Esistenza come follia e cammino: nichilismo e tragico in Dostoevskij

Esistenza come follia e cammino.
Nichilismo e tragico in Dostoevskij
1 Dissoluzione delle certezze e crisi della soggettività
Lo sviluppo della riflessione filosofica tra ‘800 e ‘900 è legato alla grande
crisi che investe , nello stesso periodo, la cultura europea.La reazione al
Positivismo che fa da sfondo a questa dissoluzione di certezze non si
esaurisce semplicemente nell’esigenza di prendere le distanze da talune
visioni ingenuamente scientistiche e realistiche tipiche della sensibilità
positivista: siamo in un momento di generale insoddisfazione nei
confronti di filosofie legate a grandi principi unificatori. Viene messa in
discussione l’idea stessa di centralità, mentre questo stesso processo di
dissoluzione dei valori , in qualche autore, si apre a prospettive più
generali, nel senso che la crisi di fine secolo viene vista come segno di una
crisi dello spirito dell’Occidente.
Queste poche considerazioni possono bastare per dare la misura
dell’importanza che il tema della crisi della soggettività riveste all’interno
di una riflessione sulla questione dell’”esistere”.
La crisi della soggettività si concretizza in una perdita della centralità
: l’io passa da una condizione di centralità ad una condizione di concentrazione, che indica una situazione problematica, inquietante, nella
quale l’io, non più al centro del mondo ,concentra su di sè l’attenzione,
fino diventare luogo di un’esperienza del nulla e dell’essere.
Una riflessione sul senso del termine “esistere” : separato- dallo- stare,
quindi gettato- nel- mondo, collocato in una condizione di permanente
fragilità. In questo senso l’esistere conduce l’uomo all’esperienza
(angosciante) del nulla, in cui ci dibattiamo senza poter trovare un punto di
certezza.
L’esistere indica però anche una condizione di legame all’essere, inteso
come peso, come dato bruto da cui non si può fuggire. Il richiamo ad
Adamo che scopre l’esistere come vergogna nel momento successivo al
peccato può essere illuminante a questo proposito
Ossessione e vaporizzazione dell’Io
Huysmans e Baudelaire
Il tema dell’evasione, della fuga dal mondo, verso una prigionia in se stessi
è centrale nell’opera di Huysmans “Controcorrente”, testo chiave dello
spirito del Decadentismo : la realtà diventa un caos impenetrabile,
incomprensibile, talvolta detestabile , da cui si cerca di prendere le
distanze. Des Esseintes disprezza il mondo, che gli appare plebeo,
volgare... e cerca nella propria intimità un luogo di bellezza. La sua casa si
trasforma in un luogo sacro in cui le cose sono collezionate, nella
celebrazione della morte del mondo ( il mondo muore nella vanità, nel non
senso, nel feticismo). Des Esseintes ci porta a comprendere quanto la crisi
del soggetto sia, per alcuni aspetti, un nuovo modo di intendere la
relazione tra la coscienza e il mondo, dove emerge l’incapacità della
ragione di “dominare-comprendere” la realtà ;l’uomo della crisi, perduta la
sua centralità, vive il mondo come un labirinto in cui le coordinate non
hanno più senso. Il mondo-labirinto diviene la metropoli, nella quale ci si
perde in un vagabondaggio senza meta.
Il tema dello “stare nella vita moderna” è particolarmente incisivo nella
poesia di Baudelaire: qui l’esperienza della crisi emerge in tutta la sua
forza drammatica quando l’Io vive la sua appartenenza ad un mondo
appiattito , un mondo di cose senza tempo, quindi senza redenzione , che si
consumano: il loro “tempo” è quello della polvere che le ricopre, della
consunzione che le consuma.
“ Ho più ricordi che se avessi mille anni.
Una grossa cassettiera gonfia di conti,
versi, romanzi, verbali, biglietti galanti,
grevi ciocche di capelli avvolti in quietanze,
cela meno segreti del mio cervello triste...”
“ Al re di un paese piovoso io rassomiglio,
ricco ma impotente, giovane eppur vecchissimo...”
“ Quando basso il cielo grava come un coperchio
sull’anima gemente in preda a lunghi affanni,
e abbracciando dell’orizzonte tutto il cerchio
dispensa un giorno nero più triste delle notti;
quando la terra si muta in un carcere umido,
dove la Speranza , come fosse un pipistrello,
va a sbatter contro i muri l’ala timida
picchiando la testa sui fradici soffitti....”
Quindi lo sgomento che prende l’Io non è tanto il nulla, inteso come
minaccia di nientificazione: L’Io vive un’altra forma di paura, forse ancor
più dura: lo stato di insopportabilità di sè a sè, fino a desiderare , come il
“malinconico re di un paese piovoso”il sollievo delle acque del Letè.
Una sequenza riassume questo percorso verso la dissoluzione dell’Io:
IO
IO
IO
IO
IO
MONDO BRUTO
ESSERE SENZA REDENZIONE
NEL SE’ COME LABIRINTO
DALLA CENTRALITA’ ALLA CON-CENTRAZIONE
COME COSA
Varie figure possono contenere questa condizione, nella poesia di
Baudelaire:
Il Dandy , capro espiatorio che assume su di sè il peso delle maschere,
delle ipocrite convenzioni, dei conformismi, fino a ridurre la propria
esistenza a puro feticcio.
Il Flaneur, che si disperde nel mondo. La sua vita fanciullesca lo conduce
ad una esperienza frammentaria della realtà.
Da “Il pittore nella vita moderna”:
“..curioso in modo fanciullesco, ebbro di curiosità di fronte al nuovo,
quale che esso sia, volto p paesaggio, luce ,doratura, colori, stoffe
cangianti, magia della bellezza impreziosita dalla toeletta..si sposa alla
folla , abita e si perde nel numero, nell’ondeggiante, nel movimento nel
fuggitivo,nell’infinito..”.
Lévinas e la questione dell’evasione
Huysmans e Baudelaire indicano in modo convincente questo carattere
particolare della crisi dell’Io, legata sì all’incombere del nulla come paura
della nientificazione, ma anche all’essere , come peso insostenibile del sè.
Si potrebbe aggiungere che questo aspetto della crisi dell’Io ci fa
comprendere quanto l’esperienza dell’esistere in quanto tale sia in primo
piano e carica di inquietudine e di problematicità.
Lévinas nel 1936 in un testo intitolato “Dell’evasione” riflette su questo
aspetto ,partendo dall constatazione del fatto che c’è un disaccordo
profondo tra la libertà umana e il bruto fatto dell’essere. La filosofia
occidentale è legata con forza all’idea dell’essere, al punto che anche
quando si oppone all’ontologismo lo fa puntando ad un essere migliore, ad
una migliore armonia tra noi e il mondo.
Nel tempo della crisi si costituisce l’idea dell’evasione come radicale
condanna dell’idea di essere.
Evasione. Questo termine nasce quando si scopre che l’esistere è
incatenato ad un gioco che non può essere sospeso ( esistere come
separato dallo stare e come essere incatenato allo stare)
Si tratta della scoperta dell “il y-a”. Una scoperta che produce un senso di
rivolta che non va confuso con situazioni analoghe: non è , dice Lévinas ,il
sogno del poeta che vuole sfuggire dal mondo e non è nemmeno lo slancio
vitale. Per evitare questi fraintendimenti è opportuno cogliere , nella sua
specificità, la nozione di “uscita” dall’essere come prigionia. L’esistenza
viene scoperta dall’uomo come un assoluto che si afferma senza riferirsi
ad altro. E’ l’identità. Un’identità che si rivela in forma drammatica perchè
nell’identità dell’Io l’identità dell’essere manifesta la sua natura di
incatenamento.
Riassumendo il percorso:
identità dell’Io --- riflessione su di sè e ri-scoperta dell’essere---senso di
incatenamento---evasione.
La vergogna e il “mal au coeur” come immagini del peso
dell’essere
L’immagine di Adamo dopo aver commesso il peccato ci introduce alla
scoperta della nudità e, con essa, della vergogna. Non è qui il nulla che ci
tormenta, bensì l’essere: è la presenza a noi stessi che è vergognosa perchè
l’essere in quanto essere dell’uomo è un peso per sè.
Con il mal au coeur è l’interno che ci fa rivoltare: il fondo di noi soffoca
sotto di noi. Lo stato di nausea non è un semplice ostacolo ( che in quanto
tale è esterno!). Qui si prova, invece, l’impossibilità di essere quel che si è.
La vergogna è un sentimento che si prova rispetto ad altri. Nella nausea è
l’esistenza stessa che si fa problema.
Dostoevskij : dall’anima buona alla svolta filosofica.
L’uomo del sottosuolo
Un collegamento vale la pena di evidenziare, per giustificare l’interesse
per Dostoevskij entro una riflessione condotta intorno al tema
dell’esistere: si tratta del nodo tra vita, romanzo e filosofia.
Alcune circostanze della sua vita danno chiarimenti di alcune tra le pagine
più alte della sua produzione letteraria:
il padre (l’odio per esso-la sua morte violenta- il rimorso accompagnato
da una sorta di assunzione di responsabilità)
lo stupro dell’innocente (carattere oppressivo e violento del suo modo di
amare)
l’esperienza della svolta ( la finta fucilazione)
Questi aspetti biografici li troviamo nei romanzi più celebri .In modo
particolare la svolta caratterizza la sua produzione letteraria nel suo
insieme.
Possiamo indicare un primo periodo ( qualche titolo: Povera Gente –
Umiliati e Offesi- Ricordi dalla casa dei morti) segnato da umanitarismo
filantropico, da una adesione sui generis al socialismo utopico, dall’idea
ricorrente della fratellanza umana.
Del 1864 è il romanzo “Memorie dal sottosuolo”, a partire dal quale
possiamo parlare della svolta, con cui si apre la stagione dei grandi
capolavori. Il secondo periodo è segnato da un concezione tragica della
vita, dalla consapevolezza della realtà del male e della forza redentrice del
bene, dalla coscienza del pericolo immane contenuto nel desiderio
dell’uomo di sostituirsi a Dio.
Con l’uomo del sottosuolo Dostoevskij abbandona la maschera buona
dell’anima bella. “ L’uomo del sottosuolo è Dostoevskij che si toglie la
maschera”, scrive Sestov che definisce tragico il romanzo in questione, in
quanto non ammette mediazioni dialettiche.
Memorie dal sottosuolo inaugura il tema dell’esistenza , dove esistere è
fare una continua ed ossessiva esperienza dell’Io. Questa esperienza del sè,
vissuto in modo così esasperato, avviene nel sottosuolo, luogo “infero” e
contrastante il “palazzo di cristallo” ( in effetti la prima parte dell’opera è
una confutazione esplicita dei sistemi etici del palazzo di cristallo, mentre
nella seconda parte la confutazione prosegue attraverso l’esibizione del
gesto arbitrario, irrelato: qui il protagonista fa quello che fa senza essere
minimamente in grado di giustificare le sue azioni).
Lo sconcertante incipit del romanzo ci fa vedere che chi parla non è più
l’eroe romantico, figura prometeica, nel bene come nel male, ma un
personaggio negativo , un anti-eroe.
“ Non soltanto non sono stato capace di diventare cattivo ...ma non sono
riuscito a diventare niente di niente: nè cattivo nè buono, nè un
mascalzone nè una persona perbene, nè un eroe ,nè un insetto..”( Mem.dal
sott.)
L’esistenza è dunque assimilabile ad una malattia : l’esistenza scorre e in
essa l’eroe prende atto del fatto che la vita stessa è una malattia incurabile
che ,ovviamente, porta alla morte.
Dostoevskij e la filosofia
La svolta è l’apertura alla filosofia. Sestov, ne “La filosofia della tragedia”
dedicata a Nietzsche e a Dostoevskij ,afferma che lo scrittore è pienamente
riconsegnato alla filosofia, proprio perchè la sua opera chiama la filosofia
a riflettere su se stessa ( in un certo senso a fare i conti con la possibilità
dell propria inadeguatezza).Posta difronte al tragico , la filosofia incontra
la sua più profonda contraddizione; essa deve” custodire il dolore del
mondo senza snaturarlo o nasconderlo, dando sepoltura a coloro che ne
sono stati travolti “(veritas et pietas).
Il peso del dolore, il peso della verità: tutto ciò produce nello scrittore la
tentazione di ritirarsi , di rinunciare a parlare da un centro , di evadere. Lo
scrittore lascia quindi parlare le esistenze ,ciascuna delle quali testimonia
la tragicità dell’essere.
Nel romanzo polifonico di Dostoevskij Bachtin rileva l’assenza assoluta
di qualsiasi tentativo di unificazione della realtà: le voci impediscono
l’emergere di una voce, e quindi di una singola prospettiva.
Nel romanzo polifonico ogni coscienza è pienamente responsabile di sè,
mentre ogni uomo non coincide mai pienamente con se stesso, per cui non
gli si può applicare il carattere dell’identità :Bachtin parla di tipi
carnevaleschi e di assunzione di una maschera.
L’esistenza tra nichilismo e tragedia:
il gesto di Stavrogin e la domanda di Ivan
In un testo del 1984, dal titolo “Dostoevskij e la filosofia”, S.Givone
difende la legittimità di una lettura filosofica del grande scrittore russo,
nella cui visione delle cose emergono alcuni dati significativi:
a) Rifiuto del sistema e delle forme della totalizzazione
b) Rifiuto dell’idea di soggettività come persona
c) Dissolvimento delle strutture metafisiche che rimandano ad una
struttura trascendente che dovrebbe fondare la realtà.
Queste poche considerazioni indicano la cadenza nichilista di tanta
filosofia contemporanea, e di Dostoevskij che ne è, in qualche modo, un
anticipatore. D’altra parte , sostiene Givone, riconoscendo il carattere
filosofico dell’opera di Dostoevskij “...si prendono sul serio e alla lettera
le più personali convinzioni di Dostoevskij che dichiarava d’essere
tormentato dal problema di Dio (problema del senso e del non senso
dell’essere, problema del senso ultimo, problema del nichilismo)”.
La lettura che Dostoevskij dunque dà del nichilismo sembra concentrata, a
prima vista, sul carattere distruttore del fenomeno stesso. In questo senso il
nichilismo viene sviluppato con riferimento al gesto eversivo, insensato,
autodistruttivo che indica la perdita della stabilità morale su cui si fonda il
legame tra libertà –volontà-ragione- progetto...
Stavrogin, il giovane signore annoiato , esprime la potenza distruttiva
nell’ironia con cui egli esperimenta la convertibilità degli opposti, la
negatività che azzera la distinzione tra bene e male, tra verità e
menzogna.L’itinerario di Stavrogin culmina nell’esperienza del nulla
perchè culmina nella distruzione di sè e degli altri. Ed è comunque
circondato da personaggi che condividono con lui questa forza distruttiva.
Stavrogin fa esperienza del nulla attraverso l’esercizio di una libertà che
gli consente di affermare se stesso oltre la legge morale. Questo si traduce
nell’istinto di distruzione e in un certo qual gusto della trasgressione, come
profanazione e crudeltà:
“ offendere per il gusto di offendere”
“ essere felici di commettere delitti”
Notiamo qui una sovrapposizione delle forme del male, dove il male
sembra collegabile al nulla, al non-essere. Il nchilismo è incontro con il
male perchè è incontro con il nulla.
Un incontro che si manifesta in molte forme:
- come atto sacrilego
- come profanazione dell’innocenza
- come crudeltà
- come abiezione,avvilimento e autodistruzione
- come disgregazione della personalità
Stavrogin è rappresentativo di queste forme del male e, per questo motivo,
assume pienamente il connotato del nichilismo nel momento in cui ,
attraverso l’abiezione, giunge al pieno degrado di sè. Da alcune parole
emerge chiaramente questo gusto dell’abiezione:
“ Se fra me e me sentivo di essere un mascalzone, non me ne vergognavo
e me ne tormentavo poco...Avevo la netta sensazione di essere un basso e
turpe vigliacco per la gioia che provavo di essere libero, e sentivo che non
sarei stato mai più nobile d’animo, nè qui in terra. Nè dopo la morte,
mai..Fu appunto in quel tempo che mi venne l’idea di storpiare la mia vita
nel modo più ripugnante possibile.....Ogni situazione estremamente
ignominiosa , oltremodo umiliante,vile..ha sempre suscitato in me
un’incredibile delizia..”
Da queste parole , pronunciate da Stavrogin nel momento in cui si
autodenuncia a Tichon, possiamo trarre alcune considerazioni, in parte,
contraddittorie: il nichilismo di Stavrogin può certamente essere letto
come innesco di un processo inarrestabile di autodistruzione, fino alla
completa nientificazione . Però è possibile cogliere nell’ossessiva
concentrazione dell’io che emerge nelle varie forme del male ( e nella
stessa confessione a Tichon!) anche una perversa, paradossale, morbosa
esperienza dell’essere, inteso come ciò che non si sottrae, ciò che si
esibisce, insensato e scandaloso, privo di significato, brutale.
Stavrogin è un’esistenza che oscilla tra essere e nulla, fino alla piena
indistinzione che è la vera natura del nichilismo:
“..la mancanza – scrive Luigi Pareyson- di una vera distinzione tra il bene
e il male porta all’indifferenza, al disfacimento, all’inoperosità e alla
disgregazione, al disimpegno e all’estinzione...la fortissima personalità di
Stavrogin...si dissocia e si dissolve, al punto che il suicidio finale non è
che l’ultimo atto di un processo ormai inarrestabile di disfacimento e di
distruzione”.
Ivan Karamazov e l’ossessione della domanda
La questione del nichilismo in Dostoevskij si collega con il tema della crisi
del soggetto nel momento in cui interagisce con il pensiero tragico.
Con l’esistenza di Ivan Karamazov infatti l’esperienza nichilista si traduce
nell’esperienza del “tragico.
Abbiamo visto che la crisi del soggetto si pone soprattutto in termini di
relazione con il mondo: porsi difronte ad una realtà che non si lascia
comprendere e caricare di senso. “ E’ terribile cadere nelle mani del Dio
vivente”. In questa citazione paolina Dostoevskij contiene la forza del suo
pensiero tragico, reso possibile dalla rottura cristiana della classicità.
L’eroe tragico di Dostoevskij è tormentato da un’ossessione conoscitiva
che lo condanna a stare in bilico tra l’assurdo e il comico. Come l’eroe
tragico romantico ,anch’egli è destinato al sacrificio, ma con una
differenza sostanziale : il primo nel cadere consente in qualche modo il
venire alla luce di una Giustizia che, attraverso vie misteriose, può
dominare , forse riscattare, l’ingiustizia del mondo. L’eroe tragico di
Dostoevskij cade, ma nella sua caduta non compone in alcun modo il
dissidio, restando invece tragicamente incatenato alla sua apertura. Resta
aperto a Dio. E Dio è apertura infinita.
La crisi del soggetto che esperimenta fino in fondo il peso dell’esistere è
qui dunque segnata da una particolarità: l’ossessione della domanda
intorno al dolore del mondo che costituisce, in primis, ciò che è
massimamente inspiegabile. In alcune pagine celeberrime de “I Fratelli
Karamazov” Ivan si interroga sull’idea che ipotizza un’armonia redentrice,
risolutrice, che tutto spiega, che di tutto dà ragione, e trova che, in questa
prospettiva, la sofferenza dell’innocente , il cui carattere scandaloso non
può trovare pace, finisce per cadere nell’assurdo o nel comico. Un orrore,
questo ancora più grande di quello che può scaturire dalla rinuncia a
qualsiasi spiegazione.
Infatti , che il dolore di oggi, come il soffrire di un innocente, da fatto
insensato e assurdo possa diventare un giorno il tassello di un mosaico di
armonia e di sensatezza può risultare una “beffa del diavolo”, un orrore
ancora più grande dello stesso soffrire dell’innocente. Perchè in questo
caso l’impatto che la coscienza dell’uomo ha con l’evento del dolore è
illusione, è inaccettabile relazione con il nulla. ( se alla fine dei tempi
l’armonia produrrà l’apoteosi della conoscenza questo dolore dei bambini
non sarà stato nulla!) Al contrario, se l’orribile verità dovesse squarciare il
velo di illusioni che copre il “caos orribile e maledetto”, svelando
l’assenza di senso, l’assenza di Dio, allora la coscienza sarebbe condannata
ad un impatto altrettanto tremendo: la relazione con l’essere che “non si
sottrare alla mia vista”. Il dolore del mondo c’è, brutale, irrelato, posto
davanti ad una coscienza ammutolita.
Ecco dunque che la crisi del soggetto nella relazione tragica che
Dostoevskij fa nascere entro l’orizzonte del nichilismo manifesta con una
ricchezza straordinaria le due grandi modalità della relazione con l’alterità,
che è nulla (dove l’io è condannato all’illusione ed è privato di una
possibile relazione con il mondo) e che è essere inesorabile (dove l’io vive
la perdita di sè come cercatore o datore di senso).