ma sia stata uccisa da una somministrazione esogena di una soluzione a elevata concentrazione di potassio per via endovenosa, effettuata da D.P.
la mattina dell’8 aprile 2014 alle ore 8,15”. Gli orari
sono importanti e vedremo perché.
A completare il quadro criminologico sono state
ricordate le immagini scattate dalla collega oss della
D.P. che ritraevano quest’ultima “in posa”, accanto al cadavere di una signora appena deceduta, con
espressioni di irrisione e che hanno portato all’immediato licenziamento di D.P.
Le aggravanti contestate – rispetto a un delitto
come l’omicidio volontario con una pena già di per
sé alta – sono state quelle relative all’articolo 61
c.p. con particolare riferimento ad avere commesso
il fatto con “l’uso di sostanze venefiche, ovvero con
altro mezzo insidioso” (il potassio vi rientra perfettamente), con abuso dei poteri o con violazione
inerenti ad una pubblica funzione o ad un pubblico
servizio” e, soprattutto, di avere agito con “premeditazione”. Per provare quest’ultima aggravante – ci
ricordano i giudici romagnoli – sono necessari due
elementi: “uno, ideologico o psicologico, consistente nel perdurare nell’animo del soggetto, senza soluzione di continuità fino alla commissione del reato
di una risoluzione criminosa ferma e irrevocabile;
l’altro, cronologico rappresentato dal trascorrere di
un intervallo di tempo apprezzabile”, tra la decisio-
ne e l’attuazione del proposito criminoso.
D.P. aveva premeditato l’omicidio di R.C.? Secondo i giudici della Corte di assise di Ravenna la
risposta è positiva, anche se con modalità “in incertam persona”. Aveva deciso di uccidere anche se
non conosceva la vittima. Le motivazioni addotte
dai giudici sono sconvolgenti per un ambiente sanitario. D.P. si sentiva accerchiata dai sospetti, tolta
dai turni e messa sotto osservazione. Aveva deciso
di “alzare il livello della sfida e di commettere quello che può essere definito un omicidio difensivo”.
Solo cioè la morte di un altro paziente, in piena mattina e sotto gli occhi di un familiare, immediatamente dopo il cambio del suo turno, “le avrebbe potuto
consentire di dimostrare che le morti sospette erano
un caso, che non c’entravano con i turni delle infermiere”. Una sorta di sua lotta contro la statistica che
le era sfavorevole. Continua la Corte di assise: “perché D.P. non solo sapeva delle voci. Di più. Sapeva
di avere già ucciso numerosi pazienti. Forse non ricordava più neppure lei quanti”. Si rimane basiti da
questa affermazione che farebbe diventare D.P. una
delle più efferate serial killer di sempre.
Ha ideato un programma criminoso ben “congegnato”. Sapeva, da infermiera, che il cloruro di
potassio lasciava pochissime tracce dopo la morte
difficilmente riscontrabili autopticamente. L’unica
cosa che le è sfuggita erano le ultime tecniche tanatologiche dell’umor vitreo. Per conquistarsi l’impunità D.P. avrebbe quindi “programmato e commesso
un omicidio non per compiacimento…ma per difendersi, per dimostrare a tutti che all’unità operativa
di medicina dell’ospedale di Lugo semplicemente
morivano i pazienti vecchi e malati”.
D.P. avrebbe quindi ucciso R.C. per sviare su di
se l’attenzione, avrebbe ucciso per motivazioni “difensive”.
Processo di dolo professionale, uno dei più gravi
di sempre, che ci porta a una serie di considerazioni.
La prima è oramai sotto gli occhi di tutti. Un’organizzazione sanitaria è totalmente impreparata sotto
tutti i punti di vista per casi consimili. Lo sforzo di
questi anni è stato relativo alla prevenzione dell’errore professionale, lo abbiamo visto nello sviluppo
del risk management e dei riconoscimenti normativi che si sono realizzati anche nell’ultima legge di
Stabilità. Colpa non dolo quindi. Quando invece si
realizza la volontarietà le organizzazioni appaiono
lente, impotenti, incredule e i meccanismi di alert
stentano a realizzarsi.
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Talvolta le reazioni sono scomposte e contraddittorie – ricordiamo il recente caso di Piombino – talvolta si mettono però in atto reali misure accertative.
In questi mesi abbiamo assistito all’arresto di decine di operatori sanitari (oss, infermieri e medici) per
violenze collettive a pazienti soprattutto nel settore
della residenzialità. Le telecamere messe dalle varie
procure sono state efficacissime nel documentare i
fatti. Le prove documentali sono state, in molti casi,
schiaccianti. Nel caso di Lugo e nel caso di Piombino le telecamere non sono state messe. I giudici di
Ravenna hanno condannato D.P. con un castello di
indizi, alcuni precisi e concordanti, altri suggestivi,
altri generici che non passeranno facilmente il vaglio dei successivi gradi di giudizio.
Il reparto di Lugo di Romagna ne esce malissimo
dalla vicenda. La sua gestione è stata definita “trasandata” coordinata e diretta “nel totale disinteresse
di chi alla correttezza delle procedure avrebbe dovuto prestare specifica attenzione”. Si era creata una
generale “rassegnazione sulla sorte dei degenti, abituata alla morte al punto da non chiedersi se ciascun
decesso fosse effettivamente spiegabile alla luce
delle pregresse condizioni cliniche del paziente”.
Chi scrive non ha letto gli atti del procedimento connesso che ha portato al rinvio a giudizio del
direttore dell’unità operativa e della coordinatrice
per “concorso in omicidio volontario” che si aprirà
a breve. A memoria non si hanno ricordi di medici e infermieri, posti nelle funzioni apicali, che rispondono “in concorso” con gli autori del reato di
omicidio volontario sulla base del secondo comma
dell’articolo 40 del codice penale: “non impedire
un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo”. Ripetiamo è concorso in
“omicidio volontario”.
L’azienda – nei suoi vertici apicali che maggiormente hanno interagito con l’autorità giudiziaria –
ne è uscita decisamente meglio. I giudici ravennati
hanno avuto parole di elogio verso il direttore sanitario aziendale e verso il dirigente infermieristico
per le decisioni prese e la collaborazione prestata.
Rimane lo sconcerto di una ricostruzione dei fatti – lo ripetiamo totalmente indiziaria – che ha disegnato uno scenario di probabili/possibili casi di
morti date volontariamente a decine di persone.
D.P. è stata processata e condannata solo per l’ultima delle vittime. Se la “narrazione” dei giudici
ravennati è corretta sarà doveroso fare luce anche
sulle altre presunte vittime.
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