lavoro italiano - Uil Post Verona

LAVORO ITALIANO
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Antonio Foccillo
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Edizioni Lavoro Italiano
Autorizzazione del Tribunale di Roma n.° 402 del 16.11.1984
Aprile 2013
In questo numero
Il Fatto
Dopo l’uragano elettorale, cosa resta? - di A. Foccillo
Dobbiamo assumerci impegni e responsabilità per essere un punto di riferimento per lavoratori, disoccupati
e pensionati. Intervista a Luigi Angeletti, Segretario generale UIL - di A. Passaro
Attualità
Dobbiamo imporre, nell’agenda politica, due grandi temi: Fisco e Lavoro - di C. Fiordaliso
A scoppio ritardato - di S. Gasparrini
Verso un sistema di contrattazione 2.0 - di L. Tronti
Sindacale
Il CAF, attraverso la sua rete ed i suoi oltre 13.000 operatori, giovani con elevato grado di formazione e
costante aggiornamento nella materia fornisce una efficiente assistenza capillare sul territorio - Intervista a
Sergio Scibetta - di C. Benevento
Facciamo uscire dalla crisi un’Italia migliore - di R. Bellissima
Universo Trasporti - di C. Tarlazzi
18 aprile: grande manifestazione a Torino - di G. Cortese
Referendum sull’immigrazione, i rischi di uno strumento prescinde dalla necessità di una riforma - di G.
Casucci
Approfondimento
L’apprendistato: Evoluzione della norma - di E. Canettieri
Economia
Il mondo del lavoro, oggi – di G. Paletta
Trasporti
Sicurezza ferroviaria: la cultura manutentiva un valore ancora lontano - di G. C. Serafini
Agorà
Un uomo solo al comando... - di G. Salvarani
Capitale Europea della cultura 2019: L’Aquila - di T. Serafini
Il Corsivo
Elogio di Giorgio Napolitano, Presidente della Repubblica - di P. Tusco
La Recensione
Un posto al Sole - di F. Di Lalla
Cultura
Hitchcock, di Sacha Gervasi - di S. Orazi
Inserto
Quando il Primo Maggio fu retrocesso al 21 aprile - di P. Nenci
EDITORIALE
Dopo l’uragano elettorale, cosa resta?
Di Antonio Foccillo
Gli scandali delle gestioni allegre e familistiche dei fondi pubblici da parte dei partiti ha innescato una
naturale reazione che rischia innanzitutto, per estrema semplificazione, di assimilare il malcostume politico
all’essenza stessa della democrazia, e l’insofferenza verso le autonomie, causata dagli effetti derivanti
dall’assenza di controlli sulla gestione di fondi pubblici ed a una indifferenza preoccupante verso i partiti
accreditano l’idea che solo la gestione centralistica possa assicurare la virtuosità. I partiti, seppure in crisi di
legittimità, sono strumenti indispensabili per la partecipazione dei cittadini allo svolgimento della vita politica.
L’articolo 49 della Costituzione Repubblicana dispone che: Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi
liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale. Certo è
che i Partiti nel corso dei decenni hanno cessato di essere strumenti nelle mani dei cittadini organizzati per
divenire sempre più centri di interesse, ancorché legittimi, e luoghi di gestione del potere reale totalmente
avulsi dalle dinamiche e dalle logiche democratiche.
In tal modo i Partiti Politici non hanno più rappresentato i luoghi di partecipazione diretta e di esercizio della
democrazia perché sono stati percepiti come forze di occupazione dei luoghi del decidere, infezioni degli
spazi democratici. Le alternative, vagheggiate di Democrazia Diretta, invocata col Discorso agli Ateniesi,
oppure ricordando l’esperienza dell’Islanda e la sua rivolta con tanto di normazione retroattiva, o ancora la
fantasmatica Democrazia Deliberativa di Popper ove si ipotizza che un intero popolo possa divenire “Gruppo
in fusione” che, sempre e perennemente mobilitato, decide su tutti e su tutto, sono tutte soluzioni che non
hanno la forza per dichiarare la fine della democrazia rappresentativa, anche perchè ignorano il problema
fondamentale che non sta nel sistema di funzionamento della democrazia ma nell’assenza di valori ideali,
sociali su cui deve basarsi lo stare insieme di una comunità nazionale.
Luigi Ferrajoli giurista e accademico, allievo di Norberto Bobbio, professore di filosofia e teoria generale del
diritto all’Università di Roma Tre, scrive che i poteri tendono oggi a concentrarsi in forme assolute e, in
assenza di regole, si sono trasformati in poteri selvaggi. “Solo l’introduzione di nuove e specifiche garanzie
dei diritti politici e della democrazia rappresentativa può contribuire – secondo Ferrajoli – “al rafforzamento
della democrazia costituzionale, attualmente minata alle radici dall’idea elementare che il consenso popolare
sia la sola fonte di legittimazione del potere politico, che produce innanzitutto insofferenza per il pluralismo
politico e istituzionale; la svalutazione delle regole; attacchi alla separazione dei poteri, alle istituzioni di
garanzia, all’opposizione parlamentare, al sindacato e alla libera stampa”. In definitiva l’idea del consenso
popolare giustifica il rifiuto del paradigma dello Stato costituzionale di diritto quale sistema di vincoli legali
imposti a qualunque potere.
La constatazione di una progressiva riduzione delle funzioni dello Stato porta ad ipotizzare che con la fine
del modello democratico l’Occidente abbia chiuso anche la sua fase storica. I sintomi descritti da Ferrajoli
evidenziano innanzitutto una perdita dei valori che uniscono una società; poi lo smarrimento delle regole
della convivenza sociale e di una educazione politica che portava a sentirsi parte di una nazione ed infine la
crisi dell’economia in una società in cui il lavoro umano è diventato un’attività sempre meno
indispensabile.“Esiste un nesso tra tutti i fattori di crisi della rappresentanza, dal basso e dall’alto: tra la
politicizzazione, la passivizzazione e la disgregazione sociale, generate dall’indifferenza per il bene comune
e dalla cura unicamente dei propri personali interessi, e la verticalizzazione e personalizzazione della
rappresentanza celebrata quale espressione organica della volontà popolare…E’ chiaro che questi processi
di svuotamento della democrazia politica possono essere contrastati soprattutto sul piano politico e
culturale.”La cura che propone Ferrajoli è il metodo elettorale proporzionale (che – a nostro avviso rappresenta la puntuale e fedele rappresentazione del corpo elettorale), l’esclusione dei conflitti di interesse,
la democrazia interna ai partiti, nuove forme di democrazia partecipativa, la riforma del sistema
dell’informazione a garanzia della sua indipendenza.
In aggiunta l’inadeguatezza della cultura giuridica rispetto ai mutati scenari della società e della economia
degli ultimi decenni sta mettendo in discussione le categorie politiche e giuridiche fino ad oggi consolidate
perchè la perdita del punto di riferimento statuale mette nell’impossibilità di ricostruire l’ordinamento giuridico
come sistema. Ci rendiamo conto che oggi in Italia, a causa dell’affievolirsi del senso di solidarietà, sono
anche venuti meno quei collanti che qualificavano la nostra comunità, mentre in vari paesi sono nate
contestazioni molto violente e, quello che appare più forte nel “vulnus” della democrazia è aver imposto
imporre governi non eletti, ma graditi ai mercati e alle grandi lobbies. Si impone, pertanto, anche l’esigenza
di ripensare le regole della convivenza democratica, perché la democrazia è riconoscimento reciproco, è
garanzia di pluralismo, è tutela delle diversità, è doveri e diritti, tutti principi che nell’attuale realtà sembrano
essere stati messi da parte. La politica deve dialogare con la società ed i segni di questa mancanza si
avvertono poiché sempre più spesso, oggi, si parla spesso di distacco tra politica e società e credo che
questo rischio sia reale: la politica parla – questo sì – con l’economia, ma ha perso il suo peso avendo
ridimensionato il proprio ruolo nei confronti dell’economia, del capitale e si avverte, sempre più chiaramente,
che ormai una elite finanziaria, al di sopra della classe politica eletta dai cittadini, regge e decide le sorti del
paese.
Chi governa non deve rispondere ad altri che al popolo che democraticamente gli ha espresso il proprio
consenso, e deve praticare la cultura della partecipazione e del confronto con le parti sociali, anche per
dimostrare, effettivamente, che lo scollamento con la società, che tutti avvertiamo, non è assoluto e può
essere sanato. Bisogna quindi rimettere in discussione quei contesti che favoriscono le grandi caste
estranee alla politica e al confronto democratico, che nessuno ha eletto e che, di fatto, governano al di sopra
e contro la politica. A costoro che non rispondono ai cittadini, non si possono delegare decisioni che devono
essere prese nell’interesse di tutti. Questo pericoloso deficit democratico si è allargato e, quindi, ancora
concreto diventa il rischio di un’involuzione della democrazia e varrebbe la pena rifletterci in maniera più
approfondita, poiché più che il deficit economico si rischia il deficit democratico!Inoltre, abbiamo constatato
che la crisi, con le disparità economico-sociali che caratterizzano le varie zone del nostro Paese, accresce le
sperequazioni e le differenze. Pertanto, urge instaurare un’agire politico il cui obiettivo consiste, innanzitutto,
nella cura primaria degli interessi collettivi, coordinati, in sede nazionale, sulla base di una gerarchia dei
valori, che determina quali sono quelli più urgenti e quelli rinviabili con l’ottica di salvaguardare l’intero
sistema-paese.
Non ritengo che ciò sia facile, soprattutto per le profonde trasformazioni sociali prodotte dal consumismo e
dalla cultura di massa di bisogni populistici. Ma il problema sta tutto là: di fronte a tanti disvalori, messi in
moto nella nostra società in questi ultimi quindici anni è possibile ancora recuperare una battaglia ideale e
valoriale o ormai questa è persa per sempre? La crisi economica non è solo crisi finanziaria, ma anche
morale. Mancanza di etica, ricerca del profitto a tutti i costi, individualismo esasperato, disinteresse verso gli
altri della società, arricchirsi individualmente in ogni modo. Questo sono i nuovi ideali dominanti. Al contrario
chi governa deve praticare la cultura della partecipazione e del confronto con le parti sociali, anche per
dimostrare, effettivamente, che lo scollamento con la società, che tutti avvertiamo, non è assoluto e può
essere sanato. Purtroppo le relazioni sociali sono state, sono e saranno naturalmente compenetrate dal
potere, come tendenza dell’uomo al dominio sull’altro, e proprio per questo la politica dovrebbe controllare e
trasformare il potere in istituzioni e in diritto, altrimenti esso trova altri spazi e altri strumenti per imporsi.
Insomma occorre ritrovare, concretamente, le ragioni profonde della responsabilità individuale e collettiva,
impegnarsi sul piano della cultura politica così da contribuire a realizzare una democrazia economica,
centrata sulla persona e soprattutto sulle capacità imprenditoriali, finalizzate all’utilità sociale (art. 41 Cost.).
Non è da nascondere che per dominare gli eccessi del mercato e della poltica bisogna anche agire
educando le persone a cambiare le proprie abitudini salvaguardando innanzitutto la propria libertà ed
esercitando le più ampie capacità critiche, fondamentali in un sistema perverso, pubblicitario e informativo,
che spesso altera la stessa formazione dell’opinione pubblica e il sistema di controllo popolare, incidendo
negativamente sulla cultura di massa. In gioco sono la funzione delle regole e il comportamento democratico
delle istituzioni, la speranza di legalità della politica e nella politica, con sempre maggiore difficoltà di
controllo delle operazioni politicamente rilevanti. Il mercato si pone solo il problema della distribuzione e, con
l’attuale situazione economica, la distribuzione delle perdite e dei costi sociali avviene sempre a danno di
fasce di cittadini più ampie con l’aumento delle povertà ed emarginazione ed in questa difficile situazione si
afferma sempre più l’illegalità. Per questo non può essere considerata un’utopia la visione di una società in
cui vi sia giustizia sociale, equità, libertà, partecipazione democratica, coesione e solidarietà, etica e morale.
Certamente nelle attuali società, come in passato, non vi è separabilità dell’economico dall’umano, ma
questo deve indurre la politica a riacquistare la sua centralità e le forze sociali e culturali, insieme alla politica
e alla classe imprenditoriale devono sentire l’esigenza di configurare nuovi rapporti tra economia ed etica, tra
economia e diritto, tra economia e politica.
Pertanto da tutte le rappresentanze politiche e sociali deve venire una nuova iniziativa che metta al centro
della discussione politica, economica e sociale, la persona, le sue aspettative, i suoi diritti e la sua dignità di
lavoratore e cittadino. Si deve rilanciare la proposta per ricostruire in questo Paese valori e solidarietà,
coesione e certezze. La ricerca di nuove proposte, di nuove regole e nuovi diritti deve essere la prospettiva
per gli anni a venire. Troppi in questi anni hanno lavorato per distruggere la cultura del dialogo e del rispetto
dell’altro ed hanno accentuato le difficoltà delle istituzioni, mettendone in risalto soltanto gli errori e, così
facendo, hanno delegittimato i rappresentanti delle istituzioni stesse e qualsiasi elemento di partecipazione
democratica. Bisogna, invece, essere capaci di proporre “un patto per il progresso e la legalità” tra soggetti
autonomi, portatori di interessi diversi e con gradi diversi di responsabilità istituzionale, culturale e sociale,
ma tutti uniti contro il rischio di imbarbarimento della convivenza civile, rappresentato dalla criminalità
organizzata che si proponeva e si propone come vero e proprio “antistato”.
La parte sana della società deve evidenziare al Paese il comune sentire circa l’urgenza di porre fine alla
perdurante illegalità diffusa e quindi avanzare la richiesta di contribuire a ridefinire “regole nuove”, capaci di
garantire il delicatissimo passaggio politico-istituzionale, che stiamo vivendo. Non v’è dubbio che tale svolta,
richiederà un complesso sistema di regole, capaci di rendere più trasparenti e controllati i vari “poteri forti”,
assicurando una serie di contrappesi di garanzia delle minoranze e dei soggetti più deboli. Bisogna avere la
volontà di comprendere meglio la società nella quale operiamo, di scandagliare più a fondo una realtà nuova
che avanza e dobbiamo tutti insieme contribuire ad organizzarla secondo una scala di valori e di possibilità
coerenti con i nostri ideali. Bisogna ridare alle istituzioni la loro autorevolezza in modo che, ancor prima che
con le norme, possano divulgare la cultura della legalità, della partecipazione, della emancipazione civile,
democratica e sociale. Necessita restituire ruolo centrale al progetto sociale basato sull’Uomo, ricollocando i
suoi bisogni, materiali, culturali e spirituali in un quadro armonico che sappia tener conto delle trasformazioni
della società intervenendo per correggerne le storture. In tutto ciò molto può fare il sindacato, uno dei pochi
soggetti che raccoglie la partecipazione e le differenti posizioni, convogliandole in una azione singola, ma
per farlo deve battersi con una sua proposta di società, di economia, di welfare, di lavoro, di solidarietà e
coesione.
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1. Ferrajoli Luigi - Poteri selvaggi. La crisi della democrazia italiana- Laterza 2011
2. Luigi Ferrajoli, “Poteri Selvaggi La crisi della democrazia italiana” (Laterza, 2011
3. Art. 41. L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in
modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i
controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini
sociali.
4. La politica è la scienza dell’ottimo governo di uno Stato. Lo Stato è lo strumento della politica per
realizzare determinati scopi per il benessere della collettività. La politica è anche il luogo dove poter
risolvere, mediante il compromesso, i conflitti tra interessi antagonistici. La libertà politica, esplicata da un
soggetto politico agente, è libertà positiva, in quanto volta a modificare le regole che disciplinano l’esistenza
della collettività. Il fenomeno politico, è la capacità propria dell’uomo di attuare la storia attraverso i processi
politici.
Dobbiamo assumerci impegni e responsabilità per essere un punto di
riferimento per lavoratori, disoccupati e pensionati. Intervista a Luigi
Angeletti Segretario Generale UIL
di Antonio Passaro
Angeletti, ci siamo lasciati, in occasione dell’ultima intervista, in una condizione di assoluta
incertezza istituzionale. Oggi, fortunatamente, il quadro è cambiato. Giorgio Napolitano è stato
rieletto Presidente della Repubblica ed Enrico Letta è il nuovo Presidente del Consiglio alla guida di
un Governo che ha l’appoggio del Pd, del Pdl e di Scelta civica. Qual è il tuo giudizio?
Intanto a Giorgio Napolitano vanno le felicitazioni mie e della UIL tutta per la sua rielezione a Presidente
della Repubblica. Possiamo comprendere quanto sacrificio personale questa scelta gli sia costata. A
maggior ragione gli siamo profondamente grati per questo atto di generosità e di amore nei confronti della
nazione con cui ha accettato di rinnovare il suo impegno. A Enrico Letta vanno i nostri complimenti per aver
varato il nuovo Governo: una squadra dai tratti fortemente innovativi e formata da persone di qualità, giovani
e donne. Auspichiamo che questo Governo possa sciogliere i nodi della nostra economia. Vanno ridotte le
tasse sul lavoro e i costi della politica, va finanziata la cassa in deroga e risolto il problema degli esodati.
Confidiamo nel fatto che, su questi punti, Letta e i ministri competenti ascoltino le nostre proposte.
E cosa pensi del primo discorso di Letta in Parlamento che è valsa la fiducia al suo Governo?
Il discorso del Presidente del Consiglio, Enrico Letta è stato soddisfacente. Le premesse sono buone: ora
attendiamo i conseguenti provvedimenti economici che trasformino i programmi in decisioni concrete.
Ci sono novità importanti anche sul fronte sindacale con una ripresa dei rapporti unitari. Dopo oltre
cinque anni, si sono riuniti gli Esecutivi di CGIL, CISL, UIL che, non solo hanno varato un percorso di
mobilitazione a sostegno delle proprie rivendicazioni, ma hanno anche definito una storica intesa sul
tema della rappresentanza che, ora dovrà essere portata al confronto con le parti datoriali. È l’inizio
di una nuova stagione unitaria?
Per ottenere gli obiettivi che ci siamo prefissi, il rapporto unitario è una premessa necessaria. Per questo
motivo, Cgil, Cisl e Uil hanno avviato un percorso comune a cui attribuiscono un particolare valore. Solo il
tempo ci dirà se si potrà andare verso una nuova stagione di unità sindacale. Io penso che la durezza dei
problemi e la necessità di dare risposte qui e subito e non sulla base dei nostri desideri e delle nostre visioni,
imporrà al sindacato un’unità che, negli ultimi anni, non abbiamo conosciuto. Da questo punto di vista,
comunque, nessuno è in grado di valutare cosa esattamente ci riserverà il futuro. Lo vedremo.
Le iniziative di mobilitazione culmineranno in una manifestazione unitaria che si svolgerà il prossimo
22 giugno a Roma, probabilmente in Piazza San Giovanni. Tutto ciò a sostegno di rivendicazioni che,
in apertura, hai sintetizzato con estrema chiarezza. Insomma, CGIL, CISL, UIL propongono precise
soluzioni ai problemi della nostra economia...
Sì, è proprio così: bisogna superare la fase della narrazione della crisi e occorre indicare soluzioni ai
problemi dell’economia. Dobbiamo assumerci impegni e responsabilità per essere un punto di riferimento
per lavoratori, disoccupati e pensionati. La crisi ha spinto i sindacati a convergere su obiettivi comuni:
bisogna usare tutta la nostra forza responsabile per far superare al Paese la crisi economica. È un impegno
a cui non possiamo sottrarci: dobbiamo convenire su cose essenziali da far fare alla politica.
La questione occupazionale resta l’insoluto nodo della nostra economia. Siamo ormai su un piano
inclinato e i rischi di tensione sociale sono davvero seri. C’è chi spera in una via legislativa per la
risoluzione di questo problema, come se un qualche provvedimento normativo possa servire ad
invertire la pericolosa rotta che stiamo percorrendo. Qual è la tua opinione?
Lo abbiamo detto tante volte anche da queste pagine, ma è bene ribadire subito un concetto: l’occupazione
non si crea per decreto. Non esiste una legge in grado di generare lavoro. Se così fosse, non si capirebbe
perché i Parlamenti dei Paesi europei che denunciano questo problema non abbiano mai provveduto in tal
senso. L’occupazione, in realtà, è una funzione dei processi economici. È evidente che alcuni provvedimenti
normativi possano agevolare questi processi. Così come un’importanza decisiva possono assumere progetti
formativi che mettano i giovani e anche i disoccupati nella condizione di accrescere le loro conoscenze
pratiche da spendere sul mercato del lavoro. Ma la leva su cui agire resta quella degli investimenti produttivi.
Generare le condizioni, innanzitutto fiscali e burocratiche, per attrarre investimenti è sicuramente un
approccio corretto che può rivelarsi vincente. Bisogna poi sciogliere il vero nodo di questa vicenda: le
imprese chiudono perché la domanda interna è crollata e ciò è accaduto perché l’eccessiva tassazione ha
ridotto la propensione al consumo. Per dirla con uno slogan, più tasse ci sono più aumenta la
disoccupazione.
Cosa si può fare nel breve periodo?
Non c’è alcun dubbio: bisogna subito ridurre le tasse sul lavoro. Un provvedimento del genere avrebbe effetti
positivi dal punto di vista economico, sociale e, persino, psicologico. Le risorse ci sono: basterebbe destinare
a questo fine la maggior parte degli introiti derivanti sia dalla lotta all’evasione fiscale sia da una vera azione
di riduzione dei costi della politica. È solo una questione di volontà.
Le prospettive non sono incoraggianti...
Dobbiamo attraversare tempi di ferro, come non abbiamo mai conosciuto nei 150 anni della nostra storia
unitaria se non durante la Seconda Guerra mondiale. In termini di disponibilità della ricchezza abbiamo fatto
un gigantesco passo indietro di oltre venti anni. E l’unica cosa che possiamo fare per frenare questa deriva lo ripeto - è ridurre le tasse sul lavoro. Non c’è nella storia dell’umanità una sola economia che non sia
crollata per eccesso di tassazione. Se si aumentano le tasse si tagliano risorse alla produzione e ai consumi.
Nel 2012 abbiamo drenato 25 miliardi di euro dalle “tasche” di imprese e lavoratori e così ha preso corpo
una catastrofe: abbiamo perso 700mila posti di lavoro. E, nonostante il Pil nel 2014 sembra essere destinato
ad una lieve crescita, c’è il rischio che la disoccupazione non diminuisca.
In questo quadro e nel tentativo di uscire dalla crisi, si possono ipotizzare forme di alleanza anche
con il mondo delle imprese?
Credo proprio di sì. Bisogna mettere insieme forze che hanno interessi comuni. In questa fase, le principali
forze con cui dobbiamo allearci sono le imprese perché con loro abbiamo interessi analoghi. Lavoratori e
imprese possono trarre entrambi vantaggi da processi di semplificazione e sburocratizzazione e dalla
riduzione del cuneo fiscale. Insomma, imprese e sindacati possono agire concordemente, ma bisogna
andare oltre le intenzioni e costruire, insieme, proposte concrete e non generiche, definendo tempi, azioni e
strategie con cui sostenerle.