L 243-248_libri_partenza+FOTO:REGATT 02-2011.qxd 28-04-2011 15:10 Pagina LXI L ibri del mese La libertà e Dio Pareyson, Dostoevskij e il «crogiolo del dubbio» P areyson ha presentato la sua ultima filosofia come un’ontologia della libertà, che doveva declinarsi come un’ermeneutica filosofica dell’esperienza religiosa, e che si presenta in concreto come un ripensamento filosofico del cristianesimo.1 La natura filosofica di questa ermeneutica risiede nel fatto che essa doveva saper LXI trarre dall’esperienza religiosa significati e motivi universalmente umani, capaci cioè di suscitare e richiamare l’interesse, se non il consenso, di ogni essere umano, credente o non credente. Si trattava per Pareyson non di rinnovare o aggiornare il cristianesimo, ma di «ritrovarlo» passando attraverso la crisi moderna dell’ateismo e del nichilismo. Non è possibile infatti per lui ritrovare il cristianesimo grazie a un semplice richiamo alla tradizione; tale richiamo deve essere allo stesso tempo un approfondimento creativo, richiesto e dettato dalla crisi stessa, crisi che non può essere ignorata, ma deve essere affrontata e vissuta in tutta la sua radicalità. All’amico Xavier Tilliette scriveva: «La mia concezione filosofica potrebbe modestamente scuotere la concezione tradizionale, in modo che possa essere rinvigorita e soprattutto attualizzata nella mentalità moderna piuttosto nichilistica». Pareyson ha affermato decisamente il valore puramente religioso, ma non astrattamente metastorico né meramente interiore del cristianesimo. Il cristianesimo è sì un «fatto eterno», ma la sua meta-storicità significa che il cristianesimo non si riduce a storia, a pura grandezza storica. Esso è «infinitamente trascendente le singole forme a cui dà vita», è «sempre al di là da ogni tentativo umano di concluderlo in una forma o rinserrarlo in un programma», ma è «al tempo stesso disponibile a ogni aspirazione umana e a ogni tentativo dell’uomo d’ispirarsene e di trarre norma per il suo pensiero e legge per la vita». Due interlocutori decisivi di questo ripensamento filosofico del cristianesimo effettuato attraversando la crisi moderna dell’ateismo e del nichilismo sono, per Pareyson, Kierkegaard e Dostoevskij. In particolare Kierkegaard deve venir preso come punto di riferimento per una critica dell’ateismo, perché Kierkegaard porta con sé la critica della religione e della teologia effettuata da Feuerbach come una possibilità, della quale accetta il rischio e IL REGNO - ATTUALITÀ 8/2011 243 243-248_libri_partenza+FOTO:REGATT 02-2011.qxd L 15:10 Pagina LXII ibri del mese rispetto alla quale sa ritrovare la genuinità della fede, liberata dal «razionalismo metafisico», quel razionalismo nel quale lo stesso Feuerbach rimane prigioniero. Dostoevskij invece porta dentro di sé – anche qui come possibilità saputa e vinta – il nichilismo. «Sono figlio del secolo – scrive Dostoevskij – figlio dell’incredulità e del dubbio. Io lo sono oggi e lo sarò fino alla tomba». «Quei vigliacchi mi hanno rinfacciato la mia fede in Dio. Quegli imbecilli non hanno visto nemmeno in sogno una potenza di negazione simile a quella che ho messo nella mia Leggenda del Grande inquisitore e nel capitolo che lo precede». Quella di Dostoevskij è una professione di cristianesimo del più alto significato per Pareyson, perché essa contempla in sé la possibilità del nichilismo, si misura cioè con la sua negazione; perciò si presenta come superiore ad altre proposte che non contemplano fino in fondo questa possibilità e che hanno come punto di riferimento figure del cristianesimo piuttosto consumate dalla crisi, ad esempio quella di un cristianesimo dogmaticamente chiuso in una forma di autocompiacimento oppure di un cristianesimo già intaccato di secolarismo. Sulla scia di Dostoevskij il cristianesimo che Pareyson vuole ritrovare non può avere la sicurezza «d’un conformismo ignaro di problemi, sordo agli allarmi, avido di certezze, chiuso nella definitività». La fede può affermarsi nella sua autenticità infatti solo attraverso «il crogiolo del dubbio» – un’espressione di Dostoevskij che Pareyson riprende più volte –; essa è lotta e conquista mai definitiva, e se dal punto di vista religioso rivolto a Dio la fede è dono, fiducioso abbandono, dal punto di vista filosofico rivolto al mondo la fede è opzione, audacia, salto, in definitiva scommessa. La professione del cristianesimo dovrà avere oggi – afferma Pareyson – un carattere «conflittuale e problematico», e ciò nel senso che una concezione cristiana che intenda porsi come (assiologicamente) attuale non può non trovare l’ateismo e il nichilismo come problemi a sé interni, come possibilità la cui considerazione e il cui superamento sono essenziali alla propria 244 28-04-2011 IL REGNO - ATTUALITÀ 8/2011 Luigi Pareyson affermazione. Da ciò l’importanza di ascoltare la lezione di Dostoevskij. Il romanzo filosofico Dostoevskij è stato per Pareyson un grande interlocutore di tutta la sua vita. Lo dimostra già un corso universitario tenuto nel 1967 su Il pensiero etico di Dostoevskij articolato in quattro parti: romanzo e filosofia, il male, il bene, la libertà. Poi seguirono saggi teoreticamente intensissimi: L’esperienza della libertà del 1972, L’ambiguità dell’uomo del 1978, La sofferenza inutile del 1982. Nel 1991, l’anno della sua morte, Pareyson lavorava a un saggio, rimasto allo stato di annotazioni, Dimitrij confuta Ivan. Seguendo le indicazioni stesse lasciate da Pareyson, tutti questi scritti sono stati raccolti e ordinati in un libro uscito postumo a cura di Giuseppe Riconda e Gianni Vattimo: Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa, Torino 1993. Questo libro – come anche quello di Berdjaev su La concezione di Dostoevskij (ediz. it. Torino 1945) – non vuole essere una ricostruzione storiografica del pensiero di Dostoevskij, ma un colloquio in profondità con lui. Il tipo di fedeltà che Dostoevskij richiede, viene espresso da Pareyson così: «Di lui non si può parlare senza diventare in qualche modo uno dei suoi personaggi (…), senza partecipare attivamente a quella polifonia di uomini e di idee in cui consiste la sua opera». Non si può parlare di lui senza parlare con lui: «L’essenziale è penetrare la sua problematica, ciò che non si può fare senza raccogliere le perentorie provocazioni e gli ineludibili appelli che continuamente sgorgano dalle sue pagine, senza partecipare alle sue discussioni parlando in proprio, ma non dimenticando mai di parlare in presenza sua, esposti al suo severo giudizio». Nel seguito vorrei restituire alcune elaborazioni pareysoniane su un tema, anzi su un binomio centralissimo nel suo colloquio con Dostoevskij, la relazione fra Dio e la libertà, fra l’esperienza della libertà e l’esperienza di Dio.2 Come anche Berdjaev, Pareyson assume come centrale in Dostoevskij il problema della libertà: il centro della filosofia di Dostoevskij consiste nel concepire l’esperienza della libertà come l’esperienza più profonda dell’uomo, condizione di tutte le altre. Ho parlato di «filosofia» di Dostoevskij perché – come Pareyson spiega nelle sue lezioni – le sue opere, viste nella loro qualità artistica, non sono propriamente «romanzi» ma «tragedie», anzi sono «trattati filosofici», sono posizioni di problemi e contrasti di idee; i suoi eroi sono vere e proprie «idee personificate»; i suoi personaggi meditano sulla tragedia dell’uomo, sciolgono l’enigma del mondo; gli incontri che avvengono nei romanzi non sono «vicende», ma propriamente «destini» e «problemi». Dostoevskij scrisse un giorno d’essere «debole in filosofia, ma non nell’amore per essa», al che Pareyson con Berdjaev replica: in realtà egli fu forse debole nella filosofia in senso tecnico, ma fu «vero filosofo», «il più grande filosofo russo»; «forse la filosofia gli ha insegnato poco, ma la filosofia ha molto da imparare da lui», ha molto da imparare – potremmo aggiungere – proprio e anche sul binomio Dio-libertà. Il male come annientamento Dire che al centro dell’opera di Dostoevskij risiede il problema della libertà significa distanziarsi da quella che Pareyson chiama l’interpretazione pessimistica, secondo la quale per Dostoevskij l’esperienza fondamentale LXII 243-248_libri_partenza+FOTO:REGATT 02-2011.qxd e decisiva dell’uomo sarebbe quella del male. Ora, Dostoevskij ha gettato sul male uno sguardo profondissimo e radicale, cui pochi altri possono stare alla pari. Il male non è per lui soltanto la fragilità e la debolezza dell’uomo, o l’incapacità umana di persistere nel bene, oppure la semplice ignoranza del bene. Il male è l’instaurazione positiva di una realtà negativa, l’effetto di una deliberata volontà di male, la presenza di una forza demoniaca nel mondo umano. La realtà del male è frutto di una forza potente e imponente, quale è la presenza efficace del demoniaco, da un lato, e la risoluta volontà dell’arbitrio dall’altro. Tuttavia questo non significa che Dostoevskij consideri il male come assolutamente irrimediabile, né che professi una sorta di manicheismo. In lui l’aspetto escatologico prevale su quello gnostico. Altrimenti detto: la concezione filosofica di Dostoevskij non è ottimistica, perché non minimizza la realtà del male, ma non è nemmeno propriamente pessimistica, dato che non afferma l’insuperabilità del male, anzi proclama la vittoria finale (escatologica!) del bene. Essa è piuttosto una concezione tragica, che mette la vita dell’uomo sotto l’insegna della lotta fra il bene e il male: «Satana lotta con Dio, e il loro campo di battaglia è il cuore dell’uomo» – tragica a tal punto che all’uomo non resta altra via del bene che un doloroso passaggio attraverso il male riconosciuto ed espiato. Il male è negazione, e ciò nel senso che è «non essere», cioè inesistenza, irrealtà, e nel senso che è «annientamento», cioè distruzione e autodistruzione. Il male è «non essere» perché non ha una realtà propria che possa intaccare la realtà del bene, dove questa si presenta vittoriosa e inattaccabile, cioè nell’assoluto. Perciò il male cerca una realtà in cui insediarsi e la prende a prestito dall’uomo, in cui esso può svolgere la sua opera negatrice, distruggendo non l’assoluto in se stesso, cosa che non potrebbe, ma almeno la sua presenza nel finito (male come «annientamento»). Insediandosi nell’uomo il male per un verso diventa esistente e reale, anche se fruisce di un’esistenza non originaria, ma paras- LXIII 28-04-2011 15:10 Pagina LXIII sitaria; e per l’altro verso può esercitare, in questa sede avventizia, la sua opera di distruzione e di annientamento. Pareyson richiama il colloquio di Ivan con il diavolo, nel quale appare che questi ha due aspetti, contraddittori: da un lato è assetato di realtà, desideroso di incarnarsi, «magari nella bottegaia che pesa un quintale», bisognoso cioè di assumere le sembianze stesse della vita dell’uomo per esistere; dall’altro lato aspira al nulla, tende alla negazione, mira solo alla distruzione, e in ciò risiede il suo pericolo mortale: d’essere una potenza di distruzione e di morte che si presenta nella veste della realtà più familiare e quotidiana. Una dialettica della libertà Per questo il passaggio dal male al bene è dialettico, anche se non si tratta di una dialettica della necessità, che farebbe del male un gradino necessario dell’ascesa verso il bene, e svuoterebbe il male della sua negatività e della sua natura antinomica e contraddittoria; ma si tratta di una dialettica della libertà, cioè una dialettica che non annulla la distinzione fra il bene e il male, ma sceglie e decide di fronte all’alternativa, e quindi offre al peccatore la possibilità della rigenerazione e della salvezza (la libertà è inizio e scelta, è perciò non solo libertà «da», indipendenza, e libertà «di», autodeterminazione, ma anche libertà come decisione di un’alternativa, libertà «tra»). Ora, il passaggio dal male al bene è dialettico perché l’uomo non ha altra possibilità di giungere al bene se non portando fino in fondo il processo autodistruttivo del male: l’autodistruzione del male è per Dostoevskij già l’inizio dell’instaurazione del bene, sì che denuncia del male e affermazione del bene sono uno stesso atto. Ancora: il passaggio dal male al bene è dialettico perché il bene non è tale se non include in sé, come momento vinto e superato, la stessa realtà e possibilità del male, se cioè il bene non è concepito in termini di riscatto e redenzione. Orbene, è il dolore il punto di svolta di questa dialettica della libertà, perché in esso culmina il male nel suo processo di autodistruzione, e in esso risiede quella forza redentrice che conduce al bene. Solo, bisogna che il male non si fermi al suo momento distruttivo, e che attraverso il dolore l’uomo possa comprenderne la natura e capovolgerne il destino di perdizione in annuncio di salvezza. Si vede da ciò che per Dostoevskij, non solo il male, ma anche il bene è dialettico. Dostoevskij – che è pittore così potente e vigoroso del male – è assai parco nel rappresentare il bene, ma questo accade perché per lui è il male stesso, con la sua autodistruzione, che rende testimonianza al bene. Il riconoscimento del male come tale implica la conoscenza della sua natura negativa e del suo destino di morte, cioè contiene il riconoscimento del bene come la sola realtà vera e genuina. Si può dire che il mezzo di cui Dostoevskij si serve per affermare il bene è la rivelazione del significato del male. Inoltre il bene è dialettico in quanto il suo valore risiede nella consapevolezza della possibilità del male. Tesi fondamentale di Pareyson lettore di Dostoevskij è che meglio dell’innocenza è la virtù non ignara del male. Non che la virtù sia tale se ha effettuato l’esperienza del male, cioè se essa abbia realmente commesso il male. È richiesto propriamente che la virtù abbia sperimentato la possibilità del male, cioè abbia sperimentato in definitiva la libertà. Il maggiore valore della virtù rispetto all’innocenza sta nella libertà, non nel male compiuto. Per fare consapevolmente il bene bisogna aver esperito la possibilità del male, avere esperito la libertà, la quale implica precisamente la possibilità del male senza la necessità della sua reale esperienza. Tra ribellione e obbedienza Per Dostoevskij la libertà che costituisce l’esperienza più profonda dell’uomo è la libertà primaria, cioè la libertà di scegliere fra il bene e il male, di decidere fra la ribellione e l’obbedienza, di rifiutare o riconoscere il principio dell’essere e del bene. La libertà nel bene – cioè la libertà che realizza il bene – non sarebbe tale se non fosse preceduta e condizionata dalla libertà del bene, cioè dalla libertà di scegliere liberamente il bene piuttosto che il male. È un tema mag- IL REGNO - ATTUALITÀ 8/2011 245 243-248_libri_partenza+FOTO:REGATT 02-2011.qxd L 15:10 Pagina LXIV ibri del mese giore che Pareyson trovava anche in Schelling, un interlocutore che Pareyson affianca a Dostoevskij nel suo cammino verso l’ontologia della libertà: il tema della libertà come facoltà del bene e del male. Certamente, la libertà della scelta del bene implica anche la possibilità della scelta del male, la libertà del bene è anche libertà del male. Proprio in questo risiede la tragedia della libertà: che il bene non è veramente tale se è imposto o se è necessario. Il bene è costituito come tale dalla possibilità di accoglierlo e di rifiutarlo. Il bene imposto è negato come bene. Il bene non è tale se non è libero. Il bene vero e reale è il bene scelto, così da Dio in modo irrevocabile e definitivo, come dall’uomo, in modo sempre esposto alla caduta. Ora, è possibile negare il bene in due modi, o con la scelta del male o con l’imposizione del bene. La scelta del male è una decisione della libertà primaria, che – se sceglie il male – finisce per distruggersi, perché cade nella schiavitù del peccato. Tuttavia in questa circostanza rimane sempre aperta l’alternativa della scelta del bene, nel senso che esperito l’insuccesso della scelta del male rimane aperta all’uomo la possibilità del riscatto attraverso la scelta del bene, cioè attraverso la libertà. Invece l’imposizione del bene è l’eliminazione completa della libertà primaria e la sua sostituzione con la necessità. Ma la negazione della libertà per imposizione del bene porta con sé l’eliminazione della libertà del bene, dato che il bene non è tale se non è libero. In conclusione: la scelta del male annulla il bene ma annulla anche la libertà; l’imposizione del bene annulla la libertà e annulla anche il bene. La libertà cattiva e la necessità buona sono egualmente deleterie. Tuttavia, mentre nessuna via aperta rimane nel caso del bene imposto, perché in questo modo il bene non solo non è raggiunto, ma è negato, e in più si è rinunciato alla libertà, una via rimane invece aperta alla libertà cattiva, nel 246 28-04-2011 IL REGNO - ATTUALITÀ 8/2011 senso che rilevato il fallimento della scelta del male piuttosto che del bene, la libertà può (dialettica della libertà!) ritornare all’esercizio della libertà del bene, e procedere in un riscatto della colpa. Non è dubbia dunque per Pareyson la risposta che Dostoevskij avrebbe dato a una domanda come questa: è meglio imporre il bene per evitare il male o permettere il male pur di salvare la libertà? Non è dubbia la risposta perché il bene imposto, la necessità buona, non è bene, ma male; invece la libertà primaria non è soltanto libertà del male, ma è anche, può essere libertà del bene. Feodor Dostoevskij Senza libertà non c’è il bene Dunque né il bene né il male sono necessari, ma sono il frutto della libertà, e senza libertà non ci sarebbe il male, ma neanche esisterebbe il bene. Peraltro solo l’esperienza della libertà dà un significato al male e alla sua vicenda, perché lo sollecita a dichiara- re la libertà che lo precede, e di cui è un abuso, e a esigere e annunciare la libertà che lo segue, e che sarà in grado di riscattarlo. Ma anche la libertà è ambigua. La ragione di questo è che la libertà non presuppone nulla, nemmeno la ragione che possa offrirle un criterio di distinzione fra il bene e il male (cosa di cui secondo Dostoevskij la ragione stessa sarebbe incapace), ma decide essa stessa che cosa è bene e che cosa è male, e sta alla base così dell’atto cattivo come di quello buono. Così intesa la libertà assomiglia in maniera sorprendente alla libertà dei demoni, alla libertà assoluta, illimitata, arbitraria quale è espressa nella ribellione dei demoni. Ciò che però è sconcertante, secondo Dostoevskij, è che di questo tipo possa essere anche la libertà del Cristo, il quale ha sì proposto un criterio e quindi ha stabilito un limite alla libertà, ma ha reso giudice del criterio la libertà stessa. Come gli rimprovera il Grande inquisitore: «Invece di principi sicuri, per tranquillizzare la coscienza umana una volta per sempre, tu hai scelto quello che c’era di più problematico. Hai moltiplicato la libertà umana, e hai oppresso per sempre, col peso dei tuoi tormenti, il regno spirituale dell’uomo». Infatti offrire come ha fatto Cristo alla libertà un criterio che non può essere accolto che dalla libertà stessa, significa in definitiva aumentarne l’innata illimitatezza. «Al posto dell’antica legge fissata saldamente – oppone il Grande inquisitore al silente Gesù –, da allora in poi era l’uomo che doveva decidere con libero cuore che cosa fosse bene e che cosa fosse male, e come unica guida avrebbe avuto davanti agli occhi la tua immagine», un’immagine – commenta Pareyson – che non è un’evidenza (logica) che s’impone alla mente, bensì a sua volta un appello alla libertà. Dostoevskij rifiuta il titanismo dei demoni, ma anche coloro che, come il Grande inquisitore, vogliono «correggere l’opera del Cristo» dall’errore peri- LXIV 243-248_libri_partenza+FOTO:REGATT 02-2011.qxd coloso d’aver aumentato la libertà umana, d’aver voluto non costringere gli uomini al bene, ma il «libero amore dell’uomo». Ora, l’uomo può evitare l’orgoglio smisurato di sostituirsi a Dio, o perché si ribella a lui, o perché ne vuole «migliorare la creazione» – un orgoglio smisurato che presto si capovolge in sconfinata degradazione – solo riconoscendo la propria misura umana. Ma questa misura l’uomo può riconoscerla – per Dostoevskij – solo se ammette l’esistenza di Dio, per quanto ciò possa riuscire difficile o persino impossibile, e in ogni caso estremamente dubbio e tormentoso. Dio infatti è l’unico essere che può sovrastare l’uomo senza opprimerlo; è l’unico che può dargli una legge senza per questo sopprimere la sua libertà, anzi esigendola e sollecitandola, e persino istituendola e garantendone l’esercizio. Dio offre all’uomo una legge che, se è vista nel suo senso proprio, e non come limite esterno, è al tempo stesso il principio e la guida della libertà, la quale ne viene insieme stimolata e sorretta, suscitata e governata, trasportata e nutrita. L’esperienza della libertà come esperienza di Dio Si comprende allora che per Dostoevskij l’esperienza della libertà, pur fondamentale, non è ancora quella originaria: esiste per lui un’esperienza più originaria e profonda, che è l’esperienza suprema, quella che contiene e illumina tutte le altre, cioè l’esperienza di Dio. Come abbiamo visto, Dio limita la libertà senza sopprimerla, perché egli si affida alla libertà ed esige di essere messo in questione da lei, sicché ne ribadisce e intensifica l’illimitatezza. Dio richiede la libertà dell’uomo e le si offre, cosa che è la tragedia dell’uomo, perché ogni sua decisione diviene una scommessa, fatta a suo rischio e pericolo, e ogni sua affermazione diviene quella da cui tutto dipende; ma è anche la tragedia di Dio, il quale non accetta che d’essere liberamente accettato, e quindi si espone alla libertà umana. Ribellione e ateismo si trovano dunque sul prolungamento della libertà voluta da Dio e portata da Cristo. Solo, non ne sono l’unica conseguenza, l’unico esercizio possibile. Se Dio rende la nostra LXV 28-04-2011 15:10 Pagina LXV libertà ancora più illimitata, non lo fa nel senso del puro arbitrio, dal quale non può discendere che ribellione e distruzione, bensì nel senso della responsabilità, così da accrescere nell’uomo la consapevolezza che ogni sua decisione è una scommessa, una scelta compiuta a proprio rischio, un atto consapevole e deliberato. Si oppongono allora due forme della libertà: la libertà dell’arbitrio e la libertà della scommessa. Ma se Dio, che è fondamento e legge della libertà, si affida alla libertà al punto che preferisce esserne contestato pur di salvaguardarla nel suo diritto e di garantirla nel suo esercizio, ciò significa che il carattere originario e radicale della libertà può essere una cosa diversa del puro arbitrio, e assumere invece il carattere di un’obbedienza primigenia e profonda, di un consenso partecipe e iniziale. Dicevo: due forme della libertà, quella di Adamo che si ribella, e quella del Vangelo, la libertà con la quale la verità di Cristo libera gli uomini. La libertà della negazione, della distruzione, della morte, e quella della scommessa, della responsabilità, della rinascita. La libertà che si nega con quell’atto supremo della libertà quale è la ribellione più arbitraria, e la libertà che si consolida con un atto di superiore obbedienza, che nasce dall’audacia e dal rischio. La libertà che divinizza l’uomo e quella che considera la misura dell’uomo come definita da Dio. Si comprende allora che esiste per Dostoevskij un nesso radicale e profondo fra Dio e la libertà, e un termine non è senza l’altro, sicché non c’è Dio senza libertà, né libertà senza Dio: Dio suscita la libertà nell’atto stesso in cui le pone una legge, che è la legge della libertà; e la libertà umana è presa di posizione di fronte a Dio, e può divenire arbitrio o scommessa, ribellione od obbedienza, rifiuto o responsabilità. Consegue da tutto questo che l’esperienza fondamentale dell’uomo per Dostoevskij è in definitiva l’esperienza di Dio, in quanto per un verso include quelle della libertà e del male, e per l’altro s’incarna concretamente in esse. Infatti senza la presenza di Dio il male e la libertà non apparirebbero nella loro vera portata; ricondotte al problema di Dio come decisivo per il destino IL REGNO - ATTUALITÀ 8/2011 247 dell’uomo, la meditazione sul male e quella sulla libertà fanno di Dostoevskij un vero e proprio filosofo della tragedia umana. Non bisogna però credere – accentua fortemente Pareyson – che l’affermazione di Dio faccia del pensiero di Dostoevskij un pensiero edificante e consolatorio, dal tono o sapore vagamente spiritualistico. Dio non è per Dostoevskij l’oggetto di un’affermazione che si possa accettare senza problemi, che assicuri a chi la enuncia una pace definitiva e una stabile sicurezza. «Dio – scrive Pareyson interpretando qui il pensiero profondo di Dostoevskij – attende l’uomo all’angolo della via, pronto a colpirlo nell’istante più inaspettato, ed è certo più vicino a chi dispera per averlo negato che a chi crede di possederlo per averlo sempre affermato». Riscoprire Dio nel cuore della negazione A questo punto possiamo riprendere il tema da cui eravamo partiti, cioè Ulrich Berges - Rudolf Hoppe Il povero e il ricco nella Bibbia I temi della Bibbia 10 L a questione sociale attraversa tutta la Bibbia. 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Un’affermazione di Dio assiologicamente contemporanea esige non soltanto una personale riappropriazione, ma una vera e propria riconquista «faticosa come la salita al Golgota, se non dolorosa come la notte del Getsemani». Un’affermazione di Dio inesperta del dubbio, dell’ateismo, del nichilismo, che oggi occupano la scena, è perciò stesso inerte e inoperante. Dio deve essere oggetto di un recupero, bisogna saperlo riscoprire nel cuore stesso della negazione. È questo tipo di recupero, secondo Pareyson, che ha desiderato realizzare Dostoevskij. Da qui la sua contemporaneità spirituale. La sua fede è figlia dell’esperienza nichilistica, è passata attraverso la potenza della negazione, è scaturita, come egli stesso scrive, dal «crogiolo del dubbio». Dostoevskij ha insegnato che l’ateismo stesso è ambiguo: può essere la via della perdizione (affermazione di Ivan: se Dio non esiste «tutto è permesso»), ma può essere anche – come afferma il vescovo Tichon nei Demoni – il «penultimo gradino». Una convinzione centrale di Dostoevskij è che l’ateismo è molto più vicino alla fede di quanto non sembri a un primo sguardo. Commentando un noto passo dell’Apocalisse – «Poiché sei tiepido, e non ardente né freddo, ti rigetterò dalla mia bocca» –, il vescovo Tichon pronuncia queste parole decisive: «L’ateo assoluto sta nel penultimo gradino della fede perfetta (e non si sa se andrà più su o no), mentre l’indifferenza non ha nessuna fede». Il passaggio a Dio è più facile a partire dell’ateismo che dall’indifferenza, perché l’indifferente è egualmente lontano sia dal credente sia dall’ateo, in quanto egli è situato su un piano diverso da loro. Per la sua ambiguità – e grazie non a una dialettica della necessità, ma a una dialettica della libertà – l’ateismo può consolidarsi come ultimo approdo e presentarsi come fede definitiva, ma può anche aprirsi a 248 28-04-2011 IL REGNO - ATTUALITÀ 8/2011 un’affermazione superiore, che lo lascia dietro di sé avendolo percorso fino in fondo. Dostoevskij accentua che senza l’abisso del dubbio non c’è l’abisso della fede. In questa operazione il nichilismo e la «potenza della negazione» sono qualcosa di assai diverso da un pimento o una spezia, atti a rendere più interessante e stuzzicante l’affermazione di Dio, così come sono altro da un semplice espediente per dare ai tiepidi sostenitori dell’esistenza di Dio l’illusione d’aver compiuto un atto eroico. Dostoevskij ha preso sul serio la negazione; egli conduce la posizione negatrice fino al punto in cui essa si rovescia – in virtù di una dialettica della libertà per la quale la critica consolida la scelta e il dubbio fortifica la fede – in un teismo rinnovato e ritrovato. Un teismo rinnovato e ritrovato è in definitiva quello che non teme di adottare in sé la critica, il dubbio, la negazione, perché saprà farne altrettanti mezzi per consolidare e corroborare il suo programma. L’esistenza di Dio non è per Dostoevskij – conclude Pareyson – una verità consolante. Proclamare l’esistenza di Dio non è affatto sopprimere il male, ma rendere ancora più sensibile la sua presenza. Rinviando la vittoria definitiva su di esso alla fine dei tempi, cioè nell’escatologia, l’esistenza di Dio esaspera nella storia la lotta fra il bene e il male, il cui campo di battaglia è il cuore dell’uomo. Lungi dal tranquillizzare l’uomo, l’esistenza di Dio amplifica la responsabilità dell’uomo stesso, invece che alleggerirla. È vero che Dio suscita e sollecita la libertà nell’atto stesso in cui le si affida, ma non dobbiamo dimenticare che fondando la libertà viene contemporaneamente istituita la possibilità del male oltre che del bene. Da questo rapporto a Dio, dal suo essere coram Deo, la libertà viene intensificata, acutizzata, richiamata ai suoi ineludibili impegni, posta di fronte alle sue perentorie responsabilità. Verrebbe da dire che Dio – in questa vertiginosa interpretazione pareysoniana di Dostoevskij –, esacerbando la coscienza del male e accentuando l’illimitatezza della libertà (illimitata, non perché non abbia limite, ma perché è essa stessa che deve accettare o rifiutare il limite), «non porta la pace, ma la lotta». I personaggi di Dostoevskij mostrano – riprendendo un’espressione della Lettera agli Ebrei cara a Pareyson – quanto sia «terribile cadere nelle mani del Dio vivente» (Eb 10,31). Dio infatti «non adagia l’uomo in una dolce e gratificante sicurezza, ma, incurante del suo continuo desiderio di tranquillità, di sostegno, di evasione, di oblio, lo mette con le spalle al muro e gli toglie ogni via di scampo». Ancora perciò: è terribile «cadere nelle mani del Dio vivente»! Rivendicando l’«indistinguibilità» di esposizione e interpretazione, Pareyson aveva detto che non si può parlare di Dostoevskij senza per questo parlare con lui; questo gli rendeva possibile una fedeltà a Dostoevskij «rispettosa e partecipe, congeniale e attiva» e in questo senso «assoluta». Orbene direi che in questo suo colloquio con Dostoevskij parlando di Dostoevskij, Pareyson ha contemporaneamente parlato di se stesso e con se stesso, ha forgiato e portato alla luce cioè i materiali vivi della sua propria filosofia, della sua ontologia della libertà, ugualmente lontana sia da un libertarismo laicistico sia da un conformismo religioso rigidamente dogmatico. In questo senso il Dostoevskij di Pareyson non solo è una pietra miliare nella storia delle interpretazioni del grande russo, ma è una pagina profonda e decisiva della filosofia del Novecento. Marco Ivaldo 1 Di Luigi Pareyson, del quale ricorre quest’anno il 20° anniversario della morte, a partire dal 1998 è in corso di pubblicazione l’opera omnia presso l’editrice Mursia di Milano, a cura del Centro studi Luigi Pareyson. I titoli già pubblicati sono: Essere, libertà, ambiguità (1998); Kierkegaard e Pascal (1999); Problemi dell’estetica. II. Storia (2000); Studi sull’esistenzialismo (2001); Estetica dell’idealismo tedesco. III. Goethe e Schelling (2003); Estetica dell’idealismo tedesco. I. Kant e Schiller (2005); Iniziativa e libertà (2005); Verità e interpretazione (2005); Interpretazione e storia (2007); Problemi dell’estetica. I. Teoria (2009); Fichte (2011). 2 Non tratto qui di un altro tema decisivo dell’interpretazione pareysoniana di Dostoevskij, quello della «sofferenza inutile» e della comprensione «cristologica» e «teologica» che gli è connessa. Su di esso ho dato qualche elemento in «Quasi un’ombra di Dio. L’ontologia della sofferenza in Pareyson», Regno-att. 14,2010,459-463. a p. 243: EL GRECO, Ritratto del card. Tavera, (1608-1614) part., Toledo, Hospital Tavera. LXVI