Hegel e l`affermarsi della negatività negli scritti giovanili

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Hegel e l’affermarsi della negatività negli scritti giovanili - Parte I
«A chi mi domanda che cosa abbia fatto Hegel io rispondo che ha redento il mondo dal male perché ha giustificato
questo nel suo ufficio di elemento vitale» [Benedetto Croce]
«Il fatto che l’accidentale in quanto tale, separato dalla propria sfera, il fatto che ciò che è legato ad altro ed è reale solo in
connessione ad altro ottenga un’esistenza propria e una libertà separata, tutto ciò costituisce l’immane potenza del
negativo: tutto ciò è l’energia del pensiero, dell’io puro. La morte, se così vogliamo chiamare quella irrealtà, è la cosa più
terribile, e per tener fermo ciò che è morto è necessaria la massima forza. Se infatti la bellezza impotente odia l’intelletto,
ciò avviene perché si vede richiamata da questo a compiti che essa non è in grado di assolvere. La vita dello Spirito,
invece, non è quella che si riempie d’orrore dinanzi alla morte e si preserva integra dal disfacimento e dalla devastazione,
ma è quella vita che sopporta la morte e si mantiene in essa. Lo Spirito conquista la propria verità solo a condizione di
ritrovare se stesso nella disgregazione assoluta. Lo Spirito è questa potenza, ma non nel senso del positivo che distoglie
lo sguardo dal negativo come quando ci sbarazziamo in fretta di qualcosa dicendo che non è o che è falso, per passare
subito a qualcos'altro. Lo Spirito è invece questa potenza solo quando guarda in faccia il negativo e soggiorna presso di
esso.
Tale
soggiorno
è
il
potere
magico
che
converte
il
negativo
nell'essere»
[1].
Questa pagina della Fenomenologia dello spirito rappresenta il punto più alto della meditazione giovanile hegeliana sul
negativo, meditazione che ha impegnato il filosofo di Stoccarda in modo costante durante l’intero sviluppo della sua
riflessione. L’interesse riservato da Hegel al tema del negativo non è semplicemente un interesse intellettuale, iscritto
all'interno delle esigenze che la costruzione del sistema impone; piuttosto, lo spessore che questa problematica investe
nel corso della sua speculazione è riconducibile ad esigenze di più ampio respiro, radicate non solo nella sua
impostazione filosofica ma anche nell'anima dell’uomo, corroborate nel momento della sua formazione, degli ideali degli
anni giovanili che hanno segnato profondamente l’evoluzione del suo pensiero. Al fondo della filosofia hegeliana, della
stessa filosofia dell’età più matura, emerge in modo costante e a più riprese declinato un elemento permanente che
disegna l’itinerario filosofico di Hegel: l’elemento tragico, romantico e religioso coltivato negli anni dello Stift, un
elemento che prende le mosse dall'interesse verso i problemi morali e religiosi degli scritti giovanili e che perdura nel
corso della sua speculazione successiva.
Queste prime istanze teoretiche si fondono con quelle di altri pensatori, che nel periodo di Tubinga sono amici e
compagni. Nel periodo del Bund [2], egli è vicino ad Hölderlin [3] ed a Schelling per il comune sentimento del dolore
dell’opposizione che sorregge il reale, per l’agognata tensione al modello metafisico dell'en kai pan per l’avvento del
“Regno di Dio”, per la figura di Cristo come declinazione dell’Uno-Tutto [4], per l’ideale della realizzazione di
un’umanità libera [5] – così come la rivoluzione francese stava insegnando [6]. Il giovane Hegel in questo periodo
avverte come l’infelicità sia separazione, non solo dal resto del mondo ma anche da se stessi, avverte il “No” eterno
dell’Iperione hölderliniano e, «più schilleriano di Schiller, Hegel non sopporta l’infelicità che è nella scissione, nella
rottura dell’armonia, quell'armonia che la Grecia esemplarmente seppe possedere e che il mondo moderno ha
irrimediabilmente perduto, come l’ambizione e l’inquietudine dell’illuminismo dimostrano» [7]. Come l’eroe
hölderliniano, anche Hegel diventa la coscienza che il mondo ha della propria infelicità e del proprio movimento
dialettico. È “coscienza infelice”, scissa, lacerata: «Nella coscienza infelice […] viene già rappresentato lo struggimento
romantico e la lacerazione, che, nell'estraniazione dello spirito, ancora una volta ritorna come fede, più avanti come
anima
bella
e
alla
fine
come
trapasso
dalla
religione
disvelata
al
sapere
assoluto»
[8].
L’interesse verso il negativo quindi, si potrebbe dire, è un interesse esistenziale, il quale tuttavia assume la veste della
necessità logico-dialettica propria del sistema; ma non solo: il negativo è il vero tema che percorre tutta la filosofia di
Hegel [9]. Esso inizialmente rimanda ad uno squilibrio profondo che caratterizza tutta l’umanità e di cui il filosofo
prende coscienza, ad una lacerazione autentica dell’anima, per diventare poi termine di mediazione attraverso cui sanare
questa stessa lacerazione. Certamente esso viene ricompreso in un momento superiore e successivo, ricondotto ad una
sintesi all'interno della quale trova collocazione. Ma questo soggiornare del negativo nella sintesi si trasforma di fatto in
un costante riproporsi del medesimo, in un costante incedere del negativo stesso in nuovi momenti dialettici. Lo spirito
soggiorna presso il negativo, non distoglie lo sguardo da esso per additare soluzioni eudaimonistiche tali da sbarazzarsi
del negativo, di ogni sua singola manifestazione in vista di altro [10]; lo spirito ha in sé la potenza di essere nel negativo e
permanere nel suo stato. Il negativo è la porta d’accesso che conduce alla sintesi, alla felicità, passando attraverso la
lacerazione. Come afferma Jean Wahl, «la filosofia di Hegel non può essere ridotta ad alcune forme logiche. O piuttosto
tali formule dissimulano qualcosa che non è d’origine puramente logica. La dialettica, prima di essere un metodo, è
un’esperienza attraverso cui Hegel passa da un’idea all'altra. La negatività è il movimento stesso attraverso cui uno
spirito procede continuamente al di là di ciò che è» [11]. Il negativo e la negazione diventano gli strumenti del
movimento dialettico, sono «il movimento stesso» [12].
L’affermarsi della radicalità del negativo, quale elemento fondamentale della riflessione di Hegel, avviene negli anni
successivi al 1797, agli anni cioè solitamente considerati anni della “crisi” dell’itinerario speculativo ed esistenziale di
Hegel. È questo il periodo di Francoforte. Egli giunge nell' “infelice” Francoforte da Berna, dove già nell'autunno del
1797 era apparso alla sorella in uno stato di visibile chiusura verso il mondo e verso se stesso [13]. Su incoraggiamento
dell’amico Hölderlin, anch'egli preoccupato per l’improvviso cambiamento dell’animo di Hegel [14], avviene il
trasferimento; proprio Hölderlin riesce a procurargli un posto come precettore in una famiglia da lui conosciuta e
stimata. Il trasferimento non lenisce la malinconia che Hegel ha in sé. Nella lettera a Nanette Endel del 9 febbraio 1797
egli scrive: «Mi sono deciso, dopo matura riflessione, […] a ululare con i lupi» [15] ed un mese dopo confessa alla sua
interlocutrice di sforzarsi per diventare simile al mondo in cui è ospite [16]. La malinconia del giovane Hegel è quasi una
malinconia metafisica: non c’è alcun luogo o alcun oggetto che possano lenirla, che possano contribuire a rasserenare e
conciliare l’animo turbato del filosofo. La frattura con il mondo, che ora è rappresentato da Francoforte, è sempre più
evidente; ancora in una lettera a Nanette del 2 luglio 1797 egli scrive: «Il ricordo di questi giorni vissuti in campagna ora
mi spinge di continuo a uscire da Frankfurt; e come là mi conciliavo sempre con me stesso e con gli uomini in braccio alla
natura, qui spesso mi rifugio presso questa madre fedele, per riaprire i dissidi con gli uomini con i quali vivo in pace, per
premunirmi sotto la sua egida dal loro influsso e impedirmi di dover accettare un patto con loro» [17].
La lacerazione è palpabile nell'anima di Hegel ed egli ne ha consapevolezza; come sottolinea Franz Rosenzweig, «i
rapporti umani di Berna per Hegel sono ormai cosa passata. Li ha lasciati alle sue spalle. Permane però la frattura fra lui
e l’ambiente, che solo ora è divenuta realmente profonda, insanabile […]. Egli sdegna tuttavia la riconciliazione […] e si
rifugia sotto l’egida della solitudine, fuggendo il mondo amico – “vuole la sofferenza”: ecco le parole che in seguito
esprimeranno il suo stato d’animo […], una sofferenza però contro la quale non esiste e non deve esistere nessun rimedio
e neppure lotta, proprio perché l’uomo vuole la sofferenza; tenta di salvaguardarsi dal mondo, di conservare la sua
estraneità ad esso» [18]. La solitudine, la sofferenza, la scissione con il mondo che lo circonda sono i segni dell’insanabile
lacerazione che l’uomo Hegel – prima che il filosofo – avverte.
È in questa fase della sua riflessione che egli esperisce un negativo inerziale, passivo, autodistruttivo; eppur in questa
esperienza egli «fissa gli occhi della mente sull'iperuranio indisponibile, com'è noto, a ospitare l'eidòs del negativo. Nelle
pagine dello Spirito del cristianesimo e il suo destino Hegel ha realmente portato alla luce, alla piena visibilità, il negativo
ipertrofico cresciuto all'ombra di quella coscienza occidentale che ha destituito di consistenza il male, opponendogli
l’altrove» [19].
Il passaggio da Berna a Francoforte è denso di significative svolte nel percorso intellettuale del giovane Hegel; egli si
scioglie progressivamente dalla dipendenza della filosofia di Kant, approfondendola [20], per avvicinarsi all'idealismo
che il pensiero tedesco stava inaugurando: «In questo periodo francofortese si compiva la completa trasformazione del
suo spirito che, iniziatasi a Berna, si era sviluppata con l’approfondimento degli studi storici e sotto l’influsso ancora
dominate del più precoce Schelling» [21]. In una prima fase della sua attività speculativa, Hegel si confronta con lo
studio della politica e della storia contemporanea in generale [22]. Tuttavia, tra il 1799 e il 1800 gli studi politici cedono il
passo a quelli dedicati alla religione, riprendendo un tema a cui egli si era interessato sin da Tubinga, cioè la critica alla
religione positiva.
Questa si muove di pari passo con l'approfondirsi dell'interesse verso la religione intesa come ultima manifestazione
dello spirito. Proprio nel frammento di sistema programmatico Hegel trascrive: «La filosofia deve terminare con la
religione appunto perché la filosofia è un pensare, e dunque ha l’opposizione da una parte del non-pensare e dall'altra
parte del pensante e del pensato: essa ha il compito di mostrare in ogni finito la finità, e di promuoverne per mezzo della
ragione il compimento, [specialmente riconoscendo, attraverso l’infinito di sua competenza, le illusioni e ponendo così il
vero infinito fuori dalla sua sfera]. L’innalzamento del finito ad infinito si caratterizza appunto per ciò come
innalzamento della vita finita a infinita, a religione» [23]. La religione è la forma più universale della rappresentazione
che lo spirito, storicamente, ha della propria essenza.
È questo il momento di confrontarsi con la lacerazione che egli stava esperendo e di verificare una possibilità di
conciliazione. Nello Spirito del cristianesimo e il suo destino Hegel compie un primo tentativo di conciliazione attraverso la
figura di Gesù, secondo un ritmo dialettico, di derivazione schellinghiana, di unità-scissione-riconciliazione. Qui, Gesù è
lontano dall'immagine che egli aveva pennellato nella Vita di Gesù, durante il soggiorno a Berna del 1795; non più il
profeta della morale kantiana, ma simbolo dell’amore e della vita, unico termine in grado di risolvere il dualismo tra
soggetto ed oggetto, tra inclinazione personale e legge morale; come scrive Jean Wahl, «il Gesù di Hegel è il fratello di
Antigone proclamante idee non scritte al di sopra di leggi scritte. Come Antigone sarà preso nei ceppi del destino, ma
come lei li domina» [24]. Cristo è l’unificazione degli opposti, toglimento della differenza, di tutte le differenze: idea e
realtà, umano e divino, singolo e molteplice, soggettivo ed oggettivo. Cristo diventa così l’unione dell’unione e della non
unione, esso è la riconciliazione, l’accordo tra lo spirito e la natura.
L’interpretazione hegeliana di Cristo intesa nei termini di amore e di vita si pone di contro alla tradizione
veterotestamentaria e neotestamentaria. In questa prospettiva, Cristo sta solo sia contro la credenza del suo popolo sia
contro il fraintendimento dei suoi discepoli. Gesù non porta a compimento la fede d’Israele ma la supera, oltrepassa
l’alienazione espressa dal Dio trascendente, da quel Dio che è idea separata dalla realtà. La religione mosaica,
nell'intendimento del giovane Hegel, viene così concepita come una religione della scissione: essa vive nell'infelicità ed il
Dio degli ebrei è la rappresentazione massima di questa scissione. Davanti a questo Dio, persino l’ebreo è separato da
esso e non solo dagli altri popoli. Il rapporto che lega l’ebreo al suo Dio è simile alla dialettica di signore e servo: l’ebreo
«non poteva unirsi agli oggetti; doveva essere il loro schiavo o il loro padrone. Il Dio degli ebrei, conclude Hegel, è la
massima separazione; esso esclude ogni unione. Il loro motto è: servire – ma nel servizio l’anima loro non fa dono di sé. Il
loro motto è: dovere – ma il dovere non può essere pienamente realizzato e resta dovere» [25]. La religione ebraica
conosce un Dio che è il Dio del bisogno; essa, pur attendendo il Messia che liberi il popolo d’Israele dalla schiavitù e che
lo guidi nella storia e nel regno di Dio, tuttavia non riconosce a questo Messia il significato dell’amore, relegando la
venuta di Cristo alla stessa estraneità con cui Israele conosce Dio ed adora Dio. In questo servaggio infelice riposa «la
grande tragedia del popolo ebraico», la quale «non è una tragedia greca; non può suscitare né terrore né compassione»
[26], ma destare orrore. «Il destino del popolo ebraico è il destino di Macbeth, che si staccò dalla natura stessa, si legò ad
essenze estranee, e per servirle dovette uccidere e disperdere ogni cosa sacra della natura umana, dovette alla fine essere
abbandonato dai suoi propri dei (giacché questi erano oggetti, ed egli il loro servo) ed essere nella sua fede stritolato»
[27].
È sullo sfondo del suo radicale antigiudaismo, non di origine cristiana né razziale ma di derivazione illuminista, che
Hegel pone la figura di Cristo, la quale si staglia in questo sfondo come unico ed autentico messaggero dell’amore. Gesù
si contrappone alla dialettica ebraica di idea e realtà, di soggettività ed oggettività, di signoria e servitù, di Dio e l’uomo.
Il toglimento delle opposizioni avviene solo in nome dell’amore: «La potenza dell’oggettivo è infranta solo dall'amore»
[28]; la «riconciliazione nell'amore, in luogo del ritorno ebraico all'obbedienza, è liberazione, in luogo del riconoscimento
di una signoria è il toglimento di questa nella ricostruzione di un vivo legame» [29]. La ricostruzione di questo “vivo
legame” come lo chiama Hegel, di ciò che altrimenti sarebbe scisso, è possibile solo nel superamento del dissidio. Per
rendere effettivo tale superamento, Hegel opera un'inversione di rotta rispetto alla predicazione di Cristo della Leben
Jesu: non più moralità contrapposta alla legalità, ma «virtù senza dominio e senza sottomissione, modificazioni
dell’amore» [30]; Cristo chiede che si abbandoni il diritto ed il dovere per accedere all'amore, in cui il particolare e
l’universale sono ricongiunti. «Come l’Empedocle di Hölderlin, Gesù predica il ritorno all'intero, alla totalità dell’uomo,
all'unione con la natura. L’uomo non deve più porsi al di fuori e al di sopra delle sue azioni per averne coscienza, per
compiacersi o biasimarsi. Deve agire in una sorta di spontaneità incosciente. Non presta più attenzione all'approvazione
propria o degli altri, l’una e l’altra restanti nella sfera delle false generalità del fariseismo e della divisione. Non c’è più
nulla cui si desideri comandare. Se l’amore si presenta sotto forma di un precetto, è a causa delle necessità del
linguaggio; in se stesso è al di sopra di ogni precetto. C’è ormai solo una vita uguale, identica in noi e nel nostro
prossimo» [31]. Il messaggio di Cristo fa del cristianesimo una religione della speranza che si contrappone alla religione
della disperazione degli ebrei.
In questa nuova visione di Cristo e, più in generale, visione del mondo, la stessa natura recupera la sua ingenuità, non si
presenta più come «diluvio, come deserto, o devastazione delle alture» [32]; essa viene restaurata nella sua integrità.
«Nell'amore la vita ha ritrovato la vita. Fra i peccati e la loro remissione non s'intromette un elemento estraneo come fra
peccato e punizione. La vita si è inimicata con se stessa e si è riunificata» [33]. La vita può sanare questa inimicizia,
questa lacerazione e Cristo è il simbolo di questa vita che sana, che unifica. Proprio perché Cristo è riconciliazione, è
amore e vita che riconcilia, ciò doveva scontrarsi con la coscienza del popolo ebreo: «Nello spirito degli ebrei però c’era
un incolmabile abisso, un tribunale estraneo, tra impulso e azione, tra desiderio e fatto, tra vita e colpa, tra colpa e
perdono; così quando essi furono indirizzati al legame che l’amore stabilisce nell'uomo tra peccato e riconciliazione, la
loro natura priva di amore dovette ribellarsi, e quando il loro odio prese la forma di un giudizio, il pensiero di un simile
legame dovette apparire loro come pensiero di un pazzo. Infatti, essi avevano affidato ogni armonia fra gli esseri, ogni
amore, spirito e vita, ad un oggetto estraneo» [34].
Ciò che attendevano gli ebrei era che la riconciliazione passasse attraverso la Grazia, non attraverso l’uomo. Dinanzi al
Dio oggettivo degli ebrei, Cristo si richiama alla sua natura divina: «Nella sua opposizione egli si presentò ai loro occhi
solo come un individuo. Per rimuovere il pensiero di questa individualità Gesù si richiamò sempre, specialmente nel
vangelo di Giovanni, alla sua unità con Dio» [35]. Cristo è l’unione dell’uomo e del Dio, è egli stesso Dio e uomo, figlio di
Dio e figlio dell’uomo: «Il figlio di Dio è anche figlio dell’uomo: il divino appare in una figura particolare, come uomo; la
connessione del finito con l’infinito è certamente un sacro mistero, poiché questa connessione è la vita stessa» [36].
Questa potenza dell’amore che riconcilia ed unifica, l’unità con Dio mediante il toglimento della differenza con esso non
vennero riconosciute dagli ebrei: «Come avrebbero potuto riconoscere in un uomo qualcosa di divino, essi, i poveri, che
portavano con sé soltanto la coscienza della loro miseria, della loro profonda servitù, della loro opposizione al divino, la
coscienza di un incolmabile abisso tra umano e divino? […] Essi vedevano in Gesù soltanto l’uomo, il nazareno, il figlio
del falegname […]. Nella turba degli ebrei doveva naufragare il suo tentativo di dare loro la coscienza di qualcosa di
divino,
perché
la
fede
in
qualcosa
di
divino,
di
grande,
non
può
albergare
nel
fango»
[37].
Pur essendo Cristo la riconciliazione, egli stesso si rassegna a portare in sé la sofferenza di una conciliazione che sarebbe
altrimenti impossibile. Nel suo amore, essendo egli stesso amore, c’è il segno di un destino infelice. La separazione, la
lacerazione che caratterizza il popolo ebraico è da Cristo stessa esperita, subita tragicamente: «Annunziatore dell’unione,
Gesù doveva preparare proprio per questo una separazione profonda quant'altra mai […]. Gesù è la coscienza infelice, la
più essenziale […] egli porta una croce più pesante di quanto non fosse il suo simbolo temporale» [38]. In tal senso, nella
figura di Cristo emerge il negativo, si fa strada cioè il senso della morte e del sacrificio, negativo ultimo a cui tutta la sua
esistenza è chiamata a rispondere. Pur essendo unione che unifica e toglie le differenze, nel Cristo è presente l’Ebreo, in
lui è presente la lacerazione che caratterizza il giudaismo; «come nel “processo” trinitario Cristo deve “togliersi” in
quanto individuo, poiché la pienezza della riconciliazione di ha solo mediante lo Spirito, così, nella sua avventura
storica, la figura di Gesù con la sua dottrina dell’amore è destinata al fallimento» [39]. Il suo destino è infelice al pari di
quello di Empedocle: ma mentre quest’ultimo accetta il vuoto in cui sprofonda per insoddisfazione del mancato
raggiungimento con l’Uno-Tutto a cui Hölderlin consegna la propria poetica, Cristo accetta il vuoto ed il dolore del
mondo a lui contemporaneo ed ostile attraverso l’assoluta certezza della conciliazione nella consapevolezza di essere una
sola cosa con Dio. «Attraverso la morte, e proprio questa morte doveva giustificare il disprezzo del mondo e fare di ogni
essa un punto fisso» [40]. Affinché la conciliazione tra umano e divino possa davvero essere compiuta, Cristo deve
togliersi: «L’avvento dello “spirito” richiede il sacrificio dell'essere individuale, il venir meno di ogni mediatore singolo tra
uomo e Dio, di ogni figura che si affermi come via, verità, vita […]. Cristo deve morire. Ciò significa, per Hegel, che la
mediazione
singolare,
individuale,
tra
finito
e
infinito
non
può
che
essere
transitoria»
[41].
Il principio che soggiace alla figura di Cristo è il dolore infinito, la lacerazione assoluta della natura: «Senza questo
dolore la conciliazione non ha alcun significato ed alcuna verità. Poiché questa è la potenza della religione, essa deve
eternamente produrre questo dolore per poterlo eternamente conciliare. […] Il pensiero che Dio stesso era morto sulla
terra esprime da solo il sentimento di questo dolore infinito, così come la sua conciliazione viene espressa dal fatto che
egli è resuscitato dalla tomba. Attraverso la sua vita e la sua morte la divinità è umiliata, attraverso la sua resurrezione
l’uomo è diventato divino» [42]. Così, «se l’Ebreo è la prima personificazione della coscienza infelice, Gesù, nel momento
stesso in cui impersona la coscienza felice, è ancora la coscienza infelice. Niente del resto di più conforme all'hegelismo
di quest’idea. Per operare un’unione infinita la religione presuppone una separazione infinita; la riconciliazione
presuppone un dolore anteriore; la restaurazione dell’armonia, una differenza profonda» [43]. Con la morte di Cristo
muore
l’idea
del
Dio
astratto,
poiché
la
morte
restaura
l’universalità
dello
Spirito.
La morte di Cristo si collega strettamente al tema della morte di Dio e anche a quello della morte dell’uomo, del singolo,
del finito. Questa triade (la morte dell’uomo, la morte di Cristo e la morte di Dio) rappresenta un argomento di indagine
caro non solo ad Hegel ma anche a buona parte dei romantici. Il vero perno teoretico attorno il quale il filosofo indaga il
problema della morte è la contraddizione. La morte è contraddizione: sia essa intesa come morte di Dio, sia come morte
dell’uomo. Per comprendere quindi il senso della riflessione hegeliana attorno al problema della morte occorre rifarsi
all’indagine che l’autore attua partendo dalla contraddizione.
Sin nel Primo sistema Hegel sottolinea la necessità di indagare le contraddizioni che animano il finito, contraddizioni che
fanno del finito stesso un infinito. La mobilità del finito, il suo proprio poter trapassare dall'oggettivo al soggettivo e
viceversa, mostra come la verità del finito sia l’infinito. La morte del finito è il paradigma per il quale il finito trapassa
nell'infinito; essa rappresenta questo scivolare dell’uno verso l’altro. Nel percepire la morte, l’uomo avverte il negativo
portato alla sua estrema manifestazione ed in ciò avverte altresì la propria soggettività nei termini di negazione della
ragione. Nella morte si nega il finito, la vita, ma in questo negarsi la morte si comporta negativamente solo riguardo a ciò
che nega, alla vita, al cui fondo essa mostra di essere nulla, puro e semplice perire del finito. Negando il negativo, cioè
negando il finito, la morte afferma l’assoluto. Questo assoluto negativo, cioè la morte, appare nella forma della pura
libertà. La libertà è manifestazione e realizzazione della negatività, della negazione del reale, cioè della morte. Questa
libertà è la negatività che caratterizza in modo fondamentale l’uomo. Se dunque, la morte è negatività, cioè espressione
della negazione ultima del finito, e se la negatività è essenzialmente la manifestazione della libertà, allora può essere
libero solo ciò che è destinato a perire, che è votato alla morte. La morte diviene la manifestazione più autentica della
libertà.
Come commenta Alexandre Kojève, «la morte – ben s’intenda, la morte volontaria e accettata con piena consapevolezza –
è dunque la suprema manifestazione della libertà, per lo meno della libertà “astratta” dell’individuo isolato. Se non fosse
essenzialmente e volontariamente mortale, l’Uomo non potrebbe essere libero. La libertà è l’autonomia nei confronti del
dato, ossia la possibilità di negarlo come tale; e solo per mezzo della morte volontaria un uomo si può sottrarre
all'imperio di qualsivoglia condizione data (= imposta) dall'esistenza. Se non fosse mortale e non potesse darsi la morte
senza “necessità”, l’Uomo non sfuggirebbe alla determinazione rigorosa da parte della totalità dell’Essere, la quale in
questo caso meriterebbe di essere chiamata “Dio”» [44].
Essendo la morte la realizzazione suprema dell’universale nell'esistenza empirica, la facoltà di scegliere la morte è
condizione necessaria e sufficiente non solo della libertà e della storicità dell’uomo, ma della sua stessa individualità.
Usando le parole di Kojève, la realtà umana è la realtà della morte [45], la realtà del negativo, della negatività che apre e
fonda la possibilità della libertà. Arrischiato nel proprio essere mortale e nel proprio avere vita, rilkianamente teso verso
l’Aperto, l’uomo sperimenta la portata del negativo, la possibilità di fondazione ultima che il negativo ha nei confronti
della propria trascendenza. La libertà come ultima figura autentica del finito si può realizzare solo nella misura in cui
essa incontri il negativo che la rivela, la morte [46].
[Fine prima parte - continua]
NOTE:
[Il saggio pubblicato in questa sede è una versione rivista del saggio dal titolo L’emergere del negativo nella filosofia
giovanile di Hegel, pubblicato in “Oros”, 2007, pp. 23-44]
[1] G. W. F. HEGEL, Phänomenologie des Geistes, in Gesammelte Werke, Bd. 9, hrsg. von W. Bonsiepen und R. Heede, F.
Meiner; Hamburg 1980; Fenomenologia dello spirito, trad. it. a cura di V. Cicero, Rusconi, Milano 1995, p. 85 s.
[2] Sul periodo di Tubinga di Hegel si rimanda a K. ROSENKRANZ, Hegels Leben, Berlin 1844; Vita di Hegel, trad. it. a cura
di R. Bodei, Vallecchi, Firenze 1966, pp. 46 ss. Per il contenuto del patto di Tubinga si ricordi il frammento di sistema
redatto probabilmente nei primi mesi del 1797 da Hegel a Francoforte. Cfr. F. HÖLDERLIN, Il più antico programma
sistematico dell’idealismo tedesco, in Scritti di estetica, trad. it. a cura di R. Ruschi, Mondatori, Milano 1987, pp. 161 ss.
[3] L’amicizia che legò Hölderlin, Schelling ed Hegel trovò forma nel famoso patto di Tubinga. La comunanza di studi, di
idee, di aspirazioni politiche, il motto spinoziano dell’en kai pan avrebbero dovuto unire i tre fino alla fine della loro vita.
Ma ciò non accadde. Schelling ed Hölderlin rimasero quasi sempre in contatto, ma non così Hölderlin ed Hegel.
[4] A tal proposito si ricorda brevemente la posizione di fondo della teologia hölderliniana. La figura centrale di tutta la
produzione lirica di Hölderlin è quella di Cristo, a cui egli rimase sempre disperatamente attaccato. Cristo è l’ultimo dio,
il dio a venire, «colui che visse presentemente in mezzo agli uomini, lasciò a coloro che sono abbandonati nella notte la
consolazione e la promessa del ritorno» (H. G. GADAMER, Oleine Schriften 2: *Interpretationen, Tübingen, Mohr 1979;
Interpretazioni di poeti, trad. it. dei cap. I e II a cura di M. Bonola, dei cap. III e IV a cura di G. Bonola, Marietti, Casale
Monferrato 1980, p. 17). Come Dioniso, anche Cristo è l’ultimo dio, il signore dell’epoca futura, la seconda potenza
schellinghiana che permette il ritorno alla pienezza dell’unione tra il Padre e lo Spirito. Nella terza stesura de L’Unico,
Hölderlin scrive: «Cristo però si destina da solo. / Ercole è come i prìncipi, Bacco è spirito di comunione. Cristo però è / la
fine» (F. HÖLDERLIN, L’Unico, in Le liriche, trad. it. a cura di E. Mandruzzato, Adelphi, Milano 1993, p. 965). Cristo è il
momento di passaggio, è presenza nel destino storico dell’Occidente. Cristo entra nella poesia di Hölderlin sotto le
sembianze di Dioniso e, come lui, lascia agli uomini la promessa del ritorno attraverso il pane ed il vino, i simboli
dell’eucarestia cristiana e della tradizione bacchica. Dioniso, dio dell’ebbrezza, è colui che muore e risorge e risorgendo
promette agli uomini, come Cristo, la sua venuta. Ma Cristo, come dio a venire, è presente nell'epoca della povertà nella
sua assenza; in tale assenza del Dio, nasce il ricordo della promessa del ritorno a venire. Su questo tema si rimanda a A.
GIANNATIEMPO QUINZIO, Influssi pietistici e istanze escatologiche nella poesia di Friedrich Hölderlin, in “Baillame”, n°. 14,
1993, pp. 143 ss.
Sulla centralità della figura di Cristo nel pensiero del giovane Hegel, tema studiato sotto più riguardi dalla critica
filosofica, si rimanda a C. FABRO, Hegel e il cristianesimo, in “Ethica”, III, 1970, pp. 161 ss.; A. CARACCIOLO, La religione
e il cristianesimo nell'interpretazione di Hegel, in AA. VV., L’opera e l’eredità di Hegel, Laterza, Bari 1972, pp. 49 ss.; C.
ANGELINO, Religione e filosofia. Temi e problemi della filosofia della religione , Il Melangolo, Genova 1983, pp. 47 ss.; M.
BORGHESI, La figura di Cristo in Hegel, Studium, Roma 1983; M. BORGHESI, L’età dello spirito. Dal Vangelo “storico” al
Vangelo “eterno”, Studium, Roma 1995, pp. 145 ss.; M. IIRITANO, L’infelicità della coscienza e l’emergere della negatività
essenziale negli scritti di Hegel, in “Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Perugia”, vol.
XXXV, 1997/1998, pp. 131-158; S. SEMPLICI, Socrate e Gesù. Hegel dall'ideale della grecità al problema dell’Uomo-Dio,
CEDAM, Padova 1987; P. CODA, Il negativo e la Trinità. Ipotesi su Hegel. Indagine storico-sistematica sulla “Denkeform”
hegeliana alla luce dell’ermeneutica del cristianesimo. Un contributo al dibattito contemporaneo sul Cristo crocifisso come
rivelazione del Dio trinitario nella storia, Città Nuova, Roma 1987.
[5] Nell’agosto del 1796 Hegel invia ad Hölderlin una poesia dal titolo Eleusi, in cui egli esprime «la gioia della certezza
di trovar ancora più salda e matura la fedeltà dell’antico patto, al patto che nessun giuramento sigillò, di vivere
unicamente per la verità e mai, proprio mai, tener pace col dogma che governa opinione e sentimento» (G. W. F. HEGEL,
Epistolario, trad. it. a cura di P. Manganaro, Guida, Napoli 1983, vol. I, p. 134). Il patto di Tubinga afferma la lotta contro il
dogma e ruota attorno alla critica al cristianesimo ortodosso ed istituzionale. L’ideale unificante era dato dalle nozioni di
“Regno di Dio” e di “Chiesa invisibile”, l’ultima intesa come attuazione della prima, esito della diffusione della libertà. Il
“Regno di Dio”, afferma Hegel in una predica del 1793 al seminario teologico, «non è uno stato mondano, come i suoi
discepoli e i suoi contemporanei hanno a lungo sperato […]. Non è nemmeno la chiesa visibile […]. Non si mostra in
cerimonie esteriori» ma è qualcosa di interiore (G. W. F. HEGEL, Scritti giovanili, trad. it. a cura di E. Mirri, Guida, Napoli
1993, vol. I, p. 132 s.). Nella Vita di Gesù scrive: «Il regno di Dio non si mostra con sfarzo o con avvenimenti esteriori: non
si può mai dire “eccolo, è qua o là”, poiché il regno di Dio deve essere edificato dentro di voi […]. Non sperate di vedere
il regno di Dio in un’esteriore e splendente unificazione di uomini, nella forma esteriore di uno stato, di una società, di
una chiesa retta da leggi pubbliche» (G. W. F. HEGEL, Scritti giovanili, cit., vol. I, p. 376). Colui che sa attendere e
riconoscere il regno di Dio è un membro della Chiesa invisibile, è cittadino del regno della moralità ed i suoi doveri sono
quelli che egli impone a se stesso. Come afferma Rosenkranz, «poiché dunque Hegel racchiudeva la religione
nell’interiorità e voleva saperla sottratta all’ispezione poliziesca di un’autorità ecclesiastica, dovette porsi per lui il
problema di confrontare gli ordinamenti di una religione positiva nella dottrina, nella morale e nel cerimoniale, con il
concetto di una Chiesa invisibile» (K. ROSENKRANZ, Vita di Hegel, cit., p. 66 s.). Sulla ricezione e derivazione del
concetto di Chiesa invisibile di Hegel da parte del pensiero filosofico a lui precedente si rimanda a M. BORGHESI, L’età
dello spirito. Dal Vangelo “storico” al Vangelo “eterno”, cit. , pp. 24 ss.
[6] Sull'influenza della rivoluzione francese nel clima culturale tedesco si rimanda a V. VERRA, La rivoluzione francese nel
pensiero tedesco dell’epoca, in “Filosofia”, 1969, pp. 411 ss.; G. BAIONI, Classicismo e rivoluzione. Goethe e la rivoluzione
francese, Guida, Napoli 1969; R. BODEI, Le dissonanze del mondo. Rivoluzione francese e filosofia tedesca tra Kant e Hegel, in
AA. VV., L’eredità della rivoluzione francese, a cura di F. Furet, Laterza, Bari 1989, pp. 103 ss. Per l’interesse di Hegel nei
confronti della rivoluzione francese si rimanda a J. RITTER, Hegel und die Französische Revolution, Köln und Opladen 1957;
Hegel e la rivoluzione francese, trad. it. a cura di A. Calcagni, Guida, Napoli 1970; O. PÖGGELER, Hegels Idee einer
“Phänomenologie des Geistes”, Freiburg – München 1973; Hegel. L’idea di una fenomenologia dello spirito, trad. it. a cura di A.
De Cieri, Guida, Napoli 1986, pp. 59 ss.
[7] P. PIOVANI, Incidenza di Hegel, in AA. VV., Incidenza di Hegel. Studi raccolti nel secondo centenario della nascita del filosofo,
a cura di F. Tessitore, Morano, Napoli 1970, p. 13.
[8] K. ROSENKRANZ, Vita di Hegel, cit., p. 221. Scrive Jean Wahl: «Alla piatta teoria della felicità dell’Aufklärung verrà
contrapposta una concezione più profonda in cui la felicità sarà sentita nel suo carattere intenso e delicato, in cui ci sarà,
come dice l’eroe di Hölderlin, una serenità nella sofferenza. Ora, la storia della coscienza infelice, perché la si possa
veramente ripercorrere e vivere, dovrà risolversi nel ricordo, nell'interiorizzazione (Erinnerung) della coscienza infelice
stessa; si tratterà di viverla per descriverla. Ciò è tanto più necessario in quanto il Siegfried filosofico, non-siegfriediano,
non potrà raggiungere la coscienza veramente felice che dopo aver conosciuto il dolore. “Attraverso l’afflizione
dell’amore, l’intima sofferenza mi aprì gli occhi”. Parsifal conosce la gioia perfetta solo dopo aver udito il pianto di
Amfortas e il gemito universale. La dialettica stessa, presa nel suo insieme e soprattutto considerata
fenomenologicamente, che altro non è se non il racconto delle afflizioni della coscienza, mai appagata, poiché mai
completa? Solo quando avrà preso coscienza del suo capovolgimento, di questo lungo vagabondaggio, quando Ulisse
potrà, reincarnandosi in Omero, cantare la propria Odissea, essa conseguirà la felicità» (J. WAHL, Le malheur de la
coscience dans le philosophie de Hegel, Presses Universitaires de France, Paris 1951; La coscienza infelice nella filosofia di Hegel,
trad. it. a cura di F. Occhetto, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 26 s.).
[9] Si ricordino le parole di Heidegger a proposito del tema del dolore che percorre tutta la speculazione hegeliana: «Il
tratto fondamentale della metafisica di Hegel, ossia quell'unità che unisce la Fenomenologia dello Spirito e la Scienza della
logica […] è l’ “assoluta negatività” intesa come “forza infinita” della realtà, cioè del “concetto esistente”. Nella stessa (e
non identica) appartenenza alla negazione della negazione, lavoro e dolore rivelano la più intima parentela metafisica»
(M. HEIDEGGER, La questione dell’essere, in Segnavia, trad. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, p. 253 s.).
[10] Emblematiche suonano le parole d’apertura della Stella della redenzione di Franz Rosenzweig, con cui egli formula
una dura critica alla filosofia, dalla Jonia a Jena, ed in particolar modo all’idealismo, partendo dal presupposto che la
filosofia non sappia soggiornare presso il negativo, non sappia cioè rendere ragione dell’effettiva esistenza del negativo
all’interno dell’ordine reale del tutto. In questa dura critica Hegel assurge a paradigma di sommo rappresentante della
consolatio philosophiae ad animam, cfr F. ROSENZWEIG, Der Stern des Erlösung, Nijhoff, The Hague 1981; La stella della
redenzione, trad. it. a cura di M. Bonola, Marietti, Casale Monferrato 1985, pp. 3 ss.
[11] J. WAHL, La coscienza infelice nella filosofia di Hegel, cit., p. 3. Scrive sempre Wahl: «Se è vero che il problema di
Nietzsche è stato quello di rendere, con la disperazione più profonda, sommamente invincibile la speranza, si può dire
che il problema di Nietzsche e quello di Hegel sono un solo medesimo problema. Ma anziché vedere nel metodo della
contraddizione un antirazionalismo, come Pascal e Nietzsche, egli ha tentato di enunciare con l’aiuto di questo stesso
metodo una teoria della ragione; non si serve dei processi del suo pensiero come di un’apologia, né li assume come
momenti attraverso cui passa la vita soggettiva del suo spirito, tenta bensì di farne dei momenti della vita dello spirito in
generale» (J. WAHL, La coscienza infelice nella filosofia di Hegel, cit., p. 16).
[12] A. MASSOLO, Ricerche sulla logica hegeliana, Marzocco, Firenze 1950, p. 26.
[13] Cfr. K. ROSENKRANZ, Vita di Hegel, cit., p. 100.
[14] Cfr. G. W. F. HEGEL, Epistolario, cit., vol. I, pp. 141 ss.; p. 138; p. 140.
[15] G. W. F. HEGEL, Epistolario, cit., vol. I, p. 145.
[16] Cfr. G. W. F. HEGEL, Epistolario, cit., vol. I, p. 148.
[17] G. W. F. HEGEL, Epistolario, cit., vol. I, p. 149.
[18] F. ROSENZWEIG, Hegel und der Staat, München-Berlin 1920; Hegel e lo stato, trad. it. a cura di A. L. Künkler Giavotto
e R. Curino Cerrato, Il Mulino, Bologna 1976, pp. 88 ss.
[19] E. D’ANTUONO, L’eidòs del negativo. Hegel e l’ “oscuro enigma” ebraico, in R. BONITO OLIVA, G. CANTILLO (a cura
di), Fede e sapere. La genesi del pensiero del giovane Hegel, Guerini, Milano 1998, p. 377 s.
[20] Cfr. W. DILTHEY, Die Jugendgeschichte Hegels, in Gesammelte Schriften, Bd. IV, Teubner, Stuttgart und Vandenhoeck u.
Ruprecht, Göttingen, 4. unveränderte Auflage 1968; Storia della giovinezza di Hegel, trad. it. a cura di G. Cavallo Guzzo,
Guida, Napoli 1986, p. 63.
[21] W. DILTHEY, Storia della giovinezza di Hegel, cit., p. 74.
[22] Cfr. K. ROSENKRANZ, Vita di Hegel, cit., pp. 105 ss.
[23] G. W. F. HEGEL, Systemfragment von 1800, in K. ROSENKRANZ, Vita di Hegel, cit., p. 116.
[24] J. WAHL, La coscienza infelice nella filosofia di Hegel, cit., p. 43.
[25] J. WAHL, La coscienza infelice nella filosofia di Hegel, cit., p. 40.
[26] G. W. F. HEGEL, Lo spirito del cristianesimo e il suo destino, in Scritti teologici giovanili, trad. it. a cura di N. Vaccaro e E.
Mirri, Guida, Napoli 1972, p. 372.
[27] G. W. F. HEGEL, Lo spirito del cristianesimo e il suo destino, in Scritti teologici giovanili, cit., p. 372.
[28] G. W. F. HEGEL, Lo spirito del cristianesimo e il suo destino, in Scritti teologici giovanili, cit., p. 409.
[29] G. W. F. HEGEL, Lo spirito del cristianesimo e il suo destino, in Scritti teologici giovanili, cit., p. 404.
[30] G. W. F. HEGEL, Lo spirito del cristianesimo e il suo destino, in Scritti teologici giovanili, cit., p. 406.
[31] J. WAHL, La coscienza infelice nella filosofia di Hegel, cit., p. 44.
[32] J. WAHL, La coscienza infelice nella filosofia di Hegel, cit., p. 39.
[33] G. W. F. HEGEL, Lo spirito del cristianesimo e il suo destino, in Scritti teologici giovanili, cit., p. 401.
[34] G. W. F. HEGEL, Lo spirito del cristianesimo e il suo destino, in Scritti teologici giovanili, cit., p. 403.
[35] G. W. F. HEGEL, Lo spirito del cristianesimo e il suo destino, in Scritti teologici giovanili, cit., p. 421.
[36] G. W. F. HEGEL, Lo spirito del cristianesimo e il suo destino, in Scritti teologici giovanili, cit., p. 422.
[37] G. W. F. HEGEL, Lo spirito del cristianesimo e il suo destino, in Scritti teologici giovanili, cit., p. 424.
[38] J. WAHL, La coscienza infelice nella filosofia di Hegel, cit., p. 47 s.
[39] M. BORGHESI, La figura di Cristo in Hegel, cit., p. 29.
[40] K. ROSENKRANZ, Vita di Hegel, cit., p. 155.
[41] M. BORGHESI, L’età dello spirito. Dal Vangelo “storico” al Vangelo “eterno”, cit., p. 182 s.
[42] K. ROSENKRANZ, Vita di Hegel, cit., p. 156.
[43] J. WAHL, La coscienza infelice nella filosofia di Hegel, cit., p. 50. Come sottolinea Vito Mancuso, il procedere hegeliano,
«volto alla sintesi ed all'armonia che provengono dall'unificazione, opera nella religione cristiana in senso opposto, ossia
dissociando, dividendo, distinguendo. Il dato storico, il significante, viene dissociato dal suo concetto, il significato. Il
destino del cristianesimo viene individuato nel morire, per far nascere da sé la pienezza della vita e dell’amore» (V.
MANCUSO, Hegel teologo e l’imperdonabile assenza del “Principe di questo mondo”, Piemme, Casale Monferrato 1996, p. 73).
[44] A. KOJÈVE, La dialettica e l’idea della morte in Hegel, trad. it. a cura di P. Serini, Einaudi, Torino 1991, p. 181 s.
[45] Cfr. A. KOJÈVE, La dialettica e l’idea della morte in Hegel, cit., p. 196.
[46] Per un'interessante lettura della morte e del negativo in Hegel cfr. G. BATAILLE, Hegel, la morte e il sacrificio, in AA.
VV., Sulla fine della storia, a cura di M. Ciampa e F. Di Stefano, Liguori, Napoli 1985, pp. 71 ss.
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* Francesca Brencio (Spoleto, 1976) ha conseguito il titolo di Dottore in ricerca in Filosofia e Scienze Umane presso
l’Università degli Studi di Perugia. Dal settembre 2012 è Adjunct Fellow nella School of Humanities and Communication
Arts della University of Western Sidney (Australia). Dal 2000 al 2007 è stata Associate Lecturer con la cattedra di Estetica
dell’Università degli Studi di Perugia, lavorando a fianco della professoressa Anna Giannatiempo Quinzio. Studiosa di
Martin Heidegger, negli ultimi anni i suoi lavori si sono concentrati sul rapporto tra il pensiero di Heidegger e
l’idealismo tedesco, con particolare attenzione al posto occupato da Hegel nella speculazione heideggeriana.
Attualmente sta portando avanti le sue ricerche presso la Albert-Ludwigs Universität in Freiburg.
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