Gazzetta F O R E N S E Bimestrale Anno 5 – Luglio‑Agosto 2012 direttore responsabile Roberto Dante Cogliandro comitato di direzione Almerina bove Corrado d’ambrosio Alessandro jazzetti redazione capo redattore Mario de Bellis redazione gazzetta forense Valeria D’Antò, Melania DuratuRo, Anna Eliseo editore Denaro Libri Srl, presso la Mostra d'Oltremare, viale Kennedy, 54 – 80125 Napoli proprietario Associazione: Nemo plus iuris comitato di redazione Andrea Alberico Giuseppe amarelli Antonio ArdituRO Clelia Buccico Carlo Buonauro Sergio Carlino Raffaele Cantone Matteo D’Auria Domenico De Carlo Mario de Bellis Andrea Dello Russo Clelia iasevoli Rita Lombardi Raffaele Manfrellotti Catello MARESCA Giuseppina MAROTTA Daniele Marrama Raffaele MICILLO Maria Pia Nastri Giuseppe Pedersoli Angelo Pignatelli Ermanno Restucci Francesco Romanelli Raffaele Rossi Angelo Scala Gaetano scuotto Mariano Valente comitato scientifico Fernando Bocchini Antonio Buonajuto Aurelio Cernigliaro Lorenzo Chieffi Giuseppe Ferraro Gennaro MARASCA Antonio Panico Giuseppe Riccio Giuseppe Tesauro Renato Vuosi n. registraz. tribunale N. 21 del 13/03/2007 finito di stampare da 360° ‑ Roma – nel settembre del 2012 SOMMARIO Editoriale [ A cura di Roberto Dante Cogliandro ] Diritto e procedura civile Controllo notarile e questioni di legittimità costituzionale 9 Raffaele Manfrellotti L'indennizzo ai medici specializzandi: risarcimento per tardivo recepimento delle direttive comunitarie e dilatazione del termine prescrizionale 12 Riccardo Esposito Licenziamentoantisindacale: rilevanza delle dinamiche del caso per l’esclusione dell’insubordinazionee del danno alla produttività 22 Nota a Corte di Appello di Potenza, sez. lav., 23 febbraio 2012, n. 170 Ida Sorrentino Rassegna di legittimità [A cura di Corrado d’Ambrosio] 52 Rassegna di merito [A cura di Mario De Bellis e Daniela Iossa] 54 In evidenza Tribunale di Napoli, sez. VIII civile, sentenza 07 giugno 2012, n. 6891 [Nota redazionale a cura di Raffaele Micillo] Corte di Cassazione, sezione II civile sentenza 10 aprile 2012, n. 5692 [Nota redazionale a cura di Pietro d’Alessandro] 57 70 Diritto e procedura penale I contenuti positivi della prevenzione speciale e il diritto all’educazione del minore autore di reato 75 Clelia Iasevoli Relazione introduttiva sull’incidenza delle fonti comunitarie e internazionali nel nostro ordinamento penale 80 Vittorio Ambrosio La nuova disciplina del falso in attestazioni e relazioni del professionista nella legge fallimentare 85 Federico Baffi I contrasti risolti dalle Sezioni unite penali 91 A cura di Angelo Pignatelli Rassegna di legittimità [ Rassegna di merito [ A cura di Alessandro Jazzetti e Andrea Alberico ] A cura di Alessandro Jazzetti e Giuseppina Marotta ] 95 98 Diritto amministrativo Sistema Idrico Integrato. Moduli Gestionali e determinazione delle tariffe 107 Alessandro Barbieri Eccezione di compromesso, bando di gara e capitolato di appalto: questioni e brevi riflessioni 113 Francesco Rinaldi Rassegna di giurisprudenza sul Codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture 119 (d.lgs. 12 Aprile 2006, n. 163 e ss. mm.) A cura di Almerina Bove Diritto tributario La tutela contro gli atti dell’esecuzione esattoriale 123 Achille Benigni Diritto internazionale Rassegna di diritto comunitario 131 A cura di Francesco Romanelli Questioni [ A cura di Mariano Valente ] Può la pubblica Amministrazione rifiutarsi di adempiere un contratto di appalto nel caso in cui l'impresa aggiudicatrice, pur avendo eseguito regolarmente la propria prestazione, versi in una condizione di irregolarità ai fini del D.U.R.C.? / Elisa Asprone 135 Se ed entro che limiti si configura il reato di abuso d’ufficio ex art. 323 c.p. con riguardo all’attività discrezionale della Pubblica Amministrazione / Anna Sofia Sellitto 138 La tutela cautelare nel giudizio amministrativo alla luce delle novità contenute nel codice del processo amministrativo: ai fini della rapida definizione della controversia nel merito è ammessa la tutela cautelare, oppure l’applicazione dell’art. 55 comma 10 del c.p.a. rappresenta un’alternativa rispetto alla concessione dell’istanza cautelare? / Maria Teresa Della Vittoria Scarpati 141 Recensioni Il principio di continuità di funzionamento degli organi nelle società di capitali, Paolo Divizia, in Quaderni di Giurisprudenza commerciale n. 350, Milano, 2011 Flora Caputo 147 Gazzetta F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o ● Accesso alle professioni: servono modifiche ● Roberto Dante Cogliandro Notaio 2 0 1 2 5 Quasi in pieno ferragosto il ministro della giustizia Paola Severino si è soffermata sulla crisi dell’avvocatura in partico‑ lare, di cui il ministro fa parte, sollecitando il Parlamento e forse lei stessa alla ripresa autunnale a mettere mano ad una riforma strutturale ed organica sia dell’avvocatura vigente che delle sue modalità di accesso. Ed è proprio sull’accesso che vogliamo fare qualche breve osservazione propositiva, nella speranza che realmente prima della fine della legislatura que‑ sto governo, dotato di ampissima maggioranza, voglia rivisi‑ tare ed adeguare ai tempi, nonché alla situazione che purtrop‑ po si è venuta a creare, ciò che da secoli costituisce uno dei vanti del nostro pur criticato Paese Italia: il giurista o meglio l’operatore del diritto. Il mondo dell’accesso alle professioni post laurea in giuri‑ sprudenza ha attraversato e tuttora vive una profonda crisi esistenziale e di identità al cospetto delle reali richieste che il paese richiede ed offre. Mi riferisco in particolare al grosso scollamento venutosi a creare negli ultimi tempi tra la forma‑ zione universitaria e l’accesso al mondo del lavoro o meglio delle professioni. Purtroppo la semplificazione del sistema universitario voluto nell’ultimo decennio ha provocato inevi‑ tabilmente delle ripercussioni sul mondo delle professioni. Queste infatti se da un lato hanno cercato di resistere alla cosiddetta semplificazione diffusa, dall’altro fronte si sono adeguate a un tale sistema semplicistico ed anno rotto i propri argini a favore del motto “tanto poi la selezione è giusto che la fa il mercato”. Concetto quest’ultimo intriso di un certo liberismo che nel mondo delle professioni legali fa solo danni e non serve al sistema paese. Infatti l’accesso all’avvocatura è per decenni diventato una sorta di formalità dove nessun filtro serio ed efficace in nome della preparazione dei candidati viene fatto. Ed ecco i risulati che dopo circa vent’anni l’Italia si ritrova un numero spropo‑ sitato di legali che il mercato non riesce ad assorbire. Tutta colpa della maledetta volontà liberalizzatrice che negli ultimi anni è di moda nel nostro Paese. Di riflesso anche il mondo della magistratura e del notariato ne hanno risentito se si pensa per la prima alla riduzione a due delle prove scritti per il pubblico concorso e per il secondo all’eliminazione di alcu‑ na forma di preselezione prima di poter arrivare a sostenere le tre prove scritte. Così conversando e discutendo con chi si è trovato ad es‑ sere commissario in una delle prove innanzi dette il sentire è ahimè quasi unanime nel manifestare un calo del livello di preparazione dei candidati negli ultimi anni e nel caso dell’av‑ vocatura nell’impotenza di un sistema di accesso che ormai inesorabilmente necessita di una radicale rivisitazione se non si vuole portare a distruzione quanto ci è invidiato da molti paese europei. Ed allora perché non introdurre per l’accesso all’avvocatu‑ ra forme di preselezione che garantiscono comunque un certo filtro alle prove scritte che devono essere fatte con adeguati controlli da parte del ministero così da evitare la pratica degli elaborati fotocopia diffusa negli ultimi anni. Inoltre dato l’elevato numero di partecipante e la difformità di giudizio tra le varie sub commissioni che in tempi brevissimi sono tenute alla correzione perché non spostare il bando da annuale a ogni due anni. Così certamente ne varrà la maggiore attenzione nella correzione dei compiti e soprattutto i candidati saranno naturalmente disincentivati dall’andare a tentare la prova 6 e d i t o r i a l e senza alcuna pur minima preparazione necessaria. Altro capitolo è certamente quello delle scuole di specializ‑ zazione delle professioni legali. Così come sono state concepi‑ te e come da quasi dieci anni funzionano non vanno. Innanzi‑ tutto perché la specializzazione dell’approccio avviene solo al secondo anno, quando invece che vuole studiare per il concor‑ so notarile ad esempio nulla gli interessa delle discipline pena‑ listiche. E così il primo anno si riduce in un’inue perdita di tempo dove invece il neo laureato potrebbe da subito concen‑ trarsi sugli argomenti che interessano le prove d’accesso. Altro ma tutt’altro che secondario problema è quello della capacità dei neo laureati di scrivere argomenti di diritto. Purtroppo l’università italiana non è una palestra in tal senso ed allora solo una volta conseguita la laurea e deciso di intraprendere un pubblico concorso il novello laureato si imbatte di fronte a questa nuova e complessa prova: far capire a chi ci legge che Gazzetta F O R E N S E determinati argomenti ci sono chiari; cosa spesso molto com‑ plessa e che necessita di lunghe esercitazioni. Occorre che la facoltà di Giurisprudenza si doti di prove scritte e volte a met‑ tere alla prova in candidato rispetto ad un foglio bianco. Solo attraverso il ritorno alla massima meritocrazia ed ad un sistema di selezione valido ed efficace la nostra avvocatu‑ ra potrà tornare ad essere tra qualche decennio ciò che è stata nei secoli, il cuore della creatività giuridica e della mas‑ sima eloquenza. Chi ci governa deve rendersi conto che la forte liberalizzazione delle professioni degli ultimi anni ha finito per imbastardire il mondo dell’avvocatura a danno della coesione sociale e del ruolo chiave che è da sempre chia‑ mata a svolgere nelle aule giudiziarie. La ricerca della qualità dovrà essere il live motive dell’azione del ministro Severino per una riforma organica dell’intero mondo delle professioni e del suo accesso. Diritto e procedura civile Controllo notarile e questioni di legittimità costituzionale 9 Raffaele Manfrellotti L'indennizzo ai medici specializzandi: risarcimento per tardivo recepimento delle direttive comunitarie e dilatazione del termine prescrizionale 12 Riccardo Esposito Licenziamentoantisindacale: rilevanza delle dinamiche del caso per l’esclusione dell’insubordinazionee del danno alla produttività 22 Nota a Corte di Appello di Potenza, sez. lav., 23 febbraio 2012, n. 170 Ida Sorrentino Rassegna di legittimità [A cura di Corrado d’Ambrosio] 52 Rassegna di merito [A cura di Mario De Bellis e Daniela Iossa] 54 Tribunale di Napoli, sez. VIII civile, sentenza 07 giugno 2012, n. 6891 [Nota redazionale a cura di Raffaele Micillo] Corte di Cassazione, sezione II civile sentenza 10 aprile 2012, n. 5692 [Nota redazionale a cura di Pietro d’Alessandro] 57 70 civile In evidenza F O R E N S E ● Controllo notarile e questioni di legittimità costituzionale ● Raffaele Manfrellotti Ricercatore di Istituzioni di diritto pubblico presso l’Università di Foggia l u g l i o • a g o s t o 2 0 1 2 9 Si è spesso sottolineata1 la sostanziale disomogeneità degli orientamenti della Corte costituzionale in materia di possibi‑ lità di qualificare un dato organo come “giudice a quo” ai fini della proposizione della questione di legittimità costitu‑ zionale. La Corte ha “serrato e dissertato” le porte del proces‑ so costituzionale secondo criteri talvolta difficilmente com‑ prensibili attraverso gli strumenti del puro ragionamento giuridico, riconoscendo talvolta tale qualifica ad organi aven‑ ti natura certamente amministrativa 2 , e negandola invece de‑ cisamente dove forse sarebbe stato opportuna una riflessione più ponderata. È questo il caso dell’affermata esclusione dal novero dei soggetti competenti a sollevare la questione di legittimità co‑ stituzionale dei notai nell’esercizio delle proprie funzioni, che la Corte ha seccamente “stroncato”3 senza, tuttavia, argomen‑ tazioni realmente persuasive, quanto meno alla luce della sua giurisprudenza precedente. Senza addentrarsi in considerazioni circa la natura delle funzioni esercitate dal notaio4 nella prospettiva della teoria generale del diritto, si possono certamente enucleare i seguen‑ ti dati incontrovertibili: a) il notaio è un pubblico ufficiale che b) esercita fra l’altro la funzione di “attribuire pubblica fede” agli atti che è competente a ricevere ai sensi dell’art. 1 della legge notarile. La ratio della presenza nel sistema dell’ufficio notarile ri‑ posa dunque sull’esigenza di certezza. Da questo punto di vi‑ sta, le funzioni svolte dal notaio presentano certamente una matrice comune con l’attività di accertamento esercitata dal giudice, di cui si può dire, con autorevole dottrina5, che l’ac‑ certamento rappresenta il nucleo essenziale di tutti gli atti che esso può adottare. Ma vi è di più: ai sensi dell’art. 28 della legge notarile, il notaio esercita altresì un controllo di liceità sugli atti di autonomia privata cui è chiamato ad attribuire fede pubblica, stante il divieto di rogare atti contrastanti con norme di legge. La statuizione in merito alla possibilità di rogare o meno un determinato atto, che certamente non è priva di effetti sulle posizioni soggettive della parte o delle parti interessate all’atto, può certamente considerarsi avente un contenuto lato sensu decisiorio. Alle considerazioni espresse va aggiunto un duplice ordine di constatazioni. In primo luogo, agli atti notarili (o quanto meno ad alcuni di essi) è attribuita la stessa efficacia di titolo esecutivo (art. 474 c.p.c.) e la stessa efficacia probatoria (art. 2700 c.c.) che è riconosciuta alle decisioni giurisdiziona‑ li. In secondo luogo, il notaio svolge funzioni assolutamente fungibili rispetto a quelle del giudice, che pertanto possono considerarsi partecipare alla medesima natura. Si pensi alla possibilità di deferire le operazioni relative alla divisione giu‑ risdizionale ad un notaio da parte dell’autorità giudiziaria ai sensi dell’art. 730 c.c.; ma più a monte, si pensi alla stessa possibilità di escludere l’intervento dell’autorità giudiziaria qualora lo scioglimento della comunione avvenga per contrat‑ 1 2 3 4 5 Da ultimo, da Patroni Griffi, Accesso incidentale e legittimazione degli “organi a quo”, Napoli, 2012, pp. 41 ss. Cfr. Corte cost., sent. 9/07/1970 n. 121. Corte cost., ord. n. 52 del 2003. Su cui ampiamente Lasagna, Il notaro e le sue funzioni, Genova, 1974, pas‑ sim. Chiovenda, Principii di diritto processuale civile, Napoli, 1965, pp. 134 ss. civile Gazzetta 10 D i r i t t o e p r o c e d u r a to, cui deve necessariamente partecipare un notaio quanto meno nell’ipotesi in cui esso abbia ad oggetto beni immobili ai sensi dell’art. 2646 c.c. Il che è quanto dire che l’effetto divisorio rimesso alla sentenza è il medesimo di quello attri‑ buito all’atto notarile di scioglimento della comunione. Ma si pensi, altresì, al controllo notarile sulla costituzione e sulle modifiche dello statuto delle società di capitali (art. 2330 e art. 2436 c.c.), controllo che ha sostituito quello del giudice originariamente previsto in sede di omologazione6. Appare evidente che la sostituzione è possibile solo ove si ammetta una qualche omogeneità tra le funzioni svolte dai due organi, quanto meno nella prospettiva di garanzia degli interessi pubblici sottesi ai controlli relativi agli statuti socie‑ tari. Ai fini delle presenti considerazioni, tale fattispecie presenta notevoli profili di interesse. Invero la Corte costituzionale7 ha affermato la legittima‑ zione del giudice a sollevare la questione di legittimità costi‑ tuzionale anche in sede di volontaria giurisdizione relativa all’omologazione dello statuto delle società di capitali, ovvia‑ mente al tempo in cui esso era previsto. La Corte non ebbe allora difficoltà ad ammettere la natura oggettivamente pro‑ cessuale (ai limitati fini dell’art. 23 della legge n. 87 del 1953) dell’attività di controllo del giudice omologante, sulla base del “preminente interesse pubblico della certezza del diritto (che i dubbi di costituzionalità insidierebbero) insieme con l’altro dell’osservanza della Costituzione”8. Nell’ordinamento attuale, la stessa funzione e le stesse finalità che prima del 2003 erano attribuite al procedimento di omologazione sono attribuite al notaio. Si avrebbero serie perplessità ad escludere la possibilità del notaio di sollevare la questione di legittimità costituzionale sulla mera conside‑ razione che esso non è un giudice, in primo luogo perché la natura di giudice dell’organo remittente non è mai stata una condicio sine qua non della proponibilità della questione, in secondo luogo perché si addiverrebbe all’assurdo logico per cui la medesima funzione, che sottende i medesimi interessi giuridicamente rilevanti, si vedrebbe aperte o chiuse le porte del Palazzo della Consulta solo che si vedesse attribuita dalla legge ad un organo piuttosto che ad un altro. In conclusione sul punto, l’evoluzione del sistema del co‑ dice civile in materia di controlli societari esclude, ancora più che in passato, che possa considerarsi il ruolo del notaio asso‑ lutamente non ragguagliabile a quello del giudice, ai fini della proposizione della questione di legittimità costituzionale. Altro è il problema di inquadrare l’accesso alla Corte co‑ stituzionale del notaio all’interno della recente giurispruden‑ za costituzionale che, come è noto, pone significative restri‑ zioni in tal senso per quanto concerne i poteri del giudice a quo (astrattamente considerati). Un primo profilo concerne l’interpretazione “additiva” dell’art. 1 della legge cost. n. 1 del 1948 e dell’art. 23, co. II, della legge n. 87 del 1953, che ha aggiunto, accanto ai requi‑ siti della rilevanza e della non manifesta infondatezza della questione quali valutazioni preliminari alla remissione della 6 Sulla natura del controllo notarile e sul suo raffronto con l’attività del giudice, G. F. Campobasso, Diritto commerciale 2. Diritto delle società, VIII ed. a cura di M. Campobasso, Torino, 2012pp. 161 ss. 7 Sent. n. 129 del 1957. 8 Corte cost., sent. n. 129 del 1957, punto 1 del Considerato in diritto. c i v i l e Gazzetta F O R E N S E stessa alla Corte, anche il requisito dell’impossibilità di un’in‑ terpretazione conforme alla Costituzione della norma impu‑ gnata9. L’interpretazione adeguatrice costituisce il corollario di una concezione della Costituzione non limitata a fungere da parametro di validità degli atti, ma soprattutto ad espri‑ mere la tavola di valori cui il sistema giuridico è ispirato e che deve, pertanto, vincolare l’interprete nella ricerca del signifi‑ cato delle disposizioni che deve applicare. L’obbligo di interpretazione conforme modifica il sistema di accesso alla Corte, originariamente concepito come possi‑ bile solo che vi fosse un fumus di incostituzionalità dell’atto legislativo da applicare; il subordinare l’intervento della Corte all’esclusione di un risultato ermeneutico conforme alla Costi‑ tuzione avvicina, infatti, il requisito della non manifesta infon‑ datezza ad una certezza negativa, tale da consentire l’interven‑ to della Corte solo quando la norma non può essere in nessun modo resa compatibile con il sistema costituzionale. Peraltro, non risultano chiari i limiti che incontra tale attività ricostruttiva10. In particolare, potrebbe risultare assai ardua la distinzione tra interpretazione conforme alla Carta di una norma e sua disapplicazione, anche parziale, al fine di renderla compatibile con l’ordinamento. Quest’ultimo risul‑ tato, anzi, è parso persino, in qualche misura, auspicato dal “nuovo corso” che la stessa Corte ha impresso alla sua giuri‑ sprudenza attraverso una serie di ardite sentenze interpreta‑ tive di rigetto11; a patto, naturalmente, che il giudice non utilizzi il termine disapplicazione al fine di salvaguardare l’immagine di un sistema in cui gli si vorrebbe preclusa qual‑ sivoglia deliberazione sulla validità delle norme che esso deve applicare. Non vi è dubbio che la ricostruzione su esposta, elaborata dalla giurisprudenza costituzionale a proposito della figura del giudice a quo, debba ritenersi applicabile altresì al notaio qualora gli si riconosca la funzione di sollecitare una pronun‑ zia costituzionale in sede di accesso incidentale alla Corte, e che pertanto lo stesso notaio sia soggetto all’obbligo di inter‑ pretazione della legge in conformità alla carta costituzionale. Un ulteriore profilo concerne il sindacato diffuso sulla compatibilità delle leggi nazionali con le norme comunitarie. Pur senza volere entrare nel merito di tale problema, si può osservare che l’integrazione comunitaria abbia avuto un ef‑ fetto (culturale, prima che giuridico) dirompente quanto all’erosione del dogma dell’intangibilità della legge da parte dei giudici. Costituisce jus receptum il principio per cui la magistratura (e non soltanto) può disapplicare gli atti legisla‑ tivi in contrasto con norme comunitarie. L’impostazione tradizionale, tuttavia, non ha mai chiarito come la limitazio 9Tra le ultime pronunzie in materia, Corte cost., sent. 22 febbraio‑3 marzo 2006, n. 86, in Giur Cost., 2006, pp. 910 ss. 10 Ampiamente, anche per ulteriori riferimenti, G. Sorrenti, L’interpretazione conforme a Costituzione, Milano, 2006, pp. 114 ss. e pp. 153 ss. per un ac‑ curato esame della prassi. 11Tra le tante, Corte cost., sent. 22 luglio 2005, n. 299, in Giur. cost., 2005, pp. 2917 ss. Sul punto, anche per ulteriori riferimenti, L. Carlassare, Perplessità che ritornano sulle sentenze interpretative di rigetto, in Giur. cost., 2001, pp. 191 ss.; M. Esposito, “In penetrabilis pontificum repositum erat”: brevi considerazioni sulla parabola discendente del diritto scritto, in Giur. cost., 2004, pp. 3018 ss.; R. Romboli, Interpretazione conforme o disap‑ plicazione della legge incostituzionale?, in Foro it., 2006, I, pp. 3323 ss. Gazzetta F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o 2 0 1 2 11 civile ne di tale rimedio alla categoria dell’“illegittimità comunita‑ ria” possa ritenersi coerente con il principio costituzionale fondamentale rappresentato dall’art. 3 Cost., in ragione della “discriminazione alla rovescia” che essa opera tra gli interes‑ si lesi a seconda che il parametro dell’illiceità dell’atto lesivo sia nazionale o comunitario. La fattispecie in esame sarebbe, comunque, diversa dal controllo di costituzionalità e non avrebbe rilevanza che quale espressione di una generale valorizzazione dell’interprete nel sindacato sugli atti del parlamento. Non vi è dubbio infatti, alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia, che a prescindere dalla possibilità di qualificarlo giudice a quo ai fini della questione di legittimità costituzionale al notaio debba essere riconosciuto il potere‑dovere di disapplicare norme di legge in contrasto con il diritto comunitario12. In‑ vece, dopo l’introduzione del primo comma dell’art. 117 Cost. essa assume un importanza non marginale nella prospettiva della ricostruzione sistemica del sindacato di legittimità sugli atti legislativi anche quando viziati da illegittimità cos‑ tituzionale13. 12 Si confronti il principio di diritto espresso a proposito dell’amministrazione da Corte di Giustizia, sent. 22 giugno 1989, c. 103/88, Fratelli Costanzo, in Riv. it. Dir. pubbl. com., 1991, pp. 423 ss., con nota di Marzona. 13 Per qualche ulteriore considerazione sul punto, che esulerebbe dalla prospetti‑ va del presente lavoro, sia consentito il rinvio a R. Manfrellotti, Sistema delle fonti e indirizzo politico nelle dinamiche dell’integrazione europea, Torino, 2004, pp. 200 ss. 12 D i r i t t o e ● L'indennizzo ai medici specializzandi: risarcimento per tardivo recepimento delle direttive comunitarie e dilatazione del termine prescrizionale ● Riccardo Esposito Dottore in Giurisprudenza p r o c e d u r a c i v i l e Gazzetta F O R E N S E Sommario: Premessa. – 1. Analisi della vicenda e degli orien‑ tamenti giurisprudenziali più recenti. – 1.1 Principi essenziali in tema di prescrizione del diritto al risarcimento danni deri‑ vanti da una ritardata o omessa attuazione di una direttiva non self‑executing. – 1.2 Periodo entro il quale l’Italia è stata soggetta al vincolo di recepimento delle direttive e nel quale i medici specializzandi avrebbero potuto maturare crediti risar‑ citori. – 1.3 Contratto o illecito aquiliano? – 1.4 Il dies a quo della prescrizione (esclusione del 1o gennaio 1983). – 1.5 Esclu‑ sione della giurisprudenza anche delle date di pubblicazione delle sentenze Francovich e Brasserie du Pécheur quale dies a quo, e qualificazione della condotta inadempiente dello Stato italiano quale recepimento soggettivamente parziale delle di‑ rettive; – 1.6 Ipotesi in cui anche l’inadempimento parziale soggettivo dell’obbligo di recepimento della direttiva si tradu‑ ce in un illecito istantaneo: individuazione del dies a quo nel il 27 ottobre 1999. – 1.7 Sintesi – 2. Critica dell’orientamento espresso da giudici di legittimità che ha fissato il dies a quo del termine prescrizionale al 27 ottobre 1999 ed ha qualificato come contrattuale la responsabilità dello Stato. – 2.1 Illogici‑ tà della distinzione tra inadempimento parziale oggettivo e soggettivo ai fini della qualificazione come istantaneo o per‑ manente dell’illecito statuale. – 2.2 Tutela del legittimo affi‑ damento riposto dallo Stato nei precedenti della Corte di Cassazione, alla luce dei quali la responsabilità dello Stato da parziale recepimento di una direttiva non self‑executing dove‑ va qualificarsi come aquiliana e quale dies a quo del relativo termine prescrizionale doveva individuarsi, al massimo, la data dell’entrata in vigore del D.lgs. n. 257/1991. – 2.2.1 (Se‑ gue) Il giudizio positivo sulla correttezza della condotta sta‑ tuale ai sensi degli artt. 1175 e 1227, comma 2, c.c. – 2.2.2 (Segue) Il giudizio positivo sulla correttezza della condotta statuale e l’inescusabilità delle omissioni difensive dei medici alla luce del mutamento giurisprudenziale in tema di prescri‑ zione, in ragione della ratio e della natura di preclusione pro‑ cessuale di quest’ultima. – 3. Valutazioni conclusive. Premessa La vicenda dell’indennizzo comunitario dovuto ai medici specializzandi per la partecipazione alle scuole di specializza‑ zione continua ad impegnare i giudici nazionali ed all’esito della più recente giurisprudenza di legittimità si conferma quale vera e propria storia infinita1. Da ultimo, la Corte di Cassazione2 ha ribadito che il diritto dei medici specializzandi al risarcimento del danno da inadem‑ pimento della direttiva 82/76/CE è soggetto a termine prescri‑ zionale decennale, dando continuità ad un innovativo orienta‑ mento delle Sez. Un.3, e ne ha individuato come dies a quo il giorno 27 ottobre 1999 data in cui è entrato in vigore l’art. 11 della legge n. 370 del 1999: in pratica è stato dilatato di ben 1M. Gorgoni, “La difficile costruzione delle regole risarcitorie per violazione statale di obblighi comunitari”. La responsabilità civile. VII (2010): 3: pp. 187; A. Di Majo, “I diritti dei medici specializzandi e lo Stato inadempiente”, Cor‑ riere Giur., 2011, 10, p. 1411 “Contratto e torto nelle violazioni comunitarie ad opera dello Stato”, Corriere Giur. (2009), 10, p. 1352. 2 Cass. Sez. Lavoro sent. n. 1850 dell'8 febbraio 2012 e Cass. civ. Sez. III, sent. n. 1182 del 27 gennaio 2012 che danno continuità all'orientamento espresso da Cass. Civ, Sez. III, sentenze n. 17868 del 31 agosto 2011 e nn. 10813, 10814, 10816 del 17 maggio 2011 3 Cass. Sez. Un., sent. n. 5842 del 10 marzo 2010. F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o tredici anni il termine prescrizionale delle pretese risarcitorie dei medici specializzandi. In tale sede, ed in merito a questa dilatazione, si tenterà di svolgere un’analisi critica dell’iter argomentativo posto alla base di tale recente orientamento giurisprudenziale secondo cui: in caso di recepimento parziale di una direttiva non diret‑ tamente applicabile, il dies a quo del termine prescrizionale è dato dal giorno in cui i soggetti interessati possano interpre‑ tare tale recepimento parziale come inadempimento definitivo del legislatore, ovvero come “comportamento ragionevolmen‑ te (anche se non necessariamente) significativo di una volontà di non provvedere per il residuo”. Secondo tale ragionamento dei giudici di legittimità il d.lgs. 297/1991, che per primo ha attuato la direttiva 82/76/CE, rappresenterebbe un atto di adempimento parziale e solo dal 27 ottobre 1999 i soggetti interessati al tempestivo e corretto recepimento delle direttive avrebbero potuto “ragionevolmen‑ te” supporre che il Legislatore non le avrebbe mai recepite in futuro né in modo diverso, né in modo più ampio di quanto avesse già fatto con il citato d.lgs. 257/1991. Ad opinione di chi scrive, anche ove si ritenga che il d.lgs. 257/1991 abbia costituito un mero adempimento parziale soggettivo delle direttive in materia di trattamento dei medici specializzandi l’accertamento sulla intervenuta prescrizione dei crediti vantati dai medici frequentanti tra il primo gennaio 1983 e il 20 ottobre 2007 (periodo in cui l’Italia è stata sotto‑ posta al vincolo di recepimento) andrà compiuto partendo dalle premesse che il dies a quo del termine prescrizionale: – non potrà essere posticipato oltre al 31 agosto 1991, data di entrata in vigore del suddetto d. lgs. 257/19914(primo decreto di recepimento delle direttive operanti in mate‑ ria); – o comunque non oltre la data di pubblicazione della sen‑ tenza Francovich5 del 19 novembre 1991 (cause riunite C‑6/90 e C‑9/90) che “per la prima volta, ebbe a configu‑ rare l’inadempimento dello Stato membro ad una direttiva sufficientemente specifica nel riconoscere ai singoli un diritto, sia … l’obbligo risarcitorio, quale situazione sor‑ gente dall’inadempimento della direttiva attributiva di diritti, ma non self‑executing, in presenza di situazioni concrete dei singoli che avrebbero loro consentito di ac‑ quisire i diritti nascenti dalla direttiva” (cfr. Corte Cass., sez III, sent. n. 10813/2011); 4 Pubblicato in G.U. n. 191 del 16 agosto 1991 5 Corte Giustizia CE, 19 novembre 1991, cause C‑6/90 e 9/90, Francovich, in Racc. I 5357. con nota di A. Barone, R. Pardolesi, “Il fatto illecito del legis‑ latore”, Foro it. (1992), 4, p. 145 e di G. Ponzanelli, “L’Europa e la respon‑ sabilità civile”. Foro it. (1992), 4, p. 145, il quale evidenzia che “L’applicazione delle regole di responsabilità civile viene a svolgere in questi casi una chiara funzione deterrente: si vuole che i singoli Stati rispettino con la massima pun‑ tualità e diligenza le scadenze a loro poste da atti comunitari. Legittimando i singoli cittadini, ai quali le direttive non trasposte hanno assegnato precisi di‑ ritti, a chiedere ai giudici nazionali il risarcimento dei danni, si mira ad aumen‑ tare il peso e il controllo sulle autorità statuali preposte all’attuazione delle direttive”. L'illustre A., pur prendendo atto che nella pronuncia si era inteso riconoscere al risarcimento danni solo una funzione riparatoria, si interroga se, al fine di garantire la funzione deterrente delle regole di responsabilità civile, non sarebbe stato necessario assicurare al risarcimento anche una “tinta afflit‑ tivo punitiva nei confronti dello Stato, a tutto vantaggio, in prima battuta, del singolo stesso, che verrebbe così a godere di una somma di denaro superiore all’entità del pregiudizio subìto e, in seconda battuta, dell’interesse pubblico alla regolare osservanza degli impegni comunitari”. 2 0 1 2 13 – e, quindi non può posticiparsi tale dies, addirittura, alla data del 27 ottobre 1999, come sostenuto dai giudici di legittimità. 1. Analisi della vicenda e degli orientamenti giurisprudenziali più recenti. Per una migliore comprensione della tematica oggetto del presente contributo, pare utile partire da un riepilogo degli aspetti fondamentali della vicenda in esame. 1.1 Principi essenziali in tema di prescrizione del diritto al risarcimento danni derivanti da una ritardata o omessa attua‑ zione di una direttiva non self‑executing. Tali principi sono stati compiutamente formulati dalla sentenza Danske, del 14 marzo 2009 (C‑445/06) della Corte di Giustizia secondo cui: 1. la regolamentazione delle modalità, anche quanto ai ter‑ mini di decadenza o prescrizione, dell’azione risarcitoria da inadempimento di direttiva attributiva di diritti ai sin‑ goli compete agli ordinamenti interni; la disciplina degli Stati membri dev’essere ispirata al principio di equivalenza (che “impone di fissare termini che non siano meno favo‑ revoli di quelli previsti per azioni analoghe”), ed al princi‑ pio di effettività (che “impone comunque che il termine applicato non sia tale da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile ottenere il risarcimento”) 2. “in mancanza di apposita disciplina da parte degli Stati membri … il giudice nazionale può ricercare analogica‑ mente la regolamentazione dell’azione, ivi compresi even‑ tuali termini di decadenza o prescrizione, in discipline di azioni già regolate dall’ordinamento, purché esse rispetti‑ no i principi suddetti [equivalenza ed effettività] e, parti‑ colarmente, non rendano impossibile o eccessivamente gravosa l’azione”; e purché “l’applicazione di un termine di prescrizione che così ne risulti, cioè che derivi dal rife‑ rimento che il giudice nazionale fa ad una disciplina inter‑ na regolamentante altra azione” possa considerarsi suffi‑ cientemente prevedibile da parte dei soggetti interessati, dovendo, dunque, il giudice nazionale procedere necessa‑ riamente a tale apprezzamento; 3. l’eventuale termine di prescrizione può decorrere anche prima della corretta trasposizione della direttiva nell’ordi‑ namento nazionale, se il danno, anche solo in parte, per questo soggetto si è verificato anteriormente. Le direttive della cui attuazione si discute sono le direttive CEE nn. 362/75 e n. 363/75, come trasfuse, coordinate ed integrate nella direttiva n. 82/76. 1.2 Periodo entro il quale l’Italia è stata soggetta al vin‑ colo di recepimento delle direttive e nel quale i medici specia‑ lizzandi avrebbero potuto maturare crediti risarcitori. La corretta trasposizione delle citate direttive, “doveva avvenire entro il 31 dicembre 1982 (art. 16 della direttiva 82/76/Cee)”, ma ad avviso della giurisprudenza “la loro inte‑ grale applicazione, non si è mai verificata nell’ordinamento italiano… Lo Stato Italiano non rispettò tale termine, tanto che venne dichiarato inadempiente dalla Corte di Giustizia con sentenza del 7 luglio 1987, C‑49/86 […] Per un adempi‑ mento pieno sarebbe occorso che lo Stato Italiano avesse dettato disposizioni intese ad attribuire i diritti previsti dalle civile Gazzetta 14 D i r il tu tg o l ei op• ra o gc o es d tu o r 2a 0 c 1 2 i v i l e direttive a coloro che, se le direttive fossero state adempiute entro il 31 dicembre 1982, si sarebbero trovati nelle condizio‑ ni per poterli acquisire e, quindi, ai medici specializzandi che avevano seguito i corsi di specializzazione a partire dal 1o gennaio 1983 e lo avevano fatto con modalità conformi a quanto prevedevano le direttive”. Tale obbligo di adempimento delle direttive, sussistente a far data dal 1o gennaio 1983, è perdurato fino al 20 ottobre 2007, per il susseguirsi delle seguenti fonti normative: – l’art. 44 della direttiva del Consiglio 5 aprile 1993, n. 93/16/Cee, pur abrogando le direttive 75/362 – 363/Cee, nonché quella 82/76/Cee, che le aveva modificate, stabilì che restassero “salvi gli obblighi degli Stati membri relati‑ vi ai termini per il recepimento”, che dunque rimaneva quello del 31 dicembre 1982; – successivamente, l’art. 62 della direttiva 2005/36/CE (re‑ cante – negli artt. 25, 26 – una nuova disciplina dei medi‑ ci specializzati) ha previsto l’abrogazione a partire dal 20 ottobre 2007 (cioè dalla data della sua entrata in vigore) della direttiva 93/16/Cee, e con esso anche dell’art. 44 sopra cit.: ergo dal 20 ottobre 2007 è cessato l’obbligo dello Stato Italiano di adempiere, sia pure tardivamente, le di‑ rettive 75/362/Cee, 75/363/Cee e 82/76/Cee. Ciò premesso: 1. le direttive avrebbero dovuto essere attuate pienamente entro il 31 dicembre 1982, 2. lo Stato Italiano è stato liberato dall’obbligo di attuazione tardiva solo dal 20 ottobre 2007. Da tali premesse consegue che solo i medici specializzandi i quali si trovassero nelle situazioni contemplate dalle direttive nel periodo compreso tra il 1o gennaio 1983 ed il 19 ottobre 2007 avrebbero potuto maturare crediti risarcitori per danni conseguenti al tardivo/non corretto recepimento delle direttive in materia. 1.3 Contratto o illecito aquiliano? Secondo l’orientamento giurisprudenziale più recente, che fa seguito alla sentenza delle SS. UU. n. 9147/2009, la respon‑ sabilità dello Stato Italiano da mancato/tardivo recepimento di una direttiva non self‑executing, deve essere qualificata come contrattuale, da inadempimento di un’obbligazione ex lege, essendo riconosciuta consequenzialmente l’operatività del termine decennale di prescrizione. Si consideri che fino a tale innovativo arresto il diritto vi‑ vente6 qualificava come “aquiliana” la responsabilità dello Stato inadempiente all’obbligo di recepimento delle direttive 6 Cfr. L. BAIRATI, “La riparazione spettante al soggetto danneggiato a seguito di mancato recepimento, nel termine prescritto, di direttiva comunitaria. Ques‑ tioni teoriche ed implicazioni pratiche della sua corretta qualificazione”, Giur. it., 2010, 3, p. 695, nota 9 ss., ad avviso del quale “La prima implicita appli‑ cazione dell'articolo 2043 c.c. a tale fattispecie risale a Cass., Sez. Un., 10 aprile 2002, n. 5125” (per la qual ultima cfr. nota di CIPRIANI, “Sui ricorsi per Cas‑ sazione decisi con due sentenze”. Foro it., 2002, I, pp. 2394 ss.). Quali rilevan‑ ti pronunce favorevoli alla qualificazione della responsabilità in termini aquiliani cfr. Cass. 16 maggio 2003, n. 7630 in R. CONTI, “Azione di responsabilità contro lo Stato per violazione del diritto comunitario. Rimedio concorrente o alternativo all'azione diretta?”. Danno e resp. (2003): 8/9: 836 ss.; Cass., 12 febbraio 2008, n. 3283 (cfr. nota di C. PASQUINELLI “Illecito comunitario del legislatore e art. 2043 c.c.: la Cassazione interviene ancora”. Responsabilità civile e previdenza. LXXIII, 2008, 7/8, pp. 1576 ss.); Cass., 11 marzo 2008, n. 6427 in Mass. Foro It., 2008, pp. 397 ss. Gazzetta F O R E N S E non self‑executing. Tale assunto è testimoniato proprio dalla stessa sentenza delle SS. UU. del 2009 n. 91477, che, con un “inatteso revirement”8 ha sposato la teoria della qualificazio‑ ne della responsabilità contrattuale: “la giurisprudenza della Corte, nelle numerose decisioni rese sulla questione, ricondu‑ ce con assoluta prevalenza 9 il c.d. illecito del legislatore alla fattispecie di cui all’art. 2043 c.c.” (cfr. sent. n. 9147/2009)10. 1.4 Il dies a quo della prescrizione (esclusione del 1o gen‑ naio 1983). La Giurisprudenza (da ultimo le citate sentenze nn. 10813, 10814, 10815 della Corte di Cass., Sez. III) si è a lungo inter‑ rogata su quale debba essere il dies a quo del termine prescri‑ zionale dell’azione risarcitoria da inattuazione delle direttive. Gli orientamenti più recenti escludono che il termine de‑ cennale possa iniziar a decorrere dal 1o gennaio 1983 (giorno seguente al termine entro il quale lo Stato era obbligato al re‑ cepimento), ciò in quanto solo a seguito della sentenza Fran‑ covich (del 19 novembre 1991, C‑6/90 e C‑9/90) è stato con‑ figurato (per la prima volta), quale fatto fonte di un’obbliga‑ zione risarcitoria di uno Stato, l’omesso o tardivo recepimento di una direttiva sufficientemente specifica nel riconoscere ai singoli un diritto: prima di tale data i soggetti danneggiati non avrebbero potuto avere certezza dell’azionabilità di un credito risarcitorio nei confronti dello Stato membro per violazione di una norma comunitaria non self‑executing, ma preordinata all’attribuzione di diritti nei riguardi dei singoli. 7 Per alcune note a Cass., SS. UU., sent. n. 9147/2009 cfr. E. SCODITTI, “La violazione comunitaria dello Stato tra responsabilità contrattuale ed extracon‑ trattuale”, Foro It., 2010, I, pp. 168 ss., L. BAIRATI, op.cit., pp. 693 ss., A. RICCIO, “Responsabilità dello Stato per omessa o tardiva o anomala attua‑ zione di direttive comunitarie”, La responsabilità civile, VII, 2010, 5, pp. 346, A. GIANNELLI, “La responsabilità del legislatore per tardivo recepimento della direttiva, modelli a confronto”, Foro amm. Cons. Stato, 2009, 10, pp. 2280 ss. (analisi che giunge ad inquadrare la pronuncia come una “genera‑ lizzazione” della c.d. “sineddoche dell'obbligazione indennitaria”, mediante un attento esame della sentenza nella sua “pars destruens” “rifiuto del pardigma aquiliano” e della successiva “pars costruens” “il debito dello Stato per man‑ cata trasposizione della direttiva come obbligazione indennitaria”), A. DI MAJO, “Contratto e torto nelle violazioni comunitarie ad opera dello Stato”, Corriere Giur., 2009, 10, p. 1352 ss., C. PASQUINELLI “Le Sezioni Unite e la responsabilità dello Stato legislatore per violazione del diritto comunitario. Un inatteso revirement”. Nuova megiur. civ. Comm., 2009, I, pp. 1018 ss., G. RAPISARDA, “La responsabilità dello Stato per omessa o tardiva attuazione di direttiva comunitaria: l'ultimo approdo delle sezioni unite”. Dir. Comm. Internaz., 2009, pp. 716. 8 C. PASQUINELLI, op.cit. 9 La medesima “assoluta prevalenza” dell'orientamento favorevole alla qualifi‑ cazione “aquiliana” della responsabilità in commento, riconosciuta nella giu‑ risprudenza di legittimità dalle stesse SS. UU. del 2009 (cfr., ex plurimis, D. SATULLO, “La prescrizione dell'azione di risarcimento nei confronti dello Stato per tardiva attuazione di una direttiva comunitaria”, La responsabilità civile, VIII, 2011, 4, p. 254), è evidenziata nelle ricostruzioni dottrinali anche con riguardo alla giurisprudenza di merito antecedente l'arresto delle SS. UU. (cfr. L. FALTONI, “Lo Stato che viola gli obblighi comunitari risarcisce i citta‑ dini in via extracontrattuale: ingiustizia comunitariamente qualificata?”, Re‑ sponsabilità civile e previdenza, 2010, 9, pp. 1871 ss.). Si pensi, ex ceteris, a Trib. Roma, 17 maggio 2010 (in Responsabilità civile e previdenza, 2010, 9, pp. 1859 ss, cfr. nota L. FALTONI, op. cit., pp. 1864 ss.), Trib. Catanzaro, 20 aprile 2009, Trib. Roma, 14 giugno 2004 e Trib. Catania 28 febbraio 2004, entrambe annotate da D. DALFINO. Foro It.., 2004, I, p. 2512. 10 Le SS. UU. erano intervenute già in passato, in ordine al presente contenzioso, con la sent. n. 2203 del 4 febbraio 2005 (cfr. R. CONTI, “Medici specializzan‑ di e vademecum delle S. U. sull'applicazione del diritto comunitario”, Danno e resp., 2005, 10, pp. 961 ss., con la quale si è affermata la giurisdizione ordi‑ naria al riguardo, sostenuta, ancora precedentemente, con la sent. n. 5125 del 10 aprile 2002, in Giur. it., 2002, 12, nonché con nota di CIPRIANI. op. cit.). F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o Dunque, il termine prescrizionale per l’azione risarcitoria esercitabile dai medici specializzandi, secondo tale ragiona‑ mento, non potrebbe iniziare a decorrere da una data antece‑ dente a quella della sentenza Francovich (ad es., non potrebbe il dies a quo essere costituito dalla data in cui i singoli medici abbiano conseguito il proprio diploma – come invece sostenu‑ to da Cass. n. 5842 del 2010 ‑, laddove tale data, pur se poste‑ riore al 31 dicembre 1982, sia antecedente alla sentenza Francovich). Si è addirittura sostenuto “che, essendosi la giurispruden‑ za comunitaria definitivamente assestata, dopo l’irruzione della sentenza Francovich, nei suoi esatti termini soltanto con la sentenza Brasserie du Pécheur, come non manca di rilevare la dottrina quando deve individuare i caratteri dell’obbligo risarcitorio, addirittura solo dalla data di quella sentenza l’obbligo sia insorto nell’ordinamento italiano, con la conse‑ guenza che … Il diritto degli specializzandi … si potrebbe dire sorto addirittura soltanto dall’ottobre del 1996” (cfr. Cass., Sez. III, sent 10813 del 17 maggio 2011). 1.5 Esclusione della giurisprudenza anche delle date di pubblicazione delle sentenze Francovich e Brasserie du Pé‑ cheur quale dies a quo, e qualificazione della condotta ina‑ dempiente dello Stato italiano quale recepimento soggettiva‑ mente parziale delle direttive. Secondo i giudici di legittimità, tuttavia, il diritto al risar‑ cimento, pur dovendosi ritenere sorto solo dopo la sentenza Francovich (o dopo la sentenza Brasserie du Pecheur 11), non iniziò il suo decorso dalla pubblicazione delle sentenze in questione. Infatti, secondo la Corte la fattispecie fonte di danno con‑ sisterebbe nel “comportamento omissivo del legislatore italia‑ no” ed “avrebbe potuto essere eliminato attraverso la sponta‑ nea tenuta da parte dello Stato del comportamento omesso, cioè l’emanazione di una normativa interna che attribuisse il diritto riconosciuto dalla direttiva”; per cui, per tutto il tempo di persistenza di detto inadempimento, la situazione di danno si presenterebbe “non come effetto ormai determinato, ma come effetto determinato de die in die”. La III Sezione della Cassazione ha, inoltre, operato una distinzione tra: – inadempimento parziale “oggettivo” – inadempimento parziale “soggettivo” Il fine di tale distinzione è quello di determinare in modo diverso, secondo il tipo di inadempimento, il dies a quo del termine prescrizionale del risarcimento danni da ritardata attuazione di una direttiva. Si avrebbe il parziale recepimento sul piano oggettivo qualora: “la direttiva, dopo un periodo di inadempimento, viene attuata nei confronti di tutti i soggetti riguardo ai qua‑ li prevede diritti e, tuttavia, tali diritti vengono riconosciuti solo in parte sul piano oggettivo, cioè o – essendo previsti più diritti – ne vengono riconosciuti alcuni e non altri, o il diritto o i diritti vengono riconosciuti in modo insufficiente”. La Corte ha ritenuto, inoltre, che: “nell’ipotesi in questio‑ ne la successione ad una situazione di inadempimento totale, 11 Corte. Giust. CE, 5 marzo 1996, cause riunite C‑46/ 93 e C‑48/ 93, Brasserie du Pêcheur e Factortame, in Racc. I 1631, nonché cfr. Foro it., 1996, 4, pp. 185 ss. 2 0 1 2 15 che poneva gli interessati in una condizione di mera attesa, stante l’assoluta incertezza sul se lo Stato avrebbe adempiuto tardivamente oppure no, di una nuova situazione di parziale adempimento e, quindi, di inadempimento parziale, si presta ad essere intesa come comportamento ragionevolmente (an‑ che se non necessariamente) significativo di una volontà dì non provvedere per il residuo. Per tale ragione si giustifica che il soggetto interessato debba agire a tutela del residuo obbligo risarcitorio e, quindi, che inizi la decorrenza del termine di prescrizione decennale. Tale residuo obbligo risar‑ citorio si presta, cioè, ad essere considerato come effetto ormai consolidato e, quindi, da considerarsi alla stregua degli effetti dannosi istantanei riguardo alla condotta dell’inadempiente e non più permanentemente determinati da detta condotta”. Al contrario, si avrebbe recepimento parziale soggettivo quando la legge nazionale “riconosca il diritto, naturalmente sempre per previsioni generali riferite al trovarsi essi in deter‑ minate situazioni comuni, soltanto a taluni di quei soggetti (o meglio a talune categorie di essi versanti nelle stesse condizio‑ ni fattuali) e non agli altri”. Nel caso dei medici specializzandi la Corte ha qualificato la condotta statale quale adempimento soggettivamente par‑ ziale delle direttive comunitarie. Secondo la Corte di Cass., il d.lgs. n. 257 cit., infatti, “rap‑ presentando un adempimento parziale delle note direttive soltanto per i soggetti specializzandi a partire dall’anno acca‑ demico 1991‑92, lasciò del tutto immutata la situazione dei soggetti che, successivamente al 31 dicembre 1982 e fino all’anno accademico 1990‑1991, si erano venuti a trovare in una condizione la quale, in presenza di una già avvenuta at‑ tuazione della direttiva, li avrebbe resi destinatari dei diritti riconosciuti dalle direttive e trasfusi nel provvedimento legi‑ slativo interno attuativo” (cfr. Cass., Sez. III, sent. n. 10813 del 17 maggio 2011). Ad avviso dei giudici di legittimità, di norma, un recepi‑ mento parziale soggettivo, a differenza di quello parziale og‑ gettivo, lascerebbe immutata la situazione fonte di danno per i soggetti esclusi, sicché per costoro l’illecito continuerebbe a protrarsi per tutto il tempo di persistenza dell’inadempimento (illecito permanente). 1.6 Ipotesi in cui anche l’inadempimento parziale sogget‑ tivo dell’obbligo di recepimento della direttiva si traduce in un illecito istantaneo: individuazione del dies a quo nel il 27 ot‑ tobre 1999. Secondo la Cassazione, vi sarebbe un solo ordine di ipote‑ si in cui anche un inadempimento parziale soggettivo dell’ob‑ bligo di recepimento della direttiva si tradurrebbe in un illeci‑ to istantaneo, dal quale inizierebbe, dunque, a decorrere il termine prescrizionale di risarcimento danni da ritardato re‑ cepimento della direttiva. Si tratterebbe dell’ipotesi in cui il legislatore nazionale, nel recepire la direttiva, non si limiti ad escludere in toto una parte dei soggetti considerati dalla stessa, bensì, in riferimento a tale parte di soggetti, escluda solo coloro i quali, pur rien‑ tranti nella fattispecie astratta prefigurata dalla direttiva, non rientrino anche in quella ulteriore situazione fattuale richiesta dalla legge nazionale non pretesa dalla direttiva. In tale ipotesi, come in caso d’inadempimento parziale civile Gazzetta 16 D i r il tu tg o l ei op• ra o gc o es d tu o r 2a 0 c 1 2 i v i l e oggettivo, i soggetti esclusi potrebbero “ragionevolmente” supporre che la loro estromissione sia definitiva, nel senso che il legislatore abbia inteso escluderli per sempre dal recepimen‑ to della direttiva. Secondo la Cassazione, nella vicenda dei medici specializ‑ zandi solo a partire dalla data dell’entrata in vigore della l. 370/1999 sarebbe stata chiara la scelta del legislatore italiano di escludere per sempre dal recepimento della direttiva i medi‑ ci specializzandi immatricolati dall’a.a. 1983/1984 all’a.a. 1990/1991, con la sola eccezione di quelli destinatari di talune sentenze passate in giudicato del TAR Lazio. L’ art. 11 della suddetta l. n. 370/99 ha ammesso, dunque, parte di tali soggetti al trattamento previsto per gli altri (lad‑ dove fosse ricorsa l’ulteriore condizione fattuale ‑non contem‑ plata dalla direttiva‑ dell’essere destinatari delle suddette sentenze) configurando, secondo il ragionamento dei giudici di legittimità, una ipotesi di recepimento parziale soggettivo. Ragion per cui, essendo la legge de qua entrata in vigore il 27 ottobre 1999, per tutti gli specializzandi esclusi, il ter‑ mine prescrizionale decennale per chiedere il risarcimento danni dovrebbe decorrere, secondo la Corte, da tale data, e costoro avrebbero dovuto agire giudizialmente o compiere atti stragiudiziali interruttivi della prescrizione entro i1 27 ottobre 2009. 1.7 Sintesi Riassumendo quanto si è fin qui esposto, la giurispruden‑ za più recente: – ha qualificato la responsabilità dello Stato da tardivo o non corretto recepimento di una direttiva quale responsa‑ bilità contrattuale da violazione di un’obbligazione ex lege, ritenendo consequenzialmente operante un termine di prescrizione decennale; – ha riconosciuto che possono considerarsi ammessi a tale tutela risarcitoria tutti i medici specializzati che, nel pe‑ riodo dal 1o gennaio 1983 al 20 ottobre 2007, avrebbero potuto trovarsi nelle condizioni previste dalle direttive; – ha ritenuto che il dies a quo di detto termine di prescrizio‑ ne non potesse essere costituito né dalla data di entrata in vigore del primo decreto di recepimento (d.lgs. n. 257/1991), né dalla data di pubblicazione delle sentenze della Corte di Giustizia Francovich e Brasserie du Pécheur; – per individuare tale dies a quo ha formulato un principio secondo il quale nel caso di adempimento parziale di una direttiva il dies a quo del termine prescrizionale dei credi‑ ti risarcitori sia dato dal giorno in cui i soggetti interessa‑ ti (al corretto e tempestivo recepimento di una direttiva) possano interpretare tale recepimento parziale come ina‑ dempimento definitivo del legislatore nazionale, vale a dire quale “comportamento ragionevolmente (anche se non necessariamente) significativo di una volontà dì non provvedere per il residuo”; – ha poi operato una preliminare distinzione tra inadempi‑ mento/adempimento parziale oggettivo e soggettivo, se‑ condo la quale solo l’adempimento parziale oggettivo costituirebbe un “comportamento ragionevolmente (an‑ che se non necessariamente) significativo di una volontà di non provvedere per il residuo”, per cui esso solo costi‑ tuirebbe un illecito istantaneo, al verificarsi del quale inizierebbe immediatamente a decorrere il termine pre‑ Gazzetta F O R E N S E scrizionale; mentre l’adempimento parziale soggettivo, consentendo ai soggetti esclusi di supporre ragionevolmen‑ te che il legislatore intenda completare in futuro l’opera di recepimento nei loro confronti, non può che qualificarsi come illecito permanente, che non si esaurisce fino a quando appunto perduri l’inadempimento, vale a dire fino a quando il legislatore non completi il recepimento sul piano soggettivo, con la conseguenza che fino a tale ultimo momento il termine prescrizionale non inizierebbe a cor‑ rere; – ha ritenuto che vi è un unico caso in cui anche l’inadem‑ pimento parziale soggettivo integri un illecito istantaneo, ed è il caso in cui il legislatore nazionale, nel recepire la direttiva, non si limiti ad escludere in toto una parte dei soggetti considerati dalla stessa, bensì, in riferimento a tale parte di soggetti, escluda solo coloro i quali, pur ri‑ entranti nella fattispecie astratta prefigurata dalla diretti‑ va, non rientrino anche in quella ulteriore situazione fat‑ tuale richiesta dalla legge nazionale non pretesa dalla direttiva; – ha qualificato il d.lgs. n. 257/1991 quale inadempimento parziale soggettivo ed ha individuato alla data del 27 ot‑ tobre 1999 (entrata in vigore della legge n. 370/1999) il momento in cui tale illecito – potendo essere ragionevol‑ mente percepibile dai soggetti interessati come adempi‑ mento parziale definitivo ‑, è divenuto istantaneo, e, dunque, a tale data ha ancorato il dies a quo del termine prescrizionale dei crediti risarcitori dei medici specializ‑ zandi esclusi; – ha, quindi, dedotto che i medici specializzandi possano azionare crediti maturati in relazione al periodo di frequen‑ tazione di corsi di specializzazione compresi dal 1o genna‑ io 1983 all’a.a. 1990/1991, purché abbiano agito giudizial‑ mente o compiuto atti stragiudiziali interruttivi del termi‑ ne (decennale) di prescrizione entro i1 27 ottobre 2009. 2. Critica dell’orientamento espresso da giudici di legitti‑ mità che ha fissato il dies a quo del termine prescrizionale al 27 ottobre 1999 ed ha qualificato come contrattuale la re‑ sponsabilità dello Stato. 2.1 Illogicità della distinzione tra inadempimento parzia‑ le oggettivo e soggettivo ai fini della qualificazione come istantaneo o permanente dell’illecito statuale. In primo luogo, pare opinabile sul piano logico, ancor prima che giuridico, la distinzione operata dalla citata giuri‑ sprudenza tra ipotesi di mancato/tardivo adempimento delle direttive secondo che esse riguardino l’oggetto o i soggetti destinatari delle stesse. Infatti, come nel caso di un inadempimento parziale sul piano oggettivo, di fronte ad uno Stato che con un primo atto di recepimento riconosca solo alcuni dei diritti contemplati da una direttiva, il soggetto interessato ha ben ragione di preoccuparsi e di ritenere che il legislatore nemmeno in futu‑ ro estenderà il recepimento a quei diritti che non ha immedia‑ tamente trasposto nell’ordinamento interno; non si vede perché si debba valutare in modo più “ottimistico” un com‑ portamento d’inadempimento parziale di tipo “soggettivo”. I giudici di legittimità avendo qualificato il d.lgs. n. 257/1991 come atto di recepimento parziale delle direttive F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o in commento, hanno ritenuto, in modo illogico, che detto d. lgs., in quanto operante per i soli immatricolati dall’a.a. 1991/1992 a seguire, potesse interpretarsi come un primo atto di recepimento, da completare, in un secondo momento, a favore degli altri immatricolati (quelli dal 1o gennaio 1983 all’a.a. 1990/1991), dapprima esclusi, estendendo loro la stessa normativa o introducendone una analoga. Ipotizziamo pure che possa dirsi corretta la qualificazio‑ ne del d.lgs. n. 257/1991 quale atto di recepimento parziale soggettivo (vale a dire recepimento della direttiva non per tutti gli immatricolati dal 1o gennaio 1983, ma solo per gli immatricolati dall’a.a. 1991/1992 a seguire). Ebbene, secon‑ do la Corte di Cassazione, gli immatricolati ante a.a. 1991/1992 avrebbero potuto “ragionevolmente” interpreta‑ re tale decreto come atto normativo significativo di una vo‑ lontà di escludere dal recepimento gli immatricolati ante a.a. 1991/1992 solo nell’immediato e non come volontà di esclu‑ derli definitivamente anche per il futuro: da ciò conseguireb‑ be, si ripete secondo la Corte, che gli immatricolati ante a.a. 1991/1992 avrebbero potuto “ragionevolmente” confidare in un futuro completamento dell’opera di recepimento nei loro confronti. Pare evidente il vizio logico dell’iter argomentativo dei giudici di legittimità: nella denegata ipotesi in cui il d.lgs. del 1991 fosse da intendersi come recepimento parziale soggetti‑ vo, come si può “ragionevolmente” supporre che il legislato‑ re avrebbe introdotto in futuro una disciplina che lo stesso avrebbe già deciso di non introdurre nel presente? L’obiezione appare fondata in quanto i soggetti esclusi erano quelli immatricolatisi dal 1o gennaio 1983 all’a.a. 1990/1991 e non quelli dall’a.a. 1991/1992 a seguire. Infatti, premesso che spesso il legislatore, com’è ragione‑ vole e doveroso, è guidato nelle scelte normative anche da ragioni di bilancio, laddove avesse deciso (come supposto dalla Corte) di operare un primo recepimento parziale sog‑ gettivo (ossia attuare le direttive prima per una parte della totalità dei medici specializzandi interessati al recepimento e poi, ad es., con successivo decreto, per la restante), avrebbe certamente provveduto ad introdurre una normativa che avesse avuto riguardo, innanzi tutto, agli immatricolati dal 1o gennaio 1983 all’a.a. 1990/1991, le cui poste risarcitorie avrebbero dovuto essere soddisfatte con maggiore urgenza, proprio perché sorte in tempi più risalenti e dunque accompa‑ gnate da un cospicuo ammontare di interessi sugli stessi ma‑ turatisi negli anni, con aggravio per le finanze dello Stato. Dunque, anche nell’ipotesi in cui il d.lgs. n. 257/1991 in‑ tegrasse un parziale recepimento delle direttive, si ritiene che gli immatricolati esclusi dalla normativa di recepimento del 1991 non avrebbero potuto avere alcun ragionevole motivo per sperare che il legislatore avrebbe loro esteso in futuro un trattamento economico negato nel presente e che certamente sarebbe lievitato col passare degli anni (ad es. da computarsi per i primissimi immatricolati a far data 1o gennaio 1983). In altre parole, appare ragionevole supporre che già dall’en‑ trata in vigore del d.lgs. n. 257/1991, gli specializzandi esclusi avrebbero dovuto percepire con certezza la definitività della scelta di esclusione operata dal legislatore nazionale e, quindi, facendo buon governo del corretto principio espresso dai giudi‑ ci di legittimità, è dunque dalla data del 31 agosto 1991 (dies a quo) che dovrebbe decorrere il termine di prescrizione delle 2 0 1 2 17 poste risarcitorie (in tal senso si esprime anche Cass., Sez. Lav., 3 giugno 2009, n. 1281412). Quindi, contrariamente a quanto sostenuto dalla recente giurisprudenza di legittimità, non era necessario attendere l’intervento del 1999 (art. 11 della l. n. 370), che ha esteso la normativa interna del d.lgs. n. 257/1991 agli immatricolati dopo il 31 dicembre 1982 e fino all’a.a. 1990/1991 laddove fosse ricorsa l’ulteriore condizione fattuale (non contem‑ plata dalla direttiva) dell’essere destinatari di talune sentenze passate in giudicato del TAR Lazio: tale norma, non solo non ha fatto altro che esplicitare l’ovvio (nel 1991 si era scelto, in via definitiva, di non estendere la nuova normativa agli immatrico‑ lati ante a.a. 1991/1992), ma, per altro verso, si è limitata a riconoscere la forza propria di un giudicato amministrativo. 2.2 Tutela del legittimo affidamento riposto dallo Stato nei precedenti della Corte di Cassazione, alla luce dei quali la responsabilità dello Stato da parziale recepimento di una di‑ rettiva non self‑executing doveva qualificarsi come aquiliana e quale dies a quo del relativo termine prescrizionale doveva individuarsi, al massimo, la data dell’entrata in vigore del D.lgs. n. 257/1991. Pur ritenendosi che le obiezioni logiche fin qui esposte siano di per sé sole già sufficienti a contestare il recente orien‑ tamento giurisprudenziale, occorre peraltro ridimensionarne la persuasività, ai fini dell’individuazione della corretta regula iuris della vicenda, in quanto, si ritiene che tale orientamento potrebbe avere rilevanza solo per i giudizi introdotti successi‑ vamente alla sua pronuncia: infatti, in ossequio agli orienta‑ menti di giurisprudenza consolidata, in caso di mutamenti giurisprudenziali, deve essere tutelato il principio di certezza del diritto, nonché il diritto di difesa delle posizioni giuridiche soggettive. 12In senso difforme dalla precedente sent. n. 9147/2009 delle SS. UU., la Cass., Sez. Lavoro, con la sent. n. 12814 del 3 giugno 2009, ha affermato la respon‑ sabilità aquiliana dello Stato ed ha individuato come dies a quo del termine quinquennale di prescrizione la data di entrata in vigore del primo decreto in‑ terno di recepimento: “Trattandosi di azione di risarcimento del danno, la prescrizione è quinquennale ed inizia a decorrere dal momento in cui il diritto può essere fatto valere. Tale momento non coincide con l'emanazione della direttiva, se la stessa non è immediatamente applicabile; né con il termine as‑ segnato agli stati per la trasposizione della fonte comunitaria nel diritto interno, perché anche a quel momento il soggetto privato non è in condizioni di conoscere quale sia il contenuto del diritto che gli viene negato e l'ammontare del relativo risarcimento. Può invece individuarsi nel momento in cui entra in vigore la normativa di attuazione interna della direttiva Europea: è questo il momento in cui il soggetto può far valere il diritto al risarcimento del danno, perché è in quel contesto che egli viene a conoscere il contenuto del diritto at‑ tribuito ed i limiti temporali della corresponsione. In altri termini, posto che con il d.lgs. n. 257/1991 il soggetto è in grado di conoscere l'ammontare dei compensi stabiliti, il soggetto tenuto ad erogarli e la non retroattività della corresponsione, a quel momento è in grado di esercitare il diritto al risarci‑ mento del danno. Si veda al riguardo Corte di Giustizia della Comunità Euro‑ pea 25 luglio 1991 "Emmot": finché una direttiva non è stata correttamente trasposta, non è ipotizzabile alcuna possibilità per i privati di avere piena conoscenza dei loro diritti” (sent. n. 12814/2009 in La responsabilità civile. VII, 2010, 3, pp. 186). Quanto alla stessa giurisprudenza di merito anch'essa si è ampiamente espres‑ sa, pure di recente, nel senso che, laddove si configuri un illecito statuale da tardivo/inesatto recepimento della direttiva, si debba ritenere integrato un mero illecito “istantaneo”. Si segnala, in maniera particolare, Trib. di Milano sentenza del 22 marzo 2012, Trib. Napoli, sent. n. 1792 del 13 febbraio 2012 secondo cui “il termine prescrizionale deve ritenersi decorrere dalla conclusio‑ ne di ciascun anno di corso”, Trib. Firenze, ord. del 6 luglio 2012 secondo cui “l'inadempimento dello Stato ha sicuramente natura permanente … la prescri‑ zione decennale può essere al più tardi fatta decorrere dal '91(sentenza Franco‑ vich)”; ed anche Trib. Catanzaro, 2 dicembre 2011 che da continuità ad un precedente dello stesso Tribunale del 20 aprile 2009. Si veda anche la conforme recente sent. del Trib. di Nola n. 24284 del 3 novembre 2011. civile Gazzetta 18 D i r il tu tg o l ei op• ra o gc o es d tu o r 2a 0 c 1 2 i v i l e Sul punto si consideri che prima della formazione dell’orien‑ tamento sottoposto a critica, nella giurisprudenza della Corte di Cassazione13 e, quindi, nel diritto vivente, il dies a quo della prescrizione di crediti risarcitori quali quelli azionati nel presen‑ te contenzioso era, in linea generale, individuato in una data non successiva a quella di entrata in vigore del primo decreto interno di recepimento, il d.lgs. n. 257/1991 (31 agosto 1991)14. Ebbene, ove nel caso in esame si ritenesse configurabile un cd. recepimento soggettivamente parziale, l’evento lesivo sa‑ rebbe rappresentato – non “dall’impossibilità di esercitare il diritto riconosciuto dal legislatore comunitario, a causa dell’inadempimento dello Stato membro”15, ma – dal provve‑ dimento di recepimento soggettivamente parziale, che usando l’ordinaria diligenza, e certamente secondo “ragionevolezza”(per le ragioni esposte al par. 2.1), non poteva non intendersi quale chiara ed inequivocabile volontà del legislatore nazionale di non estendere la normativa ad una parte dei medici specializ‑ zandi (ossia quelli frequentanti nel periodo dal 1o gennaio 1983 all’anno accademico 1990/1991). Peraltro, questa opzione ermeneutica trova conforto negli stessi principi generali espressi dalla giurisprudenza consolidata della Corte di Cassazione16, secondo cui la prescrizione decorre 13 Come si è già evidenziato nella precedente nota n. 12, in senso difforme dalla sent. n. 9147/2009 delle SS. UU., si è posta la Cass., Sez. Lavoro, con la sent. n. 12814 del 3 giugno 2009 (individuante come dies a quo del termine quinquen‑ nale di prescrizione la data di entrata in vigore del primo decreto interno di recepimento) e la piú recente Cass. 10 marzo 2010 n. 5842 (cfr. Foro It., 2011, 3, I, p. 862), la quale, anche se in un obiter dictum, individua il dies a quo del termine prescrizionale (decennale) e lo fa coincidere con la data del “consegui‑ mento del diploma di specializzazione non conforme alle prescrizioni comuni‑ tarie”. 14 Quanto alla giurisprudenza di merito si segnala, in maniera particolare, Trib. Catanzaro, 20 aprile 2009 (cfr. nota 12). Secondo tale giudice di merito “la responsabilità in cui incorre lo Stato per il fatto del Legislatore, che attui in modo inesatto la direttiva comunitaria scaduta, non configura un illecito per‑ manente e, pertanto, la prescrizione decorre dall’entrata in vigore della norma‑ tiva interna che traspone, in maniera infedele, il comando comunitario. Da quel momento in poi, il cittadino comunitario può far valere il suo diritto risarcito‑ rio e, conseguentemente, decorre il termine di prescrizione di cui all’art. 2947 c.c. (v. Tribunale Roma, 2 aprile 2005)”. 15 D. Satullo, “La prescrizione dell'azione di risarcimento nei confronti dello Stato per tardiva attuazione di una direttiva comunitaria”, La Resp. Civ. 8, 2011, 4, pp. 2589. L'A., reputando che “la conoscenza effettiva o conoscibilità dell'evento lesivo di‑ pende dalla conoscenza effettiva o conoscibilità del diritto e, quindi, della di‑ rettiva, quale fonte del diritto medesimo”, e ritenendo non predicabile una conoscibilità legale di una direttiva non attuata da parte del privato (“non tanto e non solo perché non vi è un adeguato sistema pubblicitario, ma perché il singolo non è destinatario dell'atto normativo”), conclude che “ove l'effetti‑ va conoscenza della direttiva non sia avvenuta anteriormente all'atto di recepi‑ mento ovvero della stessa il convenuto non riesca a darne prova, il termine di prescrizione decorre dall'attuazione, in quanto solo da tale momento è garan‑ tita la conoscibilità legale del diritto attribuito”. In realtà, si può osservare, in senso critico, che se, come sostenuto dall'A., un par‑ ziale recepimento delle direttive non sarebbe idoneo a garantire la conoscibilità legale della fonte (direttiva comunitaria) del diritto, non si vede come tale co‑ noscibilità potrebbe dirsi assicurata in caso di corretto e completo recepimento. Infatti, anche in questa seconda, auspicata, ipotesi, permarrebbe un rapporto di alterità tra la fonte dall'obbligo statuale di recepimento (la direttiva) e lo strumento di adempimento di tale obbligo (l'atto normativo interno), alterità rafforzata dalla libertà dei modi in cui la direttiva può essere recepita dallo Stato nazionale, ossia dei modi in cui se ne possono attuare i fini, la qual cosa non è senza conseguenza nell'enucleazione della fisionomia del riconosciuto diritto. Ragion per cui, anche dinanzi ad un recepimento parziale, sul piano oggettivo o soggettivo, il privato ha la possibilità di operare un raffronto, per così dire, tra mezzo e fine, apprezzare l'idoneità del provvedimento normativo interno ad operare un pieno e corretto recepimento e, laddove tale giudizio abbia esito negativo, percepire l’“ingiustizia” del pregiudizio sofferto a cagione della con‑ dotta statuale. 16In particolare, cfr. Cass., SS. UU. n. 576/2008 in Foro It., 2008, I, pp. 453 ss.. Gazzetta F O R E N S E ai sensi dell’art. 2947 c.c. non dal momento in cui il terzo (nel caso che ci occupa, lo Stato) determina la modificazione che produce danno all’altrui diritto o dal momento in cui l’evento dannoso si manifesta all’esterno, bensì da quando il danno viene percepito (usando l’ordinaria diligenza) quale ingiusta conseguen‑ za di un comportamento doloso o colposo del detto terzo: “solo da questo momento il danneggiato è nelle condizioni di eserci‑ tare il diritto con conseguente decorso della prescrizione”17 Se è consolidata l’opinione giurisprudenziale per la quale, in caso di danno rimasto occulto, il termine di prescrizione inizia a decorrere solo dal momento dell’esteriorizzazione di esso, del pari non deve omettersi di considerare come, “non di meno, ex art. 2935 c.c. la prescrizione inizi a decorrere dal giorno in cui il diritto può esser fatto valere e tale decorrenza non possa essere ostacolata da un mero impedimento di fatto, quali sono l’ignoranza del titolare circa l’esistenza del diritto o l’incuria dello stesso nell’accertarsene”18. Si deve, quindi, fare salvo l’affidamento riposto dallo Stato italiano circa la fissazione al 31 agosto 1991 del dies a quo del termine prescrizionale dei crediti risarcitori vantati nei suoi confronti, dovendosi tutelare detto affidamento in nome del rango costituzionale del diritto di difesa e della certezza del diritto, invocabili tanto dai creditori, quanto dai debitori, tanto in veste di attori o di convenuti, siano essi soggetti pub‑ blici o privati. L’orientamento giurisprudenziale che qui si contesta, rifiu‑ tando di fissare il dies a quo al 31 agosto 1991, infatti, preclu‑ derebbe allo Stato di opporre l’eccezione di prescrizione, pre‑ clusione derivante da un mero mutamento della giurispruden‑ za di legittimità, peraltro verificatosi in tempi di gran lunga successivi a quelli in cui si svolgevano le condotte controverse, sottoposte allora ad opposte interpretazioni giurisprudenziali in termini di prescrizione, precisamente individuanti alla data del 31 agosto 1991 il dies a quo del termine di prescrizione. Premesso, dunque, che il dies a quo va ancorato saldamente al 31 agosto 1991, un ragionamento analogo varrà in ordine alla qualificazione del tipo di responsabilità: si deve, infatti, sottolineare che, all’epoca dei fatti per cui è causa (ed in gene‑ rale per tutto il periodo dal 1o gennaio 1983 al 20 ottobre 2007), il diritto vivente (come detto supra par. 1.3) qualificava come “aquiliana” la responsabilità dello Stato inadempiente all’obbli‑ go di recepimento delle direttive non self‑executing. 2.2.1 (Segue) Il giudizio positivo sulla correttezza della con‑ dotta statuale ai sensi degli artt. 1175 e 1227, comma 2, c.c. Si è evidenziato come i medici specializzandi immatricola‑ tisi prima dell’a.a. 1991/1992 di certo avessero contezza del diritto vivente ratione temporis applicabile (vale a dire delle norme sulla prescrizione – rimaste ad oggi testualmente im‑ mutate – come interpretate ed applicate dalla prevalente giuri‑ sprudenza dell’epoca cui risalgono le condotte controverse): dunque, avrebbero dovuto compiere atti giudiziali o stragiudi‑ ziali di interruzione della prescrizione entro cinque anni (re‑ sponsabilità aquiliana) dal 31 agosto 1991 (entrata in vigore del d.lgs. n. 257/1991). Ebbene, la condotta dei medici specializzati rimasti inerti per anni risulta non scusabile, in primis, ex art. 1175 c.c., in 17 D. Satullo, op.cit., p. 257. 18 Cass., Sez. II, sent. n. 1547 del 28 gennaio 2004 in Danno e resp., 2004, pp. 389 ss.. F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o virtù del quale entrambe le parti di un rapporto obbligatorio (quindi anche di quello nascente dalla violazione di un’obbli‑ gazione ex lege e che veda come debitore/responsabile lo Stato) sono obbligate ad un comportamento improntato al canone della correttezza e buona fede, espressione del principio soli‑ daristico di cui all’art. 2 Cost. Com’è pacifico la clausola generale impone un comporta‑ mento corretto e improntato al canone della buona fede ed esige, quanto al creditore, che egli tenga tutte le condotte ido‑ nee ad impedire che il debitore possa protrarre comportamen‑ ti idonei a causare nuovi danni od ad aggravare quelli già in precedenza arrecati al creditore. Infine, l’art. 1227 c.c., disciplinante il “concorso del fatto colposo del creditore”, dispone, al comma 2o, che “il risarci‑ mento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potu‑ to evitare usando l’ordinaria diligenza”. Se quanto meno i medici esclusi avessero interrotto la pre‑ scrizione entro il 31 agosto 1996, agendo giudizialmente sia pure in tempi relativamente recenti, in tal caso, sì, sarebbe stata imputabile solo al comportamento scorretto dello Stato l’eventuale maturazione di interessi sulla somma capitale do‑ vuta quale risarcimento danni o borsa di studio, giacché sa‑ rebbe stata una scelta dello Stato lasciare in una condizione di incertezza il rapporto controverso e rischiare, in caso di futu‑ ra sentenza di condanna, di dover ristorare anche gli interessi medio tempore maturatisi sulla somma originariamente dovu‑ ta a titolo di risarcimento danni. Quindi, solo laddove i medici esclusi, entro il 31 agosto 1996, avessero interrotto il decorso della prescrizione con atto stragiudiziale, o agito processualmente contro lo Stato‑debi‑ tore, avrebbero potuto pretendere tutti gli ulteriori danni la‑ mentati per non aver disposto delle somme previste dal decre‑ to del 1991, in altre parole, tutti gli interessi sulla somma ri‑ chiesta a titolo di risarcimento danni o di borsa di studio. 2.2.2 (Segue) Il giudizio positivo sulla correttezza della condotta statuale e l’inescusabilità delle omissioni difensive dei medici alla luce del mutamento giurisprudenziale in tema di prescrizione, in ragione della ratio e della natura di preclu‑ sione processuale di quest’ultima. Infine, va sottolineato che la prescrizione vale a tutelare la certezza delle situazioni giuridiche soggettive (che sarebbe violata laddove si consentisse, dopo un silenzio protrattosi per anni, se non per decenni, di avanzare antiche pretese ormai sopite) e/o comunque a sanzionare la negligenza insita nel comportamento del creditore che non abbia esercitato il pro‑ prio diritto entro il preciso termine previsto dalla legge19: 19 Cfr. G. AZZARITI e G. SCARPELLO, “Della prescrizione e della decadenza”, in A. SCIALOJA, G. BRANCA (cur.). Commentario del Codice Civile, Bolo‑ gna, 1977, p. 203: “Molteplici sono stati i motivi addotti a fondamento razi‑ onale dell'istituto: una tacita rinunzia del titolare, una sanzione inflitta per il mancato esercizio del diritto, la difficoltà di ristabilire a notevole distanza di tempo la verità giuridica, la presunzione di legittimità dello stato di fatto attuale, la tutela della buona fede, il carattere temporaneo dei rapporti giuridici ed altri ancora. Ma è da ritenere, in conformità della più accreditata dottrina, che il fondamento dell'istituto debba ricercarsi nella insopprimibile esigenza sociale di assicurare la certezza nei rapporti giuridici, motivo questo che assorbe in sé parecchi degli altri che sono stati invocati”. Detta ratio dell'istituto (certezza dei rapporti giuridici) esprime una finalità di ordine pubblico (v. Cassazione civile, Sez. III, 18 gennaio 2005, n. 900, Vita not., 2005, pp. 979 ss.), resa palese dall'inderogabilità della disciplina legale della prescrizione di cui all'art. 2936 2 0 1 2 19 qualora, pertanto, i medici specializzati non avessero agito nei tempi suddetti, non può essere impedito allo Stato supposto debitore di avanzare un’eccezione di prescrizione, in virtù di un mutato orientamento interpretativo sulla durata del termi‑ ne prescrizionale e sul dies a quo dello stesso, a meno di non voler tradire le citate molteplici rationes per le quali l’istituto della prescrizione è previsto e regolato nel nostro ordinamento giuridico. Quale “difesa del presente di fronte al passato”20, la pre‑ scrizione, peraltro, opera non sul merito della pretesa eserci‑ tata, da cui prescinde, bensì opera, sia pure ex post, sul piano meramente processuale, determinando un effetto preclusivo21, più che estintivo22, della pretesa. Ebbene, secondo autorevole dottrina23 “non appare corretto … attribuire alla prescrizione un’efficacia semplicemente estin‑ tiva”, dovendosi piuttosto “attribuire all’istituto un’efficacia preclusiva”: in qualsiasi ipotesi in cui si eccepisca la prescrizione, c.c. (che vieta, dunque, non solo le clausole pattizie dirette a prolungare i ter‑ mini di prescrizione, ma anche quelle che siano dirette ad abbreviarli), cfr. G. AZZARITI e G. SCARPELLO, op. cit., p. 232. Ai fini della soluzione delle questioni poste dalla vicenda in esame, tutto quan‑ to premesso “vuol dire che l’illecito comunitario va coordinato con le esigenze di ordine pubblico dello Stato membro e siffatte esigenze legittimano l’applica‑ zione di norme comuni (applicate, cioè, agli altri illeciti interni) che ragionevol‑ mente e razionalmente impongano, ai fini di tutela, da parte del singolo, il ri‑ spetto di specifici e chiari oneri quali quello di ricorrere al Giudice entro cinque anni dal manifestarsi del nocumento”, così Trib. di Catanzaro (cfr. nota n. 12). In conclusione la prescrizione risulta finalizzata a “troncare le incertezze che rendono sterili o fiacche le energie del lavoro” (Cfr. VIVANTE, Trattato di di‑ ritto commerciale, IV, Milano 1929, p. 644). 20 DENBURG, PANDETTE, trad. it. Cicala, I, 1, Torino, 1906, p. 443. 21 “… la nota caratteristica dell'efficacia preclusiva deve ravvisarsi in ció, che l'esenzione del debitore dalla pretesa della controparte” trova nella prescrizio‑ ne “la loro causa esclusiva” sia nel caso che la pretesa creditoria sia sorta effi‑ cacemente o meno, che sia intervenuta una causa di estinzione dell'obbligazio‑ ne o meno, così P. Vitucci, “La Prescrizione. Tomo primo. Artt. 2934, 2940”, in Cur. P. Schlesinger. Il Codice Civile – Commentario. Milano, 1990, pp. 37. 22Nelle c.d. “prescrizioni presuntive” (artt. 2954, 2596), invece, “il decorso del tempo agisce sui diritti ivi menzionati con efficacia puramente estintiva, così che della prescrizione quelle ipotesi “non hanno che il nome””, così P. Vitucci. op. cit., pp. 267 ss.. L'A. usa le “parole degli antichi commentatori”, Mortara e Azzariti, L'esercizio delle azioni commerciali e la loro durata, nel Codice di commercio commentato, a cura di Bolaffio, Rocco e Vivante, Torino 1933, p. 307. Le norme del codice civile disciplinanti le c.d. prescrizioni presuntive hanno riguardo a rapporti la cui attuazione sovente non è accompagnata da quietanza, per cui è la legge a presumere che, decorso un certo lasso temporale, piuttosto breve, il pagamento sia stato eseguito. Trattandosi, tuttavia, di una mera presunzione di avvenuto pagamento, chi la eccepisce, vedrà rigettata detta eccezione, non solo laddove ammettesse in giudizio che l'obbligazione non si è estinta, ma anche qualora contesti, sempre in giudizio, che il debito sia sorto o il relativo valore pecuniario. Le stesse circostanze, ove fossero introdot‑ te da chi ha proposto una prescrizione vera e propria, non pregiudicherebbero minimamente l'accoglimento della relativa eccezione, giacché lo stesso si fonda sul mero decorso del tempo. 23 Cfr. P. Vitucci. op. cit., pp. 267 ss.. In particolare, l'A. analizza quale effetto possa avere la prescrizione nelle tre ipotesi in cui la stessa può essere opposta: “a) se l'attore esercita un diritto che non è mai sorto: b) se l'attore esercita un diritto che è sorto e non si è estinto, ma lo esercita tardivamente; c) se l'attore esercita un diritto che è sorto, ma si è già estinto, ad es., per adempimento. Si vede subito che un'efficacia estintiva potrebbe essere assegnata correttamente alla prescrizione soltanto nel secondo caso, ove è proprio l'eccezione del conv‑ enuto a rimuovere gli effetti della situazione giuridica fatta valere. Nel primo caso, infatti, non potrebbe ravvisarsi alcun fenomeno estintivo, non essendo mai sorta la situazione da estinguere, mentre nel terzo l'estinzione andrebbe ascritta semmai ad una causa diversa dall'invocata prescrizione”. Tuttavia, nota l'A. che “nemmeno nel secondo caso, deve però indagarsi … se il diritto esercitato fosse sorto o se si fosse estinto” la “completa … identità delle tre ipotesi” sarebbe dimostrata dal fatto che “un'efficacia semplicemente estintiva … presupporrebbe in ogni caso l'operatività di una precedente situazione, mentre è proprio il giudizio su tale operatività che perde rilievo davanti all'eccepita prescrizione”. civile Gazzetta 20 D i r i t t o e p r o c e d u r a infatti, scopo di quest’ultima è sempre quello di “troncare con semplicità le controversie tardivamente instaurate, prescinden‑ do da ogni giudizio sulla fondatezza della pretesa fatta valere”, ed “il giudice che accoglie l’eccezione di prescrizione non deve compiere alcun accertamento ulteriore: deve limitarsi a respin‑ gere la domanda”. Ciò non vuol dire che non sia rimasta “teo‑ ricamente aperta” la questione della reale esistenza del diritto controverso, ma significa solo che tale questione è “praticamen‑ te del tutto sterile”, in quanto, in concreto, “superata”. Infatti, anche se ex art. 2934 c.c. è disposto che ogni dirit‑ to si “estingue” per la prescrizione quando il titolare non lo esercita per il tempo determinato dalla legge, il successivo art. 2940 c.c. non ammette la ripetizione del pagamento spon‑ taneo di un debito prescritto, ripetizione, invece, ammessa per il pagamento dell’indebito. Ciò dimostra che il diritto prescrit‑ to (più che estinguersi) perde la propria forza, in quanto la prescrizione consente al debitore di bloccare l’iniziativa pro‑ cessuale del creditore24. Peraltro, “uniche cause per le quali il potere d’invocare la prescrizione può consumarsi sono: la rinunzia espressa o ta‑ cita … e la cosa giudicata, quando l’interessato subisce l’ac‑ certamento giudiziale del diritto colpito da prescrizione senza invocarla”25. Quindi, il debitore può scegliere di non avvalersi della prescrizione (il che accade quando non avanza tempestivamen‑ te la relativa eccezione in giudizio o qualora ex art. 2937 c.c. vi rinunzi), ma non è consentito al giudice sostituirsi al debi‑ tore in questa scelta, di fatto sottraendogli in modo indiretto la possibilità di avvalersi della (ormai perfezionatasi) prescri‑ zione, mediante un mutamento giurisprudenziale (operante la detta traslazione del termine finale della prescrizione di ben tredici anni), per giunta intervenuto a distanza di svariati anni dal momento in cui risultava già compiutamente esauritasi e consolidatasi l’intervenuta prescrizione. Tutto ciò premesso, di certo, non s’ignora il carattere non vincolante dei precedenti giurisprudenziali, rientrando l’ordi‑ namento giuridico italiano tra quelli c.d. di civil law: i carat‑ teri propri dell’attività giudiziaria, vale a dire la soggezione del giudice solo alla legge (art. 101 Cost.) e l’obbligo di motivazio‑ ne (art. 111 Cost.), comportano il carattere non vincolante delle decisioni giudiziali e la conseguente piena discrezionalità del giudice di mutare la propria giurisprudenza. Tuttavia, le decisioni giurisprudenziali, pur non annovera‑ te tra le fonti del diritto, sono dotate di una persuasività, che 24 Così F. Gazzoni. Manuale di diritto privato. XIII Ed.. Napoli, 2007. pp.110‑111. Dunque, mentre i modi di estinzione dell'obbligazione (quali, ad es., l'adempimento, la compensazione, la confusione) impediscono il verifi‑ carsi di un ulteriore fatto estintivo (uno stesso debito, come non può essere acquistato due volte, così non può estinguersi due volte), la prescrizione non estingue il diritto, in quanto ad essa il diritto sopravvive, al punto che può essere soddisfatto spontaneamente dall'obbligato: ciò che il creditore perde qualora si sia compiuta la prescrizione è la possibilità di far valere utilmente in giudizio quel credito. Contra, per un'analisi degli argomenti favorevoli all'effetto estin‑ tivo della prescrizione cfr. P. Vitucci op. cit.. pp. 25 ss.. In particolare, dai sostenitori della teoria dell'efficacia estintiva si evidenzia che presupposto per la prescrizione di un diritto sia la stessa esistenza del diritto de quo, senza la quale non potrebbe apprezzarsi alcuna inerzia del titolare. Gli AA., aderendo all'orientamento espresso dal Carnelutti (Carnelutti. “Appunti sulla prescriz‑ ione”. Riv. dir. proc. Civ., 1933, I, pp. 3249 e “Tutela civile dei diritti”, Riv. dir. proc. Civ., 1943, I, pp. 1012), obiettano che la prescrizione, per essere eccepita, necessita del mero esercizio di una pretesa, a prescindere che detta pretesa possa dirsi “fondata o non fondata”, cfr. Ibidem, p. 29. 25 Cfr. G. Azzariti e G. Scarpello, op. cit., pag. 240 c i v i l e Gazzetta F O R E N S E può reputarsi un valore normativamente posto, discendendo da una serie di disposizioni ordinarie, tese a garantire, a loro volta, principi e diritti costituzionali (si pensi, ad es., al prin‑ cipio di solidarietà sociale ex art. 2 Cost., a quello di ugua‑ glianza ex art. 3 Cost., al diritto di difesa ex art. 24 Cost, al principio del giusto processo di cui all’art. 111 Cost.). In particolare, per quanto è d’interesse nel caso di specie, la persuasività delle decisioni della Corte di Cassazione, tito‑ lare della funzione nomofilattica, discende dall’essenzialità del proprio ruolo nella costruzione del c.d. “diritto vivente”: “nel sistema costituzionale delle fonti la disposizione è considera‑ ta parte di un testo non ancora conformato dal lavorio inter‑ pretativo, mentre la norma, in un’accezione più ristretta di quella comunemente adoperata, è un testo già sottoposto ad elaborazione interpretativa rilevante” (cfr. Cass., Sez. Un., sent. n. 7194/199426). Spetta, quindi, al giudice trarre una “norma” da una “di‑ sposizione”, ciò, peraltro, mediante un’attività interpretativa “adeguatrice” della stessa non solo alla Costituzione, ma an‑ che, in ambito sovranazionale, al diritto comunitario ed alla disciplina della CEDU. Non mancano norme che consentono di supportare la te‑ oria sulla persuasività “forte” del precedente, quali: – l’art. 65 ord. giud. (r.d. 30 gennaio 1941, n. 12), sul quale si sono raccordati l’art. 363 cod. proc. civ., da cui la possi‑ bilità di una pronuncia della Cassazione “nell’interesse della legge” al solo fine di rimuovere l’efficacia di prece‑ dente alle sentenze, e l’art. 384 cod. proc. civ., sull’enun‑ ciazione del “punto di diritto”, al quale il giudice del rinvio deve uniformarsi; – gli artt. 374 cod. proc. civ. e 618 cod. proc. pen., sulla pronuncia a Sezioni Unite per l’eliminazione, preventiva o successiva, di contrasti giurisprudenziali; – l’art. 393 cod. proc. civ., sull’estinzione del giudizio con conservazione degli effetti della sentenza della cassazio‑ ne; – l’art. 118, comma terzo, disp. att. cod. proc. civ., sul divie‑ to di citare la dottrina, ma non già i precedenti. Tutte queste disposizioni, nel loro complesso, mirano a garantire una stabilità delle norme giuridiche e una prevedi‑ bilità degli effetti della decisione sulla sfera individuale, la c.d. certezza del diritto, che si ricollega ai principi di solidarietà sociale ex art. 2 Cost., ai principi ex art. 3 Cost. di imparzia‑ lità ed eguaglianza (che impongono di trattare situazioni analoghe in modo analogo), al diritto di difesa ex art. 24 Cost. (che perderebbe di effettività laddove si esponesse la parte processuale a mutamenti giurisprudenziali repentini ed im‑ prevedibili, tali da determinare decisioni, per così dire, “a sorpresa”), allo stesso principio del “giusto processo” ex art. 111 Cost. In altre parole, tutte queste norme ed il valore della certez‑ za del diritto di cui sono espressione, lungi dal costituire un argomento a sostegno della vincolatività del precedente, cer‑ tamente obbligano il giudice quanto meno a prenderlo in considerazione, anche al fine, che è qui di interesse, della qua‑ lificazione, come corrette o meno, delle condotte delle parti rispetto alla situazione controversa. 26 Cass., SS. UU., sent. n. 7194 del 2 agosto 1994 in Foro It., 1994, I, pp. 3410. F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o 3. Valutazioni conclusive Anche alla stregua delle suddette disposizioni, oltre che di quelle sostanziali già richiamate, può dirsi tutelabile l’affidamento che lo Stato possa aver riposto nella consolidata interpretazione delle norme sulla prescrizione applicabili al caso di specie, qual’è stata enucleata nel diritto vivente coevo alle condotte dibattute? Una giurisprudenza decennale e con‑ solidata nel fissare una certa responsabilità come “aquiliana” ed un dato giorno come dies a quo del relativo termine pre‑ scrizionale possono condizionare un debitore nel fargli ritenere prescritto il proprio debito? Può una giurisprudenza consoli‑ data in un certo periodo storico considerarsi uno dei param‑ etri di riferimento cui il giudice debba aver riguardo per ap‑ prezzare se ragionevole e corretto sia stato l’affidamento di un debitore nella prescrizione del proprio debito? La risposta positiva a questi quesiti trova conferma nella giurisprudenza che non esita a ritenere che, in ipotesi di muta‑ menti giurisprudenziali in materia di disposizioni processuali, non possa darsi seguito retroattivamente ad un precedente che abbia come effetto di precludere un’attività difensiva, am‑ messa alla stregua del precedente orientamento. In caso di mutamento giurisprudenziale tra gli strumenti immediati individuati dalla giurisprudenza di legittimità e di merito per rendere effettiva la tutela della parte processu‑ ale – suscettibile di essere pregiudicata dal nuovo orientam‑ ento – vi sono quelli della rimessione in termini (ove si tratti ricompiere o di rinnovare l’attività processuale omessa o viz‑ iata) e quello di ritenere tempestivo e corretto l’originario comportamento tenuto dalla parte. Nel caso di specie non può che ritenersi corretto il compor‑ tamento dello Stato italiano, che legittimamente ha confidato nella prescrizione del proprio debito ed al quale non può pre‑ cludersi la proposizione dell’eccezione di prescrizione, medi‑ ante una, ingiustificabile, rimessione in termini di quei medici specializzandi che non sono stati diligenti nell’azionare tem‑ pestivamente le proprie pretese. Pertanto, aderendo all’orientamento giurisprudenziale proposto dai giudici di legittimità, si darebbe ingresso ad un vero e proprio abuso dell’azione processuale, consentendo a coloro i quali non hanno agito diligentemente a tempo debito, ma abbiano fortunosamente compiuto atti interruttivi della prescrizione entro il 27 ottobre 2009, di avanzare poste credi‑ torie, rimaste a lungo tempo sopite. Di conseguenza, si ammetterebbe, inoltre, un ingiustifi‑ cato arricchimento ai danni dello Stato: costoro sarebbero ammessi a lucrare tutti gli interessi sulla somma capitale do‑ mandata maturatisi nell’ulteriore lasso di tempo concesso loro quale ingiustificata e immeritata rimessione in termini. Di questo lungo tempo trascorso dall’immatricolazione al soddisfo gli unici responsabili sarebbero i medici rimasti si‑ lenti quando avrebbero potuto agire, non certo lo Stato, che prescindendo dalla eventuale fondatezza delle pretese, ha po‑ tuto in tutti questi anni legittimamente e ragionevolmente confidare, per dictum giurisprudenziale della Corte di legit‑ timità, sull’intervenuta prescrizione delle stesse. Il revirement introdurrebbe, in sintesi, una preclusione difensiva ai danni dello Stato, che quest’ultimo non poteva prevedere, rispetto alla quale, quindi, non ha potuto orientare e conformare a tempo debito le proprie condotte, per sottrarle ad eventuali addebiti. 2 0 1 2 21 Non si comprende, quindi, come l’orientamento giurispru‑ denziale in esame possa essere stato considerato da alcuni dei primi commentatori quale “un passo in avanti”, addirittura, “verso la definitiva sistemazione delle problematiche relative al risarcimento dei medici specializzandi che avevano frequen‑ tato i relativi corsi tra il 1982 ed il 1991 senza ottenere alcuna forma di remunerazione e, quindi, lamentavano il pregiudizio conseguente alla mancata trasposizione, da parte dello Stato italiano, delle disposizioni dettate dalla direttiva 82/76/Cee che tale beneficio prevedeva”27. Peraltro, rappresenta un dato di fatto, non una mera opin‑ ione, che l’incertezza sull’applicabilità o sulla portata di regole giuridiche causi un incremento delle controversie dinanzi ai giudici e, a valle, inefficienze di funzionamento dei sistemi giurisdizionali ed allungamento dei tempi di definizione delle cause28. Si aggiunga, inoltre, che vicende come quella in esame, dilatanti di più di un decennio i termini prescrizionali di poste risarcitorie, quali quelle dei medici specializzatisi ante a.a. 1990/1991, che dovrebbero considerarsi esaurite, hanno, per di più, l’effetto di alimentare ulteriormente questo contenzioso. In conclusione, per le ragioni esposte, si crede di poter fondatamente affermare che con questo orientamento della Corte di legittimità non solo comporti più di un passo indi‑ etro, ma ha, per giunta, dato nuova linfa ad un contenzioso che, in ragione delle maturate prescrizioni, sembrava avviarsi ad un fisiologico esaurimento. Tanto la Cassazione ha fatto in virtù di ragionamenti che, lungi dal fornire una definitiva sistemazione alle problematiche sussistenti in subiecta materia, ne ha generate di nuove, risultando, peraltro, doppiamente criticabile: da un lato, in quanto ingiustificatamente lesiva del legittimo affidamento riposto dallo Stato nel precedente di‑ ritto vivente, dall’altro, in quanto tale orientamento si è rive‑ lato come pericoloso e pregiudizievole fonte di diseconomie, anche per il sistema giudiziario. 27 A. Diana, A. Palmieri, Corte di Cassazione. “Sezione III Civile, sent. 17 mag‑ gio 2011, n. 10813”. Foro It., 2011, 6, I, p. 1676. 28 Cfr. F. Zaccaria (2003). “La perdita della certezza del diritto: riflessi sugli equilibri dell'economia e della finanza pubblica” in Diritti, regole, mercato Economia pubblica ed analisi economica del diritto. XV Conferenza SIEP Pavia, Università, 3‑4 ottobre 2003. http://www3.unipv.it/websiep/wp/211.pdf del 15 novembre 2011 “Una recente indagine in chiave economica delle modalità di funzionamento della giustizia civile in Italia ha rilevato che il tempo per la definizione di cause civili è in media di 8 mesi in Germania, di 12 in Francia, 14 in Gran Bretagna e 36 mesi nel nostro paese. Questo avviene, si noti, in una situazione di sostanziale parità del rapporto numerico fra magistrati in servizio e cittadini e in una situazione di sostanziale eguaglianza delle spese per la giusti‑ zia. La lunghezza dei processi in Italia è spiegabile, oltre che con motivi “azien‑ dali” ed organizzativi dell’operatore giudiziario, anche con la rilevazione della persistente incertezza del diritto che rende necessaria la proposizione di un nu‑ mero elevato di azioni anche di difficile e complessa analisi e decisione”. civile Gazzetta 22 D i r i t t o ● Licenziamento antisindacale: rilevanza delle dinamiche del caso per l’esclusione dell’insubordinazione e del danno alla produttività Nota a Corte di Appello di Potenza, sez. lav., 23 febbraio 2012, n. 170 ● Ida Sorrentino Dott.ssa in Giurisprudenza e p r o c e d u r a c i v i l e Gazzetta F O R E N S E Corte di Appello di Potenza, Sez. lav. sentenza 9 marzo 2012, n. 170 Pres. Ferrone; Est. Marotta Diritto di sciopero – Limiti di esercizio del diritto di sciopero La libertà di sciopero, per rimanere nell’ambito corrispon‑ dente al suo oggetto, di libertà di non fare, deve svolgersi in modo da non ledere altre libertà costituzionalmente garantite, come quella spettante a quanti non aderiscono allo sciopero ovvero quella del datore di lavoro di iniziativa economica. Condotta antisindacale – Limiti di esercizio del diritto di sciope‑ ro – danno alla produzione e danno alla produttività Non vi è più quel collegamento esonerativo con l’esercizio del diritto di sciopero quando la lotta sindacale sia trascesa da una mera astensione collettiva dal lavoro a manifestazioni di violenza, minaccia ed intimidazione nei confronti di altri lavoratori o del datore di lavoro ovvero abbia inciso diretta‑ mente sulla integrità degli impianti e sulla incolumità degli impiegati addettivi ovvero ancora sia consistita in un com‑ portamento materiale positivo di ostacolo al lavoro degli altri dipendenti, mediante fisica ostruzione alle manovre dei mez‑ zi. In tali casi, la condotta rileva ai fini della violazione degli obblighi costituenti il contenuto del rapporto di lavoro. Licenziamento per giusta causa – Accertamento elemento psico‑ logico – Necessità – Lesione grave rapporto di fiducia tra dipen‑ dente e datore di lavoro – Sussistenza Per stabilire l’esistenza della giusta causa di licenziamen‑ to occorre in concreto accertare se – in relazione alla qualità del rapporto intercorso fra le parti, alla posizione che in esso abbia rivestito il lavoratore, alla qualità ed al grado di fiducia che quel rapporto comportava – la specifica mancanza com‑ messa dal dipendente, considerata non solo nel suo contenu‑ to obiettivo, ma anche nella sua portata soggettiva, specie con riferimento alle particolari circostanze e condizioni in cui è posta in essere, ai suoi modi, ai suoi effetti, ed all’intensità dell’elemento psicologico, risulti idonea a ledere in modo grave, così da farla venir meno, la fiducia che il datore di la‑ voro ripone nel proprio dipendente, e tale quindi, da esigere sanzioni non minori di quella (massima) espulsiva. (Omissis) Svolgimento del processo Con sentenza nr. 475/2011, resa in data 14/7/2011, il Tri‑ bunale di Melfi, in composizione monocratica ed in funzione di giudice del lavoro, accoglieva l’opposizione proposta dalla S. A.T.A. S. p.A., con ricorso del 19/8/2010, nei confronti della FIOM‑CGIL, avverso il decreto ex art. 28 della legge n. 300/1970, reso dal Tribunale di Melfi in data 9/8/2010 e, per l’effetto, revocava l’opposto decreto ordinando la pubbli‑ cazione del dispositivo sui quotidiani “Il Corriere della Sera” e “La Repubblica”; le spese processuali restavano compensate tra le parti. Con ricorso depositato in data 21/7/2010 la FIOM‑CGIL di Potenza aveva azionato il procedimento sommario di cui all’art. 28 della legge n. 300/1970, chiedendo all’adito Tribu‑ nale di Melfi di accertare e dichiarare il carattere antisindaca‑ le della condotta posta in essere da S. A.T.A. S. p.A., in rela‑ F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o zione ai licenziamenti intimati ai lavoratori L. A., B. G. e P. M., e, quindi, di ordinare alla società convenuta la cessa‑ zione del denunciato comportamento e la rimozione degli effetti dei disposti licenziamenti mediante l’immediata rein‑ tegrazione dei citati lavoratori. A sostegno di tali richieste, l’O.S. ricorrente aveva dedot‑ to che i licenziamenti de quibus erano, in primo luogo, fon‑ dati su una contestazione inveritiera (e quindi illegittimi, poiché privi di giusta causa), atteso che – diversamente da quanto sostenuto dall’azienda e da quest’ultima posto a base delle contestazioni – la movimentazione dei carrelli AGV dall’area picking delle UTE n. 3 e n. 4, durante lo sciopero del 7/7/2010, non era stata interrotta dalla presenza dei lavora‑ tori licenziati (che, in tesi, ne avrebbero ostruito la corsa), bensì sospesa dai responsabili UTE, in ragione dell’adesione degli operai alla mobilitazione. La sanzione, inoltre, ad avviso della ricorrente avrebbe avuto carattere antisindacale, in quanto irrogata a due dele‑ gati (L. e B.) e ad un iscritto (P.) FIOM, a causa del ruolo da questi esercitato in azienda in occasione delle mobilitazioni che avevano interessato lo stabilimento di Melfi, e, in parti‑ colare, dell’attività sindacale dai medesimi svolta nel corso dello sciopero tenutosi in data 7/7/2010. Si era costituita la S. A.T.A. S. p.A. ed aveva impugnato quanto ex adverso dedotto, chiedendo il rigetto del ricorso. Con decreto del 9/8/2010 il Tribunale di Melfi, all’esito della fase sommaria, aveva dichiarato l’antisindacalità dei licenziamenti intimati da S. A.T.A. S. p.A., in data 13‑14/7/2010, ai lavoratori L. A., B. G. e P. M., e, per l’effet‑ to, ordinato a S. A.T.A. S. p.A. la immediata reintegra degli stessi nel proprio posto di lavoro; aveva, altresì, ordinato la pubblicazione del dispositivo, a cura e spese della società re‑ sistente, sui quotidiani “Il Corriere della Sera” e “La Repub‑ blica”. Il giudice della fase sommaria aveva, in particolare, rite‑ nuto che contraria alla prospettazione dell’azienda fosse la circostanza, emersa dall’istruttoria, che per rendere nuova‑ mente operativo il carrello era stato necessario un ripristino manuale, laddove, se la causa del blocco fosse stata la presen‑ za dei lavoratori licenziati sul percorso del passaggio del carrello (con rilevamento della stessa da parte del radar del veicolo), non vi sarebbe stata alcuna necessità di tale opera‑ zione; una volta eliminato l’ostacolo, il veicolo sarebbe, infat‑ ti, ripartito automaticamente. Aveva, così, escluso la sussi‑ stenza, dal punto di vista oggettivo, della condotta come contestata dall’azienda. In ogni caso, aveva ritenuto che po‑ tesse essere escluso, in capo ai lavoratori licenziati, l’elemento soggettivo del dolo, nel senso di deliberata volontà di impedi‑ re il transito degli AGV e di arrestare, così, la produzione aziendale, ed evidenziato che gli stessi, sentendosi minacciati, attraverso contestazioni all’apparenza incomprensibili, nell’esercizio di un loro diritto costituzionale (era in atto uno sciopero) e stante la particolare concitazione del momento, avevano “trascurato” di considerare che la loro condotta potesse oggettivamente essere causativa di un blocco della produzione, pensando prioritariamente a difendersi. Tale ri‑ costruzione, ad avviso del giudicante, era stata corroborata dal fatto che dall’istruttoria svolta era emerso che, nel corso della accesa discussione tra gli scioperanti ed i responsabili aziendali, questi ultimi mai avevano prospettato ai lavoratori 2 0 1 2 23 la tesi che il carrello potesse essere bloccato a causa di un precedente contatto con un ostacolo, essendosi invece limita‑ ti a contestare direttamente la posizione dei lavoratori. Quan‑ to alla antisindacalità degli irrogati provvedimenti, aveva ri‑ tenuto che gli stessi – in quanto diretti contro attivisti e mili‑ tanti della FIOM, organizzazione notoriamente protagonista, a seguito di determinate scelte di politica industriale e di or‑ ganizzazione del lavoro operate dal gruppo FIAT (v., in par‑ ticolare il c.d. “accordo di Pomigliano”), di una serrata criti‑ ca sindacale nei confronti di tutte le società facenti capo al gruppo medesimo – fossero idonei a conculcare il futuro se‑ reno esercizio del diritto – costituzionalmente tutelato – di sciopero e a limitare l’esercizio dell’attività sindacale. Avverso tale decreto, con ricorso depositato in data 19/8/2010, S. A.T.A. S. p.A. aveva proposto opposizione, deducendo che il Giudice diprime cure aveva erroneamente valutato gli esiti dell’attività istruttoria, seppur sommariamen‑ te svolta. Aveva, in particolare, rilevato la manifesta e radica‑ le incongruità e contraddittorietà della motivazione in ordine ai fatti controversi e decisivi per il giudizio (fallace interpre‑ tazione della contestazione – addebito dell’impedimento al transito dell’AGV e non del blocco iniziale dello stesso – in‑ congrua ed erronea valutazione delle condotte dei lavoratori licenziati – consapevolezza degli stessi in ordine ai motivi della contestazione – deliberato impedimento al transito dell’AGV – sussistenza dell’elemento soggettivo). Aveva dedot‑ to la piena legittimità e proporzionalità dei provvedimenti irrogati. La FIOM‑CGIL si era costituita in giudizio ed aveva chie‑ sto il rigetto dell’opposizione. Espletata ulteriore prova testimoniale ed acquisita nuova documentazione in corso di giudizio, rigettata con ordinanza del 21/1/2011 la richiesta avanzata dalla FIOM‑CGIL di autorizzazione al deposito di: 1) copia DVD della registrazio‑ ne della trasmissione televisiva “Annozero” del 2/10/2010, 2) copia delle trascrizioni giurate delle registrazioni telefoniche, 3) scheda Sim dell’utenza telefonica mobile intestata al B., 4) telefono cellulare del B., 5) n. 2 fotografie ritraenti il conte‑ nuto di un messaggio sms; 6) copia dell’articolo apparso su “Il Quotidiano” del 16/1/2011. Erano state, poi, rigettate, con successiva ordinanza del 7/5/2011, le richieste della FIOM‑CGIL di accesso sul luogo di lavoro e di acquisizione di n. 4 fotografie riproducenti i luoghi ove si erano svolti i fatti. Quindi la causa era stata decisa in senso favorevole alla società opponente. Il giudice dell’opposizione aveva ritenuto di escludere ogni intento persecutorio o antisindacale da parte dell’azienda ed a carico dei lavoratori licenziati, evidenziando che i provve‑ dimenti di recesso erano stati la logica conseguenza di com‑ portamenti che, travalicando i limiti dello sciopero, erano sconfinati nell’aperta violazione dei più comuni obblighi di diligenza, fedeltà, obbedienza, correttezza e buona fede e nella plateale negazione della gerarchia aziendale. Aveva rile‑ vato, in particolare, che le modalità di protesta poste in atto da B., L. e P., pur se con alcune differenziazioni iniziali, oltre ad essere illegittime da un punto di vista strettamente giuri‑ dico, erano state sin da subito percepite come tali sindacal‑ mente anche da tutti gli altri manifestanti, tra cui alcuni rappresentanti di altre sigle sindacali, i quali si erano disso‑ ciati spostandosi ai bordi del percorso dell’AGV ed invitando civile Gazzetta 24 D i r i t t o e p r o c e d u r a i tre a fare altrettanto e, successivamente, avevano preso le distanze dal documento, sottoscritto la stessa notte in cui si erano verificati i fatti, contenente la dichiarazione di corretto svolgimento della protesta. Ritenuta accertata, dunque, l’ille‑ gittimità della condotta dei tre lavoratori e l’estraneità di essa all’ambito dello sciopero e ritenuta, altresì, la sussistenza di un danno grave per l’azienda determinato dal blocco della produzione riconducibile alla condotta esclusiva di B., L. e P., aveva reputato che si fosse fuori da ogni ipotesi di discrimi‑ nazione rilevante a norma dell’art. 28 dello statuto dei lavo‑ ratori ed aveva, in conseguenza, revocato il decreto opposto. Avverso tale pronuncia interponeva appello la FIOM‑CGIL di Potenza con ricorso depositato in data 19/10/2011, censu‑ rando la sentenza impugnata per: “Errore di diritto in rela‑ zione ai denunciati vizi formali del licenziamento per viola‑ zione della procedura di cui all’art. 14 dell’accordo intercon‑ federale del 18 aprile 1966”; “Errore di diritto in ordine al mutamento del contenuto della contestazione disciplinare ed alla valenza del principio di immutabilità della motivazione del licenziamento”; “Travisamento dei fatti per come emersi dall’istruttoria e documentati, mancata considerazione di fatti rilevanti incontestabili”; “Errata valutazione delle risul‑ tanze istruttorie”; “Vizi in procedendo in relazione alla fase istruttoria del processo relativamente alle decisioni sulla am‑ missione dei mezzi di prova e alla illegittima riduzione della lista testimoniale della parte opposta oggi appellante”. Insi‑ steva per l’accoglimento delle richieste istruttorie invano formulate innanzi al primo giudice e concludeva per la rifor‑ ma dell’impugnata sentenza con rivalsa di spese. Emesso il decreto presidenziale ex art. 435 c.p.c., notifi‑ cato in uno all’atto introduttivo alla controparte, si costituiva la S. A.T.A. S. p.A. resistendo alle avverse deduzioni e conclu‑ dendo per il rigetto dell’appello e la conferma dell’impugnata sentenza. Con ordinanza collegiale del 19/1/2012 veniva disposta l’acquisizione di documentazione. Alla odierna udienza comparivano i procuratori delle parti che riportatisi ai rispettivi scritti difensivi discutevano la causa che veniva decisa come da dispositivo letto in udienza. Motivi della decisione Con il primo motivo di gravame deduce l’appellante la sussistenza di un errore di diritto in relazione ai denunciati vizi formali dei licenziamenti, per violazione della procedura di cui all’art. 14 dell’Accordo interconfederale del 18/4/1966. Sostiene che il primo giudice ha risposto in modo “troppo sbrigativo” al contestato rilievo secondo il quale il datore di lavoro non avrebbe fatto “seguire” la notifica dei licenziamen‑ ti all’associazione sindacale alla comunicazione ai singoli la‑ voratori. Censura l’approccio formalistico risultante dalla decisione ed evidenzia che detta ultima comunicazione fu fatta (non prima ma) contestualmente all’altra, “tant’è che i lavoratori hanno appreso del loro licenziamento dall’associa‑ zione sindacale”. Il motivo è infondato. La norma pattizia invocata dall’appellante testualmente prevede: “1. I membri di commissione interna ed i delegati di impresa in carica ed uscenti, fino ad un anno dalla cessazione dalla carica, non possono essere licenziati o trasferiti senza il c i v i l e Gazzetta F O R E N S E nulla osta delle organizzazioni sindacali territoriali che rap‑ presentano rispettivamente il lavoratore interessato e l’azien‑ da le quali si pronunceranno in merito, dopo un esame con‑ ciliativo fatto su richiesta dell’organizzazione dei lavoratori, entro sei giorni dalla notifica fatta dalla associazione dei datori di lavoro a quella dei lavoratori; quest’ultima notifica segue la comunicazione fatta dall’azienda al lavoratore inte‑ ressato ed alla propria organizzazione. Il licenziamento o il trasferimento deve essere comunicato con forma scritta al lavoratore, il quale ha diritto di chiederne la motivazione. 2. Se il nulla‑osta viene concesso o comunque decorso il termine di cui al numero precedente senza che sia stato richiesto l’esa‑ me conciliativo, il provvedimento aziendale diviene operan‑ te…”. Si osserva, innanzitutto, che l’Accordo Interconfederale del 18/4/1966, sottoscritto per la costituzione ed il funziona‑ mento delle commissioni interne, rimasto in vigore solo da un punto di vista formale – visto che la successiva legge n. 300/1970 non ha sostituito le rappresentanze sindacali aziendali (di origine legale, art. 19) alle commissioni interne (di origine contrattuale), prevedendole, separatamente, en‑ trambe (art. 4, 6 e 22), affidando alle seconde solo funzioni eventuali e sussidiarie (nell’ipotesi di mancata costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali) ed assicurando alcu‑ ne garanzie processuali sia ai dirigenti delle rappresentanze che ai candidati membri delle commissioni interne (art. 18, comma 4, e art. 22) – così Cass. n. 7603 del 28/7/1990, id. n. 6366 del 16/05/2000 ‑, è stato recepito dall’art. 6 del C.C.N.L. per le lavoratrici ed i lavoratori addetti all’industria metalmeccanica privata. Con tale ultima disposizione pattizia le parti si sono impegnate all’osservanza, nei confronti dei componenti delle Rappresentanze sindacali unitarie di cui all’art. 5 del medesimo C.C.N.L., limitatamente al periodo di durata dell’incarico, della tutela prevista dal suddetto art. 14 dell’Accordo Interconfederale del 18/4/1966. Il dato testuale è, però, nel senso che l’inefficacia del licen‑ ziamento (che è una inefficacia di tipo convenzionale e, dun‑ que, costituisce mero inadempimento contrattuale e non le‑ gale, con la conseguente inapplicabilità – nel caso di diretta impugnativa da parte del lavoratore – dell’art. 18 dello Statu‑ to dei lavoratori che, disciplinando l’istituto della reintegra‑ zione, è previsione eccezionale, con ambito di operatività ben delimitato) è posto in relazione alla mancanza del nulla osta da parte delle organizzazioni sindacali territoriali, non anche alla posteriorità della notifica a queste ultime dell’atto espul‑ sivo rispetto alla comunicazione al lavoratore interessato. Tale ultima scansione temporale non è in alcun modo sanzio‑ nata. Peraltro, la ratio della previsione di cui all’art. 14 dell’A.I. del 18/4/1966, secondo cui il nulla osta in caso di trasferimen‑ to o di licenziamento di rappresentanti di r.s.a. deve essere richiesto dopo l’intimazione del licenziamento, è quella di garantire all’organizzazione del lavoratore una compiuta co‑ noscenza dei motivi addotti per il trasferimento o il licenzia‑ mento, e ciò al fine dell’esame conciliativo (tra le contrapposte associazioni di categoria) nei termini previsti – si veda, in tal senso, Cass. n. 7105 del 6/7/1990 che interpreta la disposizio‑ ne suddetta alla luce della previsione di cui al secondo com‑ ma del medesimo art. 14 secondo cui il provvedimento azien‑ dale diviene operante in caso di concessione del nulla‑osta F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o medesimo e quando sia comunque scaduto, sempre che sia stato richiesto l’esame conciliativo, il termine all’uopo previsto ‑. Pertanto si tratta di una previsione a tutela delle prerogati‑ ve dell’organizzazione ai fini del suddetto esame conciliativo (che qui non sono in discussione) e non (direttamente) di quelle del lavoratore. Con il secondo ed articolato motivo deduce l’appellante la sussistenza di un errore di diritto in ordine al mutamento del contenuto della contestazione disciplinare ed alla valenza del principio di immutabilità della motivazione del licenziamento. Sostiene che, a fronte di una contestazione chiaramente diret‑ ta a censurare l’intenzionale blocco dei carrelli, il primo giu‑ dice non ha fatto corretta applicazione dei principi giurispru‑ denziali circa l’immutabilità della motivazione del licenzia‑ mento, non avvedendosi del fatto che vi era stato un “muta‑ mento del contenuto della contestazione disciplinare” tale da pregiudicare lo stesso diritto di difesa. Evidenzia che, nel corso del processo, vi è stato un aggiustamento e mutamento progressivo della posizione aziendale così da indurre il primo giudice a ritenere contestato il fatto di aver ostacolato “la solerte ripresa della produzione” a fronte dell’iniziale addebi‑ to del “blocco dell’attività produttiva”. Rileva che, a fronte di una motivazione divenuta “di grave insubordinazione”, il primo giudice non ha tenuto in debito conto la circostanza che lo sciopero è una legittima causa di sospensione del rap‑ porto, durante la quale l’obbligo di obbedienza non può che essere sospeso (al contrario di altri obblighi, quali ad esempio la fedeltà), ovvero comunque risultare attenuato, ed evidenzia che tale omissione ha inciso sul giudizio di proporzionalità come operato. Rileva che erroneamente il primo giudice ha fatto riferimento ad un “comportamento oltraggioso in con‑ trasto con l’etica comune”, assolutamente estraneo alla con‑ testazione disciplinare, ed ugualmente in modo erroneo ha valutato fondata ed adeguata, quale causa di licenziamento, la “pubblica minaccia di B. di estendere tale forma di protesta a tutto il montaggio”, ignorando, al riguardo, la circostanza, documentalmente provata, che l’unico atteggiamento provo‑ catorio era stato quello del gestore operativo T. verso gli scioperanti e non viceversa. Il motivo, per la parte relativa al dedotto mutamento della motivazione del licenziamento (e riservato al prosieguo l’esame della censura afferente il giudizio di proporzionalità nonché di quelle più specificamente attinenti agli ulteriori aspetti della ritenuta “graveinsubordinazione”), non è, in sé, fondato, anche se sollecita alcune precisazioni che si rivele‑ ranno determinanti per la comprensione dell’intera vicenda oltre che per l’esame delle ulteriori censure mosse alla senten‑ za de qua. Come correttamente evidenziato da parte appellata, il principio posto a garanzia dell’effettivo diritto di difesa che la normativa sul procedimento disciplinare di cui all’art. 7 della legge n. 300/1970 assicura al lavoratore incolpato (ai fini della verifica della legittimità del successivo licenziamen‑ to) è quello della immutabilità della contestazione che preclu‑ de l’attribuibilità al lavoratore, a sostegno del provvedimento espulsivo irrogato, di nuovi fatti, salvo che questi configurino circostanze confermative dell’addebito già contestato, ovvero integrino circostanze diverse che concorrano a definire man‑ canze addebitabili al lavoratore e siano state contestate nell’os‑ servanza delle norme poste a tutela del diritto di difesa del 2 0 1 2 25 dipendente (si veda, sul punto, Cass. n. 17604 del 10/08/2007: “L’immutabilità della contestazione preclude al datore di la‑ voro di far valere, a sostegno delle sue determinazioni disci‑ plinari (nella specie, licenziamento), circostanze nuove rispet‑ to a quelle contestate, tali da implicare una diversa valutazio‑ ne dell’infrazione disciplinare anche diversamente tipizzata dal codice disciplinare apprestato dalla contrattazione collet‑ tiva, dovendosi garantire l’effettivo diritto di difesa che la normativa sul procedimento disciplinare di cui all’art. 7 della legge n. 300 del 1970 assicura al lavoratore incolpato” ed in senso conforme Cass. n. 6499 del 22/03/2011: “In tema di licenziamento disciplinare, il fatto contestato ben può essere ricondotto ad una diversa ipotesi disciplinare (dato che, in tal caso, non si verifica una modifica della contestazione, ma solo un diverso apprezzamento dello stesso fatto), ma l’immu‑ tabilità della contestazione preclude al datore di lavoro di far poi valere, a sostegno della legittimità del licenziamento stes‑ so, circostanze nuove rispetto a quelle contestate, tali da im‑ plicare una diversa valutazione dell’infrazione anche diversa‑ mente tipizzata dal codice disciplinare apprestato dalla con‑ trattazione collettiva, dovendosi garantire l’effettivo diritto di difesa che la normativa sul procedimento disciplinare di cui all’art. 7 della legge n. 300 del 1970 assicura al lavoratore incolpato”. Questi principi di elaborazione giurisprudenziale si ispirano ad un equo contemperamento delle contrapposte esigenze delle parti del rapporto di lavoro ed a valori di effet‑ tività del diritto di difesa in materia disciplinare, che la Cor‑ te costituzionale ha più volte riconosciuto (v., fra le altre, le sentenze 30 novembre 1982, n. 204; 25 luglio 1989, n. 427; 23 luglio 1991, n. 364) inalienabile acquisizione del patrimo‑ nio civile del lavoratore, nei cui confronti è esercitato il pote‑ re della controparte, sì da sottrarre le relative norme ordinarie di previsione a qualsiasi dubbio di dissonanza dal modello prefigurabile in base al combinato disposto degli artt. 3 e 24 Cost.. Peraltro, sempre in tema di licenziamento disciplinare, il problema del coordinamento tra l’art. 7 della legge n. 300/1970, che impone l’obbligo della contestazione dell’addebito, e l’art. 2 della legge n. 604/1966, che prevede la comunicazione per iscritto del recesso con onere di specificazione dei motivi su richiesta del lavoratore, è stato dalla Suprema Corte risol‑ to nel senso che, ferma la distinzione tra contestazione dell’ad‑ debito e motivazione del licenziamento, è sufficiente il mero richiamo al contenuto della lettera di contestazione, che è fi‑ nalizzata a consentire al lavoratore la proposizione di even‑ tuali discolpe – così Cass. n. 11851 del 16/11/1995, id. n. 4659 del21/04/1993, id. n. 2963 del 20/03/1991 ‑. La ratio dell’evidenziato inscindibile collegamento tra contestazione dell’addebito e motivazione del licenziamento è sempre quella di consentire al lavoratore un compiuta difesa in relazione alle circostanze così come delineate nella prima, che preclude al datore di lavoro di licenziare per altre ragioni, diverse da quelle contestate. Il principio di corrispondenza fra la contestazione preven‑ tiva dell’addebito e la “causa” del licenziamento comporta, dunque, senz’altro (e solo) l’irrilevanza dei fatti non contesta‑ ti quali elementi costitutivi della “mancanza” addotta a mo‑ tivazione del licenziamento. Resta, evidentemente, fuori dal suddetto limite la riconducibilità del fatto contestato ad una diversa ipotesi disciplinare, dato che in tal caso non si verifica civile Gazzetta 26 D i r i t t o e p r o c e d u r a una modifica della contestazione, ma solo un diverso apprez‑ zamento dello stesso fatto (cfr., sul punto, la già citata Cass. 11851/95 che ha escluso la violazione del principio in questione in una ipotesi in cui la società datrice di lavoro aveva addotto, nella lettera di licenziamento, quale giusta causa del medesimo il blocco dell’attività produttiva e non anche la grave insubordinazione, indicata nella nota di con‑ testazione). Con il richiamo alla immutabilità della motivazione del licenziamento, l’appellante, evidentemente, fa riferimento alla immutabilità della “causa” del licenziamento, sostenendo che l’accusa (tanto in sede di lettera di contestazione quanto in sede di provvedimento di licenziamento) di un comporta‑ mento che, nella sostanza, avrebbe integrato un atto di sabo‑ taggio sarebbe stata del tutto diversa da quella, nel corso del giudizio, formulata dalla società, a seguito dei primi esiti istruttori, e, quindi, fatta propria dal giudice dell’opposizione, di un comportamento di ostacolo alla “solerte ripresa” della produzione, realizzatosi attraverso l’inottemperanza all’ordi‑ ne del gestore operativo T. F. di spostarsi dalla linea di tran‑ sito dei carrelli. Rileva, altresì, che di una suddivisione tra una prima e una seconda fase degli accadimenti non vi sarebbe traccia nella contestazione. Invero, tale mutamento non si rinviene dagli atti. Dalle lettere di contestazione si evince che il blocco degli AGV, ri‑ levato, come si legge, dai responsabili delle UTE 3 e 4 (F. n. e R. V.) intorno alle ore 2.05, costituisce l’antefatto per spiega‑ re le ragioni dell’intervento sul posto dei suddetti responsabi‑ li. Il fulcro della contestazione è incentrato, per quanto attie‑ ne al L., su ciò che è stato rilevato dagli stessi indicati respon‑ sabili, al momento del loro arrivo sul posto (si veda la conte‑ stazione al L.: “Avvicinatisi ai carrelli i suddetti responsabili La vedevano posizionato all’interno dell’area delimitata da apposite linee gialle ove vige, per motivi di sicurezza, specifi‑ co divieto di transito e sosta del personale, proprio sulla banda magnetica su cui scorrono i carrelli, davanti ad un carrello in maniera da impedirne deliberatamente il transito. A tal punto La invitavano a spostarsi per consentire il passag‑ gio del carrello ed il regolare corso della produzione ma Ella, ignorando sfrontatamente l’ordine ricevuto rispondeva “sia‑ mo in assemblea”, ripetendolo più volte …”) e, per quanto attiene al L., al B. ed al P., su ciò che è stato rilevato dal ge‑ store operativo (si veda la contestazione al L.: “…I responsa‑ bili, allora, si allontanavano chiedendo l’intervento del gesto‑ re operativo dell’Officina 77 turno il quale, portatosi intorno alle 2.20 nel luogo in cui i carrelli erano bloccati, La trovava, unitamente ai sig.ri B. G. e P. M., sempre fermo nella suddet‑ ta area davanti ai carrelli AGV tanto da impedirne il transito. A tal punto il Gestore Operativo La invitava unitamente ai Suoi colleghi a lasciare libera l’area interdetta al personale ed a consentire il regolare transito dei carrelli in quanto tale suo comportamento stava provocando il blocco dell’attività pro‑ duttiva, ma Ella, con i Suoi due colleghi incurante dell’invito, continuava a rimanere fermo davanti al carrello; non solo…”; si vedano, altresì, le contestazioni relative al B. ed al P., in parte qua, assolutamente identiche). Il giudice dell’opposizione distingue due fasi degli accadi‑ menti, assumendo quale elemento di passaggio dall’una all’al‑ tra “lo stazionamento consapevole dei tre licenziati innanzi al carrello (il cui funzionamento non poteva essere ripristinato a c i v i l e Gazzetta F O R E N S E causa della permanenza irregolare e pericolosa di questi)”. In realtà, sulla base delle lettere di contestazione, appare corretto distinguere: una 1a fase durata fino al momen‑ to – successivo al rilevamento del blocco iniziale – dell’inter‑ vento sul posto dei responsabili UTE F. e R. – fase corrispon‑ dente all’antefatto rispetto al quale nessun addebito viene mosso ai lavoratori – ed una 2a fase iniziata con l’intervento dei suddetti F. e R. e proseguita con quello del responsabile del personale del turno (Repo), T. S. , e del gestore operativo, T. F., protrattasi fino alle 2.30 “allorquando finalmente, Ella si allontanava dalla suddetta area di transito” – momento temporale, quest’ultimo, comune a tutte e tre le contestazioni ‑. In questa 2a fase si collocano gli addebiti che, per quanto attiene al L., iniziano già con il comportamento da questi assunto al momento dell’intervento dei responsabili UTE (“Ella, ignorando sfrontatamente l’ordine ricevuto rispondeva “siamo in assemblea”), e proseguono con i comportamenti rilevati dal gestore operativo (per tutti e tre i lavoratori), e cioè con la contestazione del posizionamento davanti ai carrelli AGV così da impedirne il transito, con l’inottemperanza all’invito del gestore operativo a lasciare libera l’area interdet‑ ta al personale ed a consentire il regolare transito dei carrelli nonché con lo specifico fare insubordinato e minaccioso sin‑ golarmente addebitato. Non ha, in effetti, formato oggetto della contestazione il blocco iniziale dei carrelli, non risultando addebitata ai lavo‑ ratori la responsabilità del fermo di questi, come rilevato dai responsabili UTE. Tanto si evince chiaramente anche dalla posizione assunta da S. A.T.A. S. p.A. in sede di ricorso in opposizione ove, al riguardo, la stessa ha espressamente evi‑ denziato – pagg. 20‑21 ‑: “le ragioni del blocco primario del carrello sono irrilevanti ai fini del presente giudizio, nel cui ambito si ribadisce, unico ed effettivo motivo di contestazio‑ ne è stato l’impedimento del transito del carrellini e la reite‑ razione della condotta, nonostante gli inviti e gli ammonimen‑ ti da parte della gerarchia aziendale”. I punti centrali della contestazione hanno, in sostanza, riguardato: 1) la posizione irregolare, e prolungata nel tempo, dei lavoratori sulla banda magnetica su cui scorrono i carrel‑ li, dinanzi ad un carrello (successiva al rilevamento del fermo), in maniera da impedirne “deliberatamente” il transito e da provocare il “blocco” dell’attività produttiva; 2) l’essere stati gli stessi incuranti dell’invito, rivolto loro dal gestore opera‑ tivo, a spostarsi dall’area interdetta al personale così da consentire il regolare transito dei carrelli; 3) il “fare insubor‑ dinato” attraverso affermazioni e minacce. Appare, allora, poco significativo, ai fini che qui interes‑ sano, disquisire sul concetto di “blocco” dell’attività produt‑ tiva per differenziare lo stesso rispetto a quello di “impedi‑ mento” o “rallentamento” della ripresa della stessa, essendo chiaro che, nella prospettazione di cui alle contestazioni, ciò che principalmente si addebita ai lavoratori, è un comporta‑ mento volontario (mantenuto per un certo tempo, nonostante gli inviti dei responsabili) avente il proposito di ostacolare il regolare svolgimento dell’attività produttiva mediante l’impe‑ dimento del transito del carrello. In altre parole, l’elemento soggettivo della condotta contestata è il deliberato ostacolo al transito del carrello, ostacolo costituente non l’effetto di un agire semplicemente insubordinato, ma l’obiettivo che i lavo‑ ratori, con lo stazionamento nell’area interdetta, avrebbero F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o inteso perseguire. Tanto si evince dal riferimento contenuto nelle lettere di contestazione ad una condotta “illecita”, inte‑ grante gli estremi del reato (si veda anche la denuncia presen‑ tata dalla società alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Melfi in data 30/7/2010 per i reati di cui agli artt. 610 e 513 c.p.). E si evince anche dalla posizione assunta dalla S. A.T.A. S. p.A. in sede di ricorso in opposizione ove l’azienda, nel censurare la decisione della fase sommaria pro‑ prio nella parte in cui è stato escluso l’elemento soggettivo del dolo, si è così espressa – pagg. 27‑31 ‑: “i tre operai licenziati… hanno posto in essere condotte gravemente illecite e travali‑ canti il legittimo esercizio del diritto di sciopero…hanno di fatto impedito che la ripresa dell’attività produttiva durante il periodo di sciopero proclamato ‘resa possibile dalla scarsa adesione ad esso delle maestranze e dalla pronta riorganizza‑ zione delle attività ad opera dei capi UTÈ potesse tradursi in una effettiva produzione di vetture…i comportamenti dei tre licenziati integrano chiare fattispecie di reato in relazione alle quali la società resistente ha chiesto, nelle forme di legge, l’intervento della competente Procura della Repubblica”; nonché dalla memoria di costituzione in appello ove – pag. 36 – la stessa, nel ricostruire le fasi temporali evincibili dalle lettere di contestazione ed al fine di contrastare l’eccepito mutamento della causa del licenziamento, colloca l’elemento centrale dell’addebito nella fase successiva all’intervento del T. e fa riferimento all’adottato provvedimento “…come legit‑ tima reazione datoriale a fronte di una palese violazione delle norme civilistiche che regolano il rapporto di lavoro ed espressione di condotta delittuosa consumata con violenza e perciò come detto, portata all’attenzione della competente Procura della Repubblica…”. A conferma del fatto che l’addebito principale consistesse nell’intenzionale e deliberato ostacolo all’attività produttiva vi è quanto affermato dalla stessa S. A.T.A. S. p.A. in ordine alla circostanza che l’avere i tre operai ignorato gli inviti dei responsabili aziendali a liberare il percorso dei carrelli AGV e l’avere i medesimi reagito alle predette esortazioni con tono sprezzante e provocatorio avrebbe connotato di “ulteriore gravità” i loro comportamenti – pag. 30 del ricorso in oppo‑ sizione ‑. Ma vi è anche quanto evidenziato dalla società, all’udienza del 6/10/2010, in ordine alla rilevanza, al fine di provare i fatti accaduti la notte tra il 6 e 7 luglio, della richie‑ sta di acquisizione dei nn. 37/2010 e 38/2010 del settimanale “Panorama” (in particolare, il n. 37 aveva quale titolo di co‑ pertina: “La verità sul sabotaggio di Melfi – Gli eroi bugiar‑ di”), della registrazione digitale della trasmissione televisiva “Matrix”, puntata del 4/10/2010, nonché della richiesta di escussione, quale teste, di D. M. R., segretario nazionale FI‑ SMIC. In termini di prospettazione fattuale, dunque, la condotta addebitata ai tre operai era chiaramente delineata, non inci‑ dendo sul diritto di difesa la eventuale diversa qualificazione dell’addebito in ragione del differente peso attribuito all’ele‑ mento intenzionale (deliberata intenzione di ostacolare la produzione, come tale sussistente ab initio, indipendentemen‑ te dall’intervento sul posto dei responsabili e dagli inviti di questi ultimi, ovvero, come ritenuto dal primo giudice, matu‑ rata solo successivamente, a seguito dei ripetuti richiami a spostarsi dalla zona interdetta al personale). Orbene, già il giudice dell’opposizione ha escluso la sud‑ 2 0 1 2 27 detta deliberata intenzione in un passaggio motivazionale (“Nessuna premeditata volontà di sabotaggio aveva mai so‑ stenuto il comportamento di nessuno dei partecipanti al corteo, difformemente da quanto lasciato intendere da alcune dichiarazioni pubblicate su due articoli comparsi su un noto settimanale nazionale ed acquisite agli atti (cfr. sul punto quanto specificato dal teste D. M.)”‑ pag. 34 ‑) che non ha formato oggetto di specifica censura da parte della S. A.T.A. S. p.A. la quale, anzi, con la memoria di costituzione in giu‑ dizio di appello ha così precisato – pag. 7 – : “…non interessa come e perché sia stato bloccato inizialmente il carrello: ciò che fu contestato e che permane causa di licenziamento è… l’impedimento al transito, decorso, passaggio del carrello stesso che i tre licenziati con la loro condotta (negligente e oltraggiosa) hanno certamente causato…”. A fronte, dunque, di un dato fattuale rimasto certamente immutato, vi è stata già nella sentenza impugnata (ma anche nella difesa, in questa sede, della società) una diversa qualifi‑ cazione dell’addebito, imputandosi l’ostacolo al “transito, decorso, passaggio del carrello” non più ad una deliberata intenzione dei tre operai di impedire o turbare l’esercizio dell’attività produttiva, bensì ad una loro condotta insubor‑ dinata, connotata dal chiaro dispregio dei poteri del datore di lavoro e violativa dei doveri di obbedienza. Ciò consente di superare la sopra indicata censura di parte appellante ma avrà riflessi sulla complessiva valutazio‑ ne del comportamento dei lavoratori. Con terzo e quarto motivo di gravame censura l’appellan‑ te la decisione impugnata per il travisamento dei fatti rispetto a quanto emerso dall’istruttoria e documentato, per la man‑ cata considerazione di circostanze rilevanti incontestabili, per l’errata valutazione delle risultanze istruttorie. Insiste, in particolare, nel sostenere che, al momento dello stazionamen‑ to dei lavoratori nella zona vietata (e non, dunque, dei soli tre operai licenziati, ma di tutti i lavoratori e delegati presenti), i carrelli erano già fermi, nell’evidenziare che nessun ostacolo al ripristino degli stessi era stato posto in essere, che la per‑ manenza dei soli tre licenziati si era ridotta ad una manciata di secondi o al massimo di 1‑2 minuti. I motivi, da trattarsi congiuntamente ed insieme con le censure di cui alla riserva formulata nell’esaminare il secondo motivo, in ragione della intrinseca connessione, sono, nel complesso, fondati ed impongono, prima ancora della rico‑ struzione dei fatti accaduti la notte tra il 6 ed il 7 luglio, al‑ cune considerazioni introduttive. Pone l’appellante la questione che lo sciopero è una legit‑ tima causa di sospensione del rapporto, durante la quale l’obbligo di obbedienza non può che essere sospeso (al con‑ trario di altri obblighi, quali ad esempio la fedeltà) ovvero comunque risultare attenuato. Tale questione non può prescindere da un esame delle problematiche relative ai limiti al diritto di sciopero in quan‑ to, come meglio si vedrà, comportamenti estranei al regolare esercizio di quest’ultimo possono assumere rilevanza ai fini del corretto atteggiarsi del rapporto di lavoro. In linea generale, la libertà di sciopero, per rimanere nell’ambito corrispondente al suo oggetto, di libertà di non fare, deve svolgersi in modo da non ledere altre libertà costi‑ tuzionalmente garantite, come quella spettante a quanti non aderiscono allo sciopero ovvero quella del datore di lavoro di civile Gazzetta 28 D i r i t t o e p r o c e d u r a iniziativa economica. La giurisprudenza, infatti, in carenza di attuazione del dettato dell’art. 40 Cost., che prescriveva l’emanazione di una normativa di regolazione dello sciopero (obiettivo realizzato a livello di normazione statuale nel solo peculiare settore dei servizi pubblici essenziali), nel rapporta‑ re il diritto di sciopero al diritto dei singoli lavoratori all’asten‑ sione collettiva dal lavoro sia per ragioni economiche sia per il conseguimento di obiettivi di carattere politico generale, purché comunque incidenti sul rapporto di lavoro, ne ha in‑ dividuato il limite nel rispetto di modalità attuative che non ledano l’incolumità ed i diritti delle persone, ivi compresa la proprietà dell’impresa (nel senso di integrità degli impianti industriali e di capacità produttiva – nei termini di cui meglio si dirà più avanti ‑). Come è noto, dal punto di vista oggettivo, in passato si operava un distinguo tra limiti “interni” e limiti “esterni” al diritto di sciopero. Limiti “interni” erano quelli connaturati alla stessa nozione di sciopero, intesa quale astensione con‑ certata e continuativa dal lavoro di tutti i dipendenti: con l’elaborazione di questa categoria concettuale si argomentava che l’astensione dal lavoro doveva essere caratterizzata da alcuni elementi come l’attinenza ad un lavoro subordinato, la “completezza” dell’astensione, sia nella dimensione tempora‑ le, sia in quella del coinvolgimento dei lavoratori partecipan‑ ti, e la funzionalizzazione dell’azione di sciopero alla contrat‑ tazione collettiva, tendendosi, così, a porre in discussione la legittimità delle cosiddette forme “anomale” di sciopero (a scacchiera, a singhiozzo, a sorpresa ecc.), e cioè di quelle forme attuate con modalità tali da creare all’imprenditore un danno proporzionalmente superiore alla mera sospensione dal lavoro (cd. teoria del danno ingiusto). La nozione di limiti “interni” è stata, poi, del tutto supe‑ rata con la giurisprudenza che ha sancito la liceità degli scioperi “articolati” e culminata con la storica sentenza della Cassazione n. 711 del 30/1/1980 secondo cui: “Il diritto di sciopero, quale che sia la sua forma di esercizio e l’entità del danno arrecato, non ha altri limiti, attesa la necessaria gene‑ ricità della sua nozione comune presupposta dal precetto costituzionale (art. 40 Cost.) e la mancanza di una legge at‑ tuativa di questo, se non quelli che si rinvengono in norme che tutelino posizioni soggettive concorrenti, su un piano priori‑ tario o quanto meno paritario, quali il diritto alla vita e all’incolumità personale nonché la libertà dell’iniziativa eco‑ nomica, cioè, dell’attività imprenditoriale (art. 41 comma 1 Cost.), che con la produttività delle aziende e concreto stru‑ mento di realizzazione del diritto costituzionale al lavoro per tutti i cittadini”. I limiti cd. “esterni” hanno costituito, nella giurispruden‑ za, il punto di riferimento primario per valutare la legittimità delle forme di astensione dalla prestazione lavorativa. La Suprema Corte, a partire dalla citata sentenza n. 711/1980, ha individuato, così, quali limiti “esterni” al diritto di sciopero: il diritto alla vita, alla salute ed all’inco‑ lumità personale, il diritto all’integrità dei beni del datore di lavoro e di terzi, e più in genere il diritto dell’imprenditore alla continuazione dell’attività e dunque all’integrità del pa‑ trimonio aziendale. Dal punto di vista dell’interesse dell’im‑ prenditore, dunque, il limite (esterno) al diritto di sciopero è costituito non più dalla perdita sproporzionata di produzione, come nella superata teoria del danno ingiusto, bensì dalla c i v i l e Gazzetta F O R E N S E necessità di tutelare il potenziale produttivo dell’azienda. Si è, così, in sostanza, distinta la produttività di impresa, intesa quale possibilità di continuare a svolgere l’iniziativa economica, dal danno alla produzione aziendale. L’orientamento oggi consolidato vede chiaramente atte‑ stata la linea di demarcazione tra modalità legittime ed ille‑ gittime di sciopero sulla distinzione tra danno alla produzio‑ ne e danno alla produttività dell’organizzazione datoriale. In termini generali, qualunque danno alla produzione è legitti‑ mo, restando vietato ledere la capacità del datore di riprende‑ re l’attività dopo (o anche di continuarla, a certe condizioni, durante) lo sciopero. Sono precluse le modalità di astensione che, per non adattarsi alla natura dell’attività o alle caratte‑ ristiche dei beni impiegati o prodotti, provochino lesioni di attrezzature, impianti o locali. Necessario è stato ritenuto, per poter ritenere integrato il superameno del limite esterno, un pregiudizio alla produtti‑ vità di tipo duraturo, in quanto collegato alla distruzione o inutilizzabilità degli impianti (si veda la già citata pronuncia della Cass. n. 711/1980 in altro passaggio secondo cui: “L’esercizio del diritto di sciopero deve ritenersi illecito se, ove non effettuato con gli opportuni accorgimenti e cautele, ap‑ pare idoneo a pregiudicare irreparabilmente – in una deter‑ minata ed effettiva situazione economica generale o partico‑ lare – non la produzione, ma la produttività dell’azienda, cioè la possibilità per l’imprenditore di continuare a svolgere la sua iniziativa economica, ovvero comporti la distruzione o una duratura inutilizzabilità degli impianti, con pericolo per l’im‑ presa come organizzazione istituzionale, non come mera or‑ ganizzazione gestionale, con compromissione dell’interesse generale alla preservazione dei livelli di occupazione. L’accer‑ tamento al riguardo va condotto caso per caso dal giudice, in relazione alle concrete modalità di esercizio del diritto di sciopero ed ai parimenti concreti pregiudizi o pericoli cui vengono esposti il diritto alla vita, all’incolumità delle perso‑ ne e alla integrità degli impianti produttivi”; si veda anche Cass. n. 23552 del 17/12/2004: “Il diritto di sciopero, che l’art. 40 cost. attribuisce direttamente ai lavoratori, non in‑ contra – stante la mancata attuazione della disciplina legisla‑ tiva prevista da detta norma – limiti diversi da quelli propri della “ratio” storico‑sociale che lo giustifica e dell’intangibi‑ lità di altri diritti o interessi costituzionalmente garantiti. Pertanto, sotto il primo profilo, non si ha sciopero se non in presenza di un’astensione dal lavoro decisa ed attuata collet‑ tivamente per la tutela di interessi collettivi – anche di natura non salariale ed anche di carattere politico generale, purché incidenti sui rapporti di lavoro – e, sotto il secondo profilo, ne sono vietate le forme di attuazione che assumano modali‑ tà delittuose, in quanto lesive, in particolare, dell’incolumità e della libertà delle persone, o di diritti di proprietà o della capacità produttiva delle aziende; sono, invece, privi di rilievo l’apprezzamento obiettivo che possa farsi della fondatezza, della ragionevolezza e dell’importanza delle pretese persegui‑ te nonché la mancanza sia di proclamazione formale sia di preavviso al datore di lavoro sia di tentativi di conciliazione sia d’interventi dei sindacati, mentre il fatto che lo sciopero arrechi danno al datore di lavoro, impedendo o riducendo la produzione dell’azienda, è connaturale alla funzione di auto‑ tutela coattiva propria dello sciopero stesso” nonché Cass. n. 869 del 28/01/1992 secondo cui: “La legittimità F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o dello sciopero va verificata non in relazione a limiti correlati alla sua intrinseca natura (c.d. “interni”) ma agli effetti che possono prodursi, in dipendenza delle particolari modalità del suo svolgimento, nella sfera giuridica altrui, con la com‑ pressione di posizione tutelate in modo prioritario (come il diritto alla vita e alla incolumità personale) o comunque pa‑ ritario, come il diritto del datore di lavoro alla libertà di ini‑ ziativa economica, costituzionalmente riconosciuto (art. 41 Cost.). In tale ultimo caso peraltro, trattandosi di interessi confliggenti che trovano entrambi la loro fonte nella Carta fondamentale, la tutela dello imprenditore non può estender‑ si all’attività produttiva in quanto diretta ad assicurare solo un profitto contingente, ma deve essere limitata alla salva‑ guardia dell’organizzazione aziendale intesa come struttura finalizzata al conseguimento di un risultato economico nel quadro generale della produzione e del mercato”). Analogo principio è stato espresso con riferimento alle manifestazioni collaterali allo sciopero quale, ad esempio, lo svolgimento di un corteo interno, inteso quale azione dimo‑ strativa effettuata durante l’astensione dal lavoro, all’interno dei reparti aziendali, avente lo scopo di avvicinare i non scio‑ peranti al fine di convincerli ad aderire all’astensione. Si veda Cass. n. 945 del 4/2/1983 secondo cui: “L’esercizio del diritto di sciopero cessa di essere legittimo allorché, per le sue mo‑ dalità di attuazione, la sospensione totale o parziale della prestazione lavorativa determini o renda possibili e prevedi‑ bili lesioni di altri diritti – personali, di proprietà o di inizia‑ tiva economica – ugualmente assistiti da specifica garanzia costituzionale, il che si impone anche con riferimento a ma‑ nifestazioni collaterali – quali i cortei interni – a tale sospen‑ sione, le quali, se possono configurarsi come altrettante fa‑ coltà in cui si articola quel diritto o altri utilmente esercitabi‑ li, così da comportare una obbligazione negativa o un pati del datore di lavoro, devono nondimeno esercitarsi secondo forme e modalità che non incidono su detta garanzia e non legitti‑ mano, in caso di ostacolo ad esse frapposto dalla controparte, il ricorso ad arbitrarie forme di autotutela, ma semplicemen‑ te il ricorso alla tutela giurisdizionale, restando demandato all’accertamento del giudice di merito l’individuazione di tutte le modalità dei comportamenti osservati da una parte e dall’altra concretamente, ai fini del giudizio sulla loro legitti‑ mità, senza che possa farsi luogo a valutazioni astratte di compatibilità, indipendentemente dall’effettiva attuazione dei comportamenti stessi”. Ai limiti “esterni” reciproci ha fatto espresso riferimento il Supremo Collegio nella sentenza n. 10624 del 9/5/2006 in cui è stato così evidenziato: “Il diritto di iniziativa economica dell’imprenditore (art. 2082 cod. civ.) è costituzionalmente garantito (art. 41 Cost.). E sussiste anche in presenza d’uno sciopero indetto dai lavoratori. In questo (espressione del la‑ voro – quale diritto ed obbligo – ed anch’esso costituzional‑ mente garantito: artt. 4 e 40 Cost.) il primo trova tuttavia il suo limite. Avendo entrambi eguale dignità e spessore ed es‑ sendo l’uno condizione di esistenza dell’altro (l’impresa con‑ sente il lavoro ed il lavoro consente l’impresa), il limite è reci‑ proco. Lo sciopero (quale sospensione dell’attività aziendale) e la continuazione dell’attività aziendale esprimono, nella loro oggettiva funzione, una legittima antitesi. Terreno di questa antitesi è la continuazione dell’attività dell’impresa. I lavoratori in sciopero tendono contingentemente a negarla con 2 0 1 2 29 la relativa sospensione; l’imprenditore tende ad affermarla. La legittima antitesi, in quanto ipotizzata dalla stessa norma costituzionale, esige che le parti si avvalgano degli strumenti e delle possibilità offerte dall’ordinamento. E resta pertanto legittima (normativamente garantita) in quanto si svolga in questo spazio. Ove l’opposizione si effettui con strumenti non consentiti, l’attività diventa illegittima. E, per quanto attiene al datore, l’illegittimità dello strumento pone l’attività azien‑ dale in uno spazio estraneo all’art. 41 Cost.; e poiché è questa norma che gli consente un’antitesi allo sciopero, con la viola‑ zione l’antitesi diventa illegittima. In tal modo, nella sua og‑ gettiva funzione (ed indipendentemente da soggettive finalità), la sua attività è diretta a limitare “illegittimamente” il diritto di sciopero (non è il limitare, in sé, bensì la sua illegittimità, lo spazio delineato della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 28). In questo quadro, il lavoratore (come osservato in dottrina ed in giurisprudenza: Cass. 30 gennaio 1980 n. 711) può contin‑ gentemente limitare od impedire la produzione dell’impren‑ ditore; non può ledere la potenzialità produttiva dell’impresa, quale attività diretta alla produzione. Ciò esige che la sua antitesi si attui in uno spazio di legittimità. Egualmente è a dirsi per il datore. Questi conserva il diritto di continuare a svolgere la propria attività aziendale; la continuazione resta tuttavia legittima nella misura in cui si svolga nei limiti nor‑ mativamente previsti”. Invero gli sforzi della giurisprudenza di dettare indicazio‑ ni per una corretta lettura delle situazioni verificabili in concreto non hanno sempre portato a soluzioni univoche. Si pensi, ad esempio, a quanto sia risultato non agevole distin‑ guere il danno alla produzione dal danno alla produttività, essendo possibile che, in determinate situazioni economiche, il mancato profitto per un periodo di tempo anche breve, impedisca all’imprenditore di far fronte ai propri debiti e lo escluda dunque dal mercato, impedendogli così di continuare a svolgere la sua iniziativa economica. Si è, peraltro, anche registrato un orientamento giurispru‑ denziale che ha ampliato il concetto di lesione alla produtti‑ vità, sganciandolo da quello della integrità degli impianti (come pregiudizio duraturo alla ripresa dell’attività produtti‑ va) fino a ricomprendere nello stesso l’impedimento (anche temporaneo) al funzionamento dell’organizzazione aziendale, sul presupposto della legittimità, entro certi limiti, della rior‑ ganizzazione da parte del datore di lavoro dell’attività azien‑ dale durante lo sciopero. Così, nella pronuncia n. 8401 del 16/11/1987, la Suprema Corte ha precisato: “Il diritto di sciopero non conosce limitazioni per quanto concerne le mo‑ dalità del suo esercizio (assenza, cioè, di limiti “interni”), laddove il solo limite “esterno” è costituito dalla non possibi‑ lità dell’effettuazione di atti diretti contro l’organizzazione aziendale in modo da impedirne il funzionamento o da com‑ prometterne gravemente la stessa produttività, così come di atti che provochino pregiudizio a fondamentali diritti del pari costituzionalmente garantiti in modo assoluto”. In tale pronuncia, nella quale, come si rileva dalla motivazione, non veniva in rilievo la questione della proporzionalità dell’adot‑ tato licenziamento, si è sottolineato che un comportamento materiale positivo (ancorché, non improntato a forme di vio‑ lenza o di minaccia) consistente nell’ostacolo al lavoro degli altri dipendenti (nella fattispecie esaminata dal supremo Col‑ legio, nel corso di uno sciopero due dipendenti avevano im‑ civile Gazzetta 30 D i r i t t o e p r o c e d u r a pedito ad un altro dipendente – conduttore di un carrello trasportatore ‑, non aderente allo sciopero, mediante fisica ostruzione, la manovra del mezzo ed il rifornimento della li‑ nea dei prezzi occorrenti) viene essenzialmente ad incidere sulla prosecuzione dell’attività aziendale che il datore di lavo‑ ro (al quale non può essere negato, ai sensi dell’art. 41, co. 1, della Cost., il diritto, entro certi limiti, di continuare lo svol‑ gimento dell’attività aziendale mediante il personale dipen‑ dente che ancora resti a sua disposizione in quanto non par‑ tecipante allo sciopero e che venga temporaneamente adibito alle mansioni proprie degli scioperanti – diverso sarebbe sta‑ to se il datore di lavoro avesse assunto altri lavoratori in luogo di quelli scioperanti ‑) è legittimato a riorganizzare durante lo sciopero, con ciò risultando integrato un compor‑ tamento volto “contro” il datore di lavoro ed esulante dall’am‑ bito di legittimità dello sciopero. Comunque, comune agli orientamenti sopra ricordati è che rientra nel limite di uno sciopero legittimo un danno alla produzione avente causa immediata e diretta nell’astensione collettiva. Fuori del suddetto limite sono le forme di attuazio‑ ne che assumano modalità delittuose, in quanto lesive della libertà ed incolumità delle persone o di diritti di proprietà o della capacità produttiva delle aziende (per quanto sopra detto ricomprendente l’impedimento – anche temporaneo – al funzionamento dell’organizzazione aziendale laddove lo stes‑ so risulti idoneo ad integrare un tale gap produttivo da inci‑ dere sulla stessa competitività aziendale). Ma fuori dal sud‑ detto limite sono tutti quei comportamenti, anche non stret‑ tamente attuativi dello sciopero, estranei alla sospensione dell’attività lavorativa (causativi o meno di danno alla produ‑ zione). Va, infatti, ricordato che: “Durante lo sciopero, men‑ tre restano sospese le obbligazioni relative alla prestazione di lavoro e al pagamento delle retribuzioni, non restano sospesi gli altri diritti od obblighi costituenti il contenuto del rappor‑ to di lavoro, i quali siano estranei alla sospensione della pre‑ stazione lavorativa, che costituisce l’essenza del diritto di sciopero; onde rimane inalterato, anche durante lo sciopero, il vincolo della subordinazione e non attengono alla sospen‑ sione dell’attività lavorativa quei comportamenti degli sciope‑ ranti che si traducono in violazioni dei diritti degli altri lavo‑ ratori non scioperanti o del datore di lavoro, tutelati da pre‑ cetti della Costituzione o dell’ordinamento generale” – così Cass. n. 43 del 5/1/1980 e, nel medesimo senso, Cass. n. 11352 del 30/10/1995 ‑. Il medesimo concetto è stato espresso dal Supremo Colle‑ gio nella sentenza n. 3508 del 24/5/1986: “Le attività delit‑ tuose compiute in occasione di uno sciopero all’interno di uno stabilimento e nei confronti di un dipendente non scioperante non possono non ritenersi connesse col rapporto di lavoro. “Durante lo sciopero restano infatti sospese le obbligazioni relative alle corrispettive prestazioni di lavoro e di pagamen‑ to delle retribuzioni, mentre non lo sono gli altri diritti ed obblighi pur integranti il contenuto del rapporto, i quali sono estranei alla sospensione della prestazione lavorativa, che costituisce l’essenza del diritto di sciopero” (Cass. 29/10/74 n. 3289). Ne consegue che “rimane inalterato, anche durante lo sciopero, il vincolo della subordinazione e non attengono alla sospensione dell’attività lavorativa quei comportamenti degli scioperanti che si traducono in violazione dei diritti degli altri lavoratori non scioperanti o del datore di lavoro”. c i v i l e Gazzetta F O R E N S E (Cass. 5/1/1980 n. 43). Sicché se è vero che non integra giusta causa di licenziamento in tronco il comportamento del pre‑ statore d’opera consistente nel persuadere altri a scioperare o nel muovere delle critiche a chi abbia rifiutato di aderire all’agitazione (Cass. 10/1/73 n. 63), è pur vero che esula in‑ dubbiamente dai limiti propri del diritto di sciopero quella condotta che sia volta contro l’organizzazione aziendale in modo da impedirne il funzionamento o mediante concreti atti positivi (minacce, intimidazioni, ingiurie ecc.) nei con‑ fronti di altri lavoratori, i quali intendano continuare a svol‑ gere le loro mansioni, ovvero si sia estrinsecata in danneggia‑ menti degli impianti o, comunque in interventi materiali su impianti aziendali azionati da altri lavoratori non aderenti allo sciopero (vedi Cass. 30/3/81 n. 1833)”. In tale pronuncia, in sostanza, il superamento del limite esterno al diritto di sciopero viene a coincidere con il comportamento estraneo alla sospensione dell’attività lavorativa che, come tale, non può non assumere rilevanza sull’atteggiarsi del rapporto di lavoro. Si è così ritenuto che: “Non è configurabile come antisin‑ dacale, ai sensi dell’art. 28 della legge n. 300 del 1970, la condotta del datore di lavoro che si contrapponga ad un ille‑ gittimo comportamento di singoli lavoratori o del sindacato; pertanto, non può attribuirsi carattere di antisindacabilità al licenziamento di dipendenti, che abbiano partecipato ad una manifestazione sindacale, ove il recesso del datore di lavoro abbia costituito giustificata reazione causale ad uno scorretto e riprovevole comportamento dei lavoratori, comportante violazione degli obblighi legali e contrattuali” – Cass. n. 11905 del 3/11/1992. Dalla motivazione di tale decisione si evince che lo “scorretto e riprovevole” comportamento era consisti‑ to in una “invasione di massa” di determinati uffici definita “violenta ed intimidatoria” ed attuata da un “gruppo” di dipendenti della società, in violazione di “accordi sindacali” nel frattempo intervenuti, e senza alcuna giustificazione reat‑ tiva contro il comportamento del datore di lavoro, rivelatosi al contrario corretto e legittimo. In definitiva, come si ricava dai passaggi motivazionali delle decisioni citate, secondo la Suprema Corte, non vi è più quel collegamento esonerativo con l’esercizio del diritto di sciopero quando la lotta sindacale sia trascesa da una mera astensione collettiva dal lavoro a manifestazioni di violenza, minaccia ed intimidazione nei confronti di altri lavoratori o del datore di lavoro ovvero abbia inciso direttamente sulla integrità degli impianti e sulla incolumità degli impiegati addettivi ovvero ancora sia consistita in un comportamento materiale positivo diostacolo al lavoro degli altri dipendenti, mediante fisica ostruzione alle manovre dei mezzi. In tali casi, la condotta rileva ai fini della violazione degli obblighi costituenti il contenuto del rapporto di lavoro. Si veda il pas‑ saggio motivazionale della sentenza della Cass. n. 5815 del23/03/2004, diffusamente citata dal giudice dell’opposi‑ zione, nel quale viene ritenuto, alla stregua della ricostruzio‑ ne operata dal Tribunale in sede di appello, correttamente escluso il valore giustificativo della sussistenza di un conflitto sindacale in atto e della qualità di sindacalisti dei dipendenti licenziati rispetto ad una “aggressione” compiuta in danno di altro lavoratore, così come accertata in fatto, e quello in cui viene ritenuta coerente la valutazione secondo cui il recesso dell’azienda non era riconducibile ad una limitazione dell’azio‑ F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o ne sindacale ma costituiva una giustificata reazione causale ad uno scorretto e riprovevole comportamento dei singoli lavoratori, comportante violazione degli obblighi legali e contrattuali, soggiacendo l’esercizio dell’azione sindacale comunque al limite “esterno” costituito dall’impossibilità di tradursi in atti pregiudizievoli di fondamentali diritti del pari costituzionalmente garantiti in modo assoluto, come quello alla vita e all’incolumità personale (nella specie vi era stata una aggressione fisica ai danni di altro lavoratore) e l’ulterio‑ re passaggio in cui, con riguardo alla proporzionalità della sanzione viene osservato che: “se pure è vero, come rileva il sindacato ricorrente, che il carattere, antisindacale di un li‑ cenziamento può essere avvalorato, in generale, dalla spro‑ porzione disciplinare di esso rispetto al fatto commesso da un lavoratore sindacalista, nondimeno tale ipotesi è stata speci‑ ficamente esclusa dai giudici d’appello, con una motivazione che si sottrae senz’altro alle censure di inadeguatezza mosse in ricorso. In particolare, nella sentenza impugnata la estrema gravità del comportamento dei lavoratori, integrante la giusta causa di licenziamento per cessazione del vincolo di fiducia insito nel rapporto lavorativo, è stata riferita al suo oggettivo contenuto di violenza, alle modalità con le quali esso è stato attuato ed all’intensità dell’elemento intimidatorio: tutti ele‑ menti valutativi che rendono l’apprezzamento del giudice di merito coerente con la conclusione di impossibilità della pro‑ secuzione del rapporto e che, pertanto, bastano – nella pre‑ sente sede di legittimità – per ritenere tale giudizio di fatto giuridicamente corretto”. Proprio applicando i suddetti principi si perviene, nel caso che ci occupa, ad un giudizio diverso rispetto a quello del primo giudice. Per stabilire l’esistenza della giusta causa di licenziamento occorre infatti in concreto accertare se – in relazione alla qualità del rapporto intercorso fra le parti, alla posizione che in esso abbia rivestito il lavoratore, alla qualità ed al grado di fiducia che quel rapporto comportava – la specifica mancan‑ za commessa dal dipendente, considerata non solo nel suo contenuto obiettivo, ma anche nella sua portata soggettiva, specie con riferimento alle particolari circostanze e condizio‑ ni in cui è posta in essere, ai suoi modi, ai suoi effetti, ed all’intensità dell’elemento psicologico, risulti idonea a ledere in modo grave, così da farla venir meno, la fiducia che il da‑ tore di lavoro ripone nel proprio dipendente, e tale quindi, da esigere sanzioni non minori di quella (massima) espulsiva. Orbene, nello specifico, con riguardo all’elemento inten‑ zionale si è già detto. Nessun volontà diretta deliberatamente ad impedire l’at‑ tività produttiva vi è stata e ciò rende la situazione de qua decisamente differente rispetto a quelle sottoposte all’atten‑ zione del giudice di legittimità nelle pronunce sopra citate. Quanto alla valutazione delle mancanze attribuite ai la‑ voratori nella loro portata oggettiva, occorre innanzi tutto procedere ad una precisa ricostruzione dei fatti. Può considerarsi dato ormai incontroverso che, dopo la proclamazione dello sciopero (dalle ore 1.45 alle 3.00) non potendosi prevedere il numero dei lavoratori che vi avrebbero aderito (quello indetto era proprio uno sciopero del persona‑ le delle UTE 1, 2, 3 e 4), le linee della produzione erano state prudenzialmente bloccate; quindi, verificato il numero degli operai rimasti regolarmente in servizio, si era provveduto a 2 0 1 2 31 riorganizzare la produzione. Tale riorganizzazione era durata circa 15 minuti (cfr. quanto dichiarato da R. V., responsabile UTE: “…quando è stata riorganizzata la produzione (per la riorganizzazione abbiamo impiegato circa 15 minuti) sulla mia linea vi erano 2 carrellini carichi per il cui esaurimento sulla linea sono necessari 2 minuti. Per carrellino intendo 2 dei 5 vagoncini trainati dalla motrice …quando è stato pro‑ clamato lo sciopero ho provveduto a bloccare la linea, agendo sull’apposito pulsante, ed ho poi riorganizzato la produzio‑ ne…”; da T. F., gestore operativo: “…ho provveduto a reim‑ postare la produzione spostando tutti coloro che non sciope‑ ravano su una sola delle due linee…”; da L. M., componente direttivo della FIOM, partecipante allo sciopero: “…quando lo sciopero ha un’adesione parziale le linee di produzione vengono fermate al fine di poter spostare la produzione ed i lavoratori da una linea all’altra…”). Non è chiaro se con il blocco delle linee sia stato anche disposto un blocco ovvero solo un fermo momentaneo dei carrelli (si precisa che con le espressioni “carrello/i” o “carrellino/i”, usate indifferentemente nel processo, si fa rife‑ rimento al convoglio formato da una motrice e più vagoncini; il convoglio del quale si discute era costituito dalla motrice e da n. 5 vagoncini, di cui 2 carichi di materiale; si precisa, al‑ tresì, che tale convoglio si muove autonomamente, a prescin‑ dere dal funzionamento della linea di produzione, ed utilizza, come si rileva dal manuale d’uso in atti, gli stessi corridoi di passaggio del personale – con una velocità da 4 a 30 metri al minuto – essendo, per ragioni di sicurezza, dotato di un siste‑ ma bumper – paraurti con annesso dispositivo tattile di pro‑ tezione personale – e di uno scanner ad infrarossi per la protezione di persone, oggetti, infrastrutture, nonché per mantenere le distanze di sicurezza nonché dotato di un sound system – avviso musicale ‑). È nel senso di un fermo momentaneo del convoglio quan‑ to dichiarato da F. n. , responsabile UTE: “…in caso di scio‑ pero, in particolare quando aderisce allo stesso solo una parte dei lavoratori addetti alla linea, si fermano i carrellini AGV per qualche minuto onde consentire di riorganizzare i lavoratori e disporre la prosecuzione della produzione. Preci‑ so in particolare che i carrelli vengono fermati all’interno dell’area picking deputata al loro carico da parte di alcuni operai che, in caso di sciopero, evidentemente non essendoci non possono riempirli; pertanto detti carrelli non vengono lasciati transitare vuoti all’esterno dell’area. …la notte che sono successi i fatti per cui è causa nessuno dei responsabili delle UTE 1, 2, 3, 4 ha mai bloccato i suddetti carrellini; come sempre accade i carrellini furono momentaneamente fermati per far riprendere la produzione solo all’interno dell’area pi‑ cking… quella notte, a seguito dello sciopero, i responsabili aziendali bloccarono solamente le linee di montaggio ma non il funzionamento del tutto autonomo dei carrellini…”. Ma la possibilità di un fermo momentaneo del convoglio non trova riscontro nello stesso manuale d’uso sopra citato, non rilevan‑ dosi dalla descrizione della motrice la presenza di un tasto “pausa” tale da far pensare alla possibilità che un comando di tale tipo potesse essere dato dalla postazione di controllo. Propende, invece, per un blocco (oltre che della linea) anche del convoglio, non fosse altro che per una analogia con quanto successo in altre occasioni, il teste S. M., operaio, iscritto FIOM, partecipante allo sciopero, il quale ha così civile Gazzetta 32 D i r i t t o e p r o c e d u r a dichiarato: “…preciso che quando ci siamo diretti in direzio‑ ne dei carrelli per l’assemblea, i carrelli erano già fermi con le luci spente, mentre in genere quando sono spenti la spia emet‑ te luce gialla fissa oppure luce rossa fissa in caso di anomalia, in quella occasione la spia era completamente spenta. Presumo che i carrelli siano stati bloccati dal CPI per evitare che, sic‑ come la linea era stata bloccata, i carrelli finissero per accu‑ mularsi…attualmente svolgo le mansioni di CPI nella UTE 2, in passato ho svolto tale mansione nell’are picking per circa 7/8 mesi nel 2008…in virtù della mia mansione di CPI mi è capitato di bloccare i carrelli, azionando il tasto di emergenza, nella ipotesi in cui la linea era ferma (ad esempi per mancan‑ za di scocche o comunque in caso di anomalia sulla linea) onde evitare che gli stessi si accumulassero. Preciso infatti che ciascun convoglio è abbastanza lungo e l’accumularsi di con‑ vogli potrebbe generare delle disfunzioni, in articolare vi sono anche degli attraversamenti pedonali che potrebbero rimane‑ re preclusi dall’accumulo dei convogli…ciò non è mai capita‑ to…”. Ugualmente nel senso del blocco, anche se non per ef‑ fetto di una diretta manovra di fermo, bensì in conseguenza dell’accumulo dei convogli determinato dal blocco delle linee, è la deposizione del teste L. R., delegato UILM, partecipante allo sciopero, il quale ha così dichiarato: “non è vero che la S. A.T.A. per prassi è solita bloccare i carrellini in caso di sciopero in quanto se la linea di produzione è attiva il carrel‑ lino deve necessariamente fornire il materiale necessario alla produzione; diverso è il caso se la linea a della produzione è ferma; anzi preciso che anche in tale circostanza per quello che ho visto i carrellini possono comunque camminare per poi bloccarsi “in accumulo” ciò almeno avviene nella mia UTE…”. Sempre nel senso di un fermo del convoglio, come situazione rilevata de visu anche in altre occasioni, è la depo‑ sizione resa dalla già citata teste L. M.: “…mi risulta di una prassi aziendale che in occasione di precedenti cortei interni porta all’arresto dei carrelli AGV da parte dell’azienda, neces‑ sità dovuta all’esigenza di riorganizzare le linee di produzione tenendo conto di quelle ferme per lo sciopero…ciè è avvenuto, ad esempio, circa un mese prima in occasione dello sciopero dell’integrativo…preciso che in quella occasione ho visto i carrelli fermi ma non ho visto i responsabili dell’azienda fer‑ marli …quando lo sciopero ha un’adesione parziale le linee di produzione vengono fermate al fine di poter spostare la pro‑ duzione ed i lavoratori da una linea all’altra…”. Di segno contrario è, invece, la deposizione del teste E. G., delegato FIMCISL, partecipante allo sciopero: “… non mi risulta che l’azienda abbia mai proceduto ad arrestare il fun‑ zionamento dei carrellini in caso di sciopero, essendo suo interesse invece cercare di continuare la produzione…” e così quella del teste F. M., delegato UGL, aderente allo sciopero: “…sono delegato RSU da circa 9/10 anni e non mi è mai ca‑ pitato che la S. A.T.A. durante gli scioperi per motivi di sicu‑ rezza abbia bloccato il passaggio dei carrelli; infatti durante gli scioperi vi sono lavoratori che non aderiscono e che voglio‑ no lavorare per cui è interesse dell’azienda continuare la produzione…”. Certo è che, quando gli scioperanti sono arrivati sul luogo ove si sono verificati i fatti per cui è causa (da collocarsi tem‑ poralmente un po’ prima dell’intervento sul posto del F. e del R., già in loco), il convoglio presente sulla pista era fermo (vuoi per un azionamento del tasto di stop da parte dei re‑ c i v i l e Gazzetta F O R E N S E sponsabili sin dal momento del blocco della linea, vuoi per uno spegnimento successivo al rilevamento da parte degli stessi dell’impedimento al transito), senza che risultasse acce‑ sa la luce gialla ovvero quella rossa significative di un arresto per anomalie di marcia ovvero di un livello di batteria troppo basso. Si vedano le conformi dichiarazioni rese da M. G., operaia area picking UTE 4, iscritta FISMIC, partecipante allo sciopero: “…non stavamo bloccando il carrello perché lo stesso era già fermo quando noi siamo arrivati…”; da P. A., operaio, non iscritto ad alcun sindacato, partecipante allo sciopero: “…a seguito della proclamazione dello sciopero e dopo il corteo interno tra i corridoi ci siamo fermati per tene‑ re un’assemblea nel corridoio tra la UTE 3 e la UTE 4. Il nostro assembramento interessava la pista di transito degli AVG e il corridoio ad essa attiguo. Tuttavia quando siamo arrivati ivi vi era un carrello già fermo e noi ci siamo fermati in assemblea circa 2‑3 metri davanti al carrello…il B. è stato il primo ad intervenire in difesa del P. anche se io stesso ho avvertito che il gestore stesse contestando una circostanza non vera in quanto non stavamo bloccando i carrelli perché i car‑ relli erano già fermi e le linee erano ferme perché una parte dei lavoratori era in sciopero…”; dal già citato teste S. M.: “… abbiamo svolto l’assemblea nel corridoio tra la UTE 3 e la UTE 4. Presumo che qualcuno tra gli scioperanti occupasse anche la zona sulla quale insiste la banda magnetica ma in ogni caso eravamo ad una distanza di circa 2/3 metri dai carrelli che in quel momento erano fermi…non so perché il carrello era fermo ed a luci spente quando siamo arrivati nel corridoio …”; da L. M.: “…proclamato lo sciopero si forma‑ rono due cortei: un primo corte partiva dalle UTE 3 e 4, l’altro dalle UTE 1 e 2 capeggiati rispettivamente l’uno da L.; B., M. e L., l’altro da E., F. e L.; i cortei so fermarono per discutere sui carichi di lavoro; mentre arrivavamo presso il suddetto percorso pedonale mi trovavo vicino al L. e ad altri delegati in particolare E. ed un altro delegato della UILM che fa il C.P., in una posizione che mi consentiva di scorgere quello che avveniva innanzi al nostro cammino; nell’occasio‑ ne avevo, pertanto, modo di notare la presenza di un carrello AGV già fermo e con il lampeggiante spento oltre al segnala‑ tore acustico spento anch’esso. Il corteo di conseguenza si fermava e stazionava ad una distanza di circa due, tre metri dal suddetto carrello…”. Ciò precisato, la successiva cronologia della vicenda va così ricostruita. È emerso dall’istruttoria che F. n. e R. V. sono intervenu‑ ti sul posto dopo aver rilevato che “non arrivavano più car‑ rellini”. Si veda, sul punto, quanto dichiarato da F. n. : “… veniva riattivata la linea di montaggio UTE 3, ma dopo pochi minuti, constatato che non sopraggiungevano più carrellini, fu necessario fermare nuovamente la linea di produzione…fu R. ad accorgersi che dopo due minuti dalla riattivazione della linea (verso le 2.00) non arrivavano più carrellini e si erano esauriti i rifornimenti della linea; quindi nell’occasione prov‑ vide a rendermi edotto di quello che stava succedendo…a quel punto io e R. abbiamo percorso a ritroso il tragitto del carrel‑ lo rinvenendone uno fermo vicino al varco tecnico della UTE 3 in entrata e ad alcuni metri dalla stazione dove si sarebbe dovuto fermare; innanzi al carrello, ad alcuni cm. dallo stes‑ so vi era un gruppo di persone, circa 40…”; da R. V.: “…dopo due minuti dal momento in cui ho provveduto a riattivare la F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o linea io e il collega F. abbiamo notato che non arrivavano più carrellini dall’area picking; abbiamo così provveduto a bloc‑ care nuovamente la linea ed a risalire la stessa per verificare il motivo del mancato arrivo dei carrelli…abbiamo così tro‑ vato sul percorso un convoglio AGV fermo con un gruppo di lavoratori davanti allo stesso…”. Se, dunque, la riattivazione della linea è avvenuta alle 2.00, considerato un minimo tempo tecnico per rilevare il problema a base del mancato transito del convoglio e per “risalire la linea” fino a giungere sul posto ove erano gli scio‑ peranti, è verosimile ritenere che l’arrivo del F. e del R. sia da collocarsi dopo le 2.05 (dalle stesse lettere di contestazione di evince che: “…i responsabili UTE, impostata la linea con il personale non aderente allo sciopero, intorno alle ore 2.05 si rendevano conto che la linea non poteva partire in quanto non arrivavano i carrelli sequenziali AGV dall’area picking…”). All’intervento dei predetti (che non può non essersi pro‑ tratto per alcuni minuti, considerato che sia il F. sia il R. hanno avuto con gli scioperanti uno scambio verbale – si veda quanto dichiarato da F. n. : “…innanzi al carrello ad alcuni cm dallo stesso vi era un gruppo di persone, circa 40; io ri‑ volgendomi indistintamente a tutti i presenti li invitavo a spostarsi al fine di consentire il ripristino del funzionamento dell’AGV. Mi rispondeva il L. che si trovavano lì perché erano riuniti in assemblea. Preciso che il L. stava leggendo un’agen‑ da e mi rispose senza guardarmi in faccia. Anche il R. prov‑ vide a fare tale richiesta ma ebbe la medesima risposta sempre da parte del L., a quel punto avvertivamo telefonicamente il T. ed il T…”) hanno fatto, quindi, seguito, quello di T. S. , responsabile del personale dell’unità montaggio presente nel turno, e quello del gestore operativo T. (questi ultimi due sono sopraggiunti sul posto pressoché contemporaneamente o, comunque, il T. immediatamente dopo il T. – si veda quan‑ to dichiarato da L. G. delegato RSU FISMIC, partecipante allo sciopero: “…in un primo momento sopraggiunto il T., insieme al T. (subito dopo) e due sorveglianti…”; da R. V.: “… subito dopo arrivavano T. e T. insieme a tre capi UTE…”; da F. n. : “…a quel punto T. e T., unitamente a M., M. e M. ci raggiunsero sul posto..”; da T. S. : “…ad un certo punto, dopo l’intervento del T…”; da B. S. , delegato FIOM, partecipante allo sciopero: “…dopo pochi minuti sopraggiungevano il B., fino ad allora non presente, nonché il gestore operativo ed il responsabile del personale del turno, T…”; da T. F.: “…insie‑ me al T. mi sono recato nei pressi dell’assembramento…”; da M. F., responsabile UTE 7: “…T. e T. decidevano di raggiun‑ gere R.. Di conseguenza anche io, M. e M. abbiamo seguito T. e T. e ci siamo recati sui luoghi per cui è causa…”). È importante chiarire, ai fini che qui interessano, quando sia giunto sul posto T. F., atteso che i principali addebiti di cui alle contestazioni si collocano temporalmente nel periodo compreso tra l’intervento di detto gestore operativo e le 2.30. Ed allora va rilevato che, secondo quanto risulta dalla lettera di contestazione, l’intervento del T. è collocabile alle ore 2.20 (il che rende poco credibile la deposizione resa sul punto dallo stesso T., il quale tende ad anticipare il suo inter‑ vento sul luogo ove si sono svolti i fatti: “…sono arrivato sul luogo dell’assembramento tra le 2.08 e 2.10 circa…” ed a collocare intorno alle ore 2.20 il momento in cui i tre licen‑ ziati solo rimasti soli sul percorso destinato al transito del 2 0 1 2 33 convoglio: “…erano rimasti da soli sulla pista di transito degli AGV, fino al momento in cui gli stessi, insieme al P. si sono allontanati dalla pista, è passato circa un quarto d’ora in particolare tra le 2.20 circa e le 2.35 circa, quando è ripre‑ sa la produzione…a seguito dell’allontanamento dei tre…,” e così anche quella resa dal R.: “…subito dopo arrivavano T. e T. insieme a tre capi UTE. I medesimi sono arrivati intorno alle 2.05/2.10…). L’indicato orario delle 2.20, perè, è ragionevolmente tra‑ slabile di alcuni minuti in avanti alla luce di quanto dichiara‑ to dallo stesso F. n. (teste di parte aziendale) con riguardo alla circostanza che il T. intervenne sul posto dopo la telefo‑ nata di R. V.: “…a quel punto avvertivamo telefonicamente il T. ed il T. che erano in riunione con il M., il M. ed il M…non ricordo l’ora esatta in cui il R. fece la telefonata ma grosso modo potevano essere forse le 2,20…”. Si veda anche quanto riferito dal teste M. F., responsabile UTE 7 montaggio (altro teste di parte aziendale): “…io e M. raggiungevamo intorno alle 2.15 circa l’ufficio del sig. T. per consegnare documenti riguardanti alcuni dipendenti. Qui trovavamo i sigg. M., T. e T.. Ad un certo punto T. riceveva una telefonata durata qual‑ che minuto; a seguito di ciò ci riferiva poi che era stato con‑ tattato dal sig. R. che si trovava presso la UTE 3 e 4 e chiede‑ va l’intervento perché c’erano problemi con i manifestanti; a quel punto T. e T. decidevano di raggiungere R…”; dalla teste L. M.: “…è vero che verso le 2.20 circa il R. e il F. si avvici‑ narono al L., il quale era insieme agli altri delegati sindacali (E., l’altro delegato della UILM di cui non ricordo il nome, B.) intimandogli di riprendere la produzione…nell’occasione R. e F. non fecero riferimento ai carrello AGV ma espressa‑ mente palesarono l’esigenza aziendale di riprendere la produ‑ zione…successivamente sopraggiungevano sul posto anche il T., T., F. e R…”. In sostanza, le suddette dichiarazioni testimoniali rendo‑ no verosimile che sia stata la telefonata del R. ad avvenire intorno alle 2.20 e che solo dopo qualche minuto (consideran‑ do il tempo strettamente necessario per uscire dall’ufficio, ove era in corso una riunione, e recarsi sul posto; si veda quanto riferito da M. F.: “…dal ricevimento della telefonata siamo arrivati sul posto nel giro di qualche minuto poiché l’ufficio del T. dista circa 30 metri…”; da F. M., delegato UGL, par‑ tecipante allo sciopero: “..è vero che tra l’ufficio del persona‑ le ed il luogo dove si sono svolti i fatti vi è una distanza di circa 100 mt…”; da L. R., delegato UILM, partecipante allo sciopero: “…tra l’ufficio del personale ed il luogo ove si sono svolti i fatti intercorrono alcune decine di metri ma non sono in grado di specificare la distanza..”) il T. sia arrivato nella zona ove si trovavano gli scioperanti. Tale ricostruzione tem‑ porale appare coerente con la collocazione oraria della tele‑ fonata effettuata dal L. al B. (telefonata che è logico ritenere sia avvenuta pressoché in contemporanea con quella del R. al T. – in una situazione in cui si richiedeva da parte del respon‑ sabile UTE l’intervento del gestore operativo è comprensibile che un delegato abbia, a sua volta, chiesto di essere raggiunto sul posto dall’altro delegato – ed alla quale hanno fatto rife‑ rimento nelle loro deposizioni P. A.: “…quando il B. ci ha richiamato dentro, durante la nostra pausa‑sigaretta, egli ci ha riferito di essere stato contattato telefonicamente qualche minuto prima da L. il quale sollecitava il rientro di coloro che erano fuori (totalmente circa 6‑7 persone: B. e gli altri dele‑ civile Gazzetta 34 D i r i t t o e p r o c e d u r a gati, P. e M., nonché io ed altri 2‑3 colleghi) onde discutere sull’opportunità di protrarre lo sciopero. B. ci disse che il L. sollecitava tale rientro poiché intanto si era arrivati alle 2.25…”; L. M.: “…nell’occasione R. e F. non fecero riferimen‑ to ai carrello AGV ma espressamente palesarono l’esigenza aziendale di riprendere la produzione…e’ vero che a seguito di ciò il L. chiamava a telefono il B., che si trovava fuori dello stabilimento, invitandolo a raggiungere gli scioperanti perché c’erano dei problemi…”; M. C.: “…non ricordo che il B., quando siamo usciti a fumare, mi abbia riferito di aver rice‑ vuto una telefonata da L.; ricordo se non erro, però, di averlo visto a telefono…”; nonché, in sede di libero interrogatorio, lo stesso B.: “…sono rimasto fuori per circa venti minuti, poi alle 2.24, dopo aver ricevuto una telefonata dal L., il qual mi riferiva che c’erano in atto delle provocazioni da parte dei capi dell’azienda, rientravo anch’io per sincerarmi dell’acca‑ duto…”. Vi è anche in atti un tabulato telefonico relativo all’uten‑ za del L. (cui pure ha fatto riferimento il primo giudice) che costituisce altro elemento per ritenere che effettivamente la telefonata di quest’ultimo al B. vi sia stata, così come da quest’ultimo e dagli altri testi riferito. Tale documento – ri‑ conducibile con certezza al numero di telefono del L., come chiaramente si rileva dal contenuto del modulo di identifica‑ zione ed attivazione per ricaricabile pure prodotto ‑, regolar‑ mente acquisito agli atti già nel corso della fase cautelare (verbale di udienza del 4/8/2010) e rispetto al quale la S. A.T.A. S. p.A. si è limitata, nell’immediatezza della produ‑ zione, ad una generica contestazione di ammissibilità e rile‑ vanza, appare sicuramente deponente nel senso che la telefo‑ nata è stata effettuata all’indicata ora delle 2.24 (orario corrispondente all’unica chiamata in uscita dall’utenza del L. in quella notte). Se, dunque, come riferito dal teste B. S. (“…ad un certo punto sono arrivati due capi UTE, i sigg. F. e R. i quali inti‑ mavano la ripresa dell’attività produttiva, a tale intimazione il L. faceva presente che era in atto uno sciopero ed i capi UTE si allontanavano mentre effettuavano delle comunicazioni telefoniche. Dopo pochi minuti sopraggiungevano il B., fino ad allora non presente, nonché il gestore operativo ed il re‑ sponsabile del personale del turno, T…”) e da R. V.(“…ivi sopraggiungeva il B., il quale si posizionava a fianco al L., subito dopo arrivavano T. e T. insieme a tre capi UTE…”), il B. ed il T. sono giunti sul posto pressoché contemporanea‑ mente, anzi, il B. poco prima del T. (si veda anche quanto riferito da F. n. : “…il B. in una prima fase non era stato pre‑ sente, ossia quando siamo arrivati io e R., ma è sopraggiunto sul posto pochi istanti prima che ci raggiungessero il T., il T. e gli altri…”), può ritenersi che l’arrivo del gestore operativo sul luogo ove si sono svolti i fatti è avvenuto prima delle 2.24‑2.25. È pur vero che il teste R. V. ha fatto riferimento ad una discussione tra il T. e gli operai rimasti soli dinanzi al carrel‑ lo durata circa un quarto d’ora (“…il T. è rimasto a discutere con gli operai rimasti soli davanti al carrello per circa un quarto d’ora durante il quale il T. continuava a contestare che stavano bloccando gli AGV lavoratori continuavano a ripete‑ re che dovevano tenere l’assemblea…”) e che un periodo temporale anche più lungo è stato indicato dal T. (“…dopo il mio invito, comunque, gli scioperanti si sono spostati dalla c i v i l e Gazzetta F O R E N S E linea di transito degli AGV sono rimasti in loco solo B. e L. a discutere con me, a circa un metro davanti ai carrelli…in particolare sono rimasto insieme a loro per circa un quarto d’ora…”) e da M. F. (“…tutta la discussione è durata 15‑20 minuti…”), ma tale ricostruzione è contraddetta sia da quan‑ to contenuto nelle stesse lettere di contestazione, sia dalla altre emergenze istruttorie come sopra riportate. Si aggiunga ancora che anche i delegati di altre sigle sindacali hanno con‑ cordemente fatto riferimento ad un tempo più limitato rispet‑ to a quello indicato dai suddetti R., T. e M. (così, E. G., dele‑ gato FIMCISL: “…questa discussione intervenuta tra il T., il T., il L., il B. ed il P. è durata circa tra i 7 e 10 minuti, in par‑ ticolare dalle 2‑15‑2,20 circa sino alle 2.35 …”; M. C., dele‑ gato FISMIC: “…dall’intervento del T. a quando i tre si sono effettivamente spostati sono passati circa 7 minuti…”; L. G. delegato RSU FISMIC: “…preciso che dal momento che va dall’intervento del T. alla decisione dei tre di spostarsi sono passati una decina di minuti…”). In senso analogo si sono espressi S. M. (“…Il T. è rimasto tra gli scioperanti per le sue contestazioni circa 5/10 minuti…”) e L. M. (“…la discussione è durata poco più di due o tre minuti…”). L’ambito cronologico dei fatti (considerato che nella lette‑ ra di contestazione si indica quale momento finale del com‑ portamento addebitato ai tre operai le ore 2.30 “allorquando finalmente, Ella si allontanava dalla suddetta area di transi‑ to”) si riduce, di conseguenza, a cinque‑sei minuti ed in sif‑ fatto breve arco temporale va collocata la sequenza di quanto, in modo concitato, è avvenuto, con il particolare, assoluta‑ mente non trascurabile, che, quando il T. è giunto sul posto (circostanza, questa, che temporalmente coincide, più o meno, con il rientro del B.), nella zona riservata al transito degli AGV non vi erano solo il L., il B. ed il P., ma anche altri operai (e tra questi altri delegati sindacali), come è stato riferito dallo stesso T.: “…insieme al T. mi sono recato nei pressi dell’as‑ sembramento… non posso precisare quale fosse la distanza tra i carrelli ed il gruppo dei lavoratori poiché l’elevato nume‑ ro degli stessi impediva di valutare detta distanza. Una volta giunti sul posto il T. si è rivolto espressamente a L. e B. invi‑ tandoli a voler predisporre l’allontanamento degli scioperan‑ ti dalla pista magnetica dove transitavano i carrelli AGV… preciso che il T. si è rivolto ai due delegati proprio in virtù della loro funzione istituzionale poiché siamo soliti interagire esclusivamente con i rappresentanti sindacali …oltre a B. e L. c’erano altri sei rappresentanti sindacali di sigle diverse dalla FIOM…”; nonché da T. S. (teste aziendale): “…quando sono arrivato nei pressi dell’assemblea non riuscivo a vedere il car‑ rello anzi lo intravedevo perché i lavoratori erano davanti ed intorno allo stesso…Ho espressamente detto a tutti di spo‑ starsi per consentire il transito degli AGV …”; da M. Patrizio, responsabile della UTE 8 (teste aziendale): “…ad un certo punto tutti e cinque (M., M., T., T. e M.) ci recavamo imme‑ diatamente in quella zona dove rinvenivamo i manifestanti che sostavano sul corridoio, anche nella zona riservata al passaggio dell’AGV…il T., allora, rivolgendosi indistintamen‑ te a tutti, li invitava a spostarsi dal percorso del carrello perché ciò impediva lo svolgimento dell’attività produttiva… poiché i manifestanti non si spostavano interveniva anche il T. che sottolineava anch’egli le medesime contestazioni for‑ mulando nuovi inviti…a quel punto i manifestanti rimaneva‑ no ai lati del corridoio riservato all’AGV, innanzi al quale F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o rimaneva il sig. L. ed il B., a circa un metro di distanza da questo…”; da M. F. (teste aziendale): “…anche io, M. e M. abbiamo seguito T. e T. e ci siamo recati sui luoghi per cui è causa. Preciso che su tali luoghi siamo arrivati tutti e 5 con‑ testualmente. Avevo modo di notare circa una cinquantina di persone manifestanti che stazionavano in maniera irregolare, più precisamente sparpagliati, nel corridoio tra la UTE 3 e 4, e notavo, pur se con una certa difficoltà a causa del numero delle persone, la presenza di alcuni AGV fermi alle spalle degli scioperanti…preciso che i suddetti manifestanti occupa‑ vano anche la parte del percorso riservata al transito degli AGV…a quel punto il T. si è rivolto ai manifestanti ed ha chiesto loro di lasciare libero il percorso degli AGV…a quel punto prendeva la parola il L. il quale rispondeva che i pre‑ senti erano in assemblea e che non stavano facendo nulla di male; anche il B. successivamente interveniva ribadendo lo stesso concetto; pertanto il T. faceva notare a questi che, oltre ad ostacolare il transito degli AGV e quindi l’approvvigiona‑ mento dei materiali, stavano altresì violando le norma in materia di sicurezza…poiché a tali richiami nessuno si spo‑ stava, interveniva anche il T. che formalmente chiedeva ai manifestanti di spostarsi e di lasciare libero il passaggio degli AGV…preciso che prima del suddetto intervento del T., il T. diceva al B., con riferimento alle norme in materia di sicurez‑ za: “tu, tra l’altro, queste cose dovresti saperle perché sei RLS”…dopo anche l’intervento del T. i manifestanti comin‑ ciarono a spostarsi sui lati destro e sinistro del percorso riser‑ vato agli AGV, mentre il B. continuava a ribadire che si trat‑ tava di un’assemblea di lavoratori in sciopero”; da R. V. (teste aziendale): “…il gruppo era composto da circa una cinquan‑ tina di persone …dopo aver avvertito i responsabili aziendali (in particolare io ho chiamato T. sul cellulare aziendale) sono rimasto sul posto ed ho potuto constatare che ivi sopraggiun‑ geva il B., il quale si posizionava a fianco al L., subito dopo arrivavano T. e T. insieme a tre capi UTE. I medesimi sono arrivati intorno alle 2.05/2.10 e sono andati via alle 2.35… prima il T. e poi il T. hanno fatto presente a tutti i lavoratori presenti che la loro posizione era di ostacolo al transito degli AGV, L. e B., in un primo momento hanno risposto al T. che era in corso un’assemblea. Quando, poi, è intervenuto il T. per contestare le stesse cose, il B. ha reagito chiedendo di indicar‑ gli un posto dove poter tenere l’assemblea. Intanto gli altri lavoratori si erano allontanati ed erano rimasti i soli B. e L. …”; da F. n. (teste aziendale): “…anche il T. ed il T., poi, contestarono al gruppo di lavoratori che erano posizionati sul corridoio ed anche sul percorso riservato al transito degli AGV. Il T., in particolare, chiedeva loro di mettersi al lato di tale passaggio per consentire il percorso dell’AGV, ma il L. gli rispondeva che erano in assemblea, allora il T. ricordava in particolare al L. ed al B. che anche per motivi di sicurezza la normativa non consentiva la sosta in tale area…”; da B. S. : “…in quel frangente il gestore operativo puntava il dito contro il L. il quale era insieme a tutti gli altri e gli diceva più volte che era passibile di contestazione…”; da P. A.: “…a seguito della proclamazione dello sciopero e dopo il corteo interno tra i corridoi ci siamo fermati per tenere un’assemblea nel corridoio tra la UTE 3 e la UTE 4. Il nostro assembramento interessava il camminamento pedonale, la pista di transito degli AVG e il corridoio ad essa attiguo. Tuttavia quando siamo arrivati ivi vi era un carrello già fermo e noi ci siamo 2 0 1 2 35 fermati in assemblea circa 2‑3 metri davanti al carrello …nel corso dell’assemblea mi sono allontanato con 3‑4 colleghi per circa 10‑minuti onde fumare una sigaretta. Il B. nell’occasio‑ ne ci ha richiamato all’interno perché bisognava discutere sulla eventuale protrazione dello sciopero oltre l’orario in precedenza determinato. Al rientro io insieme agli altri colle‑ ghi ed al B. ci siamo fermati a discutere dietro al carrello mentre l’assemblea continuava ad occupare gli spazi che ho già indicato…ad un certo punto è arrivato il G.O. accompa‑ gnato dal REPO e da due capi UTE il quale ha iniziato a contestare al L. il fatto che lo stesso bloccasse il carrello e quindi la produzione… era a circa 10‑15 metri di distanza dal luogo in cui il G.O. discuteva con il L… in quel frangente il delegato sindacale UILM, sig. P. …si avvicinava ai due con‑ tendenti facendo notare che il L. non era l’unico che stava scioperando, in quanto lo sciopero aveva registrato l’adesione di circa 60 persone..a questa osservazione non vi è stata alcu‑ na risposta da parte del G.O., anzi preciso che dopo poco, il Gestore medesimo, dopo aver chiesto ed ottenuto le generali‑ tà da M. Pigantelli, ha effettuato la medesima contestazione nei confronti di costui…preciso che al momento delle conte‑ stazioni il L. ed il P. erano comunque insieme ad altri lavora‑ tori all’esterno della pista di transito degli AGV e più precisa‑ mente nell’area di camminamento pedonale…”; da S. M.: “… durante la nostra assemblea nessuno dei responsabili azien‑ dali ci ha mai contestato specificamente che stessimo impe‑ dendo il transito degli AGV. Io personalmente non capivo i motivi della contestazione soprattutto perché eravamo a 2/3 metri dai carrelli. Infatti quando ci siamo spostati il carrello non è ripartito…Non ho capito il motivo per il quale i respon‑ sabili si rivolgevano per lo più al sig. L. il quale era vicino agli altri lavoratori. Non ho altresì compreso il motivo delle con‑ testazioni a P., il quale in quel momento era alle mie spalle e si è mosso di qualche passo per ascoltare ciò che diceva il G.O…di fronte alle contestazioni dei responsabili, il L. ha chiesto il perché stessimo ostacolando la produzione. La sua domanda non ha trovato risposta. Solo successivamente ab‑ biamo autonomamente inteso che probabilmente volevano significare che stessimo bloccando i carrelli…”; da L. G.: “… ad un certo punto sopraggiungono il M. C. ed il B. il quale ultimo ci invitava a rientrare per parlare sul da farsi…quando io sono rientrato ho trovato un gruppo di persone che sostava sia all’esterno che all’interno dell’area delimitata dalle linee gialle, riservata al passaggio dei carrelli… preciso che quando mi sono allontanato dal corteo, per andare a fumare all’ester‑ no, eravamo già arrivati tutti quanti davanti l’area posti in‑ nanzi al carrello e dove poi li ho ritrovati quando sono rien‑ trato nello stabilimento. In tale prima fase, ossia quando siamo rientrati nell’area picking, prima che io andassi a fu‑ mare, non so se ci fosse o meno un carrello e se questo fosse o meno fermo, perché io non ero in testa al corteo…quando sono rientrato dalla pausa sigaretta davanti al carrello vi erano, in particolare nelle immediate vicinanze del suddetto carrello, il L. ed il B. oltre ad altri lavoratori …”; da M. C.: “…ricordo che si era fermato un gruppo di persone che sta‑ zionava sul posto dove sarebbero poi avvenuti gli eventi per cui è causa ma non ricordo, anzi ricordo che le persone sta‑ zionavano sia all’esterno sia all’interno dell’area destinata al passaggio dei carrellini… il B. è uscito contestualmente a me… dopo aver fumato siamo rientrati in stabilimento per raggiun‑ civile Gazzetta 36 D i r i t t o e p r o c e d u r a gere gli altri…rientrato ho nuovamente trovato o stesso grup‑ po di persone nella stessa zona dove li avevo lasciati prima…”; da F. M.: “…preciso che molte altre persone si trovavano all’interno della stessa zona dove sostava il P.; il L. ed il B., invece, erano vicino al P. ma più all’interno del corridoio ri‑ servato al passaggio dei carrellini. Io in particolare ero posto sulla fascia rossa sapendo che oltre non mi era consentito sostare…”; da L. M.: “…alla discussione intercorsa tra il T. ed il L. assisteva anche il P. il quale faceva notare a T. che lo sciopero si era svolto nel rispetto delle regole del contratto… la discussione è durata poco più di due o tre minuti…al mo‑ mento della discussione tra il T. ed il L., quest’ultimo era come noi posto a circa un paio di metri dal carrellino già fermo…”, da F. M., iscritto FIOM, partecipante allo sciopero: “…preciso che i responsabili SATA non rivolsero al L. un preciso invito a spostarsi, contestando solo il fermo della produzione…finché L., B. e P. non si sono spostati, anche tutti noi altri siamo rimasti sulla banda magnetica perché non avevamo ancora capito che il problema era l’ostacolo al pas‑ saggio dell’AGV…ce ne siamo resi conto quando il gestore operativo ha mosso formale contestazione di tale ostacolo alla produzione dapprima anche al P. (che aveva una busta paga in mano) chiedendogli le generalità e, poi, quando è stato richiamato anche il B., intervenuto a difesa del P., facen‑ do notare al gestore che non era quello il modo di rivolgersi ad un lavoratore…”. Orbene, così essendosi svolti i fatti, è certo che, al momen‑ to dell’intervento del T. nella zona riservata al transito degli AGV vi erano, oltre i dipendenti licenziati, altri manifestanti, i quali, solo con il progressivo degenerare della discussione del gestore operativo con il L. ed il B., si sono man mano spostati restando peraltro nelle immediate vicinanze, ai lati del corridoio, così da rimanere esposti al pericolo di investi‑ mento e da impedire le verifiche di sicurezza preliminari al riavvio dell’AGV. A tale proposito deve sottolinearsi che la raffigurazione fotografica del veicolo evidenzia che il suo bumper, e cioè il paraurti esterno, fuoriesce rispetto all’unità motrice che cammina guidata dal nastro magnetico, con la conseguenza che, essendo verosimile ipotizzare un ingombro del convoglio anche oltre la delimitazione di cui alla banda magnetica (non a caso, proprio sul bumper sono collocati, come si evince dal manuale d’uso, i dispositivi tattili di pro‑ tezione), ne risulta pericolosa la circolazione in caso di pre‑ senza di persone nella parte del corridoio più prossima alla banda magnetica. Vi è, infatti, da chiedersi se, pur libera la zona sulla quale insiste la banda magnetica, ma posizionato un certo numero di operai sui corridoi immediatamente limi‑ trofi, prudente sarebbe stato il riavvio dell’AGV, e ciò proprio per l’esigenza del rispetto di quelle norme di cautela che se‑ condo il giudice dell’opposizione ha indotto i responsabili ad attendere che i tre operai licenziati si spostassero prima di ripristinare il funzionamento dei carrelli – “infatti se non si spostavano, pur essendo l’AGV già fermo per i più svariati motivi, i tecnici S. A.T.A. non potevano manualmente reset‑ tarlo e riavviarlo, se non accettando il rischio di poter inve‑ stire qualcuno in caso di un guasto paventato proprio dal sindacato”‑. Sul punto è significativa la deposizione di P. A.: “…preciso che al momento delle contestazioni il L. ed il P. era‑ no comunque insieme ad altri lavoratori all’esterno della pista di transito degli AGV e più precisamente nell’area di cammi‑ c i v i l e Gazzetta F O R E N S E namento pedonale..la distanza dai carrelli era sempre nell’or‑ dine di 2‑3 metri…preciso comunque che i carrelli sono dota‑ ti anche di fotocellule laterali per cui vanno soggetti a fermo momentaneo nel caso in cui si incrociano con un pedone in‑ tento a camminare nel corridoio pedonale. Il mezzo riparte non appena l’ostacolo è superato…”. Certo è che, per quanto detto, risulta ulteriormente ridot‑ to il tempo in cui gli operai licenziati sono rimasti soli nella zona di transito degli AGV (intesa, questa, come di “sicuro” transito), come ha riferito il T.: “…a discutere con me, a circa un metro davanti ai carrelli…” ed analogamente il T.: “…ad un certo punto, dopo l’intervento del T., la maggioranza dei lavoratori si è spostata. Sono rimasti a circa 80cm./1 metro, B. e L. (L. a circa 80 cm./ 1 metro, B. era spostato in avanti verso di me) mentre discutevano con il T.. P. quando è stato contestato si era frapposto tra il L. e il carrello AGV…”. Dunque, alla luce delle risultanze acquisite, l’addebito contestato deve subire un sicuro ridimensionamento, tanto con riferimento all’asserito deliberato intento di ostacolare la produzione, quanto con riferimento alla sua componente oggettiva, identificata dalla società in un “impedimento al transito, decorso, passaggio del carrello stesso che i tre licen‑ ziati con la loro condotta (negligente e oltraggiosa) hanno certamente causato”, impedimento che, a tutto voler conce‑ dere, è risultato temporalmente più circoscritto di quello la‑ mentato, con ovvie conseguenze sul danno asseritamente derivatone, relativamente al quale giova, in ogni caso, preci‑ sare che mancano elementi che consentano di ravvisarlo sotto forma di pregiudizio per la competitività aziendale. Il che induce a formulare ampie riserve sulla rispondenza ad un criterio di proporzionalità dei licenziamenti sub iudice. Tutto ciò posto, si impongono le seguenti ulteriori consi‑ derazioni. Non è indifferente, ai fini della complessiva valutazione di quanto accaduto, che prima il T. e poi il T. si siano rivolti, tra tutti i lavoratori in quel momento presenti nella zona in‑ terdetta (e tra questi, come ha dichiarato lo stesso T., “c’erano altri sei rappresentanti sindacali di sigle diverse dalla FIOM”), proprio al L. (che, secondo quanto riferito dalla teste M. G.: “…non era in una posizione particolare rispetto agli altri la‑ voratori ma era insieme agli stessi … appena il T. è arrivato nei pressi dell’assemblea ha immediatamente contestato L., il quale era fra gli altri lavoratori”) ed al B. (sopraggiunto solo in quel momento). Ciè è dipeso, come precisato proprio dal T., dallo loro “funzione istituzionale” grazie alla quale si pensava di ottenere “l’allontanamento degli scioperanti dalla pista magnetica dove transitavano i carrelli AGV”. Ma la scelta dei predetti, ed in un secondo momento, quasi “a ruota”, del P. (avvicinatosi ai delegati della propria organizzazione sindacale già impegnati nella discussione) quali interlocutori dei responsabili aziendali ed in particolare del gestore operativo (che pure in qualcuno dei presenti ha destato perplessità: si veda quanto dichiarato da B. S. : “…in quel frangente il gestore operativo puntava il dito contro il L. il quale era insieme a tutti gli altri e gli diceva più volte che era passibile di contestazione…io personalmente non ho ca‑ pito né il motivo della contestazione né perché il gestore prendesse di mira il solo L… In quel frangente, poi, senza che nemmeno per tale lavoratore ho ben compreso il motivo della contestazione, il gestore si è rivolto al P. richiedendogli le F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o generalità perché a suo dire lo stesso avrebbe dovuto proce‑ dere al licenziamento del P…non ho compreso il motivo di tale accanimento, poiché il P. era uno qualunque degli astan‑ ti e non aveva posto in essere alcuna condotta particolare…”; da S. M.: “…non ho capito il motivo per il quale i responsa‑ bili si rivolgevano per lo più al sig. L. il quale era vicino agli altri lavoratori. Non ho altresì compreso il motivo delle con‑ testazioni a P., il quale in quel momento era alle mie spalle e si è mosso di qualche passo per ascoltare ciò che diceva il G.O…”; da M. G.: “…nel frangente il P. era a fianco a me, mentre consultava la sua busta paga; lì vicino c’era anche M.; in quel frangente il G.O. ha contestato anche al P., che era con me nell’area rossa, il blocco dell’attività produttiva. Più pre‑ cisamente, prima ha provveduto ad identificare il P. dopo di che ha profferito le seguenti parole: “L. e P. siete contestati”… io ho avvertito l’ingiustizia subita da L. e P. ed ho sollecitato il mio delegato ad intervenire facendogli notare che al posto dei due avrei potuto esserci anche io…”; da L. M.: “…il R. e il F. si avvicinarono al L., il quale era insieme agli altri dele‑ gati sindacali…intimandogli di riprendere la produzione… detta circostanza, ossia l’essersi riferiti ad un delegato in particolare apparve a noi strana. A mio avviso i responsabili SATA si sarebbero dovuti rivolgere a tutti i delegati conside‑ rato anche che, ad esempio, E. aveva una maggiore anzianità di mandato rispetto al L…successivamente sopraggiunsero sul luogo anche il T., T., R. e F. che rivolgendosi solamente al L. gli contestavano il fermo della produzione …senza null’al‑ tro specificare …il L. rispondeva “noi siamo in sciopero”. A quel punto il T. richiamava anche il Pigantelli che era vicino a noi altri (a me, E. ed altri) con la busta paga in mano, chie‑ dendogli le proprie generalità…”) è stata la sola ed esclusiva ragione che, in un arco temporale come sopra delimitato, ha indotto a non allontanarsi i lavoratori poi licenziati, trattenu‑ tisi appunto sul posto per rispondere alle contestazioni che (solo) a loro venivano rivolte e che percepivano come ingiuste. Si richiama, con riferimento ad analoga condivisa percezione, quanto dichiarato dal teste F. M. – già sopra riportato – e dalla teste L. M.: “…inizialmente non ci eravamo resi conto del perché fosse stato loro contestato il fermo della produzio‑ ne, ce ne siamo resi conto successivamente, quando, allonta‑ natisi tutti dal carrello, il R. provvedeva ad avviare la mano‑ vra di ripristino del funzionamento del carrello…dopo aver fatto le necessarie manovre, il carrello non ripartiva ed il T. rivolgendosi al R. con un tono un po’ alto gli diceva: come mai non riparte questo carrello?”; alla discussione intercorso tra il T. ed il L. assisteva anche il P. il quale faceva notare a T. che lo sciopero si era svolto nel rispetto delle regole del con‑ tratto..”. Del resto, anche valutando la condotta da un punto di vista oggettivo, non può ritenersi che lo stazionamento dei lavoratori sulla banda magnetica su cui si muove il carrello AGV abbia integrato un comportamento materiale diretto ad ostacolare il transito del convoglio (risultando, al più, lo stes‑ so impeditivo di un pronto ripristino – condizione, però, come già detto, comune anche ai lavoratori che si trovavano nelle immediate vicinanze della banda magnetica ‑), tale da poter essere in qualche modo assimilato alle condotte sottoposte all’esame del Supremo Collegio e di cui sopra si è detto (v. retro, pag. 30, Cass. n. 3508 del 24/5/1986). Al riguardo ri‑ leva la circostanza, pressocché unanimemente riferita, che, 2 0 1 2 37 anche quando tutti i lavoratori si sono spostati (compresi il L., il B., il P.), i carrelli non sono ripartiti, essendosi resa ne‑ cessaria una attività di riavviamento manuale dell’AGV. Si‑ gnificativo è quanto riferito (per citare solo i testi dell’azienda) da R. V.: “… il T. continuava a contestare che stavano bloc‑ cando gli AGV, i lavoratori continuavano a ripetere che dove‑ vano tenere l’assemblea. Si sono allontanati dal carrello alle 2.35 circa…Dopo l’allontanamento ho provveduto a ripristi‑ nare il carrello schiacciando il tasto reset…”; da F. n. : “…È vero che verso le 2.30 L., B. e P. si spostavano e constatavo che l’AGV non ripartiva; il R. interveniva sull’avviamento dello stesso premendo il pulsante “reset”…”; da M. F.: “… spostatisi i manifestanti, poiché il carrello AGV non ripartiva automaticamente, il R. interveniva manualmente sul pulsante reset per consentire la ripresa del movimento..”. Ciò, invero, non esclude l’anomalia del permanere per un certo tempo in una zona comunque interdetta ai pedoni (e tale era indubbia‑ mente la zona su cui insisteva la banda magnetica per il transito degli AGV). Tuttavia, in un contesto in cui era in corso uno sciopero, le linee erano state bloccate ed i carrelli risultavano fermi (senza le luci di emergenza accese che po‑ tessero lasciare intendere la sussistenza di una anomalia nel transito), è verosimile che la contestazione (sia stata essa for‑ mulata come del blocco della produzione ovvero come del blocco dei carrelli) possa essere stata percepita come qualco‑ sa di ingiusto (come emerso da risultanze già richiamate – ve‑ di pagg. da 53 a 55 ‑). Se, allora, va ritenuto che i responsabili aziendali, pur essendo in corso di svolgimento uno sciopero, fossero legitti‑ mati, in base ai principi sopra richiamati in tema di limiti esterni al diritto di sciopero, a dare le disposizioni volte a garantire la conservazione dell’assetto organizzativo e la ri‑ presa della produzione, non può trascurarsi il fatto che, per le modalità con cui le stesse sono state impartite, per la con‑ citazione del momento e lo scontro sindacale dichiaratamen‑ te in atto (già il solo fatto che giungono sul posto, oltre al F. ed al R., altri 5 responsabili aziendali, tutti insieme, è indica‑ tivo dell’impatto anche emotivo che tale intervento può aver avuto sul gruppo degli scioperanti) nonché per la situazione oggettiva del fermo dei carrelli, siano state intese come diret‑ te a censurare qualcosa (e cioè, appunto, il blocco dei carrelli) che i lavoratori assumevano di non aver provocato. Del resto, la stessa circostanza che il T. abbia dovuto più volte ripetere tanto l’invito a spostarsi quanto la contestazione, è significa‑ tiva, contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, del fatto che non era stato immediatamente compreso che non veniva addebitato il blocco dei carrelli bensì il posizionamen‑ to atto ad impedirne il transito (o meglio, per quanto sopra detto, la ripresa del transito). D’altronde, una valutazione compiuta della vicenda non può trascurare che il modo del T. di rapportarsi con il L., il B. ed il P. non è stato così tranquillo e pacato come la società sostiene. Intanto si osserva che ad un “atteggiamento provocatorio” del gestore operativo si fa riferimento nel documento sotto‑ scritto in modo unitario da tutta la RSU nell’immediatezza dello svolgimento dei fatti. È vero che alcuni sottoscrittori di tale documento (ed in particolare i delegati FISMIC a UILM, cioè i rappresentanti sindacali delle organizzazioni che, come è notorio, hanno espresso forti criticità nei confronti della civile Gazzetta 38 D i r i t t o e p r o c e d u r a FIOM in relazione alla posizione da quest’ultima assunta con riguardo ai c.d. “accordi di Pomigliano”, sostanzialmente addebitando alla stessa la responsabilità della rottura della unità sindacale tra le organizzazioni maggiormente rappre‑ sentative del paese) ne hanno, successivamente, in un certo qual modo preso le distanze, parlando delle riserve che esso aveva suscitato o comunque di perplessità avute al momento della richiesta della relativa sottoscrizione (si veda quanto dichiarato da L. G.: “…io non ero d’accordo sull’iniziativa di redigere tale documento ed invitavo il M. ed il F. a non sotto‑ scriverlo; ma poiché nell’occasione venivo fatto oggetto di ilarità da parte di P. (in quanto mi diceva che dovevo farmi prima autorizzare dal mio segretario R.) alla fine mi convin‑ si anch’io a sottoscrivere una dichiarazione circa la regolarità delle modalità dell’avvenuto sciopero…”; da M. C.: “..il do‑ cumento sottoscritto da noi delegati quella sera è stato fatto con la finalità particolare di tutelare il lavoratore P. da even‑ tuali sanzioni disciplinari…ricordo le perplessità mie e del L. nel sottoscrivere tale documento. Almeno inizialmente. …il L. mi aveva manifestato la propria perplessità circa le conse‑ guenze che nel caso particolare avrebbe potuto comportare tale documento circa lo “scontro” avvenuto in precedenza con i preposti alla produzione…”, da P. D.: “…se non ricordo male, almeno inizialmente, il L. si mostrò perplesso a firma‑ re tale documento, tant’è che io lo invitai a chiamare il proprio segretario provinciale…se avessi saputo all’epoca che il con‑ tenuto di tale documento non sarebbe rimasto in ambito aziendale forse non lo avrei sottoscritto…”). Tuttavia va considerato che il documento in questione era stato ritenuto “inusuale” dal segretario generale della FI‑ SMIC, D. M. A., il quale, come dallo stesso dichiarato, ne aveva chiesto conto al segretario provinciale R. M. e, su indi‑ cazione di questi, a L. G.. In effetti, un documento sottoscrit‑ to congiuntamente ai delegati FIOM era certo inusuale in un momento di contrapposizione tra le stesse sigle sindacali (il c.d “accordo di Pomigliano” – che mirava al rilancio della produttività con l’introduzione di regole innovative sull’orario di lavoro, lo straordinario, la distribuzione delle mansioni tra operai diretti ed indiretti, l’organizzazione del lavoro ed altro, fino alla previsione di una clausola di responsabilità per la mancata osservanza degli impegni assunti dalle OO.SS. e dalle R.S. U. anche a livello dei suoi componenti – era stato stipulato tra la FIAT Group Automobili e la FILM, UILM, FISMC e le R.S. U. dello stabilimento di Pomigliano in data 8/6/2010 e cioè prima dello svolgimento dei fatti per cui è causa e non era stato siglato dalla FIOM‑CGIL; analogamen‑ te era accaduto con l’accordo per lo stabilimento di Mirafiori firmato in data 23/2/2010 dalla FIAT e dai sindacati metal‑ meccanici, esclusa la FIOM‑CGIL). Proprio per questo, però, tale documento assume, con riguardo alla completa ricostru‑ zione dei fatti, una valenza particolarmente significativa che, solo attribuendo ai delegati FILMIC e UILM sottoscrittori dello stesso una sorta di “sudditanza” funzionale rispetto a quelli della FIOM, potrebbe escludersi. Si aggiunga che nessuno dei predetti testi ha affermato che, quanto nel documento riportato in ordine all’atteggiamento del T., non corrispondesse al vero. Anzi il teste P. D. ha così dichiarato: “…ricordo che al mio rientro vidi il gestore opera‑ tivo già sul posto dove si stavano svolgendo gli eventi, che stava già contestando al B. ed al L. più volte, con tono elevato, c i v i l e Gazzetta F O R E N S E il fermo della produzione, perché stavano ostacolando l’atti‑ vità produttiva, non ho sentito però invitare loro a spostarsi.. …ribadisco che il tono del gestore operativo era alto, io per‑ sonalmente mi sarei limitato semplicemente a dire: “guardate che dovete spostarvi perché siete sul posto dei carrelli…”… non ricordo che nell’occasione io mi sia rivolto al T. dicendo‑ gli “guarda che mò stai esagerando”; per me l’atteggiamento del T. è stato percepito come provocatorio …preciso che le provocazioni ci sono state da una parte e dall’altra…”. Ha fatto riferimento ad un crescendo di tono del T. anche M. C.: “…preciso che inizialmente il T., nel contestare il bloc‑ co della produzione, ha usato dapprima un tono normale e successivamente un tono più deciso…”. Non si dimentichi che il M. è il delegato FISMIC che, come si evince dagli atti tra‑ smetti alla Corte dalla Procura della Repubblica di Melfi, messo di fronte alla trascrizione di un colloquio intercorso tra lui ed il B. e da quest’ultimo registrato – colloquio il cui testo non è nella disponibilità del Collegio, non essendone stata autorizzata la produzione in giudizio da parte del giudice dell’opposizione, ma che, per quanto si evince dai verbali di sommarie informazioni dei Carabinieri del Nucleo Operativo e Radiomobile di Melfi, regolarmente acquisiti, dovrebbe ve‑ rosimilmente avuto ad oggetto una ricostruzione dei fatti avvenuta la notte tra il 6 e 7 luglio in senso conforme a quella, nel presente giudizio, prospettata dall’appellante – ha dichia‑ rato alla P.G. che le parole dette al B. erano “bugie e discorsi inventati a scopo solidale, giusto per confortare B. G., dato che in quei giorni era giù di morale”. Tale comportamento del M. – e, nel complesso, quello degli altri delegati che hanno preso le distanze dal documento sopra citato – la dice lunga su quanto una posizione assunta in un ambito valutato come riservato e soprattutto come destinato a rimare tale, possa aver risentito, nel momento della ufficiale e pubblica conferma, della necessità di apparire fedeli alla linea di contrapposizione sindacale, risultandone, così, influenzata. Ugualmente il teste P. A. ha dichiarato che proprio il B. aveva avuto quale prima reazione quella di contestare i toni usati dal T.: “…il gestore ha proseguito diverse volte a contestare la presunta infrazione al P., finché non è intervenuto il B. il quale ha contestato i toni utilizzati dal g.o. facendo al contempo presente che non era giusto che egli si rivolgesse direttamente al lavoratore es‑ sendo più opportuno che interloquisse invece con i delegati… il B. è stato il primo ad intervenire in difesa del P. anche se io stesso ho avvertito che il gestore stesse contestando una circo‑ stanza non vera in quanto non stavamo bloccando i carrelli perché i carrelli erano già fermi e le linee erano ferme perché una parte dei lavoratori era in sciopero. Nessun altro è inter‑ venuto a difendere P…”. Non diversamente si è espressa la teste L. M.: “…a quel punto il T. richiamava anche il P. che era vicino a noi altri (a me, E. ed altri) con la busta paga in mano, chiedendogli le proprie generalità, il P. gliele forniva e il T. a lui rivolgendosi gli diceva più volte: “lo sai che anche tu sei passibile di licenziamento?”; nel frattempo interveniva anche il B. (che stava parlando con un altro lavoratore) che, rimanendo sul posto e girandosi verso il T., gli faceva notare che non erano questi i modi di rivolgersi ad un lavoratore; il T. rispondeva: “allora sei contestato anche tu”; a questo pun‑ to il T., rivolgendosi a tutti i soggetti coinvolti nella discussio‑ ne, li invitava ad andare a discutere nel suo ufficio; il T. gli rispondeva che nella sua officina comandava lui…”. F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o Ma questa fase della vicenda assume importanza anche sotto altro profilo. Risulta dalle deposizioni testimoniali or ora riportate che la discussione tra il L. ed il B., da una parte, ed il T., dall’altra, si è fatta decisamente più animata dopo le contestazioni rivol‑ te da quest’ultimo al P., avvertite da più di un lavoratore presente ai fatti come un incomprensibile accanimento nei confronti di chi non aveva avuto un comportamento tale da giustificare un richiamo così perentorio e grave. In tale pro‑ spettiva rileva anche il primario ruolo sindacale rivestito dal L. e dal B. i quali, a fronte del diretto coinvolgimento di un iscritto FIOM nelle stesse accuse a loro rivolte (e per quanto sopra detto percepite come ingiuste), hanno ritenuto di inter‑ venire in difesa del lavoratore. Emblematico è che, nella situa‑ zione come determinatasi, la teste M. G., iscritta ad un sin‑ dacato diverso da quello del L. e del B., e cioè alla FISMIC, abbia avvertito l’esigenza di chiedere l’intervento del proprio delegato (“…in quel frangente il G.O. ha contestato anche al P., che era con me nell’area rossa, il blocco dell’attività pro‑ duttiva. Più precisamente, prima ha provveduto ad identifica‑ re il P. dopo di che ha profferito le seguenti parole: “L. e P. siete contestati”…io ho avvertito l’ingiustizia subita da L. e P. ed ho sollecitato il mio delegato ad intervenire facendogli notare che al posto dei due avrei potuto esserci anche io…”). Di certo, allora, vi è stata la permanenza dei tre lavorato‑ ri licenziati in una zona interdetta al personale per alcuni minuti (5‑6 secondo la ricostruzione temporale sopra effet‑ tuata, avendo come limite finale quello delle 2.30 di cui alle lettere di contestazione), successivi all’intervento in loco del T. (dei quali, almeno i momenti iniziali in condivisione con altri lavoratori e delegati sindacali), in un contesto di anima‑ ta discussione con il gestore operativo, caratterizzata da toni non propriamente pacati e dalla già sopra riferita percezione dell’ingiustizia della contestazione rivolta ai tre lavoratori in quel frangente in ragione dell’accertato fermo del carrello. Così come è innegabile che il trascendere della discussio‑ ne, con un sicuro malgoverno delle espressioni verbali da parte del L. e del B., era anche dipeso dal fatto che il T. aveva minacciato di licenziamento (“contestato”) il P. (dicendo al suo indirizzo che era passibile di licenziamento e, come rife‑ risce il teste E. G., “scandendo bene le parole”) laddove, tale lavoratore, a detta dei testi sopra citati, era stato in una po‑ sizione defilata e solo a discussione già iniziata si era avvici‑ nato ai due delegati, ponendosi vicino a loro a braccia con‑ serte. Il P., peraltro, era stato visto con una busta paga in mano (si veda quanto riferito da M. G.: “…nel frangente il P. era a fianco a me, mentre consultava la sua busta paga…” e da L. M.: “..a quel punto il T. richiama anche il P. che era vicino a noi altri (a me, E. ed altri) con la busta paga in mano, chiedendogli le proprie generalità; il P. gliele forniva e il T. a lui rivolgendosi gli diceva più volte “lo sai che anche tu sei passibile di licenziamento?”; nel frattempo interveniva anche il B. (che stava parlando con un altro lavoratore) che, rima‑ nendo sul posto e girandosi verso il T., gli faceva notare che non erano questi i modi di rivolgersi ad un lavoratore; il T. rispondeva: allora sei contestato anche tu…”), segno tangibi‑ le di un interesse in quel momento circoscritto solo a verifiche di tipo retributivo. D’altra parte, se in difesa di tale lavorato‑ re sono scesi tutti i delegati sindacali con la sottoscrizione del documento sopra menzionato, la cui motivazione è stata una 2 0 1 2 39 sorta di “debolezza” dell’operaio (il teste P. ha riferito che, dopo la contestazione del T., il P. era rimasto “imbambolato”; il teste B. S. ha dichiarato: “…P. ha declinato con timore le proprie generalità ed in quel momento è intervenuto il B. …”), è veramente arduo sostenere, come fa il primo giudice, che dietro quelle braccia conserte vi potesse essere un atteggia‑ mento di sfida. Del resto, si tratta di un gesto talmente comu‑ ne da non poter assumere un qualche univoco significato ben potendo, ad esempio, lo stesso essere inteso, secondo i più studiati e conosciuti canoni interpretativi del linguaggio del corpo, come espressivo di una chiusura verso l’esterno, di una scarsa disponibilità alla comunicazione, di una forte vulne‑ rabilità (braccia incrociate come forma di difesa, per creare una barriera fra la persona ed il soggetto che incute preoccu‑ pazione). A ciò deve aggiungersi che: a) le frasi rivolte dal L. e dal B. al gestore operativo per contestarne l’autorità, lungi dal porre in discussione una ge‑ rarchia aziendale, sembrano in quel contesto più che altro dirette a reagire, da delegati sindacali, ad un ammonimento (al P.) valutato come improprio tanto nei toni quanto nella sostanza. Né va sottaciuto che l’essere in quel momento i la‑ voratori in sciopero può aver indotto il L. ed il B. a non rico‑ noscere il ruolo gerarchico del T.; b) nessuna valenza intimidatoria o anche gravemente of‑ fensiva può essere attribuita, considerato il contesto e l’aspro diverbio che si stava consumando, alle frasi pronunciate dal B. all’indirizzo del T. “mi devi dare del lei” o “ti si è incanta‑ to il disco?”. Riguardo alla prima frase, non è condivisibile l’assunto del primo giudice che, in modo alquanto singolare, ha dedotto la valenza irriguardosa e provocatoria “volta al pubblico ludibrio” dal fatto che detto lavoratore “…è il primo a non dare (del lei) al giudice dell’opposizione durante tutto il suo interrogatorio, così come del resto gli altri due suoi colle‑ ghi!”. Riguardo alla seconda, va escluso che la stessa, al di là dell’espressione sconveniente, possa aver avuto una portata oggettivamente offensiva ovvero di pubblico scherno; c) lo scambio verbale, scaturito in un contesto ambientale di forte contrapposizione, nel quale i toni esasperati hanno reciprocamente valicato il confine di una discussione pacata e misurata, è, in effetti, solo significativo di una poco control‑ lata gestione da parte degli operai licenziati dei propri mezzi espressivi, non anche di una intenzione di offendere ovvero intimidire l’interlocutore (al contrario, va registrato che, se un effetto la discussione ha avuto nell’immediato, è stato quello di disorientare alcuni fra quelli che vi avevano assistito; si richiama, al riguardo, quanto riferito tal teste E. G.: “…già alle 3 meno venti alcuni lavoratori si allontanavano timbran‑ do la ripresa dell’attività nonostante lo sciopero ufficialmente terminasse alle 3 …”); d) analogamente la “minaccia” di estendere lo sciopero a tutto il montaggio (si veda quanto dichiarato da L. G.: “…il B. riferendosi al T. minacciava di estendere lo sciopero a tutto il montaggio (non solo dalla 1 alla 4 ma a tutte e 20) trasformando la protesta in uno sciopero contro il Gesto‑ re…”), lungi dall’integrare una condotta illegittima, altro non è se non la rivendicazione di un diritto costituzionalmente garantito. Discende dai rilievi sinora svolti – avuto riguardo soprat‑ tutto alle modalità, anche di tempo, della vicenda, che non civile Gazzetta 40 D i r i t t o e p r o c e d u r a evidenziano specifici e, quanto a gravità, significativi addebiti a carico del B., del L. e del P., rispetto ad altri manifestanti, nonché al fatto che non risulta che questi ultimi siano stati raggiunti da alcun provvedimento disciplinare, a differenza dei suddetti B., L. e P., malgrado la Dunque, alla luce delle risul‑ tanze acquisite, l’addebito contestato deve subire un sicuro ridimensionamento, tanto con riferimento all’asserito delibe‑ rato intento di ostacolare la produzione, quanto con riferimen‑ to alla sua componente oggettiva, identificata dalla società in un “impedimento al transito, decorso, passaggio del carrello stesso che i tre licenziati con la loro condotta (negligente e oltraggiosa) hanno certamente causato”, impedimento che, a tutto voler concedere, è risultato temporalmente più circoscrit‑ to di quello lamentato, con ovvie conseguenze sul danno asse‑ ritamente derivatone, relativamente al quale giova, in ogni caso, precisare che mancano elementi che consentano di rav‑ visarlo sotto forma di pregiudizio per la competitività azien‑ dale. Il che induce a formulare ampie riserve sulla rispondenza ad un criterio di proporzionalità dei licenziamenti sub iudice. cui trattasi rappresentano nulla più che misure adottate per liberarsi di sindacalisti che Dunque, alla luce delle risul‑ tanze acquisite, l’addebito contestato deve subire un sicuro ridimensionamento, tanto con riferimento all’asserito delibe‑ rato intento di ostacolare la produzione, quanto con riferi‑ mento alla sua componente oggettiva, identificata dalla socie‑ tà in un “impedimento al transito, decorso, passaggio del carrello stesso che i tre licenziati con la loro condotta (negli‑ gente e oltraggiosa) hanno certamente causato”, impedimen‑ to che, a tutto voler concedere, è risultato temporalmente più circoscritto di quello lamentato, con ovvie conseguenze sul danno asseritamente derivatone, relativamente al quale giova, in ogni caso, precisare che mancano elementi che consentano di ravvisarlo sotto forma di pregiudizio per la competitività aziendale. Il che induce a formulare ampie riserve sulla rispon‑ denza ad un criterio di proporzionalità dei licenziamenti sub iudice. Dunque, alla luce delle risultanze acquisite, l’addebito contestato deve subire un sicuro ridimensionamento, tanto con riferimento all’asserito deliberato intento di ostacolare la produzione, quanto con riferimento alla sua componente oggettiva, identificata dalla società in un “impedimento al transito, decorso, passaggio del carrello stesso che i tre licen‑ ziati con la loro condotta (negligente e oltraggiosa) hanno certamente causato”, impedimento che, a tutto voler conce‑ dere, è risultato temporalmente più circoscritto di quello la‑ mentato, con ovvie conseguenze sul danno asseritamente derivatone, relativamente al quale giova, in ogni caso, preci‑ sare che mancano elementi che consentano di ravvisarlo sotto forma di pregiudizio per la competitività aziendale. Il che induce a formulare ampie riserve sulla rispondenza ad un criterio di proporzionalità dei licenziamenti sub iudice. c i v i l e Gazzetta F O R E N S E propri della condotta antisindacale sanzionata dall’art. 28 della legge n. 300/1970, da rapportare pacificamente ad ogni comportamento datoriale oggettivamente lesivo della libertà e dell’attività sindacale, anche se non avente quella finalità (finalità invece ricorrente nella specie, come si è appena sot‑ tolineato) – si veda Cass. n. 1684 del 5/2/2003, Cass. n. 9250 del 18/4/2007; Cass. n. 29257 del 12/12/2008 ‑. L’appello va, dunque, accolto senza necessità dell’ulterio‑ re attività istruttoria sollecitata con il quinto motivo di gra‑ vame e, per l’effetto, deve essere rigettata l’opposizione di parte appellata avverso il decreto del Tribunale di Melfi – giu‑ dice del lavoro – n. 2451/2010 del 9/8/2010, quindi da con‑ fermare. È, peraltro, da rilevare che tanto il giudice della fase som‑ maria quanto quello dell’opposizione hanno disposto la pubblicazione del dispositivo, a cura e spese, nel primo caso, della società e, nel secondo caso, della O.S. opposta, sui quo‑ tidiani “Il Corriere della Sera” e “La Repubblica”. Di tale pubblicazione (chiesta in sede di ricorso ex art. 28 dalla FIOM‑CGIL ed in sede di opposizione dalla S. A.T.A. S. p.A.) non è stato indicato il fondamento normativo, cioè se essa è stata disposta ai sensi dell’art. 28 (norma che, pur pre‑ vedendo solo – e come obbligatoria – la pubblicazione ex art. 36 c.p. della sentenza penale resa ai sensi dell’art. 650 c.p., nel caso in cui il datore di lavoro non ottemperi al decreto o alla sentenza pronunciata nel giudizio di opposizione, non escluderebbe, in virtù della previsione generale di cui all’art. 28 cit., comma 1, intesa a garantire non solo la cessazione del comportamento antisindacale ma anche la rimozione degli effetti lesivi già realizzati, la possibilità della pubblicazione dello stesso decreto o della sentenza resa nel giudizio di op‑ posizione), ovvero ai sensi dell’art. 120 c.p.c. che nella formu‑ lazione attuale prevede che: “Nei casi in cui la pubblicità della decisione di merito può contribuire a riparare il danno, compreso quello derivante per effetto di quanto previsto all’articolo 96, il giudice, su istanza di parte, può ordinarla a cura e spese del soccombente, mediante inserzione per estrat‑ to, ovvero mediante comunicazione, nelle forme specificamen‑ te indicate, in una o più testate giornalistiche, radiofoniche o televisive e in siti internet da lui designati”. Resta il fatto che la riforma nei termini precisati della pronunzia gravata fa venire meno il titolo a base dell’onere delle spese di pubblicazione con essa poste a carico della FIOM‑CGIL, la quale, pertanto, a ragione ne invoca il rim‑ borso. L’obiettiva complessità e controvertibilità della ricostru‑ zione in fatto della vicenda costituisce giusto motivo per una integrale compensazione tra le parti delle spese processuali del doppio grado di giudizio. (Omissis) F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o ***Nota a sentenza Sommario: 1. Il caso di specie e la scarsità di precedenti giurisprudenziali; 2. Il procedimento di repressione della condotta antisindacale ex art 28 L. 300/1970 come garanzia dell’effettività dei diritti di libertà sindacale e di sciopero; 2.1. Considerazioni preliminari; 2.2. Il comportamento; 2.3. I beni protetti; 2.4. Soggetto attivo della condotta vietata; 2.5. Irrilevanza dell’elemento soggettivo; 2.6. Legittimazione ad agire; 2.7. Interesse ad agire; 2.8. Il procedimento; 2.9. Le sanzioni; 3. Eccezioni all’antisindacalità del comportamento del datore di lavoro reattivo allo sciopero; 3.1. Il diritto di sciopero: fondamento, natura e titolarità; 3.2. Limiti interni ed esterni del diritto di sciopero; 3.3. Licenziamento per giu‑ sta causa: danno alla produzione o danno alla produttività?; 4. La decisione della Corte di Appello; 5. Conclusioni 1. Il caso di specie e la scarsità di precedenti giurisprudenziali La sentenza della Corte di Appello di Potenza, Sez. lav., 23 febbraio 2012, n. 170 rappresenta un utile spunto giuri‑ sprudenziale dal quale muovere per soffermarsi su uno dei temi più controversi del dibattito moderno in ordine all’am‑ bito di applicazione dell’art.28 St.lav., ossia il delicato rappor‑ to tra esercizio del diritto di sciopero e esercizio dei poteri datoriali a tutela dell’attività di impresa. Uno degli aspetti più problematici relativi all’applicazione dell’art.28, difatti, riguarda l’individuazione del confine tra i comportamenti del datore di lavoro rientranti nella logica del conflitto industriale, pertanto leciti, e comportamenti lesivi dei beni protetti dalla norma e pertanto illeciti. Nel caso di specie, nel corso di uno sciopero programma‑ to, alcuni operai, coordinati dai delegati sindacali, avevano sostato sulle linee di scorrimento dei carrelli AVG, già fermi. A seguito di invito a spostarsi al di fuori delle linee di transi‑ to, rimanevano sulle stesse due delegati e un lavoratore, im‑ pegnati a controbattere le contestazioni mosse dai rappresen‑ tanti datoriali, contestazioni dalle quali successivamente scaturiva il licenziamento. Avverso il licenziamento proponevano ricorso ex art.28 St.lav i sindacati rappresentativi dei lavoratori i quali, ottenu‑ ta una pronuncia di antisindacalità nella fase sommaria, su‑ bivano l’accoglimento dell’opposizione proposta dal datore di lavoro. Pertanto i sindacati proponevano appello. Con la sentenza in commento il giudice della Corte di Appello, nel confermare il decreto dichiarativo dell’antisindacalità della condotta, afferma che “avuto riguardo soprattutto alle mo‑ dalità, anche di tempo, della vicenda, che non evidenziano specifici e, quanto a gravità, significativi addebiti a carico del dei sindacalisti, rispetto ad altri manifestanti, nonché al fatto che non risulta che questi ultimi siano stati raggiunti da alcun provvedimento disciplinare, a differenza dei suddetti sindacalisti, malgrado la sostanziale equivalenza dei rispet‑ tivi comportamenti sopra illustrata – che i licenziamenti di cui trattasi rappresentano nulla più che misure adottate per liberarsi di sindacalisti che avevano assunto posizioni di forte antagonismo, con conseguente immediato pregiudizio per l’azione e la libertà sindacale: nel che è dato ravvisare un quid pluris degli estremi propri della condotta antisindacale sanzionata dall’art. 28 della legge n. 300/1970, da rapporta‑ re pacificamente ad ogni comportamento datoriale oggetti‑ 2 0 1 2 41 vamente lesivo della libertà e dell’attività sindacale, anche se non avente quella finalità”. La pronuncia si inserisce in un contesto di precedenti giurisprudenziali davvero scarni. Unica decisione su un caso analogo si registra nel lontano 1987 e coinvolgeva la Fiat S. p.a. Nel corso di uno sciopero programmato alcuni operai avevano personalmente e a più riprese impedito al conduttore del carrello di rifornire la linea dei prezzi occorrenti, in tal modo determinando il progressivo rallentamento dell’attività fino al blocco totale e ciò per circa due ore, la Corte richiamando un precedente giurisprudenzia‑ le1 aveva sostenuto che “il solo limite “esterno” è costituito dalla non possibilità dell’effettuazione di atti diretti contro l’organizzazione aziendale in modo da impedirne il funzio‑ namento o da comprometterne gravemente la stessa produt‑ tività così come di atti che provochino pregiudizio a fonda‑ mentali diritti del pari costituzionalmente garantiti in modo assoluto quale quello alla vita e all’incolumità personale al‑ trui.” Secondo siffatto orientamento non rientra nell’esercizio di tale diritto un comportamento che sia rivolto, in partico‑ lare, ad impedire il funzionamento dell’organizzazione azien‑ dale mediante concreti atti posti in essere nei confronti di altri lavoratori i quali continuino a svolgere le loro mansioni, ovvero che si risolvano interventi materiali sugli impianti. I dipendenti nel caso di specie avevano, per l’appunto, posto in essere un tal tipo di comportamento impedendo mediante fisica ostruzione il procedere del carrello di rifornimento del materiale, il che all’evidenza era andato al di là di una sem‑ plice pressione psicologica, e tanto bastava per qualificare il comportamento stesso come illegittimo. Prima di scendere nel merito della sentenza in commento, una corretta analisi della stessa, data la complessità dei pro‑ blemi sottesi alla soluzione del caso, impone una analisi pre‑ liminare della disciplina della condotta antisindacale conte‑ nuta nello Statuto dei lavoratori. 2. Il procedimento di repressione della condotta antisindacale ex art 28 L. 300/1970 come garanzia dell’effettività dei diritti di li‑ bertà sindacale e di sciopero Come è noto, l’art. 28 dello Statuto, intitolato alla repres‑ sione della condotta antisindacale, disciplinando uno specia‑ le procedimento giurisdizionale repressivo della condotta antisindacale del datore di lavoro, costituisce uno degli stru‑ menti più efficaci introdotti dal Legislatore per rendere effet‑ tivi il principio di libertà sindacale e tutte le posizioni giuri‑ diche attive dei prestatori di lavoro nelle relazioni industriali a livello aziendale. Alcuni commentatori 2 , basandosi sulla struttura della norma e su ragioni di politica del diritto, so‑ stennero la natura meramente secondaria della norma in questione che, priva della parte sostanziale, forniva l’appara‑ to sanzionatorio di posizioni giuridiche tutelate altrove, pre‑ cisamente nei titoli II e III dello Statuto. L’art. 28, divenendo così la norma di chiusura dello statuto, assumeva portata più circoscritta e quindi più rassicurante. Un’altra parte della 1 Cass. 30 gennaio 1980 n. 711. 2 Aranguren, A proposito di una particolare interpretazione dell’art. 28 dello statuto dei lavoratori, in Mass. giur. lav., 1970, 538; S. Riva, Parere “pro ventate” sull’art. 28 dello statuto dei lavoratori, L. 20‑5‑1970 n. 300, in Orient. giur. lav., 1970, 371 ss. cit in A. Colonna, op.cit., p. 29‑30. civile Gazzetta 42 D i r i t t o e p r o c e d u r a dottrina3, invece, favorevole all’interpretazione della norma come norma primaria osservava che la lettura dell’art. 28 come norma secondaria “unicamente creativa di un’azione e di una sanzione a tutela di interessi riconosciuti e tutelati in altre parti dell’ordinamento”, si esponeva al rischio di svuo‑ tare gli elementi di novità apportati all’intero ordinamento dalla norma stessa. L’interpretazione prevalsa valorizzò la portata primaria e indeterminata della norma, attribuendo l’indeterminatezza non ad un errore di formulazione del legi‑ slatore ma ad una precisa scelta imposta dall’ampiezza dei beni tutelati, quali la libertà e attività sindacale ed il diritto di sciopero, di cui era impossibile prevedere contorni e speci‑ ficazioni. In questo modo, proprio perché finalizzato a presi‑ diare le regole di corretto svolgimento del conflitto, l’art. 28 deve essere richiamato dall’interprete per determinare caso per caso la ricorrenza in concreto della antisindacalità, tenen‑ do conto del contesto legislativo o contrattuale collettivo in cui essa viene posta in essere. 2.1. Considerazioni preliminari L’art. 28 ha un rilievo notevole in quanto consente al sindacato di agire in giudizio con un mezzo processuale rapi‑ do e dotato di particolare efficacia sanzionatoria a tutela di interessi del sindacato e dei singoli lavoratori, nell’ipotesi di lesione contemporanea dei loro diritti. Il lavoratore che sia stato licenziato per motivi attinenti all’attività sindacale potrà, per mezzo del sindacato di appar‑ tenenza, agire ex art. 28 per la rimozione della condotta an‑ tisindacale o, ai soli fini della reintegra, anche singolarmente in via d’urgenza ex art. 700 c.p.c. oppure in via ordinaria ex art. 18 Statuto dei lavoratori e art. 414. c.p.c. In particolare il lavoratore potrà essere reintegrato nel posto di lavoro attra‑ verso la pronuncia di antisindacalità ma per ottenere il risar‑ cimento del danno dovrà ricorrere singolarmente ex art 18, norma a tutela degli interessi dei singoli lavoratori4. Il rimedio di cui all’art. 28 non può essere utilizzato allorché la condot‑ ta datoriale appaia lesiva unicamente dell’interesse individua‑ le del lavoratore: in queste ipotesi, infatti, se la tutela del di‑ ritto del lavoratore ex art. 28 dovesse venire impropriamente azionata ad opera del sindacato, il giudice dovrà emettere necessariamente un decreto di rigetto per insussistenza dei presupposti sottesi alla norma azionata5; se, di converso, ex art. 28 dovesse agire direttamente il solo lavoratore il giudice dovrebbe dichiarare nei suoi confronti il difetto di legittima‑ zione ad agire. La norma così come formulata pone una serie di problemi esegetici relativi all’identificazione della fattispecie del com‑ portamento antisindacale, alla specialità della procedura, all’apparato sanzionatorio, sui cui aspetti occorrerà soffer‑ marsi per l’analisi della sentenza in commento. 2.2. Il comportamento Come è noto, l’art. 28 definisce la condotta antisindacale del datore di lavoro come qualsiasi comportamento diretto 3 Lanfranchi, Il diritto processuale e la repressione della condotta antisindaca‑ le, cit.in M.G. Garofalo, op.cit., p.30. 4 Cass., Sez. un., 06 maggio 1972, n. 1380. 5 Cass. 09 ottobre 2000, n. 13456. c i v i l e Gazzetta F O R E N S E ad impedire o limitare l’esercizio della libertà e della attività sindacale nonché del diritto di sciopero. La dottrina maggio‑ ritaria6, ha definito il comma dell’art. 28 come fattispecie a “struttura aperta”, suscettibile di comprendere qualsiasi comportamento idoneo a ledere i beni protetti. In più, essen‑ do il comportamento individuato dalla norma come “diretto ad impedire o limitare l’esercizio dei diritti sindacali” la condotta avrebbe “carattere teleologico”7. La definizione è volutamente indeterminata e quindi ampia perché il legisla‑ tore era consapevole del fatto che nella realtà del conflitto industriale a livello aziendale si può arrecare offesa ai beni suddetti in una varietà di modi non suscettibili di preventiva tipizzazione8. La condotta antisindacale non può esaurirsi nell’eventua‑ le violazione di meri interessi patrimoniali e morali del singo‑ lo lavoratore, dovendosi invece concretare in atti diretti a frustrare o limitare l’esercizio della libertà e dell’attività sin‑ dacale nonché l’esercizio del diritto di sciopero; provvedimen‑ ti aziendali lesivi della posizione del singolo lavoratore posso‑ no essere impugnati in via collettiva solo qualora la condotta del datore sia offensiva, contemporaneamente, sia degli inte‑ ressi di cui è titolare l’associazione sindacale, sia, eventual‑ mente, dell’interesse specifico del lavoratore9. Si è parlato, a tale proposito, di plurioffensività del comportamento, nel senso che questo è idoneo ad incidere, nello stesso momento, sull’interesse individuale e sull’interesse collettivo, ambedue protetti, ancorché da norme differenti10. Presupposto necessario per l’esperibilità dell’azione ex art. 28 Statuto dei Lavoratori è che i comportamenti del da‑ tore di lavoro siano connotati dall’attualità della condotta antisindacale lamentata. Come è noto, nel silenzio del legisla‑ tore, l’individuazione di detto requisito è avvenuto in via in‑ terpretativa. La giurisprudenza consolidata, a partire dalla nota sentenza delle Sezioni Unite del 13 giugno 1977, n. 2443 11 , ha sostenuto che il requisito in questione può ravvisarsi quando la lesione della libertà sindacale appaia idonea a de‑ terminare, anche in base ad un giudizio presuntivo, effetti intimidatori permanenti, nonostante la cessazione del com‑ portamento che li ha causati, e anche a prescindere dalla sussistenza di uno specifico intento lesivo nei confronti dell’iniziativa del sindacato. L’attualità della condotta sussi‑ sterebbe ogni qualvolta il comportamento illegittimo della parte datoriale, alla stregua di una valutazione globale, risul‑ ti tuttora persistente e idoneo a produrre effetti durevoli nel tempo, sia per la sua portata intimidatoria, sia per la conse‑ guente situazione di incertezza, tale da determinare una re‑ strizione o un ostacolo al libero svolgimento dell’attività sindacale. L’attualità della condotta, deve esser distinta dalla tempestività della reazione, requisito non richiesto dalla nor‑ 6M.G. Garofalo, Repressione della condotta antisindacale, in Lo Statuto dei Lavoratori, Commentario G. Giugni (diretto da), Milano, 1979, pag. 496; F. Carinci., R. De Luca Tamajo., P. Tosi., T. Treu., Diritto del lavoro, il diritto sindacale, Torino, 2011, p. 130. 7T. Treu, Condotta antisindacale e atti discriminatori, Milano, 1974, pag. 49. 8 Ghezzi, cit. in F. Frediani, Libertà e attività sindacale: il comportamento antisindacale nello Statuto dei lavoratori, Roma, 2002. 9G. Camilli, Condotta antisindacale e lesione di diritti individuali, in Giur. It., 2003, 7. 10G. Giugni, Diritto sindacale, Bari, 2010. 11 Conforme Cass. civ., Sez. lav., 06 giugno 2005, n. 11741. F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o ma, dovendo i tempi di quest’ultima essere ricondotti all’am‑ bito delle libere valutazioni del sindacato circa le modalità dell’esercizio dei propri tempi di autotutela12. L’accertamento circa l’attualità della condotta antisindacale e l’eventuale permanenza dei suoi effetti costituisce un accertamento di fatto, demandato al giudice di merito ed incensurabile in sede di legittimità, ove sorretto da adeguata motivazione. A tal fine incomberà sul ricorrente provare l’attualità della condot‑ ta e dunque le circostanze effettivamente sintomatiche del fatto che gli episodi in questione siano inseriti in un quadro di più generale compressione delle libertà sindacali e, parti‑ colarmente, che gli episodi incidano, per aspetti ancora sus‑ sistenti all’epoca della proposizione del ricorso all’art. 28, sul prestigio del sindacato e sulla possibilità del primo di eserci‑ tare le sue funzioni. 2.3. I beni protetti La definizione “teleologica” di condotta antisindacale consente di ritenere vietate tutte quelle condotte che si riveli‑ no idonee ad arrecare offesa ai beni protetti. Sul punto, la dottrina più remota13 aveva addotto una interpretazione re‑ strittiva, secondo cui la norma tutelerebbe solo i diritti collet‑ tivi esplicitamente riconosciuti dalla stessa L. n. 300/1970: ad es. assemblea (art. 20), permessi (art. 23), locali (art. 27), non comprendendo, per contro, atti lesivi di interessi individuali, che sarebbero protetti da altre norme della medesima legge, quali ad es. i licenziamenti, ancorché antisindacali, tutelati dall’art. 18; gli atti discriminatori in genere, protetti dall’art. 15. Una simile interpretazione era ingiustificatamen‑ te restrittiva, e difatti è oggi ampiamente superata, sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza predominante, secondo cui perché possa usufruirsi della tutela apprestata dall’art. 28 Stat. Lav. è sufficiente che siano violati non solo i diritti sin‑ dacali espressamente contenuti nello Statuto, ma, altresì, quelli dei lavoratori individuali nell’esercizio dell’attività sin‑ dacale di cui sono titolari, intendendosi, con ciò, ricompren‑ dere tutte le situazioni intermedie sottese all’aggettivo “sindacale”14. È dunque l’aggettivo “sindacale” che qualifica la libertà e l’attività tutelata dalla norma. La libertà sindaca‑ le consiste nella possibilità concessa, da un lato ai sindacati di organizzarsi e, dall’altro al singolo lavoratore di aderire o meno ad una organizzazione sindacale. Potranno considerar‑ si illecite le condotte del datore ostative di attività sindacale e di scioperi svolti nel rispetto delle regole, o quelle che si so‑ stanzino in una lesione della libertà sindacale nella sua sfera generica, protetta in quanto tale. Saranno invece da conside‑ rarsi lecite le condotte poste in essere quale reazione ad un comportamento dei lavoratori contrario alla legge o alla con‑ 12Sul punto Cass. n. 1600/1998, conforme Cass. civ., Sez. lav., 06 giugno 2005, n. 11741; contra Cass. 10339/1997. 13In tal senso: S. Riva, Parere pro veritate sull’art. 28 dello Statuto dei lavorato‑ ri. Legge 20 maggio 1970 n. 300, in Orient. giur. lav., 1970, 372; Zangari, Legittimazione processuale del sindacato e repressione della condotta antisin‑ dacale nella Legge 20 maggio 1970 n. 300, in Mass. giur. lav., 1970, 451; Corrado, La repressione dell’attività sindacale, in Diritto del lavoro, 1971, 3; Aranguren, A proposito di.., op.cit,p. 358. 14M. Persiani, Condotta antisindacale, interesse del sindacato, interesse collet‑ tivo ed interesse individuale del lavoratore, in Pol. Dir., 1971, pag. 548 e ss. 2 0 1 2 43 trattazione collettiva15 : ciò si verifica16, ad esempio, in caso di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa o di irrogazione di una sanzione disciplinare per viola‑ zione del codice disciplinare. Il datore di lavoro non commet‑ terà un comportamento antisindacale nelle ipotesi in cui rea‑ gisce a comportamenti illeciti dei lavoratori, ad esempio rea‑ gendo ad uno sciopero illegittimo, nell’esercizio della sua contrapposta libertà, rientrando nei limiti fisiologici della dialettica conflittuale che caratterizza il sistema dei rapporti sindacali, e ciò si verifica se il datore di lavoro lede solo l’in‑ teresse dei singoli lavoratori e non già l’interesse sindacale17. 2.4. Soggetto attivo della condotta vietata Il soggetto attivo della condotta vietata, diversamente dal comportamento da questo posto in essere, è definito in modo tipico dalla norma, essendo individuato nel datore di lavoro. È ormai orientamento consolidato che la nozione di “datore di lavoro” debba intendersi in senso ampio e quindi a prescin‑ dere dal fatto che sia imprenditore o non imprenditore, priva‑ to o pubblico e indipendentemente dal numero di lavoratori alle sue dipendenze18. Mentre originariamente si sosteneva che l’azione disciplinata dall’art. 28 fosse riferita esclusivamente al datore di lavoro, unico destinatario dell’ordine di cessare il comportamento illegittimo e di rimuovere gli effetti19, secon‑ do l’orientamento ormai consolidato la condotta antisindaca‑ le è rilevante ex art. 28 anche se posta in essere non personal‑ mente dal datore, ma dai soggetti che secondo l’organizzazio‑ ne dell’azienda svolgono attività ad esso imputabile. Si deve peraltro ritenere che l’illecito in ogni caso sia imputabile solo e direttamente al datore di lavoro, seppur posto in essere da un suo rappresentante20. 2.5. Irrilevanza dell’elemento soggettivo Ai fini della configurazione della condotta antisindacale è sufficiente altresì che tale comportamento leda oggettivamen‑ te gli interessi collettivi coinvolti, non essendo necessario né sufficiente uno specifico intento lesivo del datore di lavoro. Sul punto, occorre prendere atto di un contrasto dottrina‑ rio e giurisprudenziale molto vasto e ormai risalente nel tempo. Alcuni avevano ritenuto che ai fini della configurabi‑ lità di una condotta antisindacale del datore di lavoro fosse necessaria anche l’intenzionalità di ostacolare o limitare l’at‑ tività sindacale21. La condotta cioè doveva essere intenzional‑ mente diretta allo scopo antisindacale, finalizzata cosciente‑ mente e volontariamente all’obiettivo Si escludevano pertanto 15In dottrina A. Colonna, op. cit, p. 34, 35 che distingue tra condotte antisin‑ dacali tipiche o atipiche. 16 Cass. 10 febbraio 1992, n. 1504; Cass. 14 febbraio 2004, n. 2857; M.G. Ga‑ rofalo, Repressione della condotta antisindacale, in Lo Statuto dei Lavorato‑ ri, Commentario G. Giugni (diretto da), Milano, 1979. 17 Cass. 07 gennaio 1990 n. 207 cit. in Galantino L., Diritto Sindacale, Torino, 2008, p. 127. 18In dottrina F. Carinci, R. De Luca Tamajo, P. Tosi, T. Treu., op.cit, p. 133; in giurisprudenza, Cass., Sez. un., 17 febbraio 1992, n. 1916. 19 Cass. 25 luglio 1984, n. 4381. 20F. Carinci, R. De Luca Tamajo, P. Tosi, T. Treu., op.cit., p. 134. 21 Cass. 06 maggio 1977 n. 1739; Cass. 22 settembre 1978 n. 4270; Cass. 05 giugno 1981 n. 3635; Cass. 20 luglio 1982 n. 4281; Cass. 08 febbraio 1985 n. 1005; Cass. 17 febbraio 1987 n. 1713; Cass. 27 luglio 1990 n. 7589; Cass. 08 maggio 1992 n. 5454; Cass. 30 luglio 1993 n. 8518; Cass. 12 agosto 1993 n. 8673. civile Gazzetta 44 D i r i t t o e p r o c e d u r a le condotte che, pur ponendosi in contrasto con pretese sin‑ dacali, non si concretassero in atti volutamente diretti alla limitazione dell’esercizio della libertà sindacale22. Altri, per contro, hanno affermato che per la configurabilità di una condotta antisindacale sia sufficiente il solo requisito dell’og‑ gettiva idoneità del comportamento a ledere la libertà e l’atti‑ vità sindacale e il diritto di sciopero e che, pertanto, non rile‑ vi l’intento dell’ imprenditore di perseguire o meno uno scopo antisindacale23. Tra i due opposti orientamenti l’orientamento dottrinario e giurisprudenziale prevalso (cd. nozione oggettiva della con‑ dotta) ritiene l’elemento psicologico dell’intenzionalità irrile‑ vante24. La ricerca di una finalità “prava” del datore è total‑ mente estranea allo scopo della norma di proteggere beni giuridici e non sanzionare cattive intenzioni 25. Richiedere la ricerca del fattore psicologico può funzionare come una sorta di scriminante a favore dell’imprenditore: il datore di lavoro potrebbe riuscire a giustificare, in questa prospettiva, qual‑ siasi comportamento, motivandolo ad esempio con “esigenze aziendali” o richiamando l’esimente della forza maggiore26. L’elemento soggettivo sarebbe quindi, secondo questa prospet‑ tiva, un temibile strumento che il giudice potrebbe usare per riuscire ad escludere, arbitrariamente, l’applicazione dell’art. 28. La soluzione definitiva è stata fornita dalla Cassazione, Sezioni Unite, 12 giugno 1997, n. 529527 che, a tacitazione di ogni ulteriore perplessità, ha stabilito che per integrare gli estremi della condotta antisindacale di cui all’art. 28 St. lav. è sufficiente che tale comportamento leda oggettivamente gli interessi collettivi coinvolti, non essendo necessario e neppu‑ re sufficiente uno specifico intento lesivo del datore di lavoro, in quanto, per un verso, un errore di valutazione del datore di lavoro, che non abbia avuto coscienza della rilevanza del proprio comportamento, non farebbe venir meno l’esigenza primaria di tutela della libertà sindacale e, per un altro, la condotta datoriale non obiettivamente diretta a limitare l’at‑ tività sindacale, non può essere considerata antisindacale. 2.6. Legittimazione ad agire Come è noto il comma 1 dell’art. 28 L. n. 300, cit. attri‑ buisce tassativamente la legittimazione ad agire agli “organi‑ smi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbia‑ no interesse”. La restrizione della legittimazione attiva di cui all’art. 28 Stat. lav. non ha mancato inizialmente di suscitare reazioni circa la legittimità costituzionale di tale scelta, sotto 22In dottrina: Siimi, Art. 28. Repressione della condotta antisindacale, in Comm. dello statuto dei lavoratori diretto da Prosperetti, Milano, 1975, p. 944; Mazzoni, Manuale di diritto del lavoro, V Ediz., Milano, 1977, H, 1265 SS. ; Papaleoni, La condotta antisindacale nella giurisprudenza, in Mazzoni e Altri, La repressione della condotta antisindacale e i suoi limiti, Milano, 1971, p.140 ss., Cipressi, I comportamenti antisindacali del datore di lavoro, Milano, 1983 In giurisprudenza: Cass., Sez. lav., 05 giugno 1981, n. 3635, in Giur. It., 1982, I, 1, pag. 33. 23 Cass. 06 giugno 1984 n. 3409; Cass. 03 giugno 1987 n. 4871; Cass. 19 genna‑ io 1990 n. 295; Cass. 16 luglio 1992 n. 8610. 24 Cass. 13 febbraio 1987 n. 1598; Cass. 07 luglio 1987 n. 5922; Cass. 03 luglio 1992 n. 8143; Cass. 22 luglio 1992 n. 8815; Cass. 19 luglio 1995 n. 7833; Cass. 13 gennaio 1996 n. 232. 25 Giugni G., Diritto sindacale, Bari, 1991, p. 120. 26 A. Colonna, op.cit. p. 10. 27In senso conforme, ex plurimis, Cass. n. 1600/1998, Cass. n. 706/2004, Cass. civ., Sez. lav., 18 aprile 2007, n. 9250. c i v i l e Gazzetta F O R E N S E il profilo della duplice esclusione in capo ai singoli lavoratori e alle organizzazioni che non abbiano una rappresentatività nazionale (ad es. i comitati di base, i consigli di fabbrica, le commissioni interne, RSU, RSA). La Corte Costituzionale, investita della questione, si è, però, espressa a favore della costituzionalità dell’art. 28 con la nota sentenza del 6 marzo 1974 affermando la stretta connessione fra l’individuazione della dimensione organizzativa nazionale come indice di ade‑ guato livello di rappresentatività e l’esigenza di garantire la selezione, tra i tanti possibili, dell’interesse collettivo rilevan‑ te da porre alla base del conflitto con la controparte impren‑ ditoriale. Nel respingere le censure di illegittimità il Giudice delle Leggi ha chiarito, quanto all’esclusione della legittima‑ zione dei singoli lavoratori, che l’art. 28 Stat. lav. “non ha in alcun modo soppresso o limitato i mezzi di tutela assicurati al singolo … ma ha solo introdotto in aggiunta ai mezzi in‑ dividuali uno speciale procedimento sommario di competen‑ za del pretore, diretto in via d’urgenza a reprimere compor‑ tamenti lesivi dell’attività e della libertà sindacale, a tutela di interessi che trascendono quelli del singolo lavoratore”; quanto all’esclusione dei gruppi che non hanno una organiz‑ zazione nazionale, ha chiarito che “tale speciale procedimen‑ to non modifica né restringe né limita in alcun modo le tute‑ le assicurate dalle leggi e dallo stesso Statuto dei Lavoratori a beneficio delle associazioni sindacali, né ha inteso soppri‑ mere o limitare i mezzi di tutela assicurati ad altre associa‑ zioni sindacali, diverse da quelle contemplate nell’art. 28 Stat. Lav., per la difesa dei propri diritti ed interessi legitti‑ mi.” Dunque, anche sotto tale profilo, la norma sarebbe co‑ stituzionale perché non impedisce ai sindacati non legittima‑ ti di esperire azioni [ordinarie] per ottenere una tutela proces‑ suale e sostanziale dei loro diritti, ma appresta per le associa‑ zioni sindacali dotate di una certa qualificazione, un ulterio‑ re strumento di tutela, da considerarsi, quindi, di carattere privilegiato”28. In tal senso si è del resto successivamente espressa sia la Corte Costituzionale con sentenze 24 marzo 1988, n. 334 e 17 marzo 1995, n. 89, in casi in cui ad essere ritenuto man‑ cante era il requisito della nazionalità dell’associazione, sia la Corte di Cassazione, con sentenza 24 gennaio 2006, n. 1307, in un’ipotesi riguardante la legittimazione della RSA: “l’’art. 28 introduce un nuovo e diverso mezzo processuale riservato a soggetti collettivi particolarmente qualificati, individuati attraverso … una dimensione organizzativa (quella nazionale) assunta come indice e garanzia di un ade‑ guato livello di rappresentatività” 29 ; “Il procedimento di repressione della condotta antisindacale si aggiunge alle tutele già assicurate alle associazioni sindacali, e rappresen‑ ta un mezzo ulteriore per garantire in modo particolarmente rapido ed efficace i diritti del sindacato… Essendo, dunque, il procedimento di repressione del comportamento antisin‑ dacale un mezzo ulteriore, ma non l’unico, a disposizione del sindacato per la difesa dei propri diritti è giustificata la se‑ lezione dei soggetti legittimati sulla base della maggior rappresentatività, misurata col criterio‑guida della diffusio‑ 28 P. Cipressi, op.cit., pp. 47‑48.; si veda anche M.G. Garofalo, Interessi…, op.cit. p. 200. 29 Corte cost. 24 marzo 1988, n. 334, in Foro it., I, 1774. F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o ne a livello nazionale ”30. L’art. 28 Stat. lav., nel non ricono‑ scere a tutte le organizzazioni sindacali la legittimazione ad agire, detta, sì, una disciplina differenziata, ma ciò si giusti‑ fica sulla base degli interessi da tutelare, quelli di un’associa‑ zione sindacale che si propone di operare ed opera a livello nazionale per tutelare gli interessi di una o più categorie di lavoratori a quel livello. Ogni altra offesa alla libertà sinda‑ cale, ove coinvolga soggetti diversi da quelli citati, ad es. le organizzazioni territoriali che non hanno accesso all’art. 28 Stat. lav., in quanto mancanti dei requisiti ivi previsti, sarà tutelabile per le vie ordinarie, così da rendere configurabile un procedimento ex art. 28 Stat. lav., inteso come denuncia di condotta antisindacale31. 2.7. Interesse ad agire In ordine all’interesse richiesto dalla norma, l’art. 28 pre‑ vede che possano proporre il ricorso le associazioni “che vi abbiano interesse”. Il riferimento espresso della disposizione all’interesse del sindacato ricorrente serve, secondo il principio generale dell’art. 100 c.p.c., ad escludere azioni da parte di soggetti completamente disinteressati alla vicenda. L’ipotesi della carenza di interesse appare tuttavia un caso limite, stan‑ te l’ampia accezione di interesse sindacale, ritenuto esistente anche con riferimento a lesioni della posizione di altri sinda‑ cati o della libertà sindacale di lavoratori non sindacalizzati. L’interesse protetto è sempre quello del sindacato nazionale complessivamente inteso, al quale per definizione partecipa l’organismo locale abilitato a ricorrere. La carenza di interes‑ se risulterà, pertanto, di rara ricorrenza. L’esempio più tipico è rappresentato in dottrina dall’ipotesi di azione contro com‑ portamenti lesivi della libertà o attività sindacale nei confron‑ ti di soggetti estranei al gruppo professionale proprio del sindacato ricorrente (ad esempio, nel caso che il sindacato dei metalmeccanici voglia proporre ricorso contro un imprendi‑ tore chimico a tutela dell’attività sindacale nell’azienda di quest’ultimo). La carenza di interesse può essere valutata an‑ che con riferimento all’attualità della condotta e sul punto, richiamando quanto già detto in ordine al requisito dell’attua‑ lità della condotta, ci si limita a richiamare la giurisprudenza che ha affermato, infine, che non vi è carenza di interesse quando l’azione sia promossa con notevole ritardo rispetto ai fatti, sempre che siano ancora attuali i loro effetti lesivi32. 2.8. Il procedimento L’azione di repressione della condotta antisindacale si propone con ricorso al Tribunale del luogo ove è posto in essere il comportamento denunciato33. Il procedimento di cui 30 Corte cost. 08 maggio 1995, n. 89, in Dir. lav. 1995, I, 55. 31Sul punto interessante è Trib. Torino, Sez. lav., 14 settembre 2011, n. 2583. 32 Ex multis, Cass. 06 giugno 2005, n. 11741. 33Nel testo originario la competenza era del Pretore, ufficio soppresso con il D. Lgs. 19 febbraio 1998 n. 51. Trib. Torino, Sez. lav., 14 settembre 2011, n. 2583: “la competenza inderogabile di cui all’art 28 St.lav. ha valore solo nell’ipotesi in cui l’azione sia proposta da organismo locale dei sindacato e non nell’ipote‑ si in cui venga invece intrapresa con giudizio ordinario da organizzazione sin‑ dacale che non ha accesso al procedimento delineato dall’art. 28 dello Statuto dei Lavoratori. In tal caso la competenza va definita sulla base delle regole ordinarie e, in particolare, sulla base della previsione di cui all’art. 413, com‑ ma 7, c.p.c. Tale norma stabilisce che, ove non possano trovare applicazione le regole definite nei commi precedenti, si debba fare riferimento alle regole ordi‑ narie di competenza per territorio.”. 2 0 1 2 45 all’art. 28 si caratterizza per essere un procedimento d’urgen‑ za e quindi è fondato su una istruttoria minima. Il giudice non può provvedere sul ricorso del sindacato inaudita altera par‑ te, come invece è possibile nei procedimenti cautelari (art. 669 sexies, comma 2, c.p.c.), ma deve consentire il contraddittorio convocando le parti in un termine breve che la legge individua in «due giorni» anche se, salvo casi eccezionali, essendo il termine dei due giorni ordinatorio, di fatto è largamente su‑ perato, sia per le esigenze dell’ufficio, sia per i tempi di noti‑ fica, sia per consentire al datore di lavoro di rivolgersi ad un legale e di predisporre un’adeguata difesa scritta. La somma‑ rietà del procedimento, tesa ad assicurare una tutela imme‑ diata dell’interesse sindacale, si concretizza in un’istruttoria sommaria sui fatti che non viene svolta approfonditamente con l’espletamento degli ordinari mezzi di prova, ma solo mediante l’assunzione di «sommarie informazioni». Il sinda‑ cato ricorrente non è tenuto a comprovare la sussistenza in concreto di un periculum in mora, come invece è necessario nei procedimenti cautelari (artt. 671, 692, 700 c.p.c.)34. Giova sul punto richiamare una recente giurisprudenza35 che ha osservato che nulla impedisce comunque che, per situazioni o contingenze particolari, il soggetto legittimato possa salta‑ re la fase sommaria, prospettando la propria denuncia diret‑ tamente con il procedimento a cognizione piena. Questo tipo di soluzione segnala già di per sé una particolarità della nor‑ ma, la cui funzione non è certamente quella di descrivere una forma procedimentale vincolata ed esclusiva, bensì di rendere disponibile uno strumento particolare, onde ottenere la rimo‑ zione in via di urgenza e con una cognizione sommaria delle situazioni di antisindacalità ritenute dal legislatore più gravi e, come tali, richiedenti un intervento immediato, così da sanzionare l’illegittima condotta datoriale e, in pari tempo, porvi adeguato rimedio, elidendo gli effetti di essa. La decisione della fase sommaria avviene “con decreto motivato ed immediatamente esecutivo”, sicché se la doman‑ da del sindacato trova accoglimento il datore di lavoro è ob‑ bligato a conformarsi subito all’ordine del giudice. Il conte‑ nuto del decreto avrà ad oggetto l’ordine di cessare il compor‑ tamento illegittimo lesivo dei beni protetti e disporrà la rimo‑ zione degli effetti lesivi già realizzati, ripristinando il libero godimento degli stessi beni. Si tratta di una tipica tutela ini‑ bitoria, quanto alla cessazione della condotta, e ripristinato‑ ria, quanto alla rimozione degli eventuali effetti di essa. Contro il decreto immediatamente esecutivo che decide il ricorso, accogliendolo o rigettandolo, è ammessa, entro 15 giorni dalla sua comunicazione l’opposizione avanti al Tribu‑ nale che ha emanato il provvedimento impugnato il quale provvede con sentenza, anch’essa immediatamente esecutiva. Solo l’eventuale accoglimento dell’opposizione può travolgere l’efficacia esecutiva del decreto fino a quel momento irrevo‑ civile Gazzetta 34 A. Vallebona,op.cit. p. 283 35Trib. Torino, Sez. lav., 14 settembre 2011, n. 2583, è possibile attuare la tutela di cui all’art. 28 Stat. lav. anche attraverso lo strumento del ricorso ex art. 414 c.p.c. In caso di proposizione della domanda tesa ad accertare una condotta antisindacale potrà azionare il procedimento ordinario ex art. 28 Stat. Lav. il soggetto che non si trova nelle condizioni per utilizzare il procedimento specia‑ le previsto dall’art. 28 Stat. Lav., come ad es. può avvenire ove faccia difetto l’attualità della condotta, la nazionalità dell’associazione, la natura di organismo locate del denunciante o altro. 46 D i r i t t o e p r o c e d u r a cabile36. Se non opposto, il decreto acquista l’incontrovertibi‑ lità del giudicato. La mera proposizione dell’opposizione non sospende l’efficacia esecutiva del decreto, che, munita di una particolare stabilità, non può essere revocata o sospesa se non con la sentenza con cui il giudice definisce il giudizio. La sentenza che decide sull’opposizione è appellabile avanti la Corte d’Appello, sempre secondo il rito del lavoro. 2.9. Le sanzioni Al fine di rendere effettiva la tutela dell’interesse sindaca‑ le, è previsto che gli ordini contenuti nella sentenza debbano essere eseguiti dal datore di lavoro a pena di incorrere nelle sanzioni previste dall’art. 28, ossia l’arresto fino a 3 mesi o l’ammenda fino a € 206 ex art. 650 c.p. In tal caso, il giudice penale deve limitarsi a controllare la conformità del provvedimento ex art. 28 alle regole che pre‑ siedono alla sua formazione, ad esempio, la costituzione del contraddittorio, l’eventuale costituzione di parte civile del sindacato per ottenere il risarcimento del danno provocato dall’inottemperanza dell’ordine del giudice. La particolare efficacia dell’ordine di repressione della condotta antisindacale emerge nei casi di plurioffensività, nel confronto con il provvedimento che definisce il giudizio indi‑ viduale: nel caso di licenziamento antisindacale l’ordine di reintegrazione nel posto di lavoro pronunziato ex art. 18 Stat. lav. a tutela del diritto del singolo lavoratore potrebbe restare incoercibile e non eseguito, preferendo il datore di lavoro sopportare, nelle more delle impugnazioni, il costo di una prestazione non utilizzata piuttosto che riammettere il lavo‑ ratore in azienda; invece il medesimo ordine pronunziato ex art. 28 Stat. lav. deve essere sempre immediatamente ottem‑ perato, con la concreta reintegrazione in servizio del presta‑ tore licenziato, per evitare la sanzione penale prevista appun‑ to quale misura compulsoria dell’osservanza del provvedimen‑ to giurisdizionale. 3. Eccezioni all’antisindacalità del comportamento del datore di lavoro reattivo allo sciopero L’ambito di applicazione dell’art. 28 Stat. Lav. segna il confine, che non può che essere piuttosto mobile, fra la liber‑ tà sindacale e la libertà d’iniziativa economica37. Il problema più delicato è di individuare i limiti entro cui l’esercizio dei diritti indicati dall’art. 28 rientrino nella nor‑ male logica del conflitto di interessi tra datore e lavoratore. L’art. 28 viene utilizzato anche per reprimere comportamen‑ ti in cui non esiste una prevalutazione legislativa o pattizia, ma che possono sostanzialmente essere lesivi della libertà e dell’attività sindacale. Tali comportamenti sono ben più insi‑ diosi di quelli tipici, in quanto è più difficile e controversa la loro individuazione e repressione e più urgente la ricerca di una soluzione riguardo alle modalità di valutazione dell’an‑ 36 A. Vallebona, op.cit., pagg. 283 ss: La competenza per l’opposizione, origi‑ nariamente attribuita al giudice di secondo grado, è stata affidata allo stesso giudice della fase sommaria (art. 28, comma 3), che però non può essere la stessa persona fisica che ha emanato il decreto, ricorrendo il motivo di asten‑ sione obbligatoria o di ricusazione dell’art. 51, c. 4, cod. proc. civ., secondo l’interpretazione costituzionalmente necessitata (Corte Cost. 15 ottobre 1999 n. 387) che equipara la fase sommaria ad un «altro grado del processo» in cui il giudice abbia conosciuto la causa. 37G. Camilli, op.cit., p. 7. c i v i l e Gazzetta F O R E N S E tisindacalità. Che esistano comportamenti imprenditoriali, sicuramente rilevanti ex art. 28, ma che, sfuggendo alla tipiz‑ zazione positiva, non sono facilmente individuabili e reprimi‑ bili, ne sono prova le decisioni di merito e legittimità sul tema oggetto della sentenza in commento in cui, di fronte ad un analogo comportamento datoriale, a brevissima distanza di tempo, ci si è espressi una volta a favore del sindacato ed un’altra a favore del datore di lavoro e poi infine a favore del sindacato. La domanda a cui rispondere sarà pertanto entro quali limiti l’esercizio dei poteri disciplinari nei confronti del lavoratore in sciopero sia lecita e quale sia la soglia oltre la quale diventi illecita, o viceversa oltre quale soglia l’esercizio del diritto di sciopero diventi illecito e legittimi una reazione datoriale. Bisogna giudicare nel caso concreto, considerando sia il comportamento del lavoratore sia la reazione datoriale. È vero, che la partecipazione del lavoratore allo sciopero nell’esercizio dei suoi diritti sindacali non può risolversi in una garanzia di impunità assoluta per quei lavoratori che tengono comportamenti scorretti nell’ambito di un preteso svolgimento di attività sindacale, ma allo stesso tempo il datore di lavoro deve usare il potere disciplinare come stru‑ mento destinato ad assicurare il corretto svolgimento dei rapporti di lavoro, e non può servirsene per reprimere o af‑ fievolire l’efficacia dell’azione sindacale da parte del lavora‑ tore38. In sostanza, bisogna indagare se il datore di lavoro abbia utilizzato la vicenda accaduta, a fini antisindacali. Questo, a prescindere da qualsiasi valutazione astratta, circa la problematica della legittimità dell’azione sindacale. La circostanza che il legislatore nel sanzionare le condotte anti‑ sindacali abbia sentito la necessità di richiamare espressamen‑ te il diritto di sciopero, che in astratto avrebbe potuto essere ricompreso nella più generale tutela dell’attività sindacale, evidenzia invece la volontà legislativa di elevare questo ele‑ mento a momento centrale dell’attività di autotutela. Una corretta valutazione del caso impone, pertanto, di soffermar‑ si sul diritto di sciopero e sulla vexata quaestio dei suoi limi‑ ti onde bilanciare gli opposti interessi venuti in conflitto e valutare l’applicabilità dell’art. 28 al caso di specie. Difatti, per poter reprimere un comportamento dell’imprenditore di reazione ad uno sciopero, il giudice non può esimersi dal valutare preliminarmente la legittimità dello stesso, e ciò verificando la sua estensione. 3.1. Il diritto di sciopero: fondamento, natura e titolarità Come è noto, il diritto di sciopero trova il suo fondamen‑ to costituzionale all’art. 40 che sancisce il diritto di sciopero “nell’ambito delle leggi che lo regolano”. Essendo mancata l’emanazione, pur esplicitamente prevista dall’art. 40 Cost., delle leggi che avrebbero dovuto regolare l’esercizio del dirit‑ to di sciopero, l’individuazione in via interpretativa della fattispecie protetta è stato compito della giurisprudenza che ha dovuto svolgere una macroscopica funzione di supplenza, elaborando la nozione di sciopero, le condotte qualificabili come sciopero e, anche i limiti di tale diritto. Il diritto di sciopero, riguardato dal punto di vista del contratto di lavoro, è definito “come diritto potestativo del lavoratore di sospendere l’esecuzione della prestazione, al 38Sul punto M.G. Garofalo, op.cit, p. 84 e 85. F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o quale corrisponde la posizione dell’imprenditore, soggetto passivo che deve subire tale sospensione”39 . La diretta conse‑ guenza dell’esercizio di questo diritto è l’astensione dal lavoro che non può tuttavia essere considerato un inadempimento dell’obbligazione lavorativa, essendo pertanto preclusa ogni forma di sanzione 40, e al contempo determinando il venir meno della obbligazione del datore di erogare la retribuzione e il diritto del lavoratore a riceverla, per i periodi in cui lo sciopero è stato esercitato. Rimane inalterato il vincolo della subordinazione e non attengono alla sospensione dell’attività lavorativa quei comportamenti degli scioperanti che si tradu‑ cono in violazioni dei diritti degli altri lavoratori non sciope‑ ranti o del datore di lavoro, tutelati da precetti della Costitu‑ zione o dell’ordinamento generale41. In una prospettiva funzionale dello sciopero all’interno del sistema costituzionale, questa è la più diffusa risposta all’inquadramento del diritto di sciopero, il diritto di sciope‑ ro può essere compreso tra i diritti assoluti di libertà per la difesa dei fondamentali interessi della persona, evidenziando‑ si di talché il collegamento della disposizione di cui all’art. 40 Cost. con gli artt. 3, e. 2, Cost., ed intendendo l’esercizio del diritto di sciopero come uno dei principali strumenti per la rimozione delle diseguaglianze di fatto, che impediscono lo sviluppo della persona e la partecipazione sociale dei lavora‑ tori. La titolarità del diritto di sciopero è riconosciuta ai singoli lavoratori, poiché a ciascuno di essi spetta, di volta in volta, la decisione sul concreto esercizio del diritto. È stato, altresì, rilevato che lo sciopero può essere attuato solo per la difesa di un interesse collettivo42 , la cui valutazione è rimessa al gruppo. Occorrerebbe in tal senso un’azione concertata, che coinvolga un gruppo portatore di un interesse omogeneo, collettivo, “qualificato tale dalla coalizione che si muove in vista della sua tutela e del suo perseguimento”43. Si ritiene maggiormente che non sia necessaria una previa formale de‑ libera di proclamazione, costruita come negozio di autorizza‑ zione allo sciopero, non potendosi ricavare in alcun punto in via interpretativa un obbligo del genere. 3.2. Limiti interni ed esterni del diritto di sciopero La tematica dei limiti di esercizio del diritto di sciopero ha rappresentato, anche alla luce della formulazione della previsione costituzionale, un’ulteriore occasione di contrasto tra gli interpreti dell’art. 40 Cost. Si è sostenuto che lo scio‑ pero per sua natura non poteva essere considerato un diritto senza limiti: questi ultimi, anche in assenza di disposizioni legislative, dovevano essere estrapolati dall’interprete al fine 39 A. Vallebona, op.cit., pag. 220. La qualificazione del diritto di sciopero come diritto soggettivo potestativo si deve a F. Santoro‑Passarelli, Autonomia collettiva, giurisdizione, diritto di sciopero, in Riv. it. scienze sociali, 1949, p. 156, tra gli Altri, L. Mengoni, Limiti giuridici del diritto di sciopero, in Riv. dir. lav., 1949, I, p. 252; U. Natoli, Legittimità dello sciopero e danno del datore di lavoro, in Riv. giur. lav., 1952, II, p. 89; G. Mazzoni, I rapporti collettivi di lavoro, Ed., Milano, 1967, p. 314. 40Si veda Alaimo A‑, Caruso B., Le relazioni sindacali, Torino, 2010, p. 199. 41 Conformi Cass. 05 gennaio 1980, n. 43; Cass. 24 maggio 1986, n. 3508; Cass. 30 ottobre 1995 n. 11352. 42 Corte Cost. 28 dicembre 1962 n. 123, MGL, 1962, 416; Corte Cost. 14 gen‑ naio 1974 n. 1, MGL, 1974, 11; Cass. 3 giugno 1982 n. 3419, DL, 1982, II, 395; Cass. 23 luglio 1991 n. 8234, MGL, 1991, 500. cit. in A. Vallebona, Istituzioni di diritto del lavoro, il diritto sindacale, Padova, 2002, pag. 221. 43 A. Alaimo, B. Caruso, op.cit. p. 197‑198. 2 0 1 2 47 di colpire le forme non ritenute socialmente adeguate di con‑ flitto. Venne così elaborata la cd. teoria del danno ingiusto e della corrispettività dei sacrifici, attraverso un richiamo alla responsabilità civile per fatto illecito, ex art. 2043 c.c. Secon‑ do questa tesi, lo sciopero, per essere legittimo, avrebbe do‑ vuto limitare i propri effetti dannosi per il datore di lavoro al solo lucro cessante, individuato nel guadagno da questi per‑ duto nel corso dello sciopero, e non avrebbe potuto estender‑ si anche al danno emergente, cioè alla disorganizzazione produttiva, alla perdita di materie prime, di energia, ecc. Lo sciopero non poteva infliggere al datore di lavoro un danno superiore al sacrificio affrontato dagli scioperanti con la per‑ dita della retribuzione, altrimenti causando al datore di lavo‑ ro un danno non proporzionato e, pertanto, ingiusto. Solo in tal modo si sarebbe verificata l’equivalenza del costo dello sciopero sopportato dal datore di lavoro e dai lavoratori: per il primo, appunto, l’utile estraibile dal lavoro non prestato durante lo sciopero; per i secondi, la perdita della retribuzio‑ ne per la durata dello sciopero. Al concetto di limite interno si è contrapposto quello di limite esterno del diritto di sciopero. Si è sostenuto che lo sciopero non soffre di limiti interni ma è legittima una rego‑ lazione delle modalità dell’esercizio, in vista del suo contem‑ peramento con altri interessi e diritti di pari o superiore rilie‑ vo costituzionale. Così limiti “esterni” al diritto di sciopero con riferimento alle sue finalità si rinvennero nei diritti costi‑ tuzionalmente garantiti alla libertà di iniziativa economica privata (art. 41 Cost.) e al lavoro (art. 4 Cost.). Il contributo maggiore alla definizione dei limiti esterni del diritto di sciopero è provenuto dalla nota sentenza della Corte di Cassazione n. 711 del 1980. La sentenza, prendendo atto della realtà delle dinamiche sociali del conflitto indu‑ striale, affermò che lo sciopero non poteva soffrire di alcun limite interno edificato sulla base di astratte definizioni del‑ la fattispecie. “Il diritto di sciopero, quale che sia la sua forma di esercizio e l’entità del danno arrecato, non ha altri limiti… se non quelli che si rinvengono in norme che tuteli‑ no posizioni soggettive concorrenti, su un piano prioritario o quanto meno paritario, quali il diritto alla vita e all’inco‑ lumità personale nonché la libertà dell’iniziativa economica, cioè, dell’attività imprenditoriale (art. 41 comma 1 Cost.), che con la produttività delle aziende e concreto strumento di realizzazione del diritto costituzionale al lavoro per tutti i cittadini”. 3.3. Licenziamento per giusta causa: danno alla produzione o danno alla produttività? In quest’ottica la legittimità del licenziamento e dunque l’esistenza di una giusta causa di licenziamento che escluda l’antisindacalità della condotta, discenderebbe dal superamen‑ to del limite esterno del diritto di sciopero e dalla lesione della libertà di inziativa economica del datore di lavoro. Sul punto originariamente si discuteva se il limite esterno del diritto di sciopero fosse rinvenibile nel danno alla produzione o nel danno alla produttività. Dottrina e giurisprudenza consolidate hanno ritenuto che qualunque danno alla produzione è legittimo, restando vie‑ tato ledere la capacità del datore di riprendere l’attività dopo (o anche di continuarla, a certe condizioni, durante) lo scio‑ pero. Sono precluse le modalità di astensione che, per non civile Gazzetta 48 D i r i t t o e p r o c e d u r a adattarsi alla natura dell’attività o alle caratteristiche dei beni impiegati o prodotti, provochino lesioni di attrezzature, impianti o locali. Sul concetto di danno alla produttività, si rinvengono due orientamenti, richiamati anche dal giudice di appello, l’uno che individua il danno alla produttività come danno di tipo duraturo, in quanto collegato alla distruzione o inutilizzabi‑ lità degli impianti, l’altro che ha ampliato il concetto di lesio‑ ne alla produttività estendendola all’impedimento anche temporaneo al funzionamento dell’organizzazione aziendale. Secondo il primo orientamento giurisprudenziale 44 l’esercizio del diritto di sciopero diverrebbe illecito se, in una determi‑ nata ed effettiva situazione economica, comporti la distruzio‑ ne o una duratura inutilizzabilità degli impianti con compro‑ missione dell’interesse generale alla preservazione dei livelli di occupazione. Secondo il secondo orientamento 45, il limite esterno non sarebbe la sola lesione all’integrità degli impian‑ ti inteso come pregiudizio duraturo alla ripresa dell’attività produttiva ma l’impedimento anche temporaneo al funziona‑ mento dell’organizzazione aziendale, sul presupposto della legittimità, entro certi limiti, della riorganizzazione da parte del datore di lavoro dell’attività aziendale durante lo sciopero. Non sono, dunque, posti limiti alla possibilità di incidere, mediante una azione di sciopero, sulla produzione, ovverosia sulla quantità di merci e manufatti prodotti o di servizi ero‑ gati, allo scopo di recare un danno economico al titolare dell’attività. Rientra, infatti, nella normale dialettica del con‑ flitto la possibilità che gli scioperanti pongano in essere forme particolarmente incisive di sciopero. Il solo limite esterno allo sciopero che si deve ritenere configurabile è il danno alla produttività che permea il particolare dato organizzativo dell’azienda, dunque inteso come pregiudizio alla competiti‑ vità aziendale e non il danno alla produzione, inteso come mancata conservazione del livello di produzione. Lo sciopero, dunque, in sé legittimo quale che sia la sua forma, e indipen‑ dentemente dalla entità del danno arrecato alla produzione, è illecito ove travalichi i visti limiti e, ledendo o mettendo in pericolo l’impresa come organizzazione istituzionale, non come mera organizzazione gestionale, sia così lesivo di inte‑ ressi primari costituzionalmente protetti. L’essersi inequivocabilmente sancito tale principio non fa venire meno comunque problematiche peculiari, ove si consi‑ derino le difficoltà di approccio ad un valore “produttività” di non facile identificazione, ma che comunque funge da vero e proprio spartiacque tra sciopero legittimo ed illegittimo, tra liceità dei comportamenti reattivi datoriali ed eventuale ille‑ gittimità e antisindacalità dei medesimi. Di tale difficoltà è espressione, per l’appunto, il caso oggetto della sentenza in commento. 4. L’accertamento istruttorio e la decisione della Corte di Appello Giungendo all’analisi della sentenza, giova evidenziare che il licenziamento di cui si è discussa l’antisindacalità aveva come motivazione la posizione irregolare, e prolungata nel 44Sul punto Cass. n. 711/1980; conf. Cass. 04 febbraio 1983, n. 945; Cass. 28 gennaio 1992. n. 869; Cass. 17 dicembre 2004 n. 23552; Cass. 09 maggio 2006 n. 10624. 45 Cass. 16 novembre 1987 n. 8401. c i v i l e Gazzetta F O R E N S E tempo dei lavoratori innanzi ad un carrello, sulla banda ma‑ gnetica di scorrimento, tale da impedirne “deliberatamente” il transito e da provocare il “blocco” dell’attività produttiva oltre l’incuranza all’invito, rivolto loro dal gestore operativo, a spostarsi dall’area interdetta al personale, così da consenti‑ re il regolare transito dei carrelli, tenendo un atteggiamento di insubordinazione. Dunque le contestazioni mosse ai lavoratori erano due: il blocco della produzione e l’insubordinazione. Avverso il licenziamento irrompevano gli organismi loca‑ li delle associazioni sindacali rappresentative dei lavoratori licenziati, FIOM e CGL, con ricorso ex art 28 Stat. lav., i quali contestavano la fondatezza e la veridicità delle ragioni poste dall’azienda a sostegno dei licenziamenti irrogati, asse‑ rendo che la mancata movimentazione dei predetti carrelli era dipesa da altre cause, nella fattispecie era stata sospesa dai responsabili in ragione dell’adesione degli operai alla mobili‑ tazione; conseguentemente la sanzione irrogata aveva carat‑ tere antisindacale in quanto irrogata a due delegati e ad un iscritto all’organizzazione sindacale a causa del ruolo da que‑ sti esercitato in azienda in occasione delle mobilitazioni che avevano interessato lo stabilimento di Melfi. Il Giudice adito, riscontrata preliminarmente l’attualità della condotta per essere i provvedimenti adottati dal datore di lavoro idonei ad incidere sul futuro sereno esercizio del diritto di sciopero e a limitare l’esercizio dell’attività sindacale, ritene‑ va sussistente l’antisindacalità della condotta. In particolare, distinguendo tra una condotta commissiva, verosimilmente dovuta ad un contatto con l’AGV, ed una omissiva, priva del necessario elemento soggettivo del dolo, caratterizzata dallo stazionamento illegittimo, ma frutto di incomprensione, sul percorso riservato ai carrelli, sosteneva la mancata integrazio‑ ne del comportamento contestato e, comunque, l’assenza di qualsivoglia intenzionalità in capo ai tre lavoratori. Pertanto accoglieva il ricorso promosso dalle associazioni sindacali, ordinando la immediata reintegra degli stessi nel proprio posto di lavoro; ordinava, altresì, la pubblicazione del dispositivo. Avverso tale decreto, la S. A.T.A. S. p.a. proponeva oppo‑ sizione, contestando l’errata interpretazione delle risultanze istruttorie e l’errata e incongrua motivazione. Esaminata nuovamente l’attualità della condotta, essa persistente sia per la sua portata intimidatoria, sia per la capacità di restringere o ostacolare il libero esercizio dell’attività sindacale, oltre che per la circostanza che i tre licenziati, seppur formalmente reintegrati nel proprio posto di lavoro, di fatto non avevano la possibilità di espletare in concreto alcuna mansione, il giudice dell’opposizione aveva escluso l’antisindacalità dei licenziamenti irrogati. Riteneva che i provvedimenti di licen‑ ziamento fossero stati la logica conseguenza di comportamen‑ ti che, travalicando i limiti dello sciopero, erano sconfinati nell’aperta violazione dei più comuni obblighi di diligenza, fedeltà, obbedienza, correttezza e buona fede e nella plateale negazione della gerarchia aziendale. Sussistendo un danno grave per l’azienda determinato dal blocco della produzione, riconducibile alla condotta esclusiva dei lavoratori licenziati, revocava pertanto il decreto. Avverso la pronuncia del giudice dell’opposizione propo‑ nevano appello i sindacati deducendo l’illegittimità della sentenza per travisamento dei fatti rispetto a quanto emerso dall’istruttoria e documentato, per la non volontarietà della F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o condotta, la mancanza di insubordinazione e l’assenza del danno oltre all’obiettiva antisindacalità del comportamento. Le associazioni sostenevano innanzitutto che lo sciopero è una legittima causa di sospensione del rapporto, durante la quale l’obbligo di obbedienza non può che essere sospeso (al contrario di altri obblighi, quali ad esempio la fedeltà) ovvero comunque risultare attenuato. La Corte di Appello nel delimitare l’ambito di operatività del diritto di sciopero esclude la sospensione dell’obbligo di obbedienza evidenziando che, per contro,“durante lo sciopero restano sospese le obbligazioni relative alle corrispettive pre‑ stazioni di lavoro e di pagamento delle retribuzioni, mentre non lo sono gli altri diritti ed obblighi pur integranti il conte‑ nuto del rapporto, i quali sono estranei alla sospensione della prestazione lavorativa, che costituisce l’essenza del di‑ ritto di sciopero.” Per stabilire se vi sia stata la disobbedienza dei lavoratori, occorre verificare se “in relazione alla qualità del rapporto intercorso fra le parti, alla posizione che in esso abbia rivestito il lavoratore, alla qualità ed al grado di fiducia che quel rapporto comportava, la specifica mancanza com‑ messa dal dipendente, considerata non solo nel suo contenu‑ to obiettivo, ma anche nella sua portata soggettiva, specie con riferimento alle particolari circostanze e condizioni in cui è posta in essere, ai suoi modi, ai suoi effetti, ed all’intensità dell’elemento psicologico, risulti idonea a ledere in modo grave, così da farla venir meno, la fiducia che il datore di la‑ voro ripone nel proprio dipendente, e tale quindi, da esigere sanzioni non minori di quella (massima) espulsiva.” La Corte ritiene, che in base alle risultanze istruttorie, la dinamica dei fatti porti ad escludere sul piano soggettivo la disobbedienza dei lavoratori, i quali avrebbero solo reagito alle aggressioni dei responsabili. Sul piano oggettivo prosegue nell’analisi, verificando nel caso concreto se vi sia stato un danno all’impresa giustifica‑ tivo del licenziamento, muovendo dalla nota distinzione tra limiti interni ed esterni di esercizio del diritto di sciopero. In ordine al danno alla produzione riconosciuto dal giu‑ dice dell’opposizione, la Corte di Appello, ha evidenziato che “il limite (esterno) al diritto di sciopero è costituito non più dalla perdita sproporzionata di produzione, come nella su‑ perata teoria del danno ingiusto, bensì dalla necessità di tu‑ telare il potenziale produttivo dell’azienda.”. Il giudice della Corte di Appello di Potenza chiarisce che non vi è più quel collegamento esonerativo con l’esercizio del diritto di sciopero quando la lotta sindacale sia trascesa da una mera astensione collettiva dal lavoro a manifestazioni di violenza, minaccia ed intimidazione nei confronti di altri la‑ voratori o del datore di lavoro ovvero abbia inciso direttamen‑ te sulla integrità degli impianti e sulla incolumità degli impie‑ gati addettivi ovvero ancora sia consistita in un comporta‑ mento materiale positivo di ostacolo al lavoro degli altri di‑ pendenti, mediante fisica ostruzione alle manovre dei mezzi. In tali casi, la condotta rileva ai fini della violazione degli obblighi costituenti il contenuto del rapporto di lavoro. Nel caso di specie ritiene che, nella prospettazione di cui alle contestazioni, ciò che principalmente si addebita ai lavorato‑ ri, è un comportamento volontario, perciò insubordianato, mantenuto per un certo tempo, nonostante gli inviti dei re‑ sponsabili, avente il proposito di ostacolare il regolare svolgi‑ mento dell’attività produttiva mediante l’impedimento del 2 0 1 2 49 transito del carrello. In altre parole, rileva, in base alla con‑ testazione, l’elemento soggettivo della condotta contestata consistente nel deliberato ostacolo al transito del carrello, ostacolo costituente non l’effetto di un agire semplicemente insubordinato, ma l’obiettivo che i lavoratori, con lo stazio‑ namento nell’area interdetta, avrebbero inteso perseguire. Dagli accertamenti svolti sia dal giudice della fase somma‑ ria che dal giudice dell’opposizione, riesaminati dal giudice di appello, appariva che fosse uso aziendale che, a fronte della proclamazione dello sciopero, i responsabili UTE provvedes‑ sero a bloccare temporaneamente le linee agendo sull’apposi‑ to pulsante e a riorganizzare la produzione spostando tutti gli astenuti dallo sciopero su una sola linea produttiva. Gli scio‑ peranti quel giorno erano nel corridoio tra due UTE e il loro assembramento interessava la pista di transito degli AVG e il corridoio attiguo, ove vi era un carrello già fermo. Si ferma‑ rono in assemblea circa 2‑ 3 metri davanti a un carrello fermo. Riattivata una delle due linee di montaggio, uno dei respon‑ sabili della UTE si avvedeva del fatto che non arrivassero i carrelli e, percorso a ritroso il tragitto del carrello, ritrovava, a pochi metri da un carrello gli scioperanti. Il responsabile, raggiunto da altri colleghi avvertiti telefonicamente, intimava la ripresa dell’attività produttiva e a tale intimazione un dele‑ gato faceva presente che era in atto uno sciopero. Sopraggiun‑ ti altri allora non presenti, nonché il gestore operativo ed il responsabile del personale del turno, uno di loro contestava l’ostacolo alla produzione e i lavoratori continuavano a ripe‑ tere che dovevano tenere l’assemblea. Contestato a un lavora‑ tore il licenziamento per siffatta condotta, mentre gli altri lavoratori intimoriti si spostarono dalla linea di transito degli AGV, posizionandosi sul corridoio, intervenivano due delega‑ ti sindacali in difesa del lavoratore, il quale aveva subito un richiamo perentorio e grave senza una giustificazione chiara. Appariva pertanto che la discussione con il responsabile sul diritto all’assemblea fosse la “sola ed esclusiva ragione che, in un arco temporale come sopra delimitato” aveva “indotto a non allontanarsi i lavoratori poi licenziati, trattenutisi appunto sul posto per rispondere alle contestazioni che (solo) a loro venivano rivolte e che percepivano come ingiuste”. La Corte di appello, pertanto, alla luce delle risultanze acquisite, ritiene che l’addebito contestato debba subire un sicuro ridimensionamento, tanto con riferimento all’asserito deliberato intento di ostacolare la produzione, quanto con riferimento alla sua componente oggettiva, identificata dalla società in un “impedimento al transito, decorso, passaggio del carrello stesso che i tre licenziati con la loro condotta (negligente e oltraggiosa) hanno certamente causato”, impe‑ dimento che, era risultato temporalmente più circoscritto di quello lamentato, con ovvie conseguenze sul danno asserita‑ mente derivatone, relativamente al quale giova, in ogni caso, precisare che mancano elementi che consentano di ravvisarlo sotto forma di pregiudizio per la competitività aziendale. La Corte ritiene inesistente il danno alla produttività sia sotto il profilo oggettivo, in quanto tenuto conto dei tempi ristretti degli eventi non si può ravvisare un pregiudizio alla competitività aziendale, sia sotto il profilo soggettivo, in quanto avuto riguardo alle modalità con cui gli ordini alla ripresa della produzione erano stati dati, della concitazione del momento, dell’equivoco sullo stato di fermo dei carrelli, i lavoratori effettivamente non avevano compreso che gli fosse civile Gazzetta 50 D i r i t t o e p r o c e d u r a contestato il blocco della produzione ma solo il blocco dei carrelli. Si legge nella sentenza “Se, allora, va ritenuto che i re‑ sponsabili aziendali, pur essendo in corso di svolgimento uno sciopero, fossero legittimati, in base ai principi sopra richia‑ mati in tema di limiti esterni al diritto di sciopero, a dare le disposizioni volte a garantire la conservazione dell’assetto organizzativo e la ripresa della produzione, non può trascu‑ rarsi il fatto che, per le modalità con cui le stesse sono state impartite, per la concitazione del momento e lo scontro sin‑ dacale dichiaratamente in atto (già il solo fatto che giungono sul posto, oltre al …ed al …, altri 5 responsabili aziendali, tutti insieme, è indicativo dell’impatto anche emotivo che tale intervento può aver avuto sul gruppo degli scioperanti) nonché per la situazione oggettiva del fermo dei carrelli, siano state intese come dirette a censurare qualcosa (e cioè, appunto, il blocco dei carrelli) che i lavoratori assumevano di non aver provocato. Del resto, la stessa circostanza che il … abbia dovuto più volte ripetere tanto l’invito a spostarsi quanto la contestazione, è significativa, contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, del fatto che non era stato immediatamente compreso che non veniva addebitato il blocco dei carrelli bensì il posizionamento atto ad impedir‑ ne il transito (o meglio, per quanto sopra detto, la ripresa del transito). D’altronde, una valutazione compiuta della vicen‑ da non può trascurare che il modo del … di rapportarsi con il …il … ed il … non è stato così tranquillo e pacato come la società sostiene”. L’accoglimento dell’appello discende dalla ritenuta esisten‑ za di un licenziamento non solo illegittimo per i motivi sue‑ sposti ma anche antisindacale in quanto strumentale ad inde‑ bolire le forze antagostiche dei sindacati, con conseguente immediato pregiudizio per l’azione e la libertà sindacale. L’ eventuale mancanza del carattere di antisindacalità avrebbe indotto a confermare la statuizione del giudice dell’opposizione che aveva escluso l’antisindacalità chiarendo nel corpo della sentenza che l’illegittimità dei tre licenziamen‑ ti irrogati nell’occasione dei fatti avrebbero dovuto essere piuttosto oggetto di altro giudizio, di merito o cautelare. In effetti i due concetti giuridici di «condotta antisinda‑ cale» e « licenziamento illegittimo» non coincidono ma sono distinti tra loro, sicché la equiparazione illegittimità‑antisin‑ dacalità non è automatica, con la logica conseguenza che se vi è condotta antisindacale i licenziamenti irrogati in occasio‑ ne di questa sono illegittimi, ma non viceversa. Nel caso di specie, esclusa la illegittimità della condotta dei lavoratori per mancanza di dolo e per la ristrettezza tem‑ porale della condotta, per contro appare provata l’antisinda‑ calità della condotta del datore di lavoro in quanto incisiva sulla libertà dei sindacati di scioperare liberamente e di difen‑ dere i propri diritti nei confronti dei rappresentanti del potere datoriale. La sentenza appare interessante nella parte in cui eviden‑ zia l’esistenza nel caso di specie di una intenzionalità antisin‑ dacale della condotta quale quid pluris degli estremi della condotta antisindacale, ritenendo i licenziamenti “nulla più che misure adottate per liberarsi di sindacalisti che avevano assunto posizioni di forte antagonismo, con conseguente immediato pregiudizio per l’azione e la libertà sindacale”. Da una parte il Giudice evidenzia il carattere discriminatorio c i v i l e Gazzetta F O R E N S E della condotta in senso oggettivo, posto che i tre lavoratori sarebbero stati licenziati unicamente in quanto appartenenti alla FIOM discriminandoli da tutti gli altri partecipanti, tra cui sindacalisti di altre sigle, che pure avevano sostato sul percorso degli Agv, dall’altra definisce il licenziamento come un strumentale a indebolire le forze antagostiche dei sindaca‑ ti, il che lascerebbe trasparire una valutazione del licenzia‑ mento come intenzionalmente irrogato “al fine di”. Ciò permette di ritenere che, pur non essendo l’intenzio‑ nalità della condotta datoriale un requisito necessario e suf‑ ficiente per qualificare la condotta come antisindacale, essa ben può essere valutata dal giudice come elemento aggrava‑ tore del dato obbiettivo dell’antisindacalità della stessa. Da ultimo la Corte nell’accogliere l’appello, rigettando l’opposizione di parte appellata avverso il decreto del Tribu‑ nale di Melfi, osserva che tanto il giudice della fase sommaria quanto quello dell’opposizione avevano disposto la pubblica‑ zione del dispositivo sui quotidiani, a cura e spese, delle parti soccombenti. La Corte rileva che in effetti l’art. 28 non preve‑ de un tale obbligo in capo al giudice ma solo quello inerente la pubblicazione ex art. 36 c.p. della sentenza penale resa ai sensi dell’art. 650 c.p. Tuttavia non esclude che in virtù della previsione generale di cui all’art. 28 cit., comma 1, intesa a garantire non solo la cessazione del comportamento antisin‑ dacale ma anche la rimozione degli effetti lesivi già realizzati, si possa ritenere opportuna la pubblicazione dello stesso de‑ creto o della sentenza resa nel giudizio di opposizione, ovvero ai sensi dell’art. 120 c.p.c. che nella formulazione attuale prevede che il giudice, su istanza di parte, può ordinare la pubblicazione della sentenza a cura e spese del soccombente nei casi in cui la pubblicità della decisione di merito può con‑ tribuire a riparare il danno, compreso quello derivante per effetto di quanto previsto all’articolo 96. L’osservazione viene svolta ai soli fini della rivalutazione dell’onere delle spese di pubblicazione, mentre non viene disposta la pubblicazione della sentenza per rimuovere gli effetti lesivi della sentenza del giudizio di opposizione, il che fa intendere che il giudicante abbia ritenuto che tale tipo di condanna possa essere disposta solo ove richiesta dalle parti in base ad un’interpretazione estensiva dell’art. 28, comma 1, e non iussu iudicis. 5. Conclusioni Dalla lettura della sentenza della Corte di Appello di Potenza emerge una maggiore elasticità interpretativa da parte del giudicante non soltanto dei principi giuridici sotte‑ si al procedimento di repressione della condotta antisindaca‑ le e dei limiti esterni del diritto di sciopero ma anche dei fatti di causa. Il giudicante, difatti, dopo una ricostruzione attenta e minuziosa della delimitazione dottrinaria e giuri‑ sprudenziale dei limiti del diritto di sciopero, prima di pro‑ cedere a valutare l’antisindacalità della condotta datoriale, ha proceduto a verificare nel caso concreto, attraverso lo studio di tutte le dichiarazioni rese in sede istruttoria del giudizio di opposizione, se la condotta tenuta dai lavoratori oltrepassasse i limiti della legittimità dello sciopero e pertan‑ to giustificasse effettivamente la reazione datoriale del licen‑ ziamento. Tenuto conto dei fatti, del contesto in cui si sono svolti gli scontri, del tempo particolarmente esiguo nel quale si sarebbero svolti i fatti contestati e considerato lo stato emotivo delle parti, il giudicante ha escluso l’esistenza di un F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o danno all’impresa e di una disobbedienza dei dipendenti tali da giustificare il licenziamento, posto che la sosta dei dipen‑ denti licenziati sulla zona off limits trovava giustificazione solo nella necessità di controbattere ai responsabili, spiegan‑ do le proprie ragioni. La sentenza appare pertanto particolarmente innovativa nella parte in cui, esclusa l’esistenza di una danno alla pro‑ duttività ma anche, per ciò che rileva, di un danno alla pro‑ duzione e di una voluta disobbedienza agli ordini datoriali, giustifica la condotta potenzialmente offensiva dei lavoratori tenendo conto delle circostanze del caso concreto e della non intenzionalità dei dipendenti di interrompere la produzione, apparendo così del tutto immotivato il licenziamento degli stessi. In questo modo la Corte ha dato esempio della necessità che il giudice valuti tutti gli elementi di fatto, oltre che di 2 0 1 2 51 diritto, necessari a verificare l’effettivo superamento dei limi‑ ti del diritto di sciopero. In questo modo il giudizio sulla estensione dei limiti del diritto di sciopero diventa più com‑ pleto e riguardoso dei diritti dei lavoratori che si trovano in una posizione di subordinazione al datore di lavoro, molto spesso subendo sanzioni sproporzionate, espressione di un uso strumentale e distorto del potere disciplinare. La sentenza per i rilievi in essa contenuti apre un nuovo scenario sull’individuazione del campo di operatività dei li‑ miti del diritto di sciopero nella parte in cui individua dei temperamenti nella valutazione dell’illiceità dello sciopero tenuto conto del contesto in cui esso si svolge e della perce‑ zione dei fatti da parte dei lavoratori oltre che della inconsa‑ pevolezza della condotta illecita. Un aspetto innovativo nella giurisprudenza in materia su cui si attende di verificarne l’esito nelle successive pronunce. civile Gazzetta 52 D i r i t t o ● Rassegna di legittimità ● A cura di Corrado d’Ambrosio Magistrato presso il Tribunale di Napoli e p r o c e d u r a c i v i l e Gazzetta F O R E N S E Comunione – Locazione della cosa comune da parte di uno dei comproprietari gestione d’affari – Configurabilità – Diritto del comproprietario non locatore di esigere i canoni locativi dal con‑ duttore – Necessità del contraddittorio con il comproprietario locatore Le Sezioni Unite civili hanno affermato che la locazione della cosa oggetto di comunione da parte di uno dei compro‑ prietari rientra nell’ambito della gestione di affari ed è sog‑ getta alle regole di tale istituto, sicché, nel caso di gestione non rappresentativa, il comproprietario non locatore può ratificare l’operato del gestore ed esigere dal conduttore, nel contraddittorio con il comproprietario locatore, la quota dei canoni proporzionata alla rispettiva quota di proprietà in‑ divisa. Cass. civ., Sez. un., sent. 04 luglio 2012, n. 11135 Pres. Vittoria, Est. Petitti Comunione e condominio – Trasformazione di una parte del tetto comune in terrazza ad uso esclusivo del condomino proprietario del piano sottostante – Ammissibilità – Condizioni e limiti Il condomino, proprietario del piano sottostante al tetto comune, può effettuare la trasformazione di una parte del tetto dell’edificio in terrazza ad uso esclusivo proprio, a con‑ dizione che sia salvaguardata, mediante opere adeguate, la funzione di copertura e protezione delle sottostanti strutture svolta dal tetto preesistente, restando così complessivamente mantenuta, per la non significativa portata della modifica, la destinazione principale del bene. Cass. civ., Sez. II, sent. 03 agosto 2012, n. 14107 Pres. Triola, Est. D’Ascola Contratto preliminare – Esecuzione in forma specifica di prelimi‑ nare di vendita immobiliare – Sottoscrizione del contratto da parte di entrambi i coniugi in comunione legale – Necessità – Esclu‑ sione – Sussistenza del consenso – Sufficienza – Conseguenze in caso di mancanza del consenso Ai fini dell’esecuzione in forma specifica di un prelimina‑ re di vendita immobiliare non è necessaria la sottoscrizione del contratto da parte di entrambi i coniugi in comunione legale ma è sufficiente il consenso dell’altro coniuge e la man‑ canza del suo consenso si traduce in un vizio da far valere ai sensi dell’art. 184 c.c., nel rispetto del principio generale di buona fede e dell’affidamento, nel termine di un anno decor‑ rente dalla conoscenza dell’atto o dalla data di trascrizione. Cass. civ., Sez. II, sent. 24 luglio 2012, n. 12923 Pres. Schettino, Est. Proto Diritti reali – Vincolo di indivisibilità trentennale dei fondi agrico‑ li ex art. 11 della legge n. 817 del 1971 – Estensione all’ipotesi di usucapione – Esclusione – Fondamento Il vincolo di indivisibilità trentennale dei fondi agricoli acquistati con le agevolazioni creditizie concesse dallo Stato per la formazione o l’ampliamento della proprietà coltivatri‑ ce, di cui all’art. 11 della legge 14 agosto 1971, n. 817, non si estende all’usucapione, la quale, in quanto acquisto a titolo originario, prescinde da un atto dispositivo e non è un “atto” suscettibile di essere sanzionato con la nullità. Cass. civ., Sez. II, sent. 17 luglio 2012, n. 12289 Pres. Triola, Est. Proto F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o Filiazione – Inseminazione eterologa – Azione di disconoscimen‑ to di paternità – Ammissibilità – Limiti La norma di cui all’art. 235 c.c., la quale regola l’azione di disconoscimento di paternità, si applica anche alla filia‑ zione derivante da inseminazione artificiale eterologa, con riguardo alla domanda proposta dal figlio, nonché, per quan‑ to attiene all’azione del coniuge, nelle ipotesi in cui questi non abbia prestato, neppure implicitamente, il proprio consenso alla fecondazione. Cass. civ., Sez. I, sent. 11 luglio 2012, n. 11644 Pres. Luccioli, Est. Campanile Lavoro – Lavoro subordinato – Donne – Diritto alla conservazione del posto – Gravidanza – Licenziamento – Diritto alle retribuzioni successive all’effettiva cessazione del rapporto – Condizioni – Co‑ noscenza effettiva dello stato di gravidanza da parte del datore di lavoro – Sufficienza In tema di rapporto di lavoro irregolare, la lavoratrice in stato di gravidanza o puerperio licenziata nonostante il di‑ vieto di licenziamento ha diritto alle retribuzioni successive alla data di effettiva cessazione del rapporto, indipendente‑ mente dall’invio della relativa certificazione medica ove il datore di lavoro abbia avuto comunque conoscenza effettiva dello stato di gravidanza. Cass. civ., Sez. lav., sent. 20 luglio 2012, n. 12693 Pres. Vidiri, Est. Mancino Procedimento civile – Procedimento cautelare – Sequestro – Sen‑ tenza che dichiara l’estinzione del giudizio di merito – Inefficacia del sequestro – Passaggio in giudicato della sentenza – Necessi‑ tà – Esclusione – Conseguenze La misura cautelare del sequestro perde efficacia per ef‑ fetto della dichiarazione di estinzione del correlato giudizio di merito, senza che a tale effetto sia necessario che la pro‑ nuncia sia divenuta inoppugnabile, sì che la stessa va assun‑ ta a presupposto dei provvedimenti ripristinatori previsti dall’art. 669 novies, secondo comma, c.p.c.. 2 0 1 2 53 Cass. civ., Sez. un., sent. 16 luglio 2012, n. 12103 Pres. ed Est. Vittoria Ragionevole durata del processo – Violazione – Liquidazione del danno non patrimoniale – Applicazione dei parametri tabellari individuati dalla giurisprudenza di legittimità – Possibilità di scendere al di sotto di detti parametri – Sussistenza – Fondamen‑ to e limiti Nel sistema nazionale dell’equa riparazione per la viola‑ zione del termine di ragionevole durata di cui all’art. 6 CEDU (Legge n. 89 del 2001), l’inesistenza di un pregiudizio impor‑ tante, dovuto all’irrisorietà o alla modestia del valore effet‑ tivo della controversia sottoposta a giudice nel giudizio presupposto, consente di ragionevolmente ridurre la compen‑ sazione del danno non patrimoniale subito per la lentezza del processo in relazione alla particolarità del caso concreto e di scendere, al fine di cogliere l’effettiva consistenza economica e sociale della vicenda presupposta, al di sotto dei parametri tabellari plasmati dalla giurisprudenza della Corte di Cassa‑ zione (da € 750 e poi da € 1.000 in su), da riservare ai casi in cui il pregiudizio è serio e tale da comportare conseguenze significative sulla situazione personale della parte. Cass. civ., Sez. II, sent. 24 luglio 2012, n. 12937 Pres. Rovelli, Est. Giusti Risarcimento danni – Occupazione illegittima di immobile – Dan‑ no in re ipsa subito dal proprietario – Sussistenza – Limiti In tema di illegittima occupazione di un immobile, la presunzione di danno in re ipsa, che poggia sul presupposto dell’utilità normalmente conseguibile dal proprietario nell’esercizio delle facoltà di godimento e di disponibilità del bene insite nel diritto dominicale, non può operare allorché risulti provato che il proprietario stesso si sia intenzional‑ mente disinteressato dell’immobile ed abbia omesso di eser‑ citare su di esso ogni forma di utilizzazione. Cass. civ., Sez. II, sent. 07 agosto 2012, n. 14222 Pres. Triola, Est. Matera civile Gazzetta 54 D i r i t t o ● Rassegna di merito ● A cura di Mario De Bellis e Daniela Iossa Avvocati e p r o c e d u r a c i v i l e Gazzetta F O R E N S E Prestazione d’opera – Obbligo accessorio di custodire – Inadem‑ pimento – Risarcimento del danno – Debito di valore 1. Il prestatore d’opera, se conviene con il committente di prendere in consegna il bene per l’esecuzione della prestazio‑ ne principale su di esso, assume, ai sensi degli art. 2222 e 1177 c.c., anche l’obbligo accessorio di custodirlo fino alla ricon‑ segna, pure in caso di deposito a titolo gratuito o di cortesia (cfr. Cass. civ., Sez. III, 18 settembre 2008, n. 23845). 2. Le norme che disciplinano nel contratto di deposito la responsabilità del depositario sono applicabili solo nel caso in cui l’obbligo di custodia rappresenti l’unica prestazione qualificatrice del contratto; qualora, invece, l’obbligo di cu‑ stodire abbia natura meramente accessoria rispetto a quella dedotta in obbligazione, per il suo adempimento trovano applicazione, a termini dell’art. 1177 c.c. le regole stabilite per l’adempimento delle obbligazioni in generale; pertanto nel caso in cui il deposito è connesso con un contratto di lavoro autonomo, l’obbligo di custodia, per il cui adempimento si richiede la diligenza del buon padre di famiglia, resta limitato al tempo necessario per l’esecuzione del lavoro, con la conse‑ guenza che il depositante, una volta che gli sia stato comuni‑ cato che il lavoro stesso è stato ultimato, deve riprendersi la cosa, senza che, ove il depositario abbia fatto presente di non potere continuare la custodia in modo pieno, possa configu‑ rarsi una sua responsabilità per la perdita della cosa, salva l’ipotesi che tale perdita sia derivata da una particolare negli‑ genza. 3. L’obbligazione di risarcimento del danno, ancorché derivante da inadempimento contrattuale, configura un de‑ bito di valore, in quanto diretta a reintegrare completamente il patrimonio del danneggiato, sicché non trova applicazione il principio nominalistico, e deve, pertanto, essere quantifi‑ cata dal giudice, anche d’ufficio, tenendo conto della svalu‑ tazione monetaria sopravvenuta fino alla data della liquida‑ zione (cfr. Cass. civ., Sez. un., 30 ottobre 2008, n. 26008). Trib. Nola, Sez. II, sent. 04 giugno 2012 Giud. Costabile Separazione dei coniugi – Onere della prova e potere di disporre le indagini di polizia tributaria – Domanda di addebito della sepa‑ razione – Onere della prova – Assegnazione parziale della casa familiare – Presupposti e limiti 1. Il potere di disporre indagini sui redditi e sui beni dei coniugi presuppone essenzialmente due condizioni: la prima, consistente nell’insufficienza della documentazione deposi‑ tata, in base alle quale non sarebbe possibile stabilire le con‑ dizioni reddituali del coniuge; la seconda, nella contestazione dei redditi indicati. Pertanto, per giustificare i richiesti accer‑ tamenti tributari, è imposto al coniuge istante un puntuale onere di contestazione ed allegazione che non può esaurirsi nella semplice negazione delle risultanze in atti, ma deve es‑ sere supportata da sufficienti elementi di ragionevolezza nonché dalla formulazione di istanze articolate su elementi di fatto specifici, non del tutto sforniti di riscontro. 2. L’accoglimento della domanda di addebito della sepa‑ razione presuppone che sia raggiunta la prova di due circo‑ stanze: uno o più comportamenti, posti in essere da parte di F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o 2 0 1 2 55 uno o di entrambi i coniugi, volontariamente e consapevol‑ mente, contrari ai doveri nascenti dal matrimonio (sui quali si fonda la cd. comunione materiale e spirituale cui lo stesso dà vita), ed il nesso di causalità tra le dette violazioni e l’in‑ tollerabilità della prosecuzione della convivenza, nel senso che deve essere raggiunta la prova che proprio il o i compor‑ tamenti posti in essere da parte di uno dei coniugi in viola‑ zione dei citati doveri “sia o siano stati la causa efficiente del fallimento della convivenza. violazione del dettato di cui all’art. 2423 c.c.. norma, quest’ultima, applicabile anche al bilancio di società a respon‑ sabilità limitata per effetto del richiamo ad essa operato dall’art. 2478 bis c.c.. deve ritenersi che, ove tali doglianze siano fondate, ci si trovi in presenza di una delibera avente oggetto illecito od impossibile, come tale impugnabile da chiunque vi abbia interesse entro il termine di tre anni dalla trascrizione della deliberazione nel libro delle decisioni dei soci. 3. Il potere del giudice della separazione di assegnare l’abitazione della casa familiare, in deroga al normale regime privatistico, al coniuge affidatario dei figli minori […] inclu‑ de la facoltà di attribuire alcuni soltanto dei locali di detta casa […]; trattandosi del conferimento dell’uso di alloggio per sopperire ai bisogni abitativi di un nucleo familiare, deve ritenersi consentita l’attribuzione di alcuni locali soltanto di un più ampio fabbricato, purché rispondenti allo sco‑ po – Detta rispondenza allo scopo esige che i vani assegnati non solo abbiano ampiezza sufficiente per ospitare il coniuge affidatario ed i figli di cui deve occuparsi, ma presentino anche caratteristiche strutturali e funzionali tali da renderne possibile l’aggregazione in un ‘unità abitativa, autonoma e distaccabile dal resto dell’edifìcio; esige altresì che questa distaccabilità sia insita nella conformazione dell’intero im‑ mobile, oppure non richieda altro che modesti accorgimenti o piccoli lavori, tenendo conto che nessuna disposizione autorizza ad imporre all’uno o all’altro dei coniugi separati l’esecuzione di opere edili di trasformazione, e che, inoltre, tali opere, subordinate ai prescritti permessi dell’autorità amministrativa, priverebbero il provvedimento del giudice di sicura ed immediata eseguibilità. Pertanto in tema di separazione personale dei coniugi, può disporsi l’assegnazione della casa familiare ad entrambi i coniugi, sempre che sia agevolmente divisibile in due distin‑ te unità immobiliari, ciò al fine di consentire ai figli mino‑ ri – titolari del diritto alla bi‑ genitorialità – la conservazione di paritari e significativi rapporti con i genitori, cui sono affidati ‑ Trib. Napoli, Sez. I, sent. 04 giugno 2012 Pres. Casoria, Rel. Di Clemente 3. La delibera di approvazione di un bilancio redatto in violazione dei principi di verità, chiarezza e correttezza con‑ figura un’ipotesi di nullità e non di mera annullabilità (cfr. Cass. 7.3.2006, n. 4874; Cass. 24.12.2004, n. 23976), la ratio sottesa all’applicazione del regime più restrittivo è lega‑ ta alla funzione stessa del bilancio che deve rappresentare in modo non solo veritiero, ma altresì corretto e chiaro, la si‑ tuazione patrimoniale e finanziaria della società ponendo il socio ed i terzi in condizione di assumere le necessarie infor‑ mazioni relative alla sua situazione patrimoniale e finanzia‑ ria. La sanzione della nullità quale conseguenza della caren‑ za assoluta di informazione (ipotesi nella quale deve logica‑ mente ritenersi rientrare quella della mancata convocazione del socio all’assemblea) è sancita direttamente dal terzo com‑ ma dell’art. 2479 ter c.c.. Trib. Napoli, Sez. VII, sent. 19 giugno 2012. Pres. Rel. E. Campese Società di capitali – Delibere assembleari – Carenza assoluta d’informazione – Oggetto illecito o impossibile – Legittimazione attive e termini di impugnazione 1. Nelle s.r.l., i soci possono decidere o deliberare sulle materie riservate alla loro competenza per legge o dall’atto costitutivo, nonché sugli argomenti che uno o più ammini‑ stratori o tanti soci che rappresentano almeno un terzo del capitale sociale sottopongono alla loro approvazione, non solo in assemblea, ma anche fuori della stessa, ovvero per iscritto [tramite consultazione scritta o consenso espresso per iscritto] e, quindi, non necessariamente tramite riunione, ai sensi degli artt. 2479 e 2479 bis. Tuttavia, in taluni casi è obbligatorio per legge che le decisioni dei soci debbano esse‑ re adottate mediante deliberazione assembleare [ex art. 2479, comma 4, del codice civile]. Urbanistica ed edilizia – Responsabilità civile P.A. – Giurisdizione del Giudice Ordinario – Legittimazione attiva del conduttore nei confronti dei terzi – Sussistenza 1. L’inosservanza da parte della P.A. (o di un soggetto concessionario o appaltatore di lavori pubblici), nella gestio‑ ne e manutenzione dei beni che ad essa appartengono, delle regole tecniche, ovvero dei canoni di diligenza e prudenza, può essere denunciata dal privato dinanzi al giudice ordina‑ rio, sia qualora la domanda sia volta a conseguire la condan‑ na della P.A. al risarcimento del danno patrimoniale, sia qualora sia volta a conseguire la condanna della stessa ad un “facere”, giacché la domanda non investe scelte ed atti auto‑ ritativi dell’amministrazione, ma attività soggetta al rispetto del principio del “neminem laedere”. Né è di ostacolo il di‑ sposto dell’art, 34 dei d.lgs. n. 80 del 1998, come sostituito dall’art. 7 della L. n. 205 del 2000, là dove devolve al giudice amministrativo le controversie in materia di urbanistica ed edilizia giacché, a seguito dell’intervento parzialmente cadu‑ catorio recato dalla sentenza n. 204 del 2004 della Corte costituzionale, nell’attuale assetto ordinamentale, la giuri‑ sdizione esclusiva, nella predetta materia, non è estensibile alle controversie nelle quali la P.A. non eserciti alcun potere autoritativo finalizzato al perseguimento degli interessi pub‑ blici alla cui tutela sia preposta (Cass., Sez. un., n. 5926/11 e 12792/10). Pertanto in tema di risarcimento dei danni de‑ rivanti dalla violazione del principio del neminem ledere per la cattiva esecuzione di lavori, sia pure aventi finalità pub‑ blicistica e sia pure attinenti al trasporto pubblico, deve af‑ fermarsi la giurisdizione del Giudice Ordinario. 2. Laddove vengano prospettate una carenza assoluta di informazione per mancata convocazione del socio, ed una 2.Sussiste la legittimazione del conduttore ad agire per il risarcimento dei danni, oltre che per quelli da lucro cessante, civile Gazzetta 56 D i r i t t o e p r o c e d u r a anche per il danno emergente derivato ai locali condotti in locazione; in quanto, l’art. 1585 c.c., comma 2, da un lato esclude che il locatore sia tenuto a garantire il conduttore dalle molestie di fatto di terzi, dall’altro fa salva al condutto‑ re la facoltà di agire contro i terzi in nome proprio. Conse‑ guentemente se è vero che la suddetta norma non impedisce al proprietario locatore di agire in proprio per ottenere il c i v i l e Gazzetta F O R E N S E risarcimento dei danni eventualmente subiti a causa delle molestie di fatto (Cass., 7.2.2006, n. 2530) è anche vero che anche il locatore gode di un’autonoma legittimazione per proporre l’azione di responsabilità nei confronti dell’autore del danno (cfr. Cass. 1693/10). Trib. Napoli, Sez. X, sent. 01 giugno 2012 Giud. Gargia F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o In evidenza Tribunale di Napoli, sez. VIII civile, sentenza 07 giugno 2012, n. 6891 Giud. Graziano Danni da emotrasfusione di sangue infetto – Legittimazione passiva del Ministero della Salute – Titolarità e responsabilità del dicastero – Compensatio lucri cum damno – Profili di incongruità Il Ministero della Salute ha un obbligo di controllo, di‑ rettive e vigilanza in materia di sangue umano, strumentale alla funzione di programmazione e coordinamento in mate‑ ria sanitaria, al quale corrisponde un dovere aggravato di diligenza nell’impiego delle cure ed attenzioni necessarie Nota redazionale a cura di Raffaele Micillo La sentenza in commento pone diversi spunti di riflessione. In primo luogo la legittimazione passiva, nonché la titolarità giuridica del Ministero della Salute che assorbe in sé anche la responsabilità dello stesso nelle ipotesi di trasfusione di sangue infetto. Il Giudice – correttamente – ripercorre le tappe e gli interventi normativi che hanno portato la giurisprudenza di legittimità e di merito a ritenere il Ministero della Salute responsabile per la somministrazione di sangue infetto (in argomento, Tribunale di Napoli, sex. XI, sentenza 25 luglio 2011. n. 9314 in Gazzetta Forense, n. 1/2012 (gennaio febbraio), con nota redazionale a cura di Gaetano Scuotto). La responsabilità del Ministero è risalente al 1970, ovvero da quando si poteva conoscere della virus B. Con la sentenza 581/08 la Suprema Corte a Sezioni Unite ritenendo che “in base alla normativa vigente quando si sono verificati i fatti, sull’am‑ ministrazione sanitaria gravavano obblighi di vigilanza in materia di sangue umano e che all’epoca risultava oggettivamente nota ai più alti livelli scientifici la possibile veicolazione di virus attraverso sangue infetto, può ritenersi, in assenza di fattori alternativi, che l’omissione delle attività doverose sia stata causa dell’insorgenza della patologia da Hbv, Hcv o Hiv nei soggetti emotrasfusi o assuntori di emoderi‑ vati, già a partire dalla data di conoscenza dell’Hbv, in quanto relativamente agli altri due virus non si configurano eventi autonomi e diversi, bensì solo forme di manifestazione patogene del medesimo evento lesivo dell’integrità fisica” ha di fatto collocato alla data del 1970 la possibilità di “evitare” la trasmissione del virus. L’individuazione del virus B (HBV), infatti, iniziò nel 1963 ad opera di Baruch S. Blumberg (institute for Cancer Research di Filadelfia) i cui studi portarono all’in‑ dividuazione del cosiddetto “Antigene Australia” in seguito identificato con l’anti‑ gene virale di superficie HBsAB. Nel 1970 D.S. Dane (Middlesex Hospital Medical School di Londra) individuò un’ulteriore componente virale presente nel siero dei soggetti affetti da epatite B. Nel 1971 gli studi di June D. Almeida e dei suoi colla‑ boratori (Wellcome Research Laboratories, Inghilterra) portarono alla scoperta di antigeni presenti all’interno delle cellule epatiche di soggetti affetti da epatiti B; tali antigeni, denominati in seguito HBCAG (antigene del “core” virale), reagivano con anticorpi presenti nel sangue degli stessi soggetti. Tali antigeni, ed i relativi comples‑ si antigene‑anticorpo, vennero descritti negli anni successivi da altri autori in nume‑ rosi studi antecedenti al 1978. Va infine rilevato che già negli anni sessanta ed all’inizio degli anni settanta era noto che alle due forme classiche di epatite A e B andava affiancata una entità indicata come “Epatite non A – non B”. Tale forma è attualmente riconosciuta come Epatite C (HCV) e presenta caratteristiche comuni con la epatite B: modalità di trasmissione, possibile tendenza alla cronicizzazione, possibile evoluzione in cirrosi epatica, correlabilità con il carcinoma epatocellulare (HCC). Nel tentativo di arginare la diffusione dell’epatite virale a mezzo emotra‑ sfusioni e/o somministrazione di emoderivati, il Ministro della Salute (all’epoca Sanità) emanò una Circolare diretta ai medici Provinciali (n. 50 del 28/03/1966) con la quale si consigliava il dosaggio delle transaminasi sul sangue dei donatori. Già nel 1971 la comunità scientifica disponeva di test di individuazione degli antigeni correlati al virus HBV. In particolare, la Abbot Diagnostics introdusse sul mercato internazionale (1971) un primo test commerciale denominato Aus‑tect, basato su metodo di diffusione in gel di agar; seguirono, nel 1972, un secondo kit diagnostico denominato Ausria‑125, test radioimmunologico di prima generazione rivolto al riconoscimento dell’antigene di superficie HBsAG, ed un ulteriore test radioimmu‑ nologico di seconda generazione, nel 1974, denominato Ausria II, ai quali furono affiancati un test non radioimmunologico denominato Auscell e, nel 1979, l’Auszy‑ me, un test EIA (immunoenzimatico). L’art. 46 del D.P.R. n. 1256 del 1971 testualmente recita: “Non può essere accettato come donatore o datore chi, sottoposti a visita medica generale, risulti che: a) sia o sia stato affetto da: epatite virale, lues, coronopatie, neoplasie maligne, malattie allergiche, tendenza alle emorragie, episodi epilettici e convulsivi; b) sia affetto dal malattie croniche: cardiovascolari, renali, epatiche, del sangue; c) sia o 2 0 1 2 57 alla verifica della sua sicurezza. Ciò espone, pertanto, il predetto Ministero a responsabilità extracontrattuale, qua‑ lora dall’omissione di tale dovere di vigilanza derivino vio‑ lazioni dei diritti soggettivi di terzi. Trib. Napoli, sez. VIII, sent. 07 giugno 2012, n. 6891 Giud. Graziano (Omissis) Motivi della decisione Come evidenziato nel verbale di udienza che precede, la presente decisione viene adottata ai sensi dell’art. 281‑sexies del Codice di Procedura Civile e, dunque, prescindendo dal‑ le indicazioni contenute nell’art. 132 stesso Codice (cfr., in tal senso, Cass. 19 ottobre 2006, n. 22409, la quale, al ri‑ sia stato affetto da: malattie tubercolari, reumatiche, alcolismo, intossicazione da droghe, ulcera gastroduodenale o altre malattie che, a giudizio del medico, controin‑ dichino la donazione di sangue (ad esempio empatie congenite, esposizione ad agenti chimici o fisici che possono essere causa di anemia)”. L’art. 47 del richiama‑ to D.P.R. afferma che “non possono essere temporaneamente accettati come dona‑ tori o datori: a) gli affetti di brucellosi se non clinicamente guariti da almeno due anni; b) gli affetti da malaria se non clinicamente guariti da almeno sei mesi; c) le donne in stato di gravidanza e per un anno dopo il parto; d) gli affetti da malattie acute, comprese le malattie veneree; e) i convalescenti; f) coloro che abbiano subito interventi chirurgici negli ultimi sei mesi, a meno che non si tratti di interventi di lieve entità; g) coloro che negli ultimi sei mesi abbiano ricevuto una trasfusione di sangue, plasma, fibrogeno o altri derivati che possono trasmettere l’epatite; h) co‑ loro che negli ultimi sei mesi abbiano avuto contatti con epatici; i) coloro che de‑ nuncino foci infettivi attivi o che presentino piaghe, lesioni non cicatrizzate da estrazioni dentarie o processi suppurativi in atto; l) coloro che siano stati vaccinati da meno di un anno contro la rabbia, da meno di due mesi contro il vaiolo o la febbre gialla, da meno di due settimane contro la poliomielite, l’influenza, il mor‑ billo, il tifo, il colera, il tetano, la difterite; m) coloro che abbiano ricevuto sieri animali terapeutici da meno di un mese; n) coloro che siano diminuiti di peso nell’ultimo anno senza giustificato motivo”. Tanto basta a delineare, incontrover‑ tibilmente, che il Ministero della Salute sin dal 1971, se solo si fosse comportato diligentemente, era in grado di evitare il diffondersi ed il dilagare del virus C. Tutte le successive leggi e regolamenti in materia non possono che rafforzare quanto con il D.P.R. 1256 del 1971 affermato e ricondotto, in tema di responsabilità, a carico del Ministero, con particolare riferimento alla lettera b) art. 46 e lettera g) art. 47. L’unico mezzo per prevenire la trasmissione delle infezioni virali conosciute sin dal 1966, era rappresentato dall’esclusione dei soggetti a rischio nelle donazioni (accurata anamnesi, individuazione dei comportamenti a rischio, infezioni recenti, come previsto dal D.P.R. 1256 del 1971, art. 46, comma b ed art. 47, comma g ed h) dal dosaggio delle transaminasi del donatore (Circolare del Ministero della Sanità n. 50 del 28/03/1966), dalla ricerca sierologia degli antigeni e dei relativi anticorpi. Non condivisibile appare l’operata compensatio lucri cum damno tra le som‑ me ricevute dalla danneggiata a titolo di indennizzo ex L. 210/92 e quelle a titolo di risarcimento. Il criterio secondo cui, accertato l’evento, il danno può essere risarcito una sola volta, non è adattabile alla fattispecie concreta in ragione della diversa natura dei pagamenti: l’uno di carattere assistenziale (indennizzo 210/92), l’altro risarcitorio, a maggior ragione se l’accertato nesso causale che ha portato alla concessione dell’in‑ dennizzo non è ritenuto valido per il risarcimento del danno. Di converso saremmo tenuti a ritenere che il presupposto giuridico e fattuale per la concessione dell’inden‑ nizzo non sia utile ai fini risarcitori, differentemente da quello economico che appa‑ re come una sorta di anticipazione della più consistente somma risarcitoria. “Dall’importo del risarcimento spettante alla persona danneggiata per aver contratto un’epatite C, a seguito dell’assunzione di emoderivati infetti, non vanno scomputate le somme che la stessa percepisce a titolo di indennizzo, qualora tali somme siano irrisorie in relazione alle prevedibili cure farmacologiche (e verosimil‑ mente anche chirurgiche) imposte dalla gravissima patologia”. (App. Catania, 04/11/2008‑Foro It., 2009, 1, 1, 250)”. L’indennizzo di cui alla legge 210 del 1992, costituendo una misura economi‑ ca di sostegno aggiuntiva a carico della collettività a favore di coloro che, in adem‑ pimento di un obbligo di legge o spinti al trattamento nell’ambito di una politica sanitaria pubblica incentivante, abbiano risentito di un danno alla propria salute, non può essere considerato una duplicazione del danno risarcibile al medesimo beneficiario a seguito di un giudizio fondato sull’accertamento della colpa, da scomputarsi dall’importo dei danni liquidabili in esito a tale giudizio. (Trib. Roma, 26/09/2003‑Foro It., 2004, 2900‑Ragiusan, 2005, 253‑254, 399). civile Gazzetta 58 D i r i t t o e p r o c e d u r a guardo, ha avuto modo di chiarire come, essendo l’art. 281‑se‑ xies cod. proc. civ. norma di accelerazione ai fini della pro‑ duzione della sentenza, esso consenta al giudice di pronun‑ ciare quest’ultima in udienza, al termine della discussione, dando lettura del dispositivo e delle ragioni di fatto e di di‑ ritto della decisione, senza dover premettere le indicazioni richieste dal comma secondo dell’art. 132 cod. proc. civ. perché esse si ricavano dal verbale dell’udienza di discussione sottoscritto dal giudice stesso, sottolineando altresì come non sia, pertanto, affetta da nullità la sentenza, resa nella forma predetta, che non contenga le indicazioni riguardanti il giu‑ dice e le parti, le eventuali conclusioni del Pubblico Ministe‑ ro e dei difensori, nonché la concisa esposizione dei fatti e, dunque, dello svolgimento del processo). L’attrice sig.ra*** ha convenuto in giudizio il MINISTE‑ RO DELLA SALUTE chiedendo che ne venisse accertata la responsabilità ex art. 2043 cod. civ., in combinato disposto con gli artt. 28 e 32 Cost., per avere cagionato la contrazione del virus HCV e le ulteriori conseguenze dannose (in parti‑ colare, epatite cronica HCV correlata) derivate dalla sua sottoposizione ad una trasfusione di sangue a cui era stata sottoposta nel corso del ricovero presso il Presidio Ospeda‑ liero “Loreto Crispi” in Napoli, e che la predetta Pubblica Amministrazione statale venisse condannata al risarcimento di tutti i danni subiti (biologico, da compromissione della vita di relazione ed esistenziale, morale), nella misura da accertarsi in corso di causa. Il convenuto MINISTERO DELLA SALUTE ha eccepito il proprio difetto di legittimazione passiva e di titolarità del rapporto controverso ed ha contestato, nel merito, la fonda‑ tezza della pretesa attorea, deducendo che, al momento del fatto lesivo, l’esistenza della malattia non era ancora nota alla comunità scientifica, e la carenza del nesso causale e del pre‑ giudizio fatto valere. Ha anche sostenuto la non cumulabilità dell’indennizzo previsto dalla legge 25 febbraio 1992, n. 210, riconosciuto all’attrice, con il risarcimento del danno. In merito alle eccezioni di carenza di legittimazione pas‑ siva e di titolarità del rapporto controverso, sollevata dal Ministero convenuto, si osserva quanto segue. In particolare, con riguardo alla legittimazione ad agire o a contraddire in giudizio (legittimazione attiva o passiva), giova evidenziare che essa si ricollega al principio dettato dall’art. 81 cod. proc. civ. (secondo cui nessuno può far vale‑ re nel processo un diritto altrui in nome proprio fuori dei casi espressamente previsti dalla legge) e deve intendersi qua‑ le diritto potestativo di ottenere una pronunzia sul merito della domanda giudiziale. La legittimazione attiva e passiva integra, com’è noto, una condizione dell’azione e, pertanto, la verifica della sua sussi‑ stenza deve essere effettuata sulla base dei soli fatti esposti dall’attore nell’atto introduttivo. Il giudice, cioè, deve accer‑ tare se, secondo la soia prospettazione fatta nella domanda giudiziale, l’attore e il convenuto possano, in relazione alla disciplina prevista per il rapporto giuridico controverso, ri‑ spettivamente assumere la veste di soggetto dotato del potere di chiedere la pronunzia e di quello che deve subirla. Al ri‑ guardo, la giurisprudenza di legittimità ha precisato che, in materia di procedimento civile, il giudizio sulla legittimazio‑ ne passiva (che attiene alla coincidenza tra il soggetto contro cui un diritto è fatto valere ed il soggetto che tale diritto è c i v i l e Gazzetta F O R E N S E tenuto ad osservare, secondo la prospettazione dei fatti offer‑ ta dall’attore e la norma di legge cui gli stessi vanno sussulti) è condotto sulla base della stessa norma di diritto che va applicata per la decisione del merito della causa, assumendo come veri i fatti esposti dall’attore (cfr., in tal senso, Cass. civ., sez. III, 17 luglio 2002, n. 10388). Di conseguenza, non attiene alla “legitimatio ad causam”, ma al merito della lite, la questione relativa alla titolarità, attiva e passiva, del rapporto sostanziale dedotto in giudizio, risolvendosi nell’accertamento di una situazione di fatto fa‑ vorevole all’accoglimento o al rigetto della pretesa azionata. [cfr., all’uopo, Cass. civ., sez. III, 28 ottobre 2002, n. 15177 secondo cui “È configurarle una questione relativa alfa legit‑ timazione attiva (il cui riscontro costituisce una condizione dell’azione e va fatto sulla base della sola prospettazione attorea) quante volte l’attore faccia valere in nome proprio un diritto altrui, ovvero pretenda una pronuncia nei con‑ fronti di una parte estranea al rapporto sostanziale contro‑ verso. Quando, invece, le parti controvertano sulla effettiva titolarità in capo all’attore della situazione dedotta in giudi‑ zio, la relativa questione attiene non alla legitimatio ad causam, ma al merito della controversia”]. Ciò posto, nel caso in esame, l’attrice sig.ra *** sostiene di agire in giudizio, esercitando in nome proprio un proprio diritto e pretendendo una pronuncia nei confronti della con‑ venuta Pubblica Amministrazione statale che viene ritenuta il soggetto passivo del rapporto giuridico dedotto in lite, per aver violato il principio del “neminem laedere”, omettendo di osservare i propri doveri istituzionali di sorveglianza e vigilanza in materia sanitaria. Appare, dunque, necessario esaminare la normativa che regolava l’attività del Ministero all’epoca dei fatti in tema di emotrasfusione e di emoderivati, al fine di verificare se la Pubblica Amministrazione convenuta, in relazione alla disci‑ plina prevista per il rapporto controverso, possa assumere la veste di soggetto passivo della pronunzia giurisdizionale ri‑ chiesta. In primo luogo, deve osservarsi che l’art. 1 della legge n. 296 del 1958 attribuisce al MINISTERO DELLA SALUTE “il compito di provvedere alla tutela della salute pubblica”, di “sovrintendere ai servizi sanitari svolti dalle amministra‑ zioni autonome dello Stato e dagli enti pubblici, provveden‑ do anche al coordinamento‑; emanare, per la tutela della salute pubblica, istruzioni obbligatorie per tutte le ammini‑ strazioni pubbliche che provvedono a servizi sanitari…”. Tali doveri sono confermati da altre fonti normative. In particolare, la legge n. 592 del 1967 attribuisce al Ministero il compito di emanare le direttive tecniche per la organizzazione, il funzionamento ed il coordinamento dei servizi inerenti alla raccolta, preparazione, conservazione e distribuzione del sangue umano per uso trasfusionale nonché alla preparazione dei suoi derivati e ne esercita fa vigilanza (art. 1), di nominare la commissione provinciale per la disci‑ plina dei servizi di trasfusione (art. 3), di autorizzare il fun‑ zionamento dei centri (regionali o infraregionali) di produ‑ zione degli emoderivati e fa stessa produzione e distribuzione degli emoderivati (artt. 4‑7), di autorizzare le “officine far‑ maceutiche” (cfr. l’art. 13 che richiama il r.d. 27 luglio 1933, n. 1265, il cui art. 161 significativamente attribuiva al Mini‑ stero dell’interno penetranti poteri ispettivi nelle officine; cfr., F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o ancora, l’art. 24 del r.d. 3 marzo 1927, n. 478; l’art. 22, com‑ ma 2, l. n. 592/1967 autorizza l’autorità sanitaria a disporre la chiusura del centro, del laboratorio o dell’officina autoriz‑ zati), di approvare la nomina del dirigente medico‑chirurgo dei centri trasfusionali e di produzione di emoderivati (art. 11), di proporre al Presidente della Repubblica l’emana‑ zione di norme relative all’organizzazione, al funzionamento dei servizi trasfusionali, alla raccolta, conservazione ed all’impiego dei derivati, alla determinazione dei requisiti e dei controlli cui debbono essere sottoposti (art. 20), di autoriz‑ zare l’importazione e l’esportazione del sangue umano e dei suoi derivati per uso terapeutico (art. 21). Il D.P.R. n. 1256 del 1971 (regolamento di attuazione della legge n. 592/1967) contiene norme di dettaglio che confermano nel Ministero la funzione di controllo e vigilan‑ za in materia (cfr. artt. 2, 3, 103,112). Il D.M. sanità del 17 febbraio 1972 contiene norme che regolano l’attività del Centro nazionale per la trasfusione del sangue, prevedendo tra l’altro che il Ministero della Sanità sia costantemente informato delle attività del Centro. Il suc‑ cessivo D. M. sanità del 15 settembre 1972 disciplina, poi, l’importazione ed esportazione dei sangue e suoi derivati. La legge n. 519 del 1973 attribuisce all’Istituto superiore di sanità compiti attivi a tutela della salute pubblica. La legge n. 833 del 1978, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, pur dopo l’inizio del passaggio alle regioni di al‑ cune funzioni statali in materia sanitaria ai sensi dell’art. 117 Cost., conserva al Ministero della sanità (ora MINISTERO DELLA SALUTE) un ruolo primario nella programmazione del piano sanitario nazionale (art. 53 ss.), con compiti di in‑ dirizzo e coordinamento delle attività amministrative regio‑ nali delegate in materia sanitaria, nonché con importanti funzioni in materia di produzione, sperimentazione e com‑ mercio dei prodotti farmaceutici e degli emoderivati [cfr. l’art. 6, lett. b) ed e); cfr., altresì l’art. 4, n. 6), che conferma che la raccolta, il frazionamento e la distribuzione del sangue umano costituiscono materia di interesse nazionale]. Il D.L. n. 443 del 1987 (convertito nella L. n. 531 del 1987), stabilisce la sottoposizione dei medicinali alla cd. “farmacovigilanza” da parte del Ministero della sanità, il quale si avvale dell’Istituto superiore di sanità e delle stesse unità sanitarie locali (art. 9, commi 1 e 6), che hanno un obbligo dì informazione nei confronti del Ministero che, a sua volta, può stabilire le modalità di esecuzione dei monito‑ raggi sui farmaci a rischio ed emettere provvedimenti caute‑ lativi riguardanti i prodotti in commercio (commi 2, 7 e 8). La legge n. 107 del 1990 (contenente la disciplina per le attività trasfusionali e la produzione di emoderivati) stabilisce che il prezzo dì cessione delle unità di sangue è fissato annual‑ mente dal Ministero della sanità (art. 1, comma 6), il quale (sentita la Commissione nazionale per il servizio trasfusiona‑ le che è nominata dallo stesso Ministero: cfr. l’art. 12) emet‑ te protocolli riguardanti le modalità delle donazioni, l’accer‑ tamento dell’idoneità dei donatori, l’organizzazione delle attività [mediante strutture sia nazionali che regionali coor‑ dinate dal Ministero: cfr. l’art. 8, comma 2, lett. e) ed h) e comma 4]; all’Istituto superiore, inoltre, è attribuito il com‑ pito di provvedere alla prevenzione delle malattie trasmissi‑ bili, di ispezionare e controllare le aziende di produzione di emoderivati e le specialità farmaceutiche emoderivate [cfr. 2 0 1 2 59 l’art. 9, lett. a), d), e); l’art. 10, chiarisce che le frazioni pla‑ smatiche che non possono essere prodotte con mezzi fisici semplici sono specialità farmaceutiche di produzione indu‑ striale soggette ai controlli dell’autorità sanitaria “da esple‑ tarsi sugli impiantì produttivi delle aziende previamente autorizzate, sul plasma di origine e sulla produzione finale”], di vigilare sulla qualità dei plasmaderivati prodotti in centri individuati ed autorizzati dal Ministero (art. 10, comma 2); l’art. 15 stabilisce che l’importazione del sangue umano con‑ servato e quella dei suoi derivati sono autorizzate dal Mini‑ stero della sanità; che l’importazione di emoderivati pronti per l’impiego è consentita a condizione che (fatta eccezione per quelli di provenienza da paesi europei) risultino autoriz‑ zati anche da parte dell’autorità sanitaria italiana e, comun‑ que, “a condizione che su tutti i lotti e sui relativi donatori sia possibile documentare la negatività dei controlli per la ricerca di antigeni ed anticorpi di agenti infettivi lesivi della salute del paziente ricevente”; l’art. 17 prevede sanzioni pe‑ nali nei confronti delle persone e delle strutture trasfusionali che violino le norme in materia (cfr. art. 11 D. Lgs. 18 feb‑ braio 1997, n. 44); il Ministero della sanità deve presentare annualmente al Parlamento una relazione sullo stato di at‑ tuazione della legge (art. 22). Il d.lgs. n. 178 del 1991 disciplina, tra l’altro, le modalità di rilascio e revoca dell’autorizzazione ministeriale alla pro‑ duzione, importazione ed immissione in commercio delle specialità medicinali, con incisivi poteri ispettivi e di vigilan‑ za del Ministero (cfr. gli artt. 3, 7, 14). In tempi recenti, poi, il d.lgs. n. 266 del 1993 ha conser‑ vato al Ministero della sanità (ora MINISTERO DELLA SALUTE) compiti in materia di sanità pubblica e “vigilanza” sulle specialità medicinali [art. 1, lettera e)]. L’art. 4 del rego‑ lamento di attuazione approvato con D.P.R. 2 febbraio 1994, n. 196, modificato dal D. P. R. 1o agosto 1996, n. 518, indi‑ vidua nel dipartimento del Ministero per la valutazione dei medicinali e la farmacovigilanza quello al quale è attribuito il compito attinente ai farmaci con particolare riguardo alla vigilanza sulla conformità delle specialità medicinali alle norme nazionali e comunitarie; prevede che il suddetto dipar‑ timento si avvale per questo compito delle regioni, unità sa‑ nitarie locali, aziende ospedaliere ecc., oltre che di un servizio dì vigilanza sugli enti, tra cui la Croce rossa italiana; in base al nuovo ordinamento delineato dal D.Lgs. 30 giugno 1993, n. 267, l’Istituto superiore di sanità svolge funzioni di con‑ trollo (ad esempio, sui farmaci e vaccini, provvede all’accer‑ tamento dell’innocuità dei prodotti farmaceutici ecc. e si è detto che gli emoderivati sono specialità medicinali), oltre che di ricerca e sperimentazione per quanto concerne la salute pubblica; il d.lgs. n. 44 del 1997 già menzionato stabilisce, tra l’altro, che il sistema nazionale della farmacovigilanza fa capo al Ministero della sanità (art. 2); il D.Lgs. 27 dicembre 1997, n. 449, ribadisce il compito di vigilanza del Ministero sull’attuazione del Piano sanitario nazionale e sull’attività gestionale delle aziende unità sanitarie locali ed ospedaliere (art. 32, comma 11); il D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 112, che ha operato il conferimento alle Regioni della generalità delle attribuzioni statali in materia di salute umana, ha lasciato invariato il riparto di competenze in materia dì sangue uma‑ no e suoi componenti, di produzione di plasmaderivati e farmacovigilanza (artt. 115 e 116). civile Gazzetta 60 D i r i t t o e p r o c e d u r a Ne risulta, in conclusione, un quadro normativo, piuttosto articolato e composito, secondo cui è ben possibile affermare che, anche dopo il trasferimento di competenze in materia sanitaria alle Regioni e dopo l’istituzione del Servizio Sani‑ tario Nazionale, il Ministero della Sanità (oggi MINISTERO DELLA SALUTE) ha mantenuto una posizione preminente nell’organizzazione del sistema della raccolta, conservazione e distribuzione del sangue e nella produzione e commercia‑ lizzazione degli emoderivati, essendo tenuto ‑ in ragione delle competenze normative ed amministrative espressamen‑ te attribuite dalla legge ‑ ad emanare tutte le prescrizioni tecniche necessarie ad impedire la diffusione o trasmissione di patologie (nella specie virali) collegate all’utilizzo, in me‑ dicina, del sangue umano e dei suoi derivati e specificamente al servizio trasfusionale effettuato in sede ospedaliera, nonché ad organizzare ed eseguire la vigilanza (anche periodica o a campione) ed i necessari controlli sulla corretta e regolare applicazione delle metodiche da parte degli operatori sanita‑ ri e dei Centri trasfusionali. È, a questo punto, da ritenere, pertanto, che sussistano, nella materia, obblighi comportamentali connessi alle fun‑ zioni pubbliche assegnate al solo convenuto MINISTERO DELLA SALUTE. Ed invero, come sottolineato dalla giurisprudenza di le‑ gittimità, anche prima dell’entrata in vigore della L. n. 107 del 1990, la legislazione vigente prevedeva in capo al Mini‑ stero della Sanità un obbligo di controllo, direttive e vigilan‑ za in materia di sangue umano, strumentale alla funzione di programmazione e coordinamento in materia sanitaria, al quale corrisponde un dovere aggravato di diligenza nell’im‑ piego delle cure ed attenzioni necessarie alla verifica della sua sicurezza (cfr., all’uopo, Cass. civ., sez. un., 11 gennaio 2008, n. 581). Ciò espone, pertanto, il predetto Ministero a responsabi‑ lità extracontrattuale, qualora dall’omissione di tale dovere di vigilanza derivino violazioni dei diritti soggettivi di terzi. Ebbene, in tale situazione non appaiono sussistenti que‑ stioni relative alla “legitimatio ad causam”. Infatti, l’attrice ed il convenuto MINISTERO DELLA SALUTE, sulla base della prospettazione attorea ed in relazione alla disciplina prevista per il rapporto controverso, possono assumere rispet‑ tivamente la veste di soggetto dotato del potere di chiedere la pronunzia e di quello che deve subirla. Riconosciuta, dunque, la legittimazione passiva del con‑ venuto MINISTERO DELLA SALUTE, deve altresì ritenersi infondata, alla stregua di tutte le considerazioni sopra svilup‑ pate, anche la seconda eccezione preliminare sollevata dal predetto, con riguardo alla titolarità passiva del rapporto giuridico controverso. Piene e incontestabili sono, pertanto, la legittimazione passiva e la titolarità del rapporto controverso, dal lato pas‑ sivo (valutata in astratto), del convenuto MINISTERO DEL‑ LA SALUTE nel presente giudizio. Prima di procedere alla valutazione della fondatezza del‑ la domanda giudiziale, è opportuno richiamare quanto recen‑ temente affermato dalle Sezioni Unite Civili della Suprema Corte di Cassazione in riferimento agli ulteriori aspetti della dibattuta questione relativa alla risarcibilità dei danni provo‑ cati dalle trasfusioni di sangue o dalle somministrazioni di emoderivati. c i v i l e Gazzetta F O R E N S E La Corte di Cassazione ha affermato – in particolare nella sentenza 581 del 2008 già sopra citata – che anche prima dell’entrata in vigore della legge 4 maggio 1990, n. 107, con‑ cernente la disciplina per le attività trasfusionali e la produ‑ zione di emoderivati, sussisteva in materia, sulla base della legislazione vigente (si richiama al riguardo quanto già sopra chiarito), un obbligo di controllo, direttive e vigilanza in materia del sangue umano da parte del Ministero della Sani‑ tà (ora MINISTERO DELLA SALUTE), anche strumentale alla funzione di programmazione e coordinamento in materia sanitaria. Ha, quindi, sostenuto che l’omissione da parte del Ministero di attività funzionali allo scopo per il quale l’ordi‑ namento attribuisce il potere, lo espone a responsabilità ex‑ tracontrattuale quando dalla violazione del vincolo interno, costituito dal dovere di vigilanza nell’interesse pubblico, siano derivate violazioni dei diritti soggettivi dei terzi. La menomazione della salute derivate da trattamenti sa‑ nitari può determinare sia il diritto al risarcimento pieno del danno, ex art. 2043 cod. civ., in caso di comportamenti col‑ pevoli; sia il diritto ad un equo indennizzo (ex art. 32 Cost., in collegamento con l’art. 2), ove il danno, non derivante da un fatto illecito sia conseguenza dell’adempimento di un obbligo legale; sia, ancora, il diritto, ex artt. 38 e 2 Cost., a misure di sostegno assistenziale disposte dal legislatore. La disciplina apprestata dalla legge 25 febbraio 1992, n. 210 opera, secondo la Suprema Corte, su un piano diverso da quello in cui si colloca la tutela civilistica in tema di risar‑ cimento del danno, compreso quello biologico, sicché il dirit‑ to all’equo indennizzo di cui alla legge predetta e il diritto al risarcimento del danno ex art. 2043 cod. civ. possono rite‑ nersi senz’altro concorrenti. Con la coeva sentenza n. 584 dell’11 gennaio 2008, le Sezioni Unite hanno quindi chiarito che l’indennizzo even‑ tualmente già corrisposto al danneggiato deve essere “inte‑ gralmente scomputato dalle somme liquidabili a titolo di risarcimento del danno, posto che in caso contrario la vitti‑ ma si avvantaggerebbe di un ingiustificato arricchimento, godendo, in relazione al fatto lesivo del medesimo interesse tutelato di due diverse attribuzioni patrimoniali dovute dallo stesso soggetto (il Ministero della Salute) ed aventi causa dal medesimo fatto (trasfusione di sangue o sommini‑ strazione di emoderivati) cui direttamente si riferisce la re‑ sponsabilità del soggetto tenuto al pagamento.”. L’eventuale e probabile percezione di una somma di de‑ naro a titolo di indennizzo ai sensi della legge 25 febbraio 1992, n. 210, pertanto, non incide sul diritto al risarcimento di cui all’art. 2043 cod. civ., ma la somma percepita al primo titolo dovrà essere scomputata da quella ritenuta dovuta per il secondo titolo, anche nell’ipotesi in cui il pagamento sia stato eseguito dalla Regione, tenuta a tale incombente in ragione del trasferimento della relativa competenza dallo Stato (MINISTERO DELLA SALUTE) alle Regioni. Il titolo giustificativo dell’erogazione è infatti il medesimo. In tema di individuazione delle regole alla stregua delle quali deve valutarsi la sussistenza del nesso di causalità, le Sezioni Unite (sempre con la sentenza 11 gennaio 2008, n. 581), dopo avere ribadito che mentre nel processo penale vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio” e nel processo civile vige la regola della preponderanza dell’eviden‑ za o “del più probabile che non”, hanno enunciato il seguen‑ F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o te principio, riferibile anche alla presente controversia: “Premesso che sul Ministero gravava un obbligo di controllo, direttiva e vigilanza in materia di impiego di sangue umano per uso terapeutico (emotrasfusioni o preparazioni di emo‑ derivati) anche strumentale alle funzioni di programmazione e coordinamento in materia sanitaria, affinché fosse utiliz‑ zato sangue non infetto e proveniente da donatori conformi agli standards di esclusioni di rischi, il giudice, accertata l’omissione di tali attività, accertata, altresì, con riferimento all’epoca di produzione del preparato, la conoscenza ogget‑ tiva ai più alti livelli scientifici della possibile veicolazione di virus attraverso sangue infetto ed accertata ‑ infine ‑ l’esi‑ stenza di una patologia da virus HIV o HBV o HCV in soggetto emotrasfuso o assuntore di emoderivati, può rite‑ nere, in assenza di altri fattori alternativi, che tale omissione sia stata causa dell’insorgenza della malattia, e che, per converso, la condotta doverosa del Ministero, se fosse stata tenuta, avrebbe impedito la verificazione dell’evento.”. Con la medesima pronuncia, le Sezioni Unite Civili hanno affermato che la responsabilità del Ministero sussiste dalla data di conoscenza dell’epatite B ‑ da accertarsi da parte del giudice del merito ‑ anche per il contagio dei virus HIV e HCV, i quali non costituiscono eventi autonomi e diversi, ma solo forme di manifestazioni patogene dello stesso evento lesivo dell’integrità fisica da virus veicolati dal sangue infetto, che il Ministero non aveva controllato, come pure era obbli‑ gato per legge. Quanto, poi, all’accertamento dell’elemento psicologico colposo, la sentenza già sopra menzionata ha affermato che, ove sia accertato l’omesso controllo che il sangue utilizzato per le trasfusioni o per gli emoderivati fosse esente da virus e che i donatori non presentassero alterazioni delle transami‑ nasi, è integrato l’elemento della colpa, poiché si è in presen‑ za di un’ipotesi di violazione di un obbligo specifico. La medesima sentenza ha poi affermato, in riferimento all’obbligo di risarcimento del cd. danno morale, che: a) il Ministero, quale soggetto tenuto a rispondere dell’operato dell’autore del fatto che integri un’ipotesi di reato, può essere destinatario dell’azione civile anche se l’autore rimanga igno‑ to, sempre che sia certa l’appartenenza di quest’ultimo ad una cerchia di persone legate da un rapporto organico o di dipen‑ denza con il soggetto che deve rispondere di quel comporta‑ mento e che l’omissione dell’attività di farmacosorveglianza, una volta accertata, non poteva essere addebitata che ad uno o più funzionari preposti a tale attività, risultando indiffe‑ rente che quelli fossero rimasti ignoti; b) in base all’orienta‑ mento interpretativo dell’art. 2059 cod. civ., adottato con le sentenze 31 maggio 2003, n. 8827 e 8828, ed oramai conso‑ lidato (anche a seguito di Cass. civ., sez. un., 11 novembre 2008, n. 26972, 26973, 26974 e 26975) ‑ il danno non patri‑ moniale conseguente all’ingiusta lesione di un interesse ine‑ rente alla persona, costituzionalmente garantito, non è sog‑ getto, ai fini della risarcibilità, al limite derivante dalla riser‑ va di legge correlata all’art. 185 cod. pen. e non presuppone, pertanto, la qualificabilità del fatto illecito come reato, giac‑ ché il rinvio ai casi in cui la legge consente la riparazione del danno non patrimoniale ben può essere riferito anche alle previsioni della Costituzione in riferimento ai diritti inviola‑ bili inerenti alla persona non aventi natura economica, il cui riconoscimento ne esige la tutela. 2 0 1 2 61 Passando alla valutazione della fondatezza nel merito della domanda risarcitoria proposta dall’attrice sig.ra *****, si osserva quanto segue. Deve ritenersi accertato, in base a quanto emerge dai documenti prodotti in giudizio e da quanto accertato a segui‑ to dell’espletata Consulenza Tecnica d’Ufficio: 1) che, in oc‑ casione del ricovero presso il Presidio Ospedaliero “Loreto Crispi” in Napoli, in data 2 dicembre dell’anno 1987, l’attri‑ ce sig.ra ***** venne sottoposta a somministrazione di sacche di sangue; 2) che, in data 5 novembre 1998, a carico della predetta attrice, venne riscontrata la positività al virus HCV. Come evidenziato dal Consulente Tecnico d’Ufficio, nel 1987 non era stato ancora scoperto il virus HCV, sicché a quel tempo le uniche prescrizioni da assolvere nella raccolta del sangue trasfusionale erano costituite dalla ricerca delle tran‑ saminasi. Sulla base di tale riflessione, può trarsi la conclu‑ sione che ‑ se il convenuto MINISTERO DELLA SALUTE non avesse ritardato l’adozione di provvedimenti che avreb‑ bero potuto limitare il contagio trasfusionale ‑ si sarebbe ot‑ tenuta una significativa riduzione del rischio dell’epatite C. Come affermato da precedenti pronunce della giurispru‑ denza di merito (cfr., in tal senso, Tribunale di Roma, sez. II civile, 19 gennaio 2010, n. 1195), benché già nel 1974 fosse stata proposta l’introduzione della determinazione sui dona‑ tori della transaminasi ALT ‑ alanina transaminasi, enzima noto per essere al di sopra della media e, quindi, alterato nei soggetti con patologie epatiche, che poteva rivelare la presen‑ za di virus non ancora conosciuti e cioè non ancora noti dal punto di vista della caratterizzazione molecolare (come l’HIV e l’HCV) ‑ al fine di escludere dalla donazione coloro i cui valori erano alterati, il metodo fu introdotto solo nel 1990. Del resto, il convenuto MINISTERO DELLA SALUTE ‑ su cui gravava il relativo onere anche in ragione del principio della cd. “vicinanza della prova” ‑ non ha allegato né, “a fortiori”, ha dimostrato l’avvenuta esecuzione, sui donatori della sacche di sangue che furono somministrate all’attrice sig.ra ***, degli esami valevoli a determinare il livello della suddetta transaminasi e, dunque, nemmeno ha fornito alcuna dimostrazione circa il fatto che il predetto livello non presen‑ tasse alterazioni quali quelle sopra indicate. Da quanto sopra esposto e dagli ulteriori rilievi formula‑ ti al riguardo dal Consulente Tecnico d’Ufficio nella relazio‑ ne depositata in Cancelleria in data 24 gennaio 2012, discen‑ de che ‑ alla stregua dei criteri formulati dalle Sezioni Unite Civili della Suprema Corte di Cassazione (nelle pronunce già sopra ampiamente richiamate) e, in particolare, della regola probatoria della preponderanza dell’evidenza o “del più pro‑ babile che non” ‑ deve ritenersi provata la sussistenza del nesso di causalità tra le trasfusioni a cui era stata sottoposta l’attrice sig.ra *** e l’insorgenza dell’epatite da HCV. A tale conclusione deve giungersi in considerazione dei seguenti elementi: 1) la documentata sottoposizione dell’at‑ trice a trasfusioni di sangue intero nel corso del ricovero del 1987; 2) la probabilità che il virus sia stato contratto a causa di tale fattore rispetto alla possibilità che la contrazione sia dipesa da altri fattori di rischio generico legati alla perma‑ nenza presso la struttura ospedaliera (ospedalizzazione, medicazioni, siringhe e materiale non monouso), non emer‑ gendo elementi da cui desumere l’inadeguatezza in concreto civile Gazzetta 62 D i r i t t o e p r o c e d u r a dei processi di sterilizzazione o il mancato ricorso a materia‑ li monouso; a tale riguardo si evidenzia che la Pubblica Am‑ ministrazione statale convenuta – su cui gravava il relativo onere – non ha fornito alcuna prova dell’inadeguatezza di tali pratiche; 3) l’assenza di ulteriori fattori di rischio tra la data della trasfusione e quella della diagnosi della patologia; 4) gli esiti della valutazione della Commissione Medica Ospe‑ daliera di Caserta. Inoltre, le negligenze ascrivibili all’amministrazione con‑ venuta sono state evidenziate anche dalla giurisprudenza di merito in tale materia (cfr. ancora, da ultima, Tribunale di Roma, sez. II civ., 19 gennaio 2010, n. 1195), con cui è stata imputata all’amministrazione l’omissione di controlli sui pool plasmatici e, in particolare, sull’attuazione delle racco‑ mandazioni per la preparazione dei prodotti antiemofiliaci, sull’idoneità dei donatori del sangue secondo le tecniche nel tempo note (v., tra le altre, le prescrizioni contenute negli artt. 65 ss. del D.M. 18 giugno 1971 e 44 ss. del D.P.R. n. 1256/1971) al fine di evitare i rischi di trasmissione di virus conosciuti (come l’epatite). Tali omissioni espongono il Mini‑ stero convenuto a responsabilità rispetto alla diffusione di virus diversi e solo successivamente conosciuti nella loro ca‑ ratterizzazione molecolare, poiché il rischio della loro con‑ trazione avrebbe potuto essere, quantomeno, ridotto. In tale contesto, peraltro, assume rilievo anche la tardiva attuazione del “piano sangue” che, previsto già dalla legge n. 592 del 1967 ed attuato solo nel 1994, avrebbe potuto contribuire a realizzare l’obiettivo tendenziale dell’autosuffi‑ cienza nazionale del sangue intero e plasmaderivati di cui era ed è nota l’importanza al fine di prevenire o ridurre i rischi cagionati da incontrollate importazioni dall’estero, nonché la tardiva emanazione di disposizioni legislative per la sicurezza del sangue trasfuso, prevedendo l’obbligo di procedere alla ricerca degli anticorpi HCV e ‑ per quanto rileva nel caso in esame ‑ alla determinazione del livello delle ALT solo con decreto del 21 luglio 1990. In sostanza, anche prima dell’individuazione del metodo di rilevazione del virus dell’epatite C o dell’introduzione di efficaci sistemi per il suo annientamento, le conoscenze scien‑ tifiche raggiunte erano tali da imporre l’adozione di specifiche cautele, sulla scelta dei donatori e sul sangue prelevato, capa‑ ci quantomeno di ridurre, in misura senz’altro apprezzabile, il rischio di contagio da trasfusione (cfr., all’uopo, anche Tribunale di Roma, 29 maggio 2002, n. 21835, nonché Tri‑ bunale di Roma, sez. II civ., 14 febbraio 2011, n. 2998). Alla luce di tutte le considerazioni finora sviluppate, deve concludersi nel senso di ritenere che, oltre al nesso di causa‑ lità, sia ravvisabile anche l’elemento psicologico della colpa (nella specie della negligenza), nei termini chiariti dalla men‑ zionata giurisprudenza delle Sezioni Unite Civili della Supre‑ ma Corte di Cassazione. Pertanto, deve affermarsi la respon‑ sabilità del Ministero convenuto in riferimento al danno sofferto dall’attrice sig.ra *** in conseguenza dell’insorgenza della descritta patologia. Nel procedere alla liquidazione del danno non patrimo‑ niale, deve aversi riguardo a quanto affermato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con le recenti sentenze n. 26972, 26973, 26974 e 26975 dell’11 novembre 2008 in ordine all’unitarietà di tale categoria di danno, nella quale devono comprendersi sia la sofferenza soggettiva morale in c i v i l e Gazzetta F O R E N S E sé considerata (il turbamento dell’animo, il dolore intimo sofferti), sia il danno biologico, nel quale rientrano le dege‑ nerazioni patologiche della sofferenza. I pregiudizi di tipo esistenziale, afferenti agli aspetti relazionali della vita, con‑ seguenti a lesioni dell’integrità psicofisica, possono costituire soltanto “voci” del danno biologico nel suo aspetto dinamico, altrimenti dandosi luogo a duplicazioni. Le Sezioni unite hanno anche affermato che per liquidare il danno biologico – “del quale ogni sofferenza, fisica o psi‑ chica, per sua natura intrinseca costituisce componente” ‑ il giudice che si avvalga delle note tabelle dovrà “procedere ad adeguata personalizzazione” della liquidazione, valutando nella loro effettiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, e non dovrà invece attribuire con‑ giuntamente il danno biologico e il danno morale, liquidando il secondo in percentuale del primo. Hanno ancora affermato le Sezioni Unite che il danno non patrimoniale costituisce danno conseguenza, che deve essere allegato e provato. Orbene, il Consulente Tecnico d’Ufficio ha descritto i postumi permanenti residuati a carico dell’attrice sig.ra *** in termini di “epatite cronica HCV correlata con viremia presente, transaminasemia quasi nella norma, modica epa‑ tomegalia e splenomegalia”, quantificandoli nella misura del 20% (venti percento), ed indicando in trenta (30) giorni il periodo di invalidità temporanea totale ed in ulteriori trenta (30) giorni quello di invalidità temporanea parziale, al 50% (cinquanta percento), connessi alle predette lesioni. Ciò posto, trattandosi di lesioni non suscettibili di rien‑ trare nelle cosiddette micropermanenti, questo giudicante ritiene applicabili, in via equitativa, i parametri di liquidazio‑ ne attualmente adottati dal Tribunale di Napoli, i quali, pe‑ raltro, com’è noto, sono mutuati dalle tabelle elaborate presso il Tribunale di Milano con riguardo all’anno 2011. Del resto, anche la giurisprudenza di legittimità ha recen‑ temente avuto modo di chiarire che “La liquidazione equita‑ tiva del danno non patrimoniale conseguente alla lesione dell’integrità psico‑fisica deve essere effettuata da tutti i giudici di merito, in base a parametri uniformi, che vanno individuati (fatta eccezione per le lesioni di lieve entità cau‑ sate dalla circolazione di veicoli e natanti, per le quali vige un’apposita normativa) nelle tabelle elaborate dal Tribunale di Milano, da modularsi secondo le circostanze del caso concreto.” (cfr., all’uopo, Cass. civ., sez. III, 7 giugno 2011, n. 12408). E ciò in quanto “Nella liquidazione del danno biologico, quando manchino criteri stabiliti dalla legge, l’adozione della regola equitativa di cui all’art. 1226 c.c. deve garantire non solo una adeguata valutazione delle cir‑ costanze del caso concreto, ma anche l’uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, essendo intollerabile e non rispon‑ dente ad equità che danni identici possano essere liquidati in misura diversa sol perché esaminati da differenti Uffici giu‑ diziari. Garantisce tale uniformità di trattamento il riferi‑ mento al criterio di liquidazione predisposto dal tribunale di Milano, essendo esso già ampiamente diffuso sul territorio nazionale – e al quale la S. C., in applicazione dell’art. 3 cost., riconosce la valenza, in linea generale, di parametro di con‑ formità della valutazione equitativa del danno biologico alle disposizioni di cui agli art. 1226 e 2056 c.c. – salvo che non sussistano in concreto circostanze idonee a giustificarne F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o l’abbandono.” (cfr., in tal senso, sempre Cass. civ., sez. III, 7 giugno 2011, n. 12408). Pertanto, valutati i postumi permanenti nella misura del 20% (venti percento), questo giudicante, in applicazione dei parametri sopra menzionati ed in considerazione dell’età dell’infortunata al momento dell’evento dannoso (46 anni circa), ritiene di determinare il quantum debeatur, all’attua‑ lità, per il danno biologico residuato all’istante, sig.ra ***, nella somma di €. 63.385,00 (euro sessantatremilatrecentot‑ tantacinque/00) per i suddetti postumi permanenti, nonché in quella di €. 3.405,00 (euro tremilaquattrocentocinque/00) per Invalidità Temporanea Totale ed, infine, in quella di €. 1.702,50 (euro millesettecentodue/50) per Invalidità Tem‑ poranea Parziale al 50% (cinquanta percento). Il tutto, per un importo pari ad €. 68.492,50 (euro sessantottomilaquat‑ trocentonovantadue/50) a titolo di danno biologico comples‑ sivo, così composto: Invalidità Temporanea Totale: €. 113,50 (euro centotre‑ dici/50) x 30 (trenta) giorni = €. 3.405,00 (euro tremilaquat‑ trocentocinque/00): si è proceduto dunque a moltiplicare il valore giornaliero come stabilito con riguardo all’Invalidità Temporanea Totale ‑ riconosciuta dal Consulente Tecnico d’Ufficio ‑ per il numero di giorni attribuiti dall’ausiliario del giudice, pari a trenta (30), ottenendo in tal modo l’importo di €. 3.405,00 (euro tremilaquattrocentocinque/00); Invalidità Temporanea Parziale al 50%: €. 56,75 (euro cinquantasei/75) x 30 (trenta) giorni = €. 1.702,50 (euro millesettecentodue/50): si è proceduto, ancora, a moltiplicare il valore giornaliero come stabilito con riguardo all’Invalidi‑ tà Temporanea Parziale al 50% ‑ riconosciuta dal Consulen‑ te Tecnico d’Ufficio ‑ per il numero di giorni attribuiti dall’ausiliario del giudice, pari a trenta (30), ottenendo in tal modo l’importo di €. 1.702,50 (euro millesettecento‑ due/50); Invalidità Permanente pari al 20% (venti percento) in soggetto di anni 46 (quarantasei) al momento del sinistro: €. 4.089,35 (euro quattromilaottantanove/35) x 20 (venti) x coefficiente demoltiplicatore (di riduzione per età) pari a 0,775 = €. 63.385,00 (euro sessantatremilatrecentottantacin‑ que/00): si è proceduto a moltiplicare il valore del punto come stabilito dalla tabella prescelta, con riguardo all’invalidità del 20% (venti percento) ‑ riconosciuta dal Consulente Tecnico d’Ufficio ‑ per il numero di punti di invalidità attribuiti dal consulente, pari a venti (20), ottenendo in tal modo l’impor‑ to di €. 81.787,00 (euro ottantunomilasettecentottantaset‑ te/00). La predetta somma è stata, infine, moltiplicata per il coefficiente di riduzione per l’età ‑ così come stabilito dalle richiamate tabelle ‑ pari a 0,775 in considerazione dell’età dell’attrice al momento del sinistro (ventisei anni circa), otte‑ nendosi la cifra tonda di €. 63.385,00 (euro sessantatremila‑ trecentottantacinque/00) da riconoscersi alla parte attrice a titolo di risarcimento del danno biologico da invalidità per‑ manente nella misura del 20% (venti percento). Inoltre, rivestendo la fattispecie, almeno in astratto, i caratteri di illecito penale (lesioni colpose: art. 590 c.p.), compete, in astratto ed ai sensi dell’art. 2059 c.c. in relazione all’art. 185 c. p., il risarcimento del danno morale la cui li‑ quidazione, tuttavia, risulta già ricompresa in quella del co‑ siddetto danno biologico, poiché effettuata sulla base di ta‑ belle (quelle predisposte dall’Osservatorio per la Giustizia 2 0 1 2 63 Civile di Milano) che, sulla scorta di quanto affermato dal Supremo Organo di nomofilachia (cfr., in tal senso, Cass., SS. UU. 11 novembre 2008, n. 26972; Cass., SS. UU. 11 novem‑ bre 2008, n. 26973; Cass., SS. UU. 11 novembre 2008, n. 26074; Cass., SS. UU. 11 novembre 2008, n. 26975), risul‑ tano elaborate proprio allo scopo di realizzare una liquida‑ zione complessiva del danno non patrimoniale conseguente a “lesione permanente dell’integrità psicofisica della persona suscettibile di accertamento medico‑legale”, nei suoi risvolti anatomo ‑ funzionali e relazionali medi ovvero peculiari, e del danno non patrimoniale conseguente alle medesime lesio‑ ni in termini di “dolore”, “sofferenza soggettiva”, in via di presunzione, con riguardo ad una determinata tipologia di lesione e, dunque, una liquidazione congiunta dei pregiudizi in passato liquidati a titolo: 1) di cosiddetto danno biologico “standard”; 2) cosiddetto danno morale. Naturalmente, le tabelle di cui si tratta, fondate su una sapiente applicazione del cosiddetto appesantimento del valore suscettibile di esse‑ re attribuito al punto tabellare di invalidità, lasciano salva (ed, anzi, addirittura espressamente contemplano) la possibi‑ lità di riconoscere percentuali di aumento dei valori medi da esse previste, da utilizzarsi ‑ onde consentire una adeguata “personalizzazione” complessiva della liquidazione ‑ laddove il caso concreto presenti peculiarità che vengano allegate e provate (anche in via presuntiva) dal danneggiato, in partico‑ lare, sia quanto agli aspetti anatomo ‑ funzionali e relaziona‑ li sia quanto agli aspetti di sofferenza soggettiva. Il suddetto criterio di liquidazione del cosiddetto danno morale, utilizzato dalle tabelle di liquidazione applicate nella presente sede, in quanto valevole a prendere in considerazio‑ ne le sofferenze che, in senso stretto, risultano suscettibili di essere, anche in via presuntiva, correlate con le lesioni patite dall’attrice, risulta, del resto, perfettamente in linea con i recenti approdi della giurisprudenza di legittimità, in tema di danno non patrimoniale. Giova, infatti, rammentare come le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, nelle recenti, ma ormai ampia‑ mente note sentenze dell’11 novembre 2008, n. 26972, 26973, 26974 e 26975 abbiano affermato, al riguardo, principi che non possono essere elusi in questa sede. In particolare, per quanto qui interessa, si legge nella motivazione delle suddet‑ te decisioni: “Viene in primo luogo in considerazione nell’ipotesi in cui illecito configuri reato, la sofferenza mo‑ rale. Definitivamente accantonata la figura del c.d. danno morale soggettivo, la sofferenza morale, senza ulteriori con‑ notazioni in termini di durata, integra pregiudizio non patri‑ moniale. Deve tuttavia trattarsi di sofferenza soggettiva in sé considerata, non come componente di un più complesso pregiudizio non patrimoniale. Ricorre il primo caso ove sia allegato il turbamento dell’animo, il dolore intimo sofferti, ad esempio, dalla persona diffamata o lesa nella identità personale, senza lamentare degenerazioni patologiche della sofferenza. Ove siano dedotte siffatte conseguenze, si rientra nel danno biologico, del quale ogni sofferenza, fisica o psi‑ chica, per sua natura intrinseca costituisce componente. Determina quindi duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno morale nei suindicati termini inteso, sovente liquidato in percentuale (da un terzo alla metà) del primo. Esclusa l’applicabilità di tale operazione, dovrà il giudice, qualora si avvalga delle civile Gazzetta 64 D i r i t t o e p r o c e d u r a note tabelle, procedere ad adeguata personalizzazione della liquidazione del danno biologico, valutando nella loro effet‑ tiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, onde pervenire al ristoro del danno nella sua interezza”. Orbene, in relazione alla componente del danno non pa‑ trimoniale subito dall’attrice sig.ra *****, costituita dalla sofferenza soggettiva morale, si osserva che quest’ultima, già nell’atto di citazione, ha allegato di avere patito tale danno ed ha altresì indicato gli aspetti in cui esso si sarebbe concre‑ tizzato (rinunzie e sacrifici nei rapporti familiari e sociali e forzato mantenimento di uno stile di vita che impedisse o limitasse la possibile degenerazione clinica della patologia). Dell’incidenza di tali vicende sulla vita di relazione si è tenuto conto nel procedere alla liquidazione personalizzata del danno biologico. Ciò premesso, non potendosi procedere alla liquidazione, per così dire, “automatica” del danno da sofferenza morale soggettiva, in misura percentuale alla somma liquidata a titolo di danno biologico, poiché il danno deve essere allegato e provato dalla parte, come affermato dalle Sezioni Unite Civili con la citate sentenze n. 26972, 26973, 26974 e 26975 dell’11 novembre 2008, la relativa domanda può essere accolta nei limiti di seguito indicati. Pur in difetto di attività istruttoria sul punto, infatti, questo Giudicante ritiene di procedere all’accertamento in via presuntiva anche della sussistenza della sofferenza soggettiva morale. Pertanto, in considerazione delle note limitazioni pratiche poste all’agire quotidiano dalla contrazione di pato‑ logie epatiche da virus e alla conseguente sensazione di sof‑ ferenza provata, può fondarsi il riconoscimento di tale com‑ ponente del danno non patrimoniale sul solo presupposto della consapevolezza di essere afflitti da una tale malattia e sulla sussistenza di una (quantomeno) minima consapevolez‑ za delle limitazioni che da essa derivano. Valutando, quindi, anche tale “voce” di danno e tenendo conto del grado assun‑ to dalla malattia, il danno non patrimoniale (nelle compo‑ nenti del danno biologico, comprensivo del danno alla vita di relazione, e del danno da sofferenza morale soggettiva) può essere liquidato, in via equitativa, riconoscendo un appesan‑ timento delle somme già sopra indicate a titolo di danno biologico complessivo, nella misura del 20% (venti percento) delle stesse. Il danno subito, della cui verificazione è stata fornita la prova, deve quindi essere liquidato complessivamente in €. 82.191,00 (euro ottantaduemilacentonovantuno/00), alla data del 1o gennaio 2011 (di entrata in vigore della tabella di liquidazione applicata) e, dunque, pari all’importo di €. 85.850,00 (euro ottantacinquemilaottocentocinquan‑ ta/00) in cifra tonda, all’attualità. Nulla compete a titolo di spese mediche eventualmente sostenute, non essendo stata prodotta in giudizio documen‑ tazione valevole a comprovarne il relativo ammontare. Quanto alla perdita da capacità di lavoro specifica, ritie‑ ne questo Giudice, sulla scorta della sentenza 14 luglio 1986, n. 184 della Corte Costituzionale, che il danno alla salute (o danno biologico), in quanto consistente nell’alterazione peg‑ giorativa dell’integrità psicofisica del soggetto, costituisca la componente prioritaria del danno alla persona. Lo stesso assorbe le voci elaborate in giurisprudenza ‑ riflettenti la capacità lavorativa generica, il danno alla vita di c i v i l e Gazzetta F O R E N S E relazione ed il danno estetico ‑ e va liquidato tenendo conto di una uniformità pecuniaria di base, senza trascurare l’inci‑ denza che la menomazione ha dispiegato sulle attività della vita quotidiana del danneggiato. Il danno alla salute va, per‑ tanto, valutato e risarcito con criteri identici per tutti coloro che si trovano in identiche condizioni, prescindendo quindi da posizioni sociali, professionali, economiche e simili, salva, tuttavia, l’applicazione di correttivi in relazione ad accertate peculiarità del caso concreto. Se è dimostrato che il soggetto ha subito, altresì, ripercussioni sul piano patrimoniale (spese, perdite, mancati utili) anche tale danno va risarcito; ove, infine, il fatto sia inquadrabile in una ipotesi di reato ovvero, più in generale, si sia verificata la lesione di un diritto invio‑ labile della persona costituzionalmente garantito, andrà ri‑ sarcito anche il danno non patrimoniale. In tal modo resta esclusa ogni duplicazione risarcitoria in quanto il danno alla capacità di reddito è risarcibile solo se vi sia una specifica incidenza della lesione sulla capacità di guadagno del soggetto. Non viene, cioè, in considerazione il concetto di invalidità incidente sulla capacità lavorativa ge‑ nerica; solo alla dimostrazione dell’incidenza dell’invalidità sulla capacità lavorativa specifica, consegue il risarcimento del danno patrimoniale lamentato. Del resto, al riguardo la giurisprudenza di legittimità ha più volte avuto modo di chiarire come il danno patrimoniale inteso quale conseguenza della riduzione della capacità di guadagno, e, a sua volta, della capacità lavorativa specifica (e non, dunque, della sola inabilità temporanea o dell’invali‑ dità permanente) è risarcibile autonomamente dal danno biologico soltanto se vi sia la prova che il soggetto leso svol‑ geva ‑ o presumibilmente in futuro avrebbe svolto (trattan‑ dosi di un soggetto non percettore di reddito all’attualità, come ad esempio: un minore, un disoccupato, una casalinga, ovvero uno studente) ‑ un’attività lavorativa produttiva di reddito, e che tale reddito (o parte di esso) non sia stato in concreto conseguito (cfr., in tal senso ed ex multis, Cass. 25 agosto 2006, n. 18489; Cass. 23 gennaio 2006, n. 1230). Con ciò, questo giudice non intende minimamente negare il rilievo attribuito nella società moderna al lavoro domestico, che trova peraltro esplicito riconoscimento normativo negli artt. 143, comma terzo e 230‑bis cod. civ., oltre che nella legge 3 dicembre 1999, n. 493, in materia di assicurazione contro gli infortuni in ambito domestico, il cui art. 6 espres‑ samente dispone: “lo Stato riconosce e tutela il lavoro svolto in ambito domestico, affermandone il valore sociale e eco‑ nomico connesso agli indiscutibili vantaggi che da tale atti‑ vità trae l’intera collettività”. Si è consapevoli che, sulla scorta di questi rilievi, oltre che dagli artt. 4 e 37 della Co‑ stituzione, un consistente indirizzo giurisprudenziale di legit‑ timità riconosce il risarcimento di questo tipo di danno, ipotizzando un reddito figurativo della casalinga, di volta in volta parametrato al triplo della pensione sociale ovvero al reddito di una collaboratrice domestica con gli opportuni adattamenti conseguenti al fatto che l’attività della casalinga non si esaurisce nel disbrigo delle incombenze domestiche ma si estende al coordinamento della vita familiare (cfr. in tal senso, Cass. 11 dicembre 2000, n. 15580; Cass. 03 marzo 2005, n. 4657 e Cass. 20 ottobre 2005, n. 20324). Sennonché, ritiene questo giudice che il riconoscimento normativo del lavoro domestico non possa risolversi nel ri‑ F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o sarcimento di un danno patrimoniale indipendentemente dall’effettiva ricorrenza di una riduzione del patrimonio del‑ la persona, nella sua duplice articolazione di danno emergen‑ te o di lucro cessante, venendosi altrimenti a creare, da un lato, un’indebita duplicazione risarcitoria e, dall’altro, un ingiustificato trattamento di favore del lavoro domestico ri‑ spetto ad ogni altro tipo di attività lavorativa. Sotto quest’ul‑ timo profilo, è noto, infatti, che ai fini del riconoscimento del danno da lucro cessante da lesione alla capacità lavorativa specifica, relativo all’inabilità temporanea, si richiede non solo che il lavoratore non abbia potuto svolgere l’attività la‑ vorativa nel periodo di malattia, ma anche che, in conseguen‑ za di questo fatto, abbia subito un’effettiva contrazione di reddito, giungendo ad escludere qualsiasi risarcimento nel caso in cui abbia continuato nel periodo di malattia a perce‑ pire, alla stregua delle norme giuslavoristiche che regolano il rapporto di lavoro, la relativa retribuzione. Ora, non si vede perché il danno patrimoniale da lesione alla capacità lavora‑ tiva specifica subito dalla casalinga debba sottostare a meno rigorosi criteri di riconoscimento, potendo prescindere dall’al‑ legazione e dalla prova di un’effettiva contrazione di reddito grazie al generalizzato ricorso a redditi figurativi e ricollegan‑ dosi alla semplice mancata esecuzione della relativa attività. Aggiungasi che, dopo quell’autentico intervento raziona‑ lizzatore e di sistemazione delle categorie, in materia di danno alla persona, operato dalla Corte di Cassazione e dalla Corte Costituzionale nel maggio ‑ luglio 2003 (cfr., all’uopo, Cass. 31 maggio 2003, n. 8827 e Cass. 31 maggio 2003, n. 8828, nonché Corte Cost. 30 giugno ‑ 11 luglio 2003, n. 233), si è assistito al definitivo abbandono del siste‑ ma “tripolare” (patrimoniale, biologico e morale) e l’adesio‑ ne ad un sistema “bipolare” (patrimoniale e non patrimonia‑ le) di risarcimento del danno, come confermato dalla succes‑ siva evoluzione della giurisprudenza della Cassazione, anche a Sezioni Unite (cfr., in tal senso, Cass. 15 luglio 2005, n. 15022; Cass., SS. UU., 24 marzo 2006, n. 6572; Cass. 19 maggio 2006, n. 11761; Cass. 12 giugno 2006, n. 13546; Cass. 09 novembre 2006, n. 23918; Cass., SS. UU., 11 no‑ vembre 2008, n. 26972, 26973, 26974 e 26975). Il nuovo danno non patrimoniale, inteso in senso ampio, ossia come qualsiasi conseguenza pregiudizievole non suscet‑ tibile di immediata valutazione economica, risulta ora com‑ prensivo: a) del cosiddetto danno morale soggettivo, inteso quale sofferenza interna ovvero transeunte turbamento dello stato d’animo in conseguenza dell’illecito; b) del danno bio‑ logico, inteso quale “incidenza negativa sulle attività quoti‑ diane e sugli aspetti dinamico‑relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito”, conseguente alla lesione temporanea o permanente all’integrità psico‑fisica suscettibile di accertamento medico legale, secondo la defi‑ nizione offerta dall’art. 138, comma 2, lettera a) del Decreto Legislativo 7 settembre 2005, n. 209; c) di qualsiasi altra conseguenza pregiudizievole conseguente alla lesione di ul‑ teriori interessi inerenti alla persona, con la precisazione, però, che quando detto interesse ha rilievo costituzionale il limite della espressa previsione di legge di cui all’art. 2059 cod. civ. non opera o, meglio, l’espressa previsione di legge può essere ravvisata nella stessa rilevanza costituzionale dell’interesse leso. 2 0 1 2 65 Questa interpretazione, segna il definitivo tramonto del‑ la categoria, di ascendenza penalistica, del cosiddetto danno ‑ evento, accolta dalla storica sentenza della Corte Costitu‑ zionale n. 184 del 1986 in riferimento al danno biologico, con importanti conseguenze in punto di allegazione e prova del danno. Invero, la giurisprudenza di legittimità ha avuto cura di precisare che il danno non patrimoniale risarcibile non si identifica mai nella pura lesione dell’interesse protetto, ma sempre nelle conseguenze pregiudizievoli che ne sono deriva‑ te, come del resto già anticipato da un’altra sentenza della stessa Corte costituzionale (cfr. in particolare sentenza n. 372 del 27 ottobre 1994). Se ciò vale per il danno non patrimoniale, vale a maggior ragione per il danno patrimoniale. Non solo, ma il nuovo danno patrimoniale può essere finalmente liberato da quelle incombenze di tutela vicaria che le limitazioni del danno non patrimoniale, prima dell’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 cod. civ., spesso imponevano per ra‑ gioni di giustizia sostanziale. Insomma allo stadio attuale dell’evoluzione del diritto, il pieno riconoscimento di ogni tipo di danno non patrimoniale consente di riservare al dan‑ no patrimoniale la sfera che gli è propria, ossia di danno di‑ retto a risarcire la differenza che il patrimonio della persona presenta prima e dopo l’illecito, ovviamente anche con rife‑ rimento alle poste attive future. Ne deriva che appare non giustificato sia il riferimento al danno‑evento contenuto in alcune delle sentenze della Corte di legittimità che riconoscono, in via generale, il danno da lesione alla capacità lavorativa della casalinga, sia soprattut‑ to il riconoscimento del danno a prescindere dalle conseguen‑ ze pregiudizievoli sul patrimonio della persona. In particola‑ re, l’assunto secondo il quale il danno in questione sarebbe un danno patrimoniale perché la casalinga svolge un’attività suscettibile di valutazione economica, rischia di rendere eva‑ nescenti i confini tra danni patrimoniali e non patrimoniali, posto che ogni tipo di danno, all’esito della liquidazione, appare suscettibile di valutazione economica. Si deve allora in contrario ribadire che, affinché possa essere riconosciuto un danno patrimoniale da lesione della capacità lavorativa specifica, occorre prima allegare e poi provare che, in conse‑ guenza della lesione subita, sia diminuita la capacità di pro‑ durre reddito, in via temporanea o permanente. Nel caso di lavori, come quello della casalinga, usualmen‑ te prestati a titolo gratuito, spesso in favore di terzi, si deve pertanto escludere che si possa riconoscere il risarcimento del danno patrimoniale, come preteso dall’attrice, sulla sola base dell’allegazione e della prova di non aver potuto provve‑ dere alle relative attività per un determinato periodo di tem‑ po, perché così facendo si verrebbe e risarcire, sub specie di danno patrimoniale un semplice non poter fare, che costitu‑ isce invece il tipico contenuto del danno non patrimoniale. Occorre, invece, allegare e dimostrare, che da tale inatti‑ vità (o ridotta attività) sia in concreto conseguita una ridu‑ zione del patrimonio del soggetto. Nel caso di lavoro casalin‑ go ciò si verificherà più agevolmente sotto il profilo del danno emergente, con riferimento alle spese rese necessarie per procurarsi prestazioni sostitutive da parte di terzi dietro corrispettivo. Non può però escludersi anche la possibilità di una ricorrenza di un lucro cessante, nel caso si deduca che qualche familiare sia stato costretto a distogliersi dalla pro‑ civile Gazzetta 66 D i r i t t o e p r o c e d u r a pria attività lavorativa, con correlativa contrazione del red‑ dito, per far fronte alle incombenze domestiche alle quali provvedeva normalmente il familiare danneggiato. Né può tanto meno escludersi un lucro cessante a carico diretto del danneggiato nel caso di ricorrenza di impresa fa‑ miliare ai sensi dell’art. 230‑bis cod. civ. Nel caso poi di gravi invalidità permanenti, il rilievo che, specie nella società moderna, l’attività di casalinga assai ra‑ ramente integra una situazione lavorativa stabile, può con‑ sentire il riconoscimento di un danno patrimoniale da lesione alla capacità di lavoro in riferimento all’attività lavorativa remunerata che presumibilmente la persona avrebbe in futu‑ ro intrapreso in assenza dell’illecito, con possibilità di far riferimento a redditi figurativi, non diversamente da quanto accade in caso di danno alla persona dedita ancora allo studio o non ancora stabilmente occupata. Con ciò non si intende recuperare il concetto di capacità di lavoro generica, ormai obsoleto, ma solo consentire la liquidazione di un danno da lesione della capacità lavorativa specifica, sulla base della presumibile attività lavorativa futura. Nella specie, alcuna dimostrazione (da offrirsi in maniera eminentemente documentale) circa la concreta sussistenza di spese necessarie per procurarsi prestazioni di lavoro dome‑ stico sostitutive da parte di terzi, né tampoco di future pos‑ sibilità di percezione di redditi, ad opera dell’attrice sig.ra ***** è stata fornita da parte di quest’ultima, con la conse‑ guenza che l’accoglimento della pretesa risarcitoria dalla medesima avanzata non potrà estendersi fino a ricomprende‑ re il danno patrimoniale per la perdita di capacità di lavoro specifica. Nella liquidazione del danno cagionato da illecito aqui‑ liano, in caso di ritardo nell’adempimento, tuttavia, deve al‑ tresì tenersi conto del nocumento finanziario (lucro cessante) subito dal soggetto danneggiato a causa della mancata tem‑ pestiva disponibilità della somma di denaro dovuta a titolo di risarcimento, la quale, se tempestivamente corrisposta, avrebbe potuto essere investita per ricavarne un lucro finan‑ ziario; tale danno, invero, ben può essere liquidato con la tecnica degli interessi, con la precisazione, tuttavia, che detti interessi non debbono essere calcolati né sulla somma origi‑ naria, né su quella rivalutata al momento della liquidazione, dovendo gli stessi computarsi, piuttosto, o sulla somma ori‑ ginaria progressivamente rivalutata, anno per anno, ovvero in base ad un indice di rivalutazione medio (cfr., in tal senso ed ex multis, Cass. civ., sez. un., 17 febbraio 1995, n. 1712, nonché Cass. 10 marzo 2000, n. 2796). Orbene, per ottenere l’effetto pratico del riconoscimento degli interessi calcolati sulla somma rivalutata in base ad un indice di rivalutazione medio questo Giudicante reputa op‑ portuno condannare i convenuti al pagamento, in solido tra loro ed in favore dell’attrice sig.ra *****, degli interessi al tasso legale previsto dall’art. 1284 cod. civ., dalla data dell’evento dannoso (2 dicembre 1987) sull’importo di €. 39.811,95 (euro trentanovemilaottocentoundici/95), pari alla devalutazione, in base all’indice ISTAT delle variazioni dei prezzi al consumo per le famiglie di impiegati ed operai (cosiddetto indice FOI), alla data del 2 dicembre 1987 ‑ qua‑ le momento in cui l’illecito si è prodotto – di quella sopra riconosciuta a titolo risarcitorio e, quindi, anno per anno, ed a partire dal 2 dicembre 1988, fino al momento della pubbli‑ c i v i l e Gazzetta F O R E N S E cazione della presente decisione (mediante deposito in Can‑ celleria), sulla somma di volta in volta risultante dalla riva‑ lutazione di quella sopra appena indicata, sempre in base all’indice ISTAT menzionato (FOI), con divieto di anatoci‑ smo. Pertanto, in favore dell’attrice sig.ra ***, deve essere rico‑ nosciuta, in astratto (cioè salvo quanto si dirà in seguito con riguardo alla necessità di scomputo dell’indennizzo di cui alla legge 25 febbraio 1992, n. 210) la somma complessiva di €. 158.373,93 (euro centocinquantottomilatrecentosettanta‑ tre/93), a titolo risarcitorio, atteso che, alla stregua dei crite‑ ri di calcolo già sopra indicati [interessi al tasso legale previ‑ sto dall’art. 1284 cod. civ., dalla data del 2 dicembre 1987 sull’importo di €. 39.811,95 (euro trentanovemilaottocento‑ undici/95) e, quindi, anno per anno, ed a partire dal 2 dicem‑ bre 1988 fino al momento della pubblicazione della presente decisione (mediante deposito in Cancelleria), sulla somma di volta in volta risultante dalla rivalutazione di quella sopra appena indicata, sempre in base all’indice ISTAT menzionato (FOI), con divieto di anatocismo], la rivalutazione monetaria risulta pari (come, del resto, già implicitamente sopra chiari‑ to) ad €. 46.038,57 (euro quarantaseimilatrentotto/57), e gli interessi suddetti risultano di ammontare pari ad €. 72.523,41 (euro settantaduemilacinquecentoventitre/41). Come precedentemente chiarito, qualora il danneggiato abbia percepito l’indennizzo ai sensi della legge 25 febbraio 1992, n. 210, il relativo importo deve essere detratto dalla somma liquidata a titolo risarcitorio, altrimenti dandosi luogo ad un ingiustificato arricchimento. Nella specie, è la stessa attrice sig.ra *** ad aver ammes‑ so, nell’atto di citazione introduttivo del presente giudizio, l’avvenuto riconoscimento, in proprio favore, dell’indennizzo di cui alla legge 25 febbraio 1992, n. 210. Pertanto ‑ allo scopo di evitare ingiustificate duplicazioni risarcitorie ‑ il convenuto MINISTERO DELLA SALUTE, in ragione dell’avvenuto riconoscimento del diritto all’indenniz‑ zo ai sensi della legge 25 febbraio 1992, n. 210, deve essere condannato al pagamento, in favore dell’attrice sig.ra ***, dell’importo ottenuto detraendo dalla somma riconosciuta a titolo di risarcimento danni, quella versata a titolo di inden‑ nizzo in base alla legge suddetta. Scelta, dunque, la linea dello scomputo dell’indennizzo di cui alla legge 25 febbraio 1992, n. 210 dal risarcimento com‑ plessivamente dovuto, per rendere omogenea la rendita attri‑ buita all’attrice sig.ra *** con le somme sopra liquidate a ti‑ tolo di risarcimento, occorre capitalizzare la rendita. Per farlo si utilizzerà la tabella con i coefficienti di capi‑ talizzazione delle rendite allegata al Regio Decreto 9 ottobre 1922, n. 1403. Nell’utilizzare quella tabella si terrà conto delle statuizio‑ ni contenute in Cass. civ., sez. III, 2 marzo 2004, n. 4186, nella cui motivazione si afferma, fra l’altro: “Dette tabelle di capitalizzazione si fondano su due elementi: la durata pro‑ babile futura della vita, calcolata anche sulle c.d. tavole di mortalità, ed il tasso di redditività, ancorato al tasso legale. Da ciò consegue che maggiore è la durata della vita media e maggiore è il coefficiente di capitalizzazione della rendita se essa è vitalizia; mentre maggiore è il tasso legale di interesse e minore è il coefficiente di capitalizzazione, poiché la stessa rendita è realizzata da una minore somma corrisposta, dato F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o il maggior tasso e quindi il maggior rendimento sul mercato della somma stessa. Nella grande maggioranza dei casi, per questa operazione di capitalizzazione, vengono adottati i coefficienti di capitalizzazione per la costituzione delle ren‑ dite vitalizie immediate, di cui alla tabella allegata al R.D. 9.10.1922, n. 1403, che ha approvato le tariffe della cassa nazionale per le assicurazioni. Sennonché detta tabella fu calcolata sulla base delle tavole di sopravvivenza della po‑ polazione italiana desunte dai censimenti del 1901 e del 1911 e sulle statistiche mortuarie degli anni 1910‑1912. Rispetto a quella data, la vita media degli italiani si è allungata di circa 25 anni. Inoltre la tabella dei coefficienti per la costi‑ tuzione delle rendite vitalizie in questione fu realizzata sulla base di un tasso di interesse del 4,5%. Finché il tasso di in‑ teresse legale era in Italia del 5% (e a maggior ragione nei periodi in cui esso fu del 10%), la maggiore durata della vita media veniva agevolmente compensata dalla maggiore red‑ ditività effettiva del denaro rispetto a quella sulla base della quale era stata calcolata la tabella dei coefficienti di capita‑ lizzazione del 1922. Sennonché a partire dall’1.1.1999 il tasso legale è oscillato tra il 2,5 % ed il 3,5%, con la conse‑ guenza che entrambi i fattori di calcolo delle tabelle di capi‑ talizzazione del 1922 (durata della vita media e tasso di in‑ teresse) convergono per un allontanamento delle stesse ri‑ spetto ad una corretta e realistica capitalizzazione della rendita, con applicazione dei due predetti elementi, valutati con riferimento all’attualità. Da ciò consegue che, se il giu‑ dice di merito utilizza il criterio della capitalizzazione del danno patrimoniale futuro, adottando i coefficienti di capi‑ talizzazione della rendita fissati dalle tabelle del 1922, non sussiste più una logica interna a dette tabelle conforme alla realtà, cui implicitamente il giudice può riportarsi nell’am‑ bito della liquidazione equitativa del danno. Si rende quindi necessario che egli adegui detto risultato, per così dire tabel‑ lare, ai mutati valori reali dei due fattori posti a base delle tabelle adottate. Il giudice, quindi, prima ancora di “perso‑ nalizzare” il criterio adottato al caso concreto, deve “attua‑ lizzare” lo stesso: solo allorché egli avrà eliminato gli elemen‑ ti distortivi da obsolescenza presenti già in astratto nello strumento adottato, potrà utilizzare all’attualità detto stru‑ mento, adeguandolo alle peculiarità del caso concreto. Ov‑ viamente, poiché si rimane pur sempre nell’ambito di una liquidazione equitativa di danno futuro, il giudice può com‑ piere cumulativamente e intuitivamente dette due operazio‑ ni, purché egli dia atto di aver tenuto conto della predetta necessità di aggiornamento delle tabelle in questione”. Nel caso di specie, la rendita vitalizia dell’attrice sig.ra *** ammonta a complessivi €. 7.235,43 (euro settemiladuecento‑ trentacinque/43) annui e le è stata riconosciuta con decorren‑ za dalla data del 23 aprile 1997, nella quale l’attrice aveva poco meno di cinquantacinque (55) anni e sei (6) mesi. Dunque, utilizzando la tabella di cui si è detto sopra, alla data del 23 aprile 1997, il valore capitalizzato della rendita in questione era di €. 87.172,46 (euro ottantasettemilacento‑ settantadue/46) [€. 7.235,43 (euro settemiladuecentotrenta‑ cinque/43) x 12,048]. Per tenere conto (in ossequio alle statuizioni di Cass. civ., sez. III, 2 marzo 2004, n. 4186, sopra citata) del duplice criterio di adeguamento necessario (che nel caso di specie va nella stessa direzione) della tabella utilizzata (maggiore du‑ 2 0 1 2 67 rata della vita e minore tasso di interesse legale), la somma di cui sopra va aumentata, secondo una stima equitativa e sin‑ tetica, del 5% (cinque percento), così da divenire complessi‑ vamente pari alla somma di €. 91.531,00 (euro novantuno‑ milacinquecentotrentuno/00), in cifra tonda. La somma corrispondente alla rendita capitalizzata va considerata come pagata alla data in cui è stato pagato il primo rateo della rendita vitalizia e, dunque, in data 21 feb‑ braio 2006. Dunque, essa va decurtata dalla somma che oggi si deve liquidare, secondo le medesime regole con le quali si decur‑ terebbe un acconto. Come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità (cfr., all’uopo, Cass. civ., sez. III, 10 marzo 1999, n. 2074), quando si deve tener conto degli acconti versati anteriormente dal danneggiante o dal responsabile civile, il calcolo dev’essere eseguito sottraendo questi importi in maniera che i termini del calcolo siano omogenei. Ciò si può conseguire sottraendo gli acconti dal valore del danno al momento del versamento degli stessi acconti oppure rivalutando l’importo degli accon‑ ti alla data della liquidazione finale del danno. Nel caso di specie, si scomputerà l’acconto al momento in cui è stato corrisposto detraendolo dall’importo della liqui‑ dazione del danno calcolata al momento del versamento dell’acconto medesimo. L’acconto viene imputato al capitale, in considerazione del principio affermato dalla giurisprudenza di legittimità secon‑ do cui, poiché l’art. 1194 cod. civ. (il quale prescrive di impu‑ tare i pagamenti parziali prima agli interessi e quindi al ca‑ pitale) è stato dettato con riferimento alle obbligazioni pecu‑ niarie, esso non trova applicazione in materia di risarcimen‑ to del danno derivante da atto illecito (Cass. civ., sez. III, 14 marzo 1996, n. 2115). I conteggi sono eseguiti, quindi, in modo da considerare la riduzione del capitale liquidato di pari importo all’acconto versato, così che per il periodo successivo al versamento dell’acconto medesimo per tale importo non maturano più rivalutazione e interessi. In definitiva, quindi, la liquidazione del risarcimento dovuto in favore dell’attrice sig.ra *** scaturisce dalla seguen‑ te somma algebrica: a) Danno liquidato alla data del 21 febbraio 2006 (c.d. “aestimatio”): €. 75.068,25 (euro settan‑ tacinquemilasessantotto/25); b) Acconto da dedurre: €. 91.531,00 (euro novantunomilacinquecentotrentuno/00); c) rivalutazione all’attualità da aggiungere: €. 10.781,82 (euro diecimilasettecentottantuno/82); d) interessi al tasso legale previsto dall’art. 1284 cod. civ., dalla data del 2 dicem‑ bre 1987 sull’importo di €. 39.811,95 (euro trentanovemila‑ ottocentoundici/95), pari alla devalutazione, in base all’indi‑ ce ISTAT delle variazioni dei prezzi al consumo per le famiglie di impiegati ed operai (cosiddetto indice FOI), alla data del 2 dicembre 1987 ‑ quale momento in cui l’illecito si è prodot‑ to – di quella riconosciuta a titolo risarcitorio e, quindi, anno per anno, ed a partire dal 2 dicembre 1988 fino al momento della pubblicazione della presente decisione (mediante depo‑ sito in Cancelleria), sulla somma di volta in volta risultante dalla rivalutazione di quella sopra appena indicata, sempre in base all’indice ISTAT menzionato (FOI), con divieto di anatocismo (da aggiungere): complessivi €. 72.523,41 (euro settantaduemilacinquecentoventitre/41). civile Gazzetta 68 D i r i t t o e p r o c e d u r a Sottraendo dall’importo indicato nel capoverso contras‑ segnato dalla lettera “a)” l’acconto indicato nel capoverso contrassegnato dalla lettera “b)” ed aggiungendo al risultato ottenuto gli importi indicati nei capoversi contrassegnati dalle lettere “c)” e “d)” si perviene al risultato finale costitu‑ ito dalla somma di €. 66.842,48 (euro sessantaseimilaotto‑ centoquarantadue/48) che rappresenta l’importo dovuto all’attrice a titolo di risarcimento danni. Dal momento della pubblicazione della presente sentenza e fino all’effettiva corresponsione, infine, dovranno essere corrisposti, sulla somma totale sopra liquidata a titolo risar‑ citorio, gli ulteriori interessi al tasso legale suddetto, ai sensi dell’art. 1282 cod. civ., posto che, al momento della pubbli‑ cazione della sentenza, l’obbligazione risarcitoria, che ha natura di debito di valore, si trasforma in debito di valuta, con conseguente applicabilità degli istituti tipici delle obbli‑ gazioni pecuniarie in senso stretto, sulla somma globale composta da capitale, rivalutazione e coacervo degli interes‑ si maturati fino alla data predetta (pubblicazione della sen‑ tenza: cfr., in tal senso, Cass. 3 dicembre 1999, n. 13470; Cass. 21 aprile 1998, n. 4030). In applicazione del principio di causalità (art. 91 cod. proc. civ.), le spese di lite seguono la soccombenza del conve‑ nuto MINISTERO DELLA SALUTE e si liquidano come da dispositivo. Va osservato, al riguardo, che il Decreto‑Legge 24 gen‑ naio 2012, n. 1 (in G.U. 24 gennaio 2012, n. 19), recante disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività, ha previsto, all’art. 9, com‑ ma 1, l’abrogazione delle tariffe delle professioni regolamen‑ tate nel sistema ordinistico. L’art. 9 citato, al comma 2, prevede che ‑ ferma restando l’abrogazione delle tariffe – “nel caso di liquidazione da parte di un organo giurisdizionale, il compenso del profes‑ sionista è determinato con riferimento a parametri stabiliti con decreto del ministro vigilante”. Orbene, un primo precedente giurisprudenziale interve‑ nuto in materia (Tribunale di Cosenza, ordinanza 26 genna‑ io 2012) ha ritenuto che lo ius superveniens (ritenuto imme‑ diatamente applicabile alle controversie pendenti) abbia di fatto comportato la caducazione del criterio liquidatorio ta‑ riffario, da parte del giudice, a prescindere dalla presenza di una controversia tra avvocato e cliente ma in ogni caso in cui il magistrato debba procedere alla determinazione del com‑ penso spettante al difensore per l’attività professionale pro‑ fusa nell’esercizio del mandato. Sulla base di tale presupposto, lo stesso Ufficio giudiziario (Tribunale di Cosenza, ordinanza, 1o febbraio 2012), con ricchezza di argomentazioni, ha rimesso gli atti alla Corte Costituzionale reputando censurabile, sotto diversi profili di costituzionalità, l’art. 9 del d.l. 1/2012, nella parte in cui non prevede una disciplina transitoria fino alla entrata in vigore del Decreto Ministeriale preannunciato dall’art. 9, comma 2, decreto cit. Nonostante il pregio delle ragioni da cui trae origine l’ordinanza calabrese di remissione, reputa questo giudice che, per la liquidazione del compenso dell’avvocato, in difet‑ to di normativa ministeriale, non si registri un “vacuum legis” sospettabile di illegittimità costituzionale. Ed invero, giova ricordare che, in assenza di tariffe pro‑ c i v i l e Gazzetta F O R E N S E fessionali, il sistema normativo contiene una difesa immuni‑ taria “ad hoc”, posto che l’art. 2225 cod. civ., quale norma generale, statuisce che, in loro assenza, il giudice può liqui‑ dare il compenso in relazione al risultato ottenuto dal profes‑ sionista e al lavoro normalmente necessario per ottenerlo. Trattasi, con tutta evidenza, di disposizione normativa che non consegna al giudicante una “delega in bianco”, a rischio di arbitraria discrezionalità, in quanto non è equita‑ tiva in senso tecnico (cfr., in tal senso, Tribunale di Bologna, sez. II, 28 giugno 2010), tenuto conto dei parametri oggetti‑ vi cui si ancora la liquidazione e del costume pretorio forma‑ tosi con riguardo all’art. 2225 cod. civ., che consente anche il riferimento a prestazioni analoghe (cfr., ad esempio, Tribu‑ nale di Milano, 31 luglio 2001). Ebbene, in assenza di un riferimento tariffario, dovendo stabilire il giusto compenso (e, quindi, non meramente “equo”), il giudice ben può fare riferimento anche ai parametri che precedentemente venivano applicati, per orientarsi nella statuizione finale, dovendosi precisare che l’abrogazione delle tariffe non è intervenuta perché queste non fossero corrette o adeguate, ma per una finalità diversa, collocata nell’ottica di una implementazione della concorrenza dei mercati. Ciò vuol dire che, ricorrendo all’art. 2225 cod. civ., il giudice, guardando agli “standards” liquidativi in preceden‑ za applicati, e tenendo conto dell’attività processuale in concreto svolta dal difensore, può procedere alla liquidazione del compenso del difensore in modo adeguato e nel rispetto della finalità proprie delle Tariffe, che debbono compensare, in un’ottica retributiva (e non indennitaria), il rappresentante legale per la prestazione intellettuale svolta. In tale opera di liquidazione del compenso, peraltro, il magistrato non può considerare il professionista legale come un mero professionista intellettuale, in quanto, come è noto, il soggetto che esercita la professione forense, indipendente‑ mente dagli atti specifici compiuti, svolge un servizio di pubblica necessità (Cass. pen., sez. V, 28 aprile 2005, n. 22496) e, quindi, contribuisce alla realizzazione delle fi‑ nalità di Giustizia nel processo, aspetto che impone di rispet‑ tare la professione dell’Avvocato non frustrandone la funzio‑ ne mediante un compenso inadeguato o insufficiente. In tale giudizio, restano vitali e sempre attuali gli inse‑ gnamenti nomofilattici delle Sezioni Unite le quali, in merito all’ammontare della liquidazione delle spese del processo, hanno affermato che “le spese di lite vanno liquidate (…) in linea con il principio di adeguatezza e proporzionalità” che impongono “una costante ed effettiva relazione tra la mate‑ ria del dibattito processuale e l’entità degli onorari per l’at‑ tività professionale svolta” (Cass. civ., sez. un., 11 settembre 2007, n. 19014). Infine, vi è certamente un abrogazione sopravvenuta del rimborso forfetario spese generali che, pertanto, non può essere considerato nella presente sentenza. Deve, peraltro, disporsi, ai sensi dell’art. 93 cod. proc. civ., la distrazione delle spese di lite in favore degli *** e ***, difensori dell’attrice sig.ra *** e dichiaratisi anticipatari delle stesse, già a far tempo dalla notificazione dell’atto di citazione introduttivo del presente giudizio. In applicazione del medesimo principio (soccombenza) sono definitivamente poste a carico del convenuto MINISTE‑ RO DELLA SALUTE le spese relative alla disposta Consu‑ F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o lenza Tecnica d’Ufficio, liquidate come da provvedimento in atti in misura pari ad €. 708,53 (euro settecentootto/53), oltre I.V.A. e contributo assistenziale e previdenziale come per legge e provvisoriamente fatte gravare sull’attrice sig.ra ***, non essendo stata, del resto, prodotta da quest’ultima alcuna documentazione valevole a comprovare l’avvenuta corresponsione di tale importo in favore dell’ausiliario del 2 0 1 2 69 giudice, con l’unica eccezione dell’acconto di €. 500,00 (euro cinquecento/00), il cui versamento risulta dal verbale relativo all’inizio delle operazioni di C.T.U. e che, pertanto, dovrà essere incluso nel computo delle cosiddette spese vive da rimborsarsi in favore dell’attrice medesima. (Omissis) civile Gazzetta 70 D i r i t t o e p r o c e d u r a In evidenza CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE II CIVILE sentenza 10 aprile 2012, n. 5692 Pres. Oddo, Rel. Matera Obbligazioni e contratti – Condizione del contratto – Condizione unilaterale – Definizione – Condizione sospensiva o risolutiva nell’interesse esclusivo di uno solo dei contraenti – Ammissibilità –Requisiti – Effetti – Rinunzia Le parti, nella loro autonomia contrattuale, possono pattuire una condizione sospensiva o risolutiva nell’interesse esclusivo di uno soltanto dei contraenti, occorrendo al riguar‑ do un’espressa clausola o, quanto meno, una serie di elemen‑ ti, idonei ad indurre il convincimento che si tratti di una condizione alla quale l’altra parte non abbia alcun interesse. Ne consegue che la parte contraente, nel cui interesse è posta la condizione, ha la facoltà di rinunziarvi sia prima, sia dopo l’avveramento o il non avveramento di essa, senza che la controparte possa comunque ostacolarne la volontà. (Omissis) Svolgimento del processo Con atto di citazione notificato il 9‑4‑2009 G.L. conveni‑ va dinanzi al Tribunale di Bassano del Grappa F. V., F.M.F., F.R., S. M. G. e P.G., esponendo che il 30‑6‑2005 aveva stipu‑ lato con le prime quattro un contratto preliminare avente ad oggetto il trasferimento di un immobile sito in (Omissis), per il prezzo di Euro 1.600.000,00; che tale contratto era stato sottoposto, nell’interesse del promissario acquirente G.L., alla condizione della rinuncia da parte di Fe.Re. e f.r. al diritto di prelazione sull’immobile sorto in forza di contratto stipulato l’8‑4‑1974; che con missiva del 22‑1‑2007 le promittenti ven‑ ditrici avevano comunicato all’attore che, visto il tempo tra‑ Nota redazionale a cura di P ietro d’A lessandro Avvocato Secondo l’insegnamento tradizionale, la funzione della condizione è quella di dare rilievo ad un piano di interessi (controprogramma) esterno ed ulteriore rispetto al piano di interessi interno tipico della fattispecie contrat‑ tuale (programma interno), la cui esistenza è prevista come futura ed incerta; il rapporto tra i due piani di interessi consiste in ciò, che la realizzazione di quello interno è voluta solo in quanto quello esterno non si manifesti [Falzea, La condizione e gli elementi dell’atto giuridico, Milano, 1941, 80; Rescigno, voce “Condizione, dir vig.”, in Enc. del dir., vol VIII, sd ma 1961, 766; Do‑ gliotti, Condizione unilaterale: un importante revirement della Suprema Corte, Riv. Not., 1993, 1236]. Viene cioè introdotto nel piano della fattispecie un particolare intento estraneo al suo contenuto tipico e che deve quindi esse‑ re realizzato e tutelato con mezzi che non rientrano nella struttura di base dell’atto. La giurisprudenza ha rilevato che talvolta l’interesse cui la condizione attribuisce rilievo non è comune ad entrambe le parti ma fa capo ad uno sol‑ tanto dei contraenti, nel senso che solo quest’ultimo non stipulerebbe se il contratto non fosse condizionato, mentre la controparte subisce, per così dire, la condizione. Da questo aspetto del fenomeno, la giurisprudenza ha ritenuto di trarre un’importante conseguenza sul piano sistematico: tutte le ipotesi di condizio‑ ne, sia sospensiva che risolutiva, prevista nell’esclusivo interesse di una parte sarebbero riconducibili ad un’unica figura, denominata condizione unilatera‑ le, la cui principale caratteristica consisterebbe nel potere del soggetto per la cui tutela fu apposta di rinunziare agli effetti della stessa, rendendo puro il negozio, sia prima che dopo l’avveramento della condizione risolutiva o il mancato avveramento della condizione sospensiva, senza che la controparte possa ostacolarne gli effetti. Ulteriore conseguenza dell’unilateralità della clausola consisterebbe c i v i l e Gazzetta F O R E N S E scorso senza che i prelazionari avessero formalizzato la rinun‑ cia alla prelazione, si dichiaravano libere da ogni impegno e ribadivano la loro disponibilità alla stipula di un nuovo con‑ tratto preliminare non sottoposto a condizione sospensiva; che il 7‑3‑2007 le medesime promittenti venditrici avevano inviato altra missiva con cui, esibendo la lettera con cui Fe.Re. aveva comunicato il diniego di rinunciare al diritto di prelazione, avevano comunicato di ritenersi sciolte da ogni impegno as‑ sunto; che erano seguite trattative per la stipula di altro preli‑ minare, con un incontro presso un notaio senza che le parti addivenissero ad un accordo; che con contratto preliminare trascritto del 4‑4‑2007 le convenute avevano promesso in vendita il bene a P.G., e a tale contratto era seguito l’atto defi‑ nitivo dell’11‑7‑2007. Ciò posto, l’attore chiedeva: 1) che fosse accertata l’autenticità delle sottoscrizioni apposte al contratto preliminare del 30‑6‑2005 e alla missiva del 22‑1‑2007; 2) che fosse accertato che tale contratto preliminare si era concluso con la rinuncia da parte sua alla condizione sospensiva stabi‑ lita in suo favore; 3) che fosse conseguentemente dichiarata l’inopponibilità nei suoi confronti del contratto preliminare e del contratto definitivo stipulati dalle promittenti venditrici con P.G.; 4) che, in caso di mancato accoglimento delle doman‑ de precedenti, le convenute fossero condannate in solido a ri‑ sarcire i danni arrecati per aver agito in mala fede. Nel costituirsi, i convenuti contestavano la fondatezza della domanda e ne chiedevano il rigetto. Il P., inoltre, chie‑ deva in via riconvenzionale la condanna dell’attore al risarci‑ mento dei danni per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c.. Con sentenza del 28‑12‑2008 il Tribunale adito rigettava la domanda attrice e condannava il G. a risarcire i danni ca‑ gionati al P., nella misura di Euro 30.000,00. Avverso tale decisione proponevano appello principale il G. e appello incidentale il P.. nell’inapplicabilità della finzione di avveramento ex art 1359 cc [Cass. 8 giugno 1983, n. 3936, Giust. civ. mass., 1983, 6]. Per la giurisprudenza dominante [Cass. 5 giugno 2008, n. 14938, Riv. Not., 2010, 1,163; Cass. 15 novembre 2006, n. 24299; Cass. 27 novembre 1992, n. 12708], nell’ambito della quale si inserisce la sentenza in commento, dunque, la condizione unilaterale è una normale clausola condizionale rego‑ lata dagli artt 1353 cc e ss prevista, in virtù dell’autonomia privata, nell’inte‑ resse di una sola parte liberamente rinunziabile senza vincoli di forma ed anche per facta concludentia. La natura unilaterale della clausola non necessariamente deve essere prevista espressamente, potendo emergere per implicito, come corollario in‑ defettibile dello scopo che le parti si propongono, allorquando la sua deter‑ minazione nell’interesse di un unico contraente, chiamato a sopportare un preciso onere economico, promani da una corretta valutazione dell’intero rapporto negoziale [Cass. 17 agosto 1999, n. 8685, in Giur. it., 2000, 915]. La dottrina precisa [Smiroldo, Condizione unilaterale di vendita, Giur. it., 1976, I, 2, 377] che oggetto della rinunzia sarebbe il diritto di considerare sospesa l’operatività del negozio ovvero il diritto di considerare inefficace il negozio, a seconda che la rinunzia avvenga in pendenza o dopo il mancato avveramento della condizione sospensiva. Pertanto l’operatività del contratto sarebbe conseguenza riflessa e non diretta della rinunzia, il cui unico effetto è quello di rimuovere un ostacolo alla normale operatività del negozio, fonte degli effetti. Secondo diversa impostazione, la rinunzia sarebbe esercizio di un diritto potestativo, come tale con efficacia non retroattiva [Costantini, Appunti sulla condizione unilaterale, Dir. e Giust., 1970, 13 e ss]. L’opinione dominante in giurisprudenza, che ricostruisce la condizione unilaterale in termini di condizione pura e semplice, è stata variamente criti‑ cata in dottrina, in base al rilievo che detta teoria non tiene conto delle note‑ voli peculiarità della figura. Si è rilevato che nella condizione pura e semplice il verificarsi o meno dell’evento opera in maniera automatica sull’efficacia del contratto, senza F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o 2 0 1 2 71 Motivi della decisione 1) In via preliminare, deve esaminarsi l’eccezione di inam‑ missibilità del ricorso, sollevata dai controricorrenti sotto i seguenti profili: a) per la mancata indicazione degli atti e documenti ex art. 366 n. 6 c.p.c.; b) per la mancata articola‑ zione del ricorso in motivi separati, singolarmente dotati del carattere della specificità; c) per carenza d’interesse, dovuta al passaggio in giudicato della pronuncia di rigetto della do‑ manda subordinata di risarcimento danni, in relazione alla quale il ricorrente ha limitato le sue censure. L’eccezione è infondata, dovendosi rilevare: a) che nella specie il requisito di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6 deve ritener‑ si assolto, avendo il ricorrente indicato i documenti su cui si fonda il ricorso e la sede in cui gli stessi sono rinvenibili nel fascicolo di parte di primo grado, ritualmente prodotto in Cassazione; b) che il requisito dell’esposizione di motivi di impugnazione, stabilito, a pena di inammissibilità, dall’art. 366 c.p.c., n. 4, deve considerarsi soddisfatto nel caso di ricorso per cassazione che denunzi con un unico, articolato motivo, plurime violazioni di legge e vizi di mo‑ tivazione, allorché, come nella fattispecie in esame, risulti‑ no sufficientemente illustrate le ragioni addotte a sostegno delle censure mosse; c) che nei giudizio di appello (v. con‑ clusioni riportate nella sentenza impugnata) l’appellante ha chiesto l’accoglimento di “tutte le domande formulate in via gradata nell’atto di citazione di primo grado” e che, pertan‑ to, nessun giudicato si è formato sulla statuizione di rigetto della domanda subordinata di risarcimento danni, adottata dal Tribunale. 2) Con l’unico motivo di ricorso, articolato in tre censure, viene denunciata l’omessa e contraddittoria motivazione, nonché la falsa applicazione degli artt. 112, 115 e 116 c.p.c. e dell’art. 1326 c.c.. In primo luogo, il G. critica la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso che la condizione risolutiva della man‑ cata rinuncia al diritto di prelazione, prevista nel contratto preliminare del 30‑6‑2005, sia stata apposta nell’interesse del promissario acquirente. Sostiene che il carattere unilaterale di detta condizione risulta dal tenore letterale del contratto (“a tutela di parte acquirente, si conviene…”) e dallo spirito della pattuizione, che era quello di tutelare il G. dalle conse‑ guenze pregiudizievoli che gli sarebbero potute derivare, an‑ che indirettamente, dall’eventuale esercizio del diritto di necessità di alcun intervento da parte dei contraenti, a differenza di quanto accade nella condizione unilaterale [Villani, Condizione unilaterale e vincolo contrattuale, Riv. dir. civ., 1975, I, 564; Carbone, I mille volti della condizio‑ ne unilaterale, Contr. e Impresa, 2002, 259]. Tale teoria, inoltre, si limita a descrivere il fenomeno senza spiegare in forza di quale meccanismo tecnico‑ giuridico esso operi; il preteso diritto a considerare sospesa l’operatività del negozio o a disporre della sua efficacia deve misurarsi con l’esistenza di una condizione, la cui rilevanza deve in qual‑ che modo essere annullata [Gazzoni, Condizione unilaterale e conflitti con i terzi, Riv. Not., 1994, 1199]. Le difficoltà ricostruttive ora indicate hanno indotto la dottrina a prospet‑ tare soluzioni diverse. Secondo un’opinione [Villani, Condizione unilaterale e vincolo contrat‑ tuale, cit., 557 e ss.], recepita da una sentenza della CS rimasta isolata [Cass. 30 ottobre 1992, n. 11816, Giust. civ., 1993, 1225] ma ribadita in una pronuncia di merito [Trib. Nocera Inferiore, 20 aprile 2005, Giur. Merito, 2006, I, 36] la condizione unilaterale non rientra nello schema della condizione vera e propria ma il fenomeno può essere spiegato diversamente, individuando, quanto alla condizione unilaterale sospensiva una struttura negoziale complessa composta da due distinte pattuizioni: un negozio bilateralmente condizionato ed un contratto di opzione di contenuto identico al primo ma non sottoposto a con‑ dizione. La rinunzia alla condizione concreta dunque un atto di accettazione dell’opzione che perfeziona un nuovo contratto. La tesi comporta notevoli conseguenze sul piano applicativo. Anzitutto gli effetti decorrerebbero dal momento della rinunzia e non re‑ troagirebbero al primo contratto; sarebbero dunque salvi i diritti dei terzi che trascrivano il titolo prima della trascrizione dell’atto di esercizio della rinunzia [Villani, Condizione, cit., 584]. Nel caso in cui non sia stato fissato, il Giudice potrà intervenire stabilen‑ do un termine ex art 1331 cc [Id., op. cit., 583‑584]. La rinunzia è un atto formale che richiede la forma del contratto cui ac‑ cede [Cass. 30 ottobre 1992, n. 11816, cit.]. La condizione unilaterale risolutiva costituirebbe invece un’ipotesi di re‑ cesso a sua volta sospensivamente condizionato al verificarsi dell’evento de‑ dotto in condizione risolutiva [Villani, op. cit., 588]. In prospettiva analoga si è sostenuto che la cd rinunzia sarebbe esercizio di un diritto di opzione avente però ad oggetto non già la nascita di un nuovo contratto, ma la modificazione di quello originario [Gabrielli, Pubblicità degli atti condizionati, Riv. dir. civ., 1991, I, 37 e ss.]. Tale teoria è stata criticata perché ritenuta da alcuni troppo artificiosa [Lamber‑ ti‑Ferrara, La condizione unilaterale, Riv. Not., 201; Carbone, op. cit., 261]. Per altri [Gazzoni, op. cit., 1202] la automatica riconduzione della con‑ dizione unilaterale all’opzione è possibile solo se la condizione è meramente potestativa e sempre che ciò risulti dalla volontà delle parti [Gabrielli, La riserva di gradimento nei contratti, Riv. trim. dir. proc. civ., 1970, 1315], mentre tale non è quella in questione. Per una diversa opinione, nella figura in esame sarebbe configurabile una doppia condizione, la prima, causale, posta nell’esclusivo interesse di uno solo dei contraenti e la seconda, potestativa, il cui avveramento è legato alla volon‑ tà della parte favorita ed avrebbe un duplice oggetto, non solo il fatto dedotto ma anche la mancata rinunzia della parte interessata. Nel caso di condizione sospensiva unilaterale, le due condizioni sono al‑ ternative e la manifestazione di volontà del contraente favorito supplisce al mancato avveramento della condizione causale, se la condizione è invece riso‑ lutiva, le due condizioni sono cumulative [Dogliotti, Condizione unilaterale: un importante revirement della Suprema Corte, cit., 1239]. Secondo un’ulteriore ricostruzione, durante la fase di pendenza non si è in presenza di due condizioni quanto, piuttosto, di due fatti alternativi dedot‑ ti in un’unica condizione, un fatto causale ed un fatto potestativo legato alla volontà di una parte; l’alternatività discende dal fatto che il fatto volontario può operare in direzione opposta, mentre l’avveramento di quest’ultimo elimi‑ na la rilevanza dell’altro, avendo determinato la produzione o la stabilizzazio‑ ne definitiva degli effetti, con il conseguente venir meno del’incertezza [Gaz‑ zoni, cit., 1201; Carbone, cit., 280 e ss]. Con sentenza depositata il 28‑4‑2010 la Corte di Appello di Venezia rigettava l’appello principale; in accoglimento dell’appello incidentale, ordinava al Conservatore dei Registri Immobiliari di (OMISSIS) di annotare la cancellazione della domanda giudiziale. In motivazione la Corte territoriale rile‑ vava, in particolare, che la condizione risolutiva della manca‑ ta rinuncia al diritto di prelazione, prevista nel contratto preliminare del 30‑6‑ 2005, non poteva ritenersi apposta nell’interesse del promissario acquirente; e che, comunque, anche a voler opinare diversamente, l’appellante, con missiva del 28‑3‑2007, non aveva comunicato la rinuncia alla condi‑ zione, ma la sua disponibilità alla stipula di un nuovo contrat‑ to, diverso dal precedente nel contenuto. Per la cassazione di tale sentenza ricorre il G., sulla base di un unico motivo. A pag. 12 e 13 del ricorso il ricorrente ha precisato di non avere più interesse all’acquisto dell’immobile e, quindi, all’accoglimento delle conclusioni formulate ai punti 1) e 2) dell’atto di citazione di primo grado, ma di voler coltivare solo la domanda risarcitoria di cui al punto 3); e di non avere evocato, per tale ragione, nel giudizio di cassazione il P., vertendosi in ipotesi di cause scindibili. F.V., F.M.F., F.R. e S. M. resistono con controricorso. In prossimità dell’udienza le controricorrenti hanno depo‑ sitato una memoria. civile Gazzetta 72 D i r i t t o e p r o c e d u r a prelazione da parte dei prelazionari. Rileva che la tesi della non unilateralità della condizione non risulta suffragata da argomentazioni efficaci ed adeguate. In secondo luogo, il ricorrente deduce, sempre con riguar‑ do alla natura della condizione apposta al contratto, che la Corte di Appello, non ponendo alla base del proprio convin‑ cimento la prova documentale, mai contestata dalla contro‑ parte, e rilevando d’ufficio il carattere non unilaterale della condizione, ha violato gli artt. 115 e 112 c.p.c.. In terzo luogo, con riferimento alle ulteriori argomenta‑ zioni svolte nella sentenza impugnata, il ricorrente rileva, in particolare, che il giudice di appello non ha tenuto conto del fatto che il promittente acquirente, nel cui esclusivo interesse era stata apposta la condizione in esame, con lettera del 28‑3‑2007 aveva inequivocabilmente manifestato la volontà di rinunciare alla stessa. Sostiene che, avendo il promittente acquirente accettato, con la predetta lettera, la proposta (effettuata dai promitten‑ ti venditori con missiva del 22‑1‑2007) di conclusione del “medesimo” contratto preliminare senza la previsione della condizione sospensiva, tra le parti, a mente dell’art. 1326 c.c., si è perfezionato il contratto preliminare di vendita avente ad oggetto i beni promessi in vendita nel preliminare del 30‑6‑2005 e alle medesime condizioni contrattuali ivi previ‑ ste, ad eccezione della condizione sospensiva originariamente prevista. 3) Le prime due censure sono prive di fondamento. Secondo il costante orientamento di questa Corte, le parti, nella loro autonomia contrattuale, possono pattuire una con‑ dizione sospensiva (o risolutiva) nell’interesse esclusivo di uno soltanto dei contraenti, occorrendo al riguardo una espressa clausola o, quanto meno, una serie di elementi idonei ad in‑ durre il convincimento che si tratti di una condizione alla quale l’altra parte non abbia alcun interesse. Ne consegue che la parte contraente nel cui interesse è posta la condizione ha la facoltà di rinunziarvi sia prima che dopo l’avveramento o il non avveramento di essa, senza che la controparte possa co‑ munque ostacolarne la volontà (Cass. 15/11/2006 n. 24299; Cass. 27‑11‑1992 n. 12708; Cass. 23‑3‑1991 n. 3185; 20‑12‑1989 n. 5757; 15‑11‑1986 n. 6742; 6‑7‑1984 n. 3965). Nella specie la Corte di Appello, muovendo da tale prin‑ cipio, ha ricercato se la condizione risolutiva prevista nel contratto preliminare del 30‑6‑2005 (mancata rinuncia da parte di Fe. R. e f.r. al diritto di prelazione sull’immobile promesso in vendita, sorto in forza di contratto stipulato l’8/4/1974) fosse stata pattuita nell’esclusivo interesse del promittente acqui‑ rente, ed ha dato risposta negativa al quesito. A tale convincimento essa è pervenuta muovendo dal rilie‑ vo che la prelazione convenzionale non ha natura reale ma obbligatoria, e che il mancato rispetto dei diritto di prelazione non comporta la nullità degli atti compiuti e dei negozi posti in essere, ma da diritto soltanto al risarcimento del danno (cfr. c i v i l e Gazzetta F O R E N S E Cass. 18‑7‑2008 n. 19928); ed osservando, pertanto, che, nel caso in cui i prelazionari avessero inteso far valere il loro dirit‑ to dopo la stipula del contratto di vendita del bene, l’acquiren‑ te non avrebbe subito l’evizione, laddove le venditrici avrebbe‑ ro potuto subire l’azione per il risarcimento del danno. Si tratta di considerazioni ineccepibili, atteso che, essendo il patto di prelazione efficace e vincolante solo tra le parti contraenti, in caso di inosservanza il contraente che avrebbe dovuto essere preferito non può esercitare azione contro l’ac‑ quirente del bene, ma può solo agire per il risarcimento dei danni contro l’alienante, che è venuto meno agli accordi con‑ trattuali con lui stipulati. La decisione impugnata, pertanto, ha dato conto, con argomentazioni corrette sul piano logico e giuridico e come tali non sindacabili in sede di legittimità, dell’esistenza di un concreto interesse delle promittenti venditrici a non stipulare il contratto definitivo di compravendita in caso di mancata rinuncia, da parte dei terzi aventi diritto, al diritto di prela‑ zione sul bene promesso in vendita, per non vedersi esposte a possibili azioni risarcitorie da parte dei prelazionari; il che porta ad escludere in radice la validità dell’assunto del ricor‑ rente, secondo cui la condizione della mancata rinuncia al diritto di prelazione sarebbe stata apposta nell’esclusivo inte‑ resse del promittente venditore. Non sussistono, di conseguenza, i vizi denunciati dal ri‑ corrente, essendo al contrario evidente che quest’ultimo, at‑ traverso la formale prospettazione di violazione dei canoni legali di interpretazione contrattuale di cui all’art. 1362 c.c. e di vizi motivazionali, censura sostanzialmente il giudizio espresso dal giudice di appello circa il carattere non unilate‑ rale della condizione e intende ottenere al riguardo una nuova valutazione di merito, inammissibile in questa sede. Nè ricorre la dedotta violazione degli artt. 115 e 112 c.p.c., dovendosi rilevare, sotto il primo profilo, che la Corte di Appello ha posto a fondamento della decisione le prove docu‑ mentali ritualmente acquisite e, sotto il secondo, che il giudi‑ ce distrettuale non ha rilevato d’ufficio il carattere non uni‑ laterale della condizione apposta nel contratto preliminare del 30‑6‑2005, ma si è pronunciato sullo specifico motivo di gravame con cui l’appellante rimproverava al Tribunale di non aver considerato che la predetta condizione era stata prevista nell’esclusivo interesse dei promissario acquirente, e che quest’ultimo vi aveva rinunciato. 4) Una volta escluso che si tratti di condizione apposta nell’esclusivo interesse del promissario acquirente, restano assorbite le ulteriori doglianze mosse dal ricorrente, che pre‑ suppongono la natura unilaterale di tale condizione e, quindi, la possibilità di rinuncia alla stessa da parte del G. 5) Per le ragioni esposte il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese sostenute dal resistente nel presente grado di giudizio, liquidate come da dispositivo. (Omissis) Diritto e procedura penale I contenuti positivi della prevenzione speciale e il diritto all’educazione del minore autore di reato 75 Clelia Iasevoli Relazione introduttiva sull’incidenza delle fonti comunitarie e internazionali nel nostro ordinamento penale 80 Vittorio Ambrosio La nuova disciplina del falso in attestazioni e relazioni del professionista nella legge fallimentare 85 Federico Baffi I contrasti risolti dalle Sezioni unite penali 91 A cura di Angelo Pignatelli Rassegna di merito [ A cura di Alessandro Jazzetti e Andrea Alberico ] A cura di Alessandro Jazzetti e Giuseppina Marotta ] 95 98 penale Rassegna di legittimità [ Gazzetta F O R E N S E ● 2 0 1 2 75 ● Clelia Iasevoli Docente di Procedura penale Università di Napoli “Federico II” 1. Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato Nell’attuale contesto di trasformazione del tipo dei delitti compiuti dai minori, per non dire della metamorfosi sociale della criminalità, occorre interrogarsi sul rapporto tra diritto all’educazione, funzione della pena e struttura del processo minorile, premessa ineludibile per ogni ragionamento intorno alla procedura penale, non solo minorile1. Questa, infatti, vive una risalente stagione di crisi, diffusa su diversi livelli tra loro interferenti: dai problemi ordinamentali e di organizza‑ zione, ai temi più intimamente connessi agli assetti normativi della materia, invasa da un diritto giurisprudenziale che de‑ termina il cedimento di principi fondamentali del processo penale fino al giudicato, soprattutto quando si reputa ‘costret‑ ta’ ad eseguire le pronunce della Corte di Strasburgo2 . Ma vi è una ragione in più per affrontare il tema sul ver‑ sante specifico della devianza minorile, in quanto essa si presenta con caratteristiche di maggiore complessità rispetto a qualche anno addietro. Allora, lo schema mertoniano3offri‑ va esauriente criterio interpretativo, giacché la devianza gio‑ vanile trovava fondata spiegazione nel contrasto tra le mete prefigurate dalla struttura culturale e le reali opportunità che la struttura sociale offriva per il loro raggiungimento; si cir‑ coscriveva, così, ad aree marginali di classi inferiori. Ora si assiste ad un ampliamento, che potremmo definire interclassista perché coinvolge indistintamente i diversi ceti sociali e trae le sue matrici dal rifiuto più consapevole di mo‑ delli e regole sociali, che non hanno saputo offrire immagini rassicuranti sul piano economico, politico, culturale, lascian‑ do diffondere un senso di precarietà, a cui si è accompagnata una disaffezione verso le istituzioni4 . A fronte di questi tratti caratterizzanti il fenomeno, la ri‑ flessione si sposta sulle potenzialità strategiche della pena come integrazione sociale, prospettiva che ora va definita so‑ prattutto per i risvolti sul piano trattamentale del minore. Il Costituente scrive, in materia, una norma la cui origina‑ lità ed il cui ruolo promozionale furono apprezzati solo dopo che la parte più sensibile della dottrina italiana alla fine degli anni ‘60, ed in primo luogo Franco Bricola 5 , dimostrò la cen‑ 1 La complessità di tale rapporto è oggetto di una nostra analisi monografica, alla quale si rinvia per tutte le implicazioni sistematiche ad esso connesse, Dirit‑ to all’educazione e processo penale minorile, Napoli, 2012, passim. 2G. Riccio, La ‘nuova’ progettualità per far fronte alla crisi della giustizia, in Cass. pen., 2007, p. 4408; Idem, Itinerari culturali e premesse di metodo per la ‘riscoperta’ del modello processuale, in AA.VV., Verso la riscoperta di un mo‑ dello processuale, Milano, 2003 3 R. K. Merton, Teoria e struttura sociale, Bologna, 1971, p. 98. Secondo questo modello interpretativo della devianza è l’eccessiva condivisione di determinate mete sociali ovvero la massificazione in cui l’individuo si annulla ad incidere sulle scelte criminali. Si tratta del fenomeno della unidimensionalizzazione teo‑ rizzato da H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Torino, 1964. 4 S. Moccia, Riflessioni sulle implicazioni penalistiche della devianza giova‑ nile, in AA.VV., La tutela dei minori di cultura islamica nell’area mediterra‑ nea. Aspetti sociali, giuridici e medici, a cura di A. Cilardo, Napoli, 2011, p. 89 e ss. 5 F. Bricola, voce Teoria generale del reato, in Noviss. dig. it., vol. XIX, To‑ rino, 1973, p. 7 e ss; Idem, Riforma del processo penale e profili di diritto penale sostanziale, in Studi in memoria di Pietro Nuvolone, Milano, 1991, III, p. 55 e ss. penale Sommario: 1. Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. – 2. Il teologismo costituzionale sotteso al sistema penale integrato. – 3. Il diritto del minore al tratta‑ mento differenziato I contenuti positivi della prevenzione speciale e il diritto all’educazione del minore autore di reato l u g l i o • a g o s t o 76 D i r i t t o e p r o c e d u r a p e n a l e Gazzetta F O R E N S E tralità del contenuto del terzo comma dell’art. 27 Cost. Furo‑ no in tal modo superate le tante perplessità, che il testo aveva suscitato, specialmente in chi non si rassegnava ad accettare la scelta di rieducazione, continuando a coltivare antistoriche nostalgie di retribuzione o di prevenzione negativa. Si apriva così il percorso di deeticizzazionedella sanzione, in cui si rinviene la posizione speculativa che ricompone, in maniera dialettica, le antinomie tra gli scopi della pena, as‑ sumendo come criterio di prevalenza le tre fasi in cui si arti‑ cola la vicenda penale: in quella legislativa, la pena non può che perseguire la finalità di prevenzione generale; nelle altre due fasi, della commisurazione e dell’esecuzione, essa assolve alla funzione di prevenzione speciale rieducatrice 6 . In stretta continuità sul versante processualpenalistico7, si rintraccia l’impostazione di chi, cogliendo questa pluridimensionalità della pena, ne distingue la componente finalistica a seconda dei diversi momenti istituzionali della sua esistenza. Per tale ultima tesi, rispetto alla funzione legislativa, la pena realizza la prevenzione generale; quanto alla funzione giurisdizionale, la pena è garanzia di proporzione; relativamen‑ te alla funzione esecutiva si espande lo scopo rieducativo. Invero, la norma (art. 27 Cost. comma 3) apre a prospet‑ tive dommatiche e politico‑criminali, colte da chi8parte dalla premessa che in uno stato sociale di diritto il trattamento è diritto rieducativo riconosciuto a tutela del valore di sintesi della persona e comporta «l’effettiva integrazione del sogget‑ to, da ottenersi tramite la realizzazione di un programma di (re)inserimento basato sul training sociale, sull’emancipazione individuale». La proiezione finalistica, qui evocata, non si esaurisce all’interno dell’area della fase esecutiva della sanzio‑ ne, ma va oltre; perché la rieducazione è un connotato di es‑ senza della sanzione, che condiziona l’esistenza della fattispe‑ cie astratta al momento della concreta estinzione. Insomma, l’ampio raggio d’azione del principio di cui all’art. 27 comma 3 Cost. non esclude il versante della struttura del reato. Ne di‑ scendono due implicazioni 9: a) nella selezione delle fattispecie sanzionatorie il legislatore deve aver valutato a priori l’idonei‑ tà delle stesse ad attuare un «trattamento personalizzato non desocializzante»; b) le modalità esecutive sono strumentali alla concreta attuazione della personalizzazione del tratta‑ mento punitivo. L’opzione di politica criminale si muove in termini di prevenzione; ma si osserva che la prevenzione speciale mani‑ festa il suo aspetto negativo come neutralizzazione dell’indi‑ viduo e l’aspetto positivo come recupero sociale, da attuarsi essenzialmente in libertà, attraverso una terapia sociale eman‑ cipante – scelta con il consenso del reo –, essendo palese che non vi possa essere risocializzazione senza il rispetto della persona, senza la manifestazione di volontà di aderire ad un programma di rieducazione. Ed anche per il giovane disadattato o deviante va appron‑ tata una strategia di socializzazione che si preoccupi di forni‑ re gli aiuti necessari per l’attivazione del senso di responsabi‑ lità e per il raggiungimento della piena capacità di autodeter‑ minarsi10 ; a maggior ragione per il minore la funzione della pena deve porre al centro delle scelte di politica criminale il rispetto della libertà e della dignità della persona. Da ciò deriva l’accentuazione della giurisdizionalizzazione degli interventi per garantire quanto più possibile la posizione giuridica del minore e per attivare il suo senso di responsabi‑ lità11; da altro lato, la ricerca e la sperimentazione in libertà di strategie di recupero sono affidate agli enti locali che pos‑ sono proficuamente adattare i processi d’intervento alle strutture realmente presenti, impiegando in maniera ottimale i mezzi a disposizione. Questo significa privilegiare la funzio‑ ne specialpreventiva nel trattamento penale del minore. 2. Il teologismo costituzionale sotteso al sistema penale integrato Sul terreno metodico‑sistematico, l’individuazione dei contenuti “socializzanti” coinvolge, nella vicenda interpreta‑ tiva, i principi costituzionali dello stato di diritto – e, quindi, gli artt. 2, 3 comma 1, 19, 21 Cost., sintesi della garanzia della dignità della persona – ma anche quelli dello stato so‑ ciale – scritti negli artt. 3 comma 2, 4, 32, 34 Cost. –; tutti insieme e da diverse angolazioni, essi garantiscono lo sviluppo della personalità in una prospettiva di solidarietà12 , concor‑ rendo a costruire il concetto di rieducazione di cui all’art. 27 comma 3 Cost. e a delinearne l’ambito operativo, specifica‑ mente utilizzabile in materia minorile. Il quadro normativo si arricchisce del riferimento alla fondamentale esigenza della proporzione, nel significato di limite garantisco all’interno del rapporto tra responsabilità e misura della sanzione; si tratta di un elemento guida per il legislatore nel momento della posizione della norma e per il giudice nel momento della determinazione della pena: l’ag‑ gancio normativo è offerto attraverso un’ermeneutica elemen‑ tare, dall’art. 3 Cost., in materia di uguaglianza. Lo stesso quadro normativo qualifica il “tendere” di cui all’art. 27 comma 3 Cost. seconda proposizione, come guida delle ‘operazioni’ necessarie a realizzare lo scopo della pena genericamente riferibile alla risocializzazione. Il concetto di “rieducazione”, come è noto, è accompagna‑ to da significati molto differenziati e, talvolta, incompatibili con un assetto normativo da stato sociale di diritto13 . Ad esempio, appare certamente inaccettabile il tradizio‑ nale significato di “emenda morale”, perché limita la prospet‑ tiva di recupero sociale. Convince, perciò, l’orientamento metodologico che si af‑ fida al sistema della nostra Carta costituzionale. Esso, per un verso, evita che attraverso gli organi della giustizia statale si legittimino scopi trascendenti la mera adesione ai principi che essa pone e, segnatamente, concezioni etiche, la cui accetta‑ 6 G. Fiandaca, Art. 27 comma 3 e 4, in AA.VV., Commentario della Costituzio‑ ne, a cura di G. Branca‑A. Pizzorusso, Bologna‑Roma, 1991, p. 263. 7 G. Riccio, voce Responsabilità penale, in Enc. giur. Treccani, agg., Roma, 1994, p. 25‑26 8 S. Moccia, Il diritto penale tra essere e valore, Funzione della pena e sistema‑ tica teleologica, Napoli, 2006, p. 101 e ss. 9 L’espressione è di G. Fiandaca, Art. 27 comma 3 Cost., in AA.VV., Commen‑ tario alla Costituzione, cit., p. 275. 10 M. Leonardi, Le cause e i processi della devianza minorile, in AA. VV., La giustizia penale minorile: formazione, devianza, diritto e processo, a cura di A. Pennisi, Milano, 2004, p. 64. 11 Cfr. Larizza S. , Bisogno di punizione o bisogno di educazione? Il perenne dilemma della giustizia minorile, in Cass. pen., 2006, p. 2975 e ss. 12In tal senso, S. Moccia, Il diritto penale tra essere e valore, cit., p.104. 13Sul punto si vedano le magistrali indicazioni di G. Vassalli, Il dibattito sulla rieducazione, in Rass. penit. e crim., 1982, p. 437 e ss. F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o 2 0 1 2 77 zione dovrebbe esser legata a scelte, per definizione, comple‑ tamente libere, non potendo esse dipendere dal sistema di coazione della sanzione penale; per altro verso, esso riconosce alla pena il compito di offrire al reo la possibilità di orientare la propria esistenza nel senso del rispetto di quella altrui. Ciò non può significare il perseguimento di un adattamen‑ to coattivo verso modelli comportamentali eteronomi; non può giustificare il tentativo di indebite manipolazioni della personalità; né deve operare un cambiamento ab externo dell’identità individuale. Piuttosto, con tutte le garanzie dello stato sociale di diritto, si deve favorire un’effettiva integrazio‑ ne del soggetto, da ottenersi tramite la realizzazione di un programma di (re)inserimento basato sul training sociale, sull’emancipazione individuale e, quindi, attraverso la realiz‑ zazione di forme efficaci di sostegno socio‑culturale. Tutto ciò implica la sperimentazione quanto più ampia possibile di modalità ‘extraistituzionali’ di esecuzione della sanzione. Peraltro, il “trattamento” non può imporsi coattivamente: non sul piano della legittimità per il rispetto della dignità e dell’autonomia individuale; non sul piano dell’efficacia perché l’imposizione ne minerebbe la riuscita, per la quale è indispen‑ sabile la volontaria ed attiva adesione del soggetto. In una situazione del genere, un diritto penale che si faccia carico dell’osservanza dei diritti costituzionali per la tutela della persona non può reagire con risposte sanzionatorie ri‑ goristiche di tipo afflittivo‑deterrenti, ma solo cercando di realizzare le condizioni per elidere la desocializzazione, oggi, normalmente connesse all’internamento in un’istituzione di tipo custodiale. In questo contesto, ancora in linea generale, non può non considerarsi che il punto focale della questione riguarda l’in‑ dividuazione concreta del singolo trattamento di recupero e le sue effettive modalità applicative; ma il tema tocca alla radice l’attuale sistema sanzionatorio, prima ancora che le modalità del trattamento penitenziario; il che ha ancor più significato per le vicende processuali e per gli strumenti per il trattamento dei minori. Sul primo punto, viene diffusamente riconosciuto l’indi‑ scutibile inefficacia della sanzione penale, così come è usual‑ mente strutturata nella specie della pena detentiva, con il consueto corollario di disumanità, che connota il più delle volte la sua esecuzione. In altri termini, il sistema resta esclu‑ sivo, non inclusivo, sostenuto, come è, da una prevenzione speciale negativa, che genera i luoghi per l’esclusione; siamo ancora a quei tempi, stando alla dichiarata disumanità della sanzione penale, e non solo sul piano formale del rispetto del progetto costituzionale, nonostante i lunghi passi della Storia verso il riconoscimento dei diritti della persona. L’ordinamento del nostro Paese contiene i presupposti normativi – forse non i connotati effettuali – per realizzare in positivo lo scopo risocializzante della pena; sembra, cioè, che possano essere legittimamente perseguiti gli scopi positivi della prevenzione, costituiti dal rafforzamento della coscien‑ za sociale intorno ai suoi valori basici. In materia, v’è chi14 rimarca la profonda differenza tra la ben articolata e complessa disciplina costituzionale italiana, da una parte, e la semplicistica, inappagante soluzione “dis‑ suasiva” che caratterizza la normativa europea nel rispetto di fondamentali prerogative individuali. Si riconosce, cioè, che il silenzio dei Trattati e delle stesse Carte europee dei diritti sulla funzione della pena non rap‑ presenta solo la mancanza di un referente teleologico vinco‑ lante, essenziale per la costruzione dell’intero sistema degli interventi penali europei; si riconosce, cioè, che le prescrizio‑ ni relative alla necessaria “non sproporzione” della pena ri‑ spetto al reato (di cui all’art. 49 comma 3 della Carta dei di‑ ritti fondamentali dell’Unione) ed al divieto di trattamenti inumani o degradanti (di cui agli artt. 3 Cedue 4 Carta dei diritti) siano compatibili, in astratto, con la teoria retributiva e con la prevenzione speciale. E ciò per chi reputa che la pro‑ porzione tra pena e reato possa essere interpretata, anche, considerando il dato – centrale – della pericolosità soggettiva dell’autore del reato, rispetto alla quale la “pena” può atteg‑ giarsi come forma deterrente e/o neutralizzante. In questi diversi parametri normativi manca il riferimento alla funzione rieducativa della pena, intesa quale offerta di reinserimento sociale, che costituisce la pietra angolare di un sistema penale, corrispondente ai principi personalistici e solidaristici della nostra Costituzione. Peraltro, tale ‘vuoto dei fini’ha aperto alla giurisprudenza della Corte di giustizia ed al diritto secondario dell’Unione – anche a decisioni quadro ed a direttive in materia pena‑ le – un inaccettabile spazio di ‘supplenza’, entro cui ha avuto luogo l’imposizione agli Stati membri di obblighi di crimina‑ lizzazione relativi a sanzioni penali, non solo efficaci e pro‑ porzionate, ma anche “dissuasive”15. 14 S. Moccia, Funzioni della pena ed implicazioni sistematiche: tra fonti europee e Costituzione italiana, in Dir. pen. proc., 2012, p. 921 15 S. Moccia, Funzioni della pena ed implicazioni sistematiche: tra fonti europee e Costituzione italia, cit. 3. Il diritto del minore al trattamento differenziato In questo contesto si inserisce l’osservazione della specifi‑ ca vicenda minorile; che trova nella peculiarità del rapporto con la persona e con i diritti di cui è portatore le ragioni della specializzazione sia sul profilo sostanziale che processuale. Rispetto alla seconda vicenda le linee programmatiche su cui il legislatore risolve problemi strategici per la tutela di diritti del minore nel processo, i punti di orientamento della filosofia specializzante si aggregano sulla indispensabilità dell’ osservazione del minore ai fini del trattamento proces‑ sale e sulla necessità di includere nel processo strumenti di tutela dei suoi diritti. Chiariamo. Il raggiunto ordine logico non elide il potere discrezionale del legislatore di differenziare le situazioni che scandiscono i tempi dello scopo della pena; ciò che accade nella giurisdizione minorile si realizza in nome di quei diritti del minore. Una volta accertata la responsabilità, si anticipa nel processo il progetto di integrazione sociale, certo, non con strumenti clemenziali incompatibili con la filosofia del rap‑ porto processo‑pena. Per tale evenienza il legislatore sceglie una “strategia” idonea a ridurre i danni del processo rispetto allo sviluppo della persona, arricchendolo di strumenti di recupero endoprocessuale. I contenuti positivi della prevenzione speciale divengono il referente assiologico dell’azione di tutela del minore autore penale Gazzetta 78 D i r i t t o e p r o c e d u r a di reato, affidata alla giurisdizione, in tal modo riducendo i rischi di una condanna pregiudizievole al completamento della personalità, allo stato deviata. Non vanno mai confuse, però, la pienezza dei diritti pro‑ cedurali dei minori e le legittime esigenze dell’accertamento con le soluzioni strategicamente orientate al recupero del giovane disadattato. Nella vicenda di cui trattiamo, la sostan‑ za penale acquista diversa natura, mettendo il trattamento del minore al primo posto della scala dei valori in gioco nel siste‑ ma punitivo, quando la giurisdizione ne accerti la responsa‑ bilità, non potendo, questa, muoversi al di fuori dei paradig‑ mi del giusto processo; essi sono imposti anche ai magistrati laici che coadiuvano i togati nell’esercizio della funzione giu‑ risdizionale, proprio per assicurare le conoscenze “tecniche”, necessarie all’osservazione della personalità ed alla individua‑ zione della meritevolezza del trattamento e dei modi del suo esercizio. Lo scopo del processo rimane l’accertamento del fatto. Su questo diverso modo di considerare il sistema penale quando si tratta di un soggetto minorenne vi sono tracce sempre più significative all’interno della giurisprudenza della Corte costituzionale16 , secondo cui la capacità di intendere e di volere del minore tra i quattordici e i diciotto anni – e cioè la sua imputabilità (art. 98 c.p.) – deve essere verificata caso per caso, in relazione al momento in cui è stato commesso il fatto. In secondo luogo, il largo ricorso alla sospensione condi‑ zionale della pena ed al perdono giudiziale nell’ambito della giustizia minorile conferma, non soltanto la tendenza genera‑ le a considerare come ultima ratioil ricorso all’istituzione carceraria, ma sottolinea con forza la necessità di valutazioni del giudice fondate su prognosi individualizzate in ordine alle prospettive di recupero del minore deviante. In sintesi, l’ordinamento italiano non si è ispirato ad un generico favor per i minori, ma, sul fondamento del disposto di cui all’art. 31 ult. comma Cost.17, ha provveduto (in parti‑ colare con la l. 25 luglio 1956 n. 888) a sviluppare istituti e servizi che dovrebbero rendere residuale l’internamento dei minori nei riformatori giudiziari e nelle prigioni scuola. Ciò non comporta alcuna sottovalutazione della pericolosità e gravità del fenomeno della delinquenza minorile: ma significa solamente che non si intende lasciare intentata alcuna possi‑ bilità di recupero di soggetti, non ancora del tutto maturi dal punto di vista fisio‑psichico. Questa ordinata scansione ‘fasica’ – che esalta i compiti delle diverse istituzioni coinvolte nella vicenda – è scomposta per la giurisdizione minorile, ove prevalgono i bisogni di evi‑ tare che il processo penale costituisca causa di interruzione dell’iter di formazione della personalità del minore. Di conse‑ guenza, si modificano, strutturalmente, le linee politiche su cui costruire l’ordinata successione degli eventi: rimosso il divieto di osservazione della persona – ritenuto un pericoloso sintomo di trasformazione del diritto penale del fatto in dirit‑ to penale dell’autore – il legislatore segue linee strategiche idonee al fine innanzi individuato, recuperando nel processo 16 Corte cost., sent. del 20 aprile 1978, n. 46, cit. 17 Art. 31 ult. comma Cost. secondo cui la Repubblica “protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo”. p e n a l e Gazzetta F O R E N S E strumenti del trattamento sanzionatorio sotto forma di so‑ spensione del giudizio per consentire al minore l’orientato ‘ravvedimento’: la messa alla prova (art. 28 d.P.R. n. 448 del 1988) è la macroscopica esemplificazione di questa strategia. In particolare all’interno dell’assetto delineato dalla giu‑ risprudenza costituzionale18 si origina il diritto al trattamen‑ to differenziato del minore; lungo questo percorso il giudice delle leggi perviene, con una costante metodica di intervento, al superamento della regola transitoria dell’estensione ai mi‑ nori dell’ordinamento penitenziario previsto per gli adulti (art. 79 della l. 26 luglio 1975, n. 354), non essendo stata emanata ad oggi la disciplina diversificata. Interrogarsi sui significati politici sottesi a questo inspie‑ gabile ritardo del Parlamento19, non appare immediatamente utile; non lo è, invece, l’osservazione euristica della funzione supplente svolta dalla Corte costituzionale. L’antinomia tra provvisorietà della soluzione di tutela e contenuti del diritto all’educazione ha rafforzato l’attività di ricostruzione ermeneutica del giudice delle leggi 20 , che ha sopperito negli anni all’atteggiamento rinunciatario del legi‑ slatore con decisioni di accoglimento o con sentenze additive, ma anche con interpretative di rigetto, nelle quali ha scritto le ragioni costituzionali del trattamento diversificato21. Ebbene, a questa giurisprudenza va riconosciuto il merito di aver diffuso la cultura della specializzazione del giudice minorile, quale situazione strumentale al recupero del mino‑ re deviante e al suo reinserimento sociale; ed in questa pro‑ spettiva è stata evidenziata in maniera costante l’inadeguatez‑ za delle disposizioni 22 , descrivendo il filo conduttore di un preciso indirizzo normativo‑assiologico e di metodo. Dunque, non è un caso che, all’interno della disarmonia tra principi costituzionali e regole di trattamento penitenziario, l’azione della Corte si è spinta a privilegiare decisamente le esigenze di non desocializzazione del minore autore di reato. Con queste decise posizioni, ma forse ancora con ‘incerta coscienza’, la Corte privilegiava i contenuti della funzione specialpreventivapositiva nel trattamento penale del minore, e con ciò senza mettere in discussione il fatto che scopo del processo penale è l’ accertamento del fatto e della responsa‑ bilità dell’imputato, anche se minore23 . 18 Corte cost. sent. 22 maggio 1987, n. 206, in Cass. pen., 1987, p. 2085; Corte cost.,, sent. 15 luglio 1983, n. 222, in Giur. cost, 1983, p. 1319. Cfr. S. Lariz‑ za, I principi costituzionali della giustizia penale minorile, in La giustizia pe‑ nale minorile: formazione, devianza, diritto e processo, a cura di A. Pennisi, Milano, 2004, p. 93 e ss. Per una ricognizione generale dell’art. 31 Cost., si vedano L. Cassetti, Art. 31, in Commentario alla Costituzione, cit., pp. 640‑654; C. Bergonzini, Art. 31, in Commentario breve alla Costituzione, a cura di S. Bartole, R. Bin, Padova, 2008, pp. 318‑321. 19 P. De Martino, Riflessioni su alcune proposte de iure condendo in tema di esecuzione penale minorile, in Cass. pen., 2011, p. 3183. 20 Cfr., ad esempio, Corte Cost., sent. 15 luglio 1983, n. 222, cit., e Corte cost., sent. 22 maggio 1987, n. 206 cit. 21 S. Ruggeri, La disciplina penitenziaria, in AA. VV., La giurisdizione specializ‑ zata nella giustizia penale minorile, cit., p. 241. Per una disamina della dispo‑ sizione in esame, cfr. G. La Greca, Commento all’art. 79, in Ordinamento penitenziario, a cura di G. Grevi, G. Giostra, F. Della Casa, III, Padova, 2006, p. 1082. 22 G. Giostra, Prime riflessioni intorno ad uno Statuto europeo dell’imputato minorenne, in AA. VV., Per uno Statuto europeo dell’imputato minorenne, cit., p. 13. 23 Cfr., M. G.Coppetta, Spunti per uno Statuto europeo del condannato mino‑ renne, in AA.VV., L’esecuzione penitenziaria a carico del minorenne nelle carte internazionali e nell’ordinamento italiano, cit., p. 145. F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o La linea metodologica segna la giurisdizionalizzazione del diritto, consegnando lo sviluppo del fenomeno al giudice del caso, dal momento che è la forza dirompente del caso a dero‑ gare la legge. In buona sostanza, la Corte dominava e domina dall’alto il consolidarsi del diritto giurisprudenziale, muovendo dalla consapevolezza che la rieducazione non può avere lo stesso contenuto positivo per tutti i consociati. La convinzione era, ed è, che il principio di uguaglianza implica l’individualizzazione del trattamento rieducativo rapportata alle condizioni personali (art. 3 comma 1 Cost.) e socio‑economiche (art. 3 comma 2 Cost.) di ciascun condan‑ nato: esso stesso, dunque, contiene il carattere ontologicamen‑ te diversificante del trattamento24 . Tuttavia ed in termini generali, ciò impone la costatazione che la funzione della pena è in grado di condizionare la strut‑ tura e le forme della giurisdizione penale minorile. Dunque, l’attività di codificazione della fase dell’esecuzio‑ ne della pena nei confronti del minore non è più rinviabile, e non soltanto per raccogliere i moniti della Corte costituzio‑ nale. È necessario dare seguito alla Raccomandazione (08) 11 sulle “Regole europee relative ai minori oggetto di sanzioni o misure conseguenti ad una violazione della legge penale”, approvata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa 25 24In argomento, M. G. Coppetta, L’esecuzione della pena detentiva: il trattamen‑ to intra moenia e le misure alternative, in AA. VV., L’esecuzione penitenziaria a carico del minorenne nelle carte internazionali e nell’ordinamento italiano, cit., p. 251. 25 Da un punto di vista formale, la raccomandazione (08) 11 è un corpus di dirit‑ to penitenziario minorile che si compone di 142 articoli ed è suddivisa in otto parti: (I) Principi basilari, campo di applicazione e definizioni; (II) Sanzioni e misure; (III) Privazione della libertà personale; (IV) Consulenza legale ed assi‑ stenza; (V) Procedure di reclamo. Ispezione e controllo; (VI) Personale; (VII) Valutazione, ricerca, lavoro con i media e il pubblico; (VIII) Aggiornamento normativo. Nel catalogo delle garanzie proprie del diritto penitenziario minorile, non mancano il riferimento all’osservanza dei diritti umani e alla legalità che deve 2 0 1 2 79 proprio in considerazione della sua natura, essendo essa rite‑ nuta atto prevalentemente politico, privo di efficacia diretta, e non potendo essere classificata come norma interposta ri‑ spetto all’art. 117 comma 1 Cost. È appena il caso di notare che se per noi l’ostacolo potreb‑ be essere aggirato dalla prevalente forza del principio di di‑ versificazione, la cui fonte è costituita dalla linea costituzio‑ nale tracciata dagli artt. 2, 3, 29, 30, 31, 32, 34 Cost., la praticabilità di una giustizia minorile che voglia esprimere le potenzialità insite nell’ordinamento deve misurarsi necessa‑ riamente con gli obblighi pattizi a cui è tenuta l’Italia 26 . permeare l’intera fase esecutiva (principio di riserva di legge), la quale a sua volta deve essere sottoposta al controllo di un organo giurisdizionale (principio di riserva di giurisdizione). 26 M. L. Fiorillo, Un ordinamento penitenziario per i minori, in Min. giust., 2008, p. 135. penale Gazzetta 80 D i r i t t o ● Relazione introduttiva sull’incidenza delle fonti comunitarie e internazionali nel nostro ordinamento penale ● Vittorio Ambrosio Avvocato e p r o c e d u r a p e n a l e Gazzetta F O R E N S E Sommario: 1. Premessa di natura storica; 2. Gli effetti che producono le fonti degli ordinamenti sovranazionali sul diritto interno; 3. I rapporti conflittuali tra le fonti comuni‑ tarie e il diritto penale; 4. I rapporti conflittuali tra la CEDU e il diritto penale; 5. Conclusioni: gli obiettivi della rivista 1. Premessa di natura storica Nell’odierna realtà socio‑economica l’abbattimento globa‑ le delle barriere fra stati genera un avvicinamento di ordine culturale tra le diverse popolazioni foriero di una progressiva omogeneizzazione delle regole comuni. Se è vero che ha ancora cogenza il principio “ubi societas ibi ius” non si può non evidenziare che per effetto della realiz‑ zazione di questo nuovo spazio territoriale comune sia nata l’esigenza di creare un nuovo ordinamento giuridico teleologi‑ camente orientato alla definizione di regole idonee a garantire la pacifica convivenza civile. Esperimenti di questo genere sono noti al contesto inter‑ nazionale, nati soprattutto sulle macerie dei conflitti mondia‑ li in cui la restaurazione dell’ordine sociale negli stati bellige‑ ranti si è avuta grazie alla creazione di organismi internazio‑ nali aventi come scopo precipuo quello di mantenere solidi i rapporti fra stati. Lo stato italiano, nell’immediato dopoguerra, di concerto con le più grandi potenze europee, ha partecipato alla stipu‑ lazione di trattati diretti a creare organismi sovranazionali dotati a loro volta di organi capaci di effettuare ingerenze sui principi di sovranità nazionale. Un primo riferimento storico si rinviene nella stipulazione della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo (CEDU). Tale Carta nasce con lo scopo principe di tutelare a livello internazionale i diritti fondamentali dell’uomo, oltremodo calpestati durante il secondo conflitto mondiale attraverso la perpetrazione di trattamenti disumani atti a distruggere la dignità fisica e morale dell’individuo. La grande novità della Convenzione si rinviene nella crea‑ zione della Corte EDU, organo giurisdizionale finalizzato ad assicurare che i diritti tutelati vengano effettivamente rispet‑ tati dagli stati paciscenti. Oltre alla CEDU l’Italia, al fine di rafforzare la coopera‑ zione economica tra stati che si erano confrontati nelle due guerre mondiali, prende parte alla nascita della Comunità Europea per realizzare il tanto agognato “mercato comune” nel territorio europeo, garantendo in questo modo la libera circolazione delle persone, dei beni, dei servizi e dei capitali. 2. Gli effetti che producono le fonti degli ordinamenti sovranazio‑ nali sul diritto interno Poste queste essenziali premesse sulle ragioni che hanno spinto lo Stato italiano ad aderire ad organizzazioni interna‑ zionali è necessario soffermarsi sulla natura di tali ordinamen‑ ti e sugli effetti che hanno gli atti di questi organismi all’inter‑ no dell’ordinamento nazionale. Tale aspetto problematico assume nel moderno contesto giuridico un rilievo tutt’altro che marginale, stante l’inevita‑ bile bisogno dell’operatore del diritto di “dotarsi” di strumen‑ ti di conoscenza tesi a presentargli un quadro completo delle normative nazionali e sovranazionali che investono la fattispe‑ cie concreta sottoposta al suo esame. Procedendo per gradi, bisogna sottolineare che il nostro F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o ordinamento costituzionale è influenzato dalle fonti norma‑ tive che derivano dal diritto comunitario e dalla CEDU, te‑ nendo conto anche delle interpretazioni di essi offerte dagli organi giurisdizionali incaricati della loro applicazione ed interpretazione. Invero, la nostra carta costituzionale, come risulta dal combinato disposto degli artt. 10, 11 e 117, consente che lo stato italiano, a condizioni di reciprocità con gli altri stati, ceda la propria sovranità per esercitare la potestà legislativa nel rispetto dei vincoli del diritto comunitario e degli obblighi internazionali. Ne discende come logico corollario che il diritto comunita‑ rio e la CEDU esplicano nel nostro ordinamento un’efficacia diretta a sovvertire la normale gerarchia delle fonti normative. Per quanto riguarda il diritto comunitario, oggi si ritiene pacificamente, alla luce dell’evoluzione della giurisprudenza costituzionale culminante nella celeberrima sentenza Granital, che i rapporti tra ordinamento nazionale e ordinamento co‑ munitario siano retti dal cd. principio del primato del diritto comunitario, in forza del quale la norma interna contrastante con il diritto comunitario direttamente applicabile deve essere disapplicata sia dal giudice nazionale che dalla p.a. In ossequio a tale principio, si è arrivati alla conclusione di considerare le direttive non trasposte come fonti comuni‑ tarie che, a determinate condizioni, possono produrre effetti diretti. In primo luogo, si ritengono immediatamente applicabili quelle direttive, o meglio, quelle parti di direttive, che preve‑ dono un obbligo negativo in capo ai destinatari di non tenere un dato comportamento, trattandosi all’evidenza di norme che non necessitano di intermediazione, per cui gli interessa‑ ti possono invocarne il rispetto anche se la direttiva nel suo complesso sia priva di efficacia diretta. In secondo luogo, si riconoscono effetti diretti a quelli direttive che, prive di carattere innovativo, si limitano a con‑ fermare la portata di norme già previste dal Trattato istituti‑ vo della Comunità europea. In ultimo, si ritiene che possano essere portate immedia‑ tamente ad esecuzione, una volta spirato infruttuosamente il termine assegnato all’autorità nazionale per la loro attuazio‑ ne, tutte quelle direttive che, tradendo la loro indole fisiolo‑ gicamente incompleta, a) prevedono obblighi aventi un con‑ tenuto sufficientemente chiaro e preciso, tale da non lasciare margine di discrezionalità agli Stati; b) abbiano carattere in‑ condizionato, tale cioè da non richiede l’adozione di ulteriori atti; c) creino diritti a favore dei singoli chiaramente indivi‑ duabili nel loro contenuto. Ricorrendo tali condizioni, la direttiva (self‑executing) dovrà essere applicata direttamente dal giudice nazionale e lo Stato inadempiente non potrà prendere a pretesto la mancata attuazione della direttiva al fine di disconoscere le posizioni dalla stessa compitamente conferite, visto che l’effetto utile e il carattere vincolante delle norme in esame verrebbero tra‑ volti ove si desse al singolo Stato la possibilità di vanificare con un colpevole comportamento omissivo gli effetti di un direttiva dettagliata. In ordine agli effetti diretti delle direttive, la Corte di Giustizia ha avuto cura di chiarire che le norme comunitarie in esame possono produrre effetti diretti solo in senso verti‑ cale, non anche in senso orizzontale. Ciò significa che le di‑ 2 0 1 2 81 sposizioni di una direttiva non attuata (o non fedelmente trasposta) possono essere fatte valere dati privati solo nei confronti dello Stato inadempiente. Va, peraltro, precisato che ai fini dell’efficacia verticale della direttiva, il concetto di Stato viene inteso in senso ampio, come sinonimo di ammini‑ strazione pubblica, comprensivo, quindi, anche di enti non statali e, segnatamente, degli enti territoriali. È stata, inoltre, riconosciuta la possibilità di far valere la direttiva anche nei confronti di soggetti privati, laddove gli stessi risultino inve‑ stiti di funzioni pubblicistiche. In particolare, la Corte estende l’efficacia verticale ad ogni organismo che sia stato incaricato, con atto della pubblica autorità, di prestare, sotto il controllo di quest’ultimo, un servizio di interesse pubblico e che dispone a tale effetto di poteri esorbitanti rispetto alle regole applicabili nei rapporti tra privati” (Corte di Giustizia, 12 luglio 1990, Foster, in causa 188/89). La giurisprudenza comunitaria esclude, invece, con net‑ tezza l’efficacia orizzontale della direttiva, ovvero la possibi‑ lità per il singolo di far valere la direttiva, azionando i diritti dalla stessa attribuiti, nei confronti di altri soggetti privati. Diverso è il discorso da fare in relazione alla CEDU poiché essa si ascrive tra le fonti di natura di natura internazionale che, a differenza del TUE, non determina una cessione della sovranità nazionale. Ciononostante, non si può negare che negli ultimi decen‑ ni anche il diritto sovranazionale ha raggiunto una vis per‑ suasiva nel nostro ordinamento. Infatti, per effetto della ri‑ forma del titolo V avvenuta con legge costituzionale n. 3/2001, è stato introdotto un ulteriore limite alla potestà legislativa dello stato la quale, in ossequio al disposto dell’art. 117 cost., si esercita in conformità con la costituzione, il diritto comu‑ nitario e gli obblighi di natura internazionale. Il problema del rispetto degli obblighi internazionali nel nostro ordinamento si è posto soprattutto in relazione alla CEDU. La compiuta definizione dei rapporti CEDU – diritto in‑ terno è cristallizzata nelle magistrali sentenze gemelle della Corte Costituzionale n. 348 e 349 del 2007, le quali afferma‑ no in maniera apodittica che: “l’art. 117, primo comma, Cost., ed in particolare l’espressione “obblighi internaziona‑ li” in esso contenuta, si riferisce alle norme internazionali convenzionali anche diverse da quelle comprese nella previ‑ sione degli artt. 10 e 11 Cost. Così interpretato, l’art. 117, primo comma, Cost., ha colmato la lacuna prima esistente quanto alle norme che a livello costituzionale garantiscono l’osservanza degli obblighi internazionali pattizi. La conse‑ guenza è che il contrasto di una norma nazionale con una norma convenzionale, in particolare della CEDU, si traduce in una violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. Questa Corte ha, inoltre, precisato nelle predette pronunce che al giudice nazionale, in quanto giudice comune della Conven‑ zione, spetta il compito di applicare le relative norme, nell’in‑ terpretazione offertane dalla Corte di Strasburgo, alla quale questa competenza è stata espressamente attribuita dagli Stati contraenti. Nel caso in cui si profili un contrasto tra una norma interna e una norma della Convenzione europea, il giudice nazionale comune deve, pertanto, procedere ad una interpretazione della prima conforme a quella convenziona‑ le, fino a dove ciò sia consentito dal testo delle disposizioni penale Gazzetta 82 D i r i t t o e p r o c e d u r a a confronto e avvalendosi di tutti i normali strumenti di er‑ meneutica giuridica. … Solo quando ritiene che non sia possibile comporre il con‑ trasto in via interpretativa, il giudice comune, il quale non può procedere all’applicazione della norma della CEDU (allo stato, a differenza di quella comunitaria provvista di effetto diretto) in luogo di quella interna contrastante, tanto meno fare appli‑ cazione di una norma interna che egli stesso abbia ritenuto in contrasto con la CEDU, e pertanto con la Costituzione, deve sollevare la questione di costituzionalità (anche sentenza n. 239 del 2009), con riferimento al parametro dell’art. 117, primo comma, Cost., ovvero anche dell’art. 10, primo comma, Cost., ove si tratti di una norma convenzionale ricognitiva di una norma del diritto internazionale generalmente riconosciuta. La clausola del necessario rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali, dettata dall’art. 117, primo comma, Cost., attraverso un meccanismo di rinvio mobile del diritto interno alle norme internazionali pattizie di volta in volta ri‑ levanti, impone infatti il controllo di costituzionalità, qualora il giudice comune ritenga lo strumento dell’interpretazione insufficiente ad eliminare il contrasto”. 3. I rapporti conflittuali tra le fonti comunitarie e il diritto penale Le questioni problematiche si acuiscono quando le fonti sovranazionali interferiscono con il diritto penale. In relazione al diritto comunitario si ritiene che esso non possa avere effetti in malam partem nella materia penale poiché, in base al principio di attribuzione, agli organi comu‑ nitari non sono attribuite competenze dirette in materie pe‑ nali. Invero, la giurisprudenza della Corte di Giustizia è granitica nel ritenere che: “Una direttiva comunitaria non può avere come effetto, di per sé e indipendentemente da una legge interna di uno Stato membro adottata per la sua attua‑ zione, di determinare o aggravare la responsabilità penale degli imputati in un procedimento penale nazionale (nella specie, la Corte ha ritenuto che la prima direttiva sul diritto societario non potesse pertanto essere invocata, nella parte in cui impone di prevedere sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive per le false comunicazioni sociali, al fine di farne discendere l’illegittimità delle disposizioni penali in materia di società e di consorzi del d.lgs. 11 aprile 2002 n. 61, che impedirebbero di perseguire penalmente le fattispecie delit‑ tuose così come ridisciplinate)”. In disparte l’operatività del principio di attribuzione, l’argomento principe in base al quale si esclude la possibilità da parte delle fonti comunitarie di incidere sulle scelte di politica criminale è l’imperatività del principio costituzionale della riserva di legge ex art 25 Cost. La ratio di tale ultimo principio è stata da sempre rinve‑ nuta nell’esigenza di garantire la massima ponderazione delle scelte legislative in tema di descrizione dell’area del penalmen‑ te rilevante. Per questi motivi si è sempre riconosciuta un’esclusiva competenza legislativa in materia penale in capo al parlamento quale unico organo abilitato ad attuare scelte politico criminali idonee ad imporre la repressione di fatti contrari al sentire sociale della nazione. È stato evidenziato che il procedimento legislativo previsto dagli artt. 70 ‑ 74 Cost. è in grado di garantire la dialettica democratica tra le diverse forze politiche che rappresentano il popolo e la tutela delle minoranze culturali. p e n a l e Gazzetta F O R E N S E La riserva di legge tutela altresì il singolo cittadino il quale può liberamente orientare i propri comportamenti nell’ambito delle scelte di criminalizzazione predisposte dal legislatore nazionale. La maggiore aporia dogmatica connessa al principio della riserva di legge si pone in relazione all’influenza che possono avere le fonti comunitarie che incidono su fattispecie nazio‑ nali penalmente rilevanti, estendendo l’area del penalmente rilevante. Si è sempre pacificamente esclusa una tale possibilità in quanto il principio di riserva di legge in materia penale è considerato un diritto fondamentale del cittadino il quale ha diritto di autodeterminare i propri comportamenti tenendo conto dei precetti predisposti dal legislatore interno. È stato osservato che eventuali limiti penalmente rilevanti predisposti da fonti sovranazionali scemano la capacità di au‑ todeterminazione del soggetto il quale non è in grado di avere accesso all’infinita congerie di norme di conio comunitario. Va rilevato che, malgrado l’Unione europea non abbia mai avuto competenze dirette in materia penale, con riferimento alle materie del terzo pilastro riguardante la cooperazione giudiziaria in materia penale per combattere i fenomeni di criminalizzazione transfrontalieri, non sono mancati atti comunitari che hanno influenzato il legislatore penale interno (es. in tema di mandato di arresto europeo, introduzione della responsabilità amministrativa degli enti, introduzione dell’art. 316 ter ecc…). Il conseguimento di tali obiettivi da parte del legislatore nazionale è avvenuto o attraverso l’utilizzo di tecniche norma‑ tive di assorbimento, dirette ad estendere l’area del penalmen‑ te rilevante in materie già disciplinate, oppure, mediante tecni‑ che normative di armonizzazione, atte a conformare la tutela penale di taluni stati alla legislazione di altri stati membri. In un primo momento per la concretizzazione di tali risul‑ tati ci si servì dei classici strumenti di diritto internazionale con i quali si articola la cooperazione tra Stati, ovvero le convenzioni, che venivano ratificate dal legislatore tramite il procedimento costituzionale previsto dall’art. 87 Cost. Il carattere farraginoso di tale strumento, connesso alla fisiologica lentezza nell’approvazione della legge di ratifica, ha portato alla progressiva sostituzione della convenzione con le decisioni quadro. Atti, questi ultimi, che, similmente alle direttive, vincola‑ vano lo stato membro solo nel risultato da perseguire. Il processo di progressiva comunitarizzazione degli stru‑ menti della cooperazione in materia giudiziaria e di polizia si chiude alla fine del 2009 con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, che ‑ nel quadro della già evidenziata dissoluzione dei tre pilastri nell’organismo unitario rappresentato dall’Unione europea ‑ segna anche la scomparsa degli strumenti normativi tipici del terzo pilastro, tra i quali segnatamente le decisioni quadro. Le materie di (ex) terzo pilastro divengono ora, come già si è sottolineato, competenze dell’Unione tout courtai sen‑ si degli artt. 82‑89 del nuovo TFU; ed in tali materie è pertan‑ to possibile all’Unione intervenire a pieno titolo con gli stru‑ menti normativi classici del regolamento e della direttiva. A fronte di questa novità si aprono scenari interessanti, seppur ad oggi ancora inesplorati dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia poiché tali fonti potrebbero avere effetti diretti anche nell’area del penalmente rilevante. F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o 4. I rapporti conflittuali tra la CEDU e il diritto penale Come è noto, la CEDU, oltre agli articoli predisposti in sede di prima stesura, si compone di protocolli addizionali che svolgono una funzione meramente integrativa. Il sistema di protezione della CEDU, ut supra evidenziato, prevede un organismo giurisdizionale, Corte EDU, quale giudice di ultima istanza con riferimento alle questioni che coinvolgono i diritti fondamentali dell’uomo. È opportuno precisare che nell’individuazione di tali di‑ ritti assume un ruolo centrale anche la giurisprudenza della Corte EDU la quale, con la propria attività interpretativa, mira ad estendere il contenuto dei precetti della convenzione onde garantire una protezione dinamica ed evolutiva confor‑ me alle esigenze sociali moderne. Ciò posto, si delinea un sistema che, oltre a vincolare lo Stato dal punto di vista normativo, lo costringe a tener conto anche del dato interpretativo. In tale contesto si pone la questione problematica relativa all’influenza della CEDU sul principio di riserva di legge, se, in altre parole, il catalogo in essa contenuto è direttamente applicabile nel nostro sistema penale. Quest’interrogativo di fondo ha posto delle questioni problematiche interessanti in quanto, come analizzato in precedenza, la CEDU non è dotata di un’efficacia diretta al pari delle fonti comunitarie. Ad essa è attribuito il rango di fonte subcostituzionale che determina l’obbligo per il giudice nazionale di sollevare la questione di legittimità costituzionale della legge interna contrastante con la convenzione. Ne consegue che la Corte Costituzionale non è vincolata ad attuare i principi della convenzione così come interpretati dalla Corte EDU poiché al Giudice delle leggi è attribuito un margine di apprezzamento che gli consente di tener conto delle peculiarità dell’ordinamento giuridico in cui la norma convenzionale è destinata ad inserirsi. In tale giudizio comparativo la Corte costituzionale può subordinare il diritto derivante dalla Convenzione ad un in‑ teresse costituzionalmente preminente. Tuttavia, la giurisprudenza costituzionale ha specificato i limiti di tale giudizio comparativo. Invero, la sentenza della Corte Costituzionale n. 317 del 2009 statuisce che: “Con riferimento ad un diritto fondamen‑ tale garantito anche dalla Convenzione europea per i diritti dell’uomo, il rispetto degli obblighi internazionali non può mai essere causa di una diminuzione di tutela rispetto a quel‑ le già predisposte dall’ordinamento interno, ma può e deve, viceversa, costituire strumento efficace di ampliamento del‑ la tutela stessa. In particolare, la Corte non può ammettere che una tutela superiore, che sia possibile introdurre per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost., rimanga sottratta ai titolari di un diritto fondamentale. L’obiettivo di massima espansione delle garanzie deve essere conseguito attraverso lo sviluppo delle potenzialità insite nelle norme costituziona‑ li che tutelano i medesimi diritti protetti a livello convenzio‑ nale e nel necessario bilanciamento con altri diritti fonda‑ mentali costituzionalmente garantiti, suscettibili di essere incisi dall’espansione di una singola tutela. La protezione dei diritti fondamentali deve, dunque, essere sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in poten‑ ziale conflitto tra loro, e la realizzazione di un equilibrato 2 0 1 2 83 sistema di tutela è demandata, per gli ambiti di rispettiva competenza, al legislatore, al giudice comune e al giudice delle leggi. Il risultato complessivo dell’integrazione delle garanzie dell’ordinamento deve essere di segno positivo, nel senso che dall’incidenza della singola norma CEDU sulla legislazione italiana deve derivare un plus di tutela per tutto il sistema dei diritti fondamentali. Resta fermo che la Corte costituzionale non può sostituire la propria interpretazione di una disposizione della CEDU a quella della Corte di Stra‑ sburgo, con ciò uscendo dai confini delle proprie competen‑ ze, in violazione di un preciso impegno assunto dallo Stato italiano con la sottoscrizione e la ratifica, senza l’apposizione di riserve, della Convenzione, ma può valutare come ed in qual misura il prodotto dell’interpretazione della Corte eu‑ ropea si inserisca nell’ordinamento costituzionale italiano.” In definitiva, dalle recenti prese di posizione della Corte costituzionale emerge che, per quanto concerne i diritti fon‑ damentali, la disciplina giuridica deve essere quella che tra diritto nazionale e diritto convenzionale assicura la maggiore protezione; e pertanto là dove la CEDU, come interpretata dalla Corte di Strasburgo, assicura una protezione a tali di‑ ritti più intensa rispetto a quella offerta dalla Costituzione, la Corte costituzionale deve far proprio il livello di tutela più intenso offerto a livello sovranazionale. Nasce in questo modo un concitato dialogo tra Corte Costituzionale e Corte EDU nel quale entrambi gli organi mirano ad affermare standard di tutela dei diritti fondamen‑ tali che non si pongano in contrasto con altre prerogative costituzionali. La questione dell’efficacia diretta della CEDU sembrava essersi sopita a seguito del Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1 dicembre 2009, che ha modificato l’art. 6 TFU comunitarizzando la CEDU. L’art. 6, par. 1 del Trattato, come modificato dal Trattato di Lisbona prevede che: “L’Unione riconosce i diritti, le liber‑ tà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 di‑ cembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati”. Una prima lettura di tale articolo ha tratto in inganno alcuni interpreti i quali hanno fornito un’interpretazione di‑ versa rispetto ai dicta delle sentenze 348 e 349 del 2007 sull’efficacia delle norme CEDU nel nostro ordinamento. Infatti, una parte della giurisprudenza (Cons. Stato, sez. IV, 2 marzo 2010, n. 1220; T.a.r. Lazio, sez. II‑bis, 18 maggio 2010, n. 11894) ha ritenuto che la CEDU sia stata “comuni‑ tarizzata”, con la conseguenza che il giudice nazionale po‑ trebbe direttamente disapplicare la legge nazionale in contra‑ sto con la convenzione, senza necessità di rimettere la que‑ stione alla Corte costituzionale. Tale indirizzo giurisprudenziale è stato sconfessato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 80 del 2011, la quale ha escluso che il riferimento dell’art. 6 abbia comportato la diretta applicabilità della CEDU. A tali conclusioni la Corte è giunta muovendo dalla pre‑ messa che l’art. 11 della Costituzione – e cioè l’articolo che ammette a certe condizioni la cessione di sovranità attraverso la stipula dei Trattati – è applicabile solo all’ordinamento dell’Unione e non anche a quello della CEDU, il primo confi‑ gurandosi una “realtà giuridica, funzionale e istituzionale” penale Gazzetta 84 D i r i t t o e p r o c e d u r a ben differenziata dal secondo. In particolare, ha spiegato che l’art. 11 Cost. non sarebbe direttamente riferibile alla CEDU neppure facendo leva sull’art. 6, paragrafo 3, TUE, che – come si è visto – qualifica i diritti fondamentali della CEDU come “principi generali” del diritto dell’Unione. Ciò perché tale disposizione, ripren‑ dendo lo schema del previgente art. 6, paragrafo 2, dello stesso TUE, si limita a confermare una forma di protezione preesistente al Trattato di Lisbona, e cioè una protezione per cui i diritti fondamentali garantiti dalla CEDU e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri ven‑ gono in gioco non in sé e per sé, ma soltanto “in quanto principi generali” del diritto dell’Unione; beninteso, con rife‑ rimento alle fattispecie in cui venga in rilievo l’interpretazio‑ ne o l’applicazione di tale diritto. Per la Corte costituzionale italiana, la situazione anteriore al Trattato di Lisbona non è, dunque, mutata per il fatto che la cosiddetta Carta di Nizza abbia assunto, in forza del paragra‑ fo 1, primo comma, dell’art. 6 TUE, lo “stesso valore giuridico dei Trattati” e che l’art. 52, paragrafo 3, primo periodo, della suddetta Carta, preveda una clausola di equivalenza fra i dirit‑ ti da essa previsti e “quelli corrispondenti garantiti” dalla CEDU. Infatti, l’art. 6, paragrafo 1, secondo comma, TUE – cui fa eco la Dichiarazione numero 1 allegata a detto Tratta‑ to – chiarisce che “le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell’Unione definite nei Trattati” e che tali disposizioni trovano applicazione, pertanto, alle sole fattispecie già disciplinate dal diritto dell’Unione. Nello specifico, con riferimento alla materia penale, la Corte ha affermato che le disposizioni della CEDU non esten‑ dono in alcun modo le competenze dell’Unione Europea de‑ finite dai trattati. Dalla mancata competenza dell’Unione in materia penale ne discende come logica conseguenza che, se anche la CEDU fosse da ritenersi realmente comunitarizzata, non potrebbe comunque “innovare” il diritto penale vigente. La portate del nuovo art. 6 è stata presa anche in conside‑ razione da un recentissima sentenza della Corte di Giustizia di Lussemburgo, la quale ha affermato che: “il rinvio operato dall’articolo 6, paragrafo 3, TUE alla CEDU (…) non impone al giudice nazionale, in caso di conflitto tra una norma di diritto nazionale e detta Convenzione, di applicare diretta‑ mente le disposizioni di quest’ultima, disapplicando la norma di diritto nazionale in contrasto con essa”. Tale articolo, in‑ fatti, secondo la Corte di giustizia, “non disciplina il rapporto tra la CEDU e gli ordinamenti giuridici degli Stati membri e nemmeno determina le conseguenze che un giudice naziona‑ le deve trarre nell’ipotesi di conflitto tra i diritti garantiti da tale convenzione ed una norma di diritto nazionale” (Grande sezione 24 aprile 2012, in causa C‑571/10, Kamberaj). Per completezza espositiva va segnalato che il dialogo tra la Corte Costituzionale e la Corte EDU Questo dialogo po‑ trebbe divenire più serrato se e quando sarà data esecuzione al punto 12, lettera d) della menzionata Dichiarazione di Brighton. In esso si auspica che nella Convenzione, allo scopo di rafforzare l’interazione fra la Corte EDU e le autorità na‑ zionali, sia introdotto un Protocollo addizionale – da redige‑ re entro la fine del 2013 – per dotare la Corte del potere di inviare “advisory opinions” sull’interpretazione della Con‑ p e n a l e Gazzetta F O R E N S E venzione, su richiesta dello Stato membro. Le “opinions”, secondo la Dichiarazione, dovrebbero avere carattere vinco‑ lante per il solo Stato cui appartiene l’autorità che formula il quesito interpretativo e non per gli altri Stati. Esse si configurano, quindi, per quello Stato come una sorta di “pregiudiziale convenzionale” e dovrebbero, pertan‑ to, vincolare l’autorità richiedente alla stessa stregua delle pronunce rese dalla Corte di giustizia di Lussemburgo in sede di rinvio pregiudiziale sull’interpretazione del diritto dell’Unio‑ ne ai sensi dell’art. 267 del TFUE. 5. Conclusioni: gli obiettivi della rivista Nel quadro delineato si inserisce l’iniziativa che questa ri‑ vista intende promuovere, aprendo una sezione sui “temi caldi” del diritto interno che contrastano il diritto transnazionale. Bisogna prendere atto del fatto che il diritto comunitario così come la CEDU vive, oltre che negli atti normativi, anche nelle dinamiche interpretative atte a specificare il contenuto delle norme. Tale meccanismo complesso richiede al giurista che si affaccia allo studio di una tematica di difficile cognizione un approccio dinamico, poiché deve far fronte ad una mole di dati ed informazioni difficilmente governabili. Nella presente relazione si è preferito riportare i principi generali che regolano i rapporti tra diritto interno, diritto comunitario e CEDU. Ciò a discapito delle fattispecie concre‑ te che generano i principali contrasti tra le corti interne ed internazionali. Si avverte il lettore che non si è trattato di una dimentican‑ za, ma tale scelta rappresenta il portato di una raffinata linea editoriale che da questo numero in poi vuole sottoporre all’at‑ tenzione del giurista il quadro normativo completo delle que‑ stioni che investono materie regolate anche dal diritto sovra‑ nazionale al fine di fornirgli gli strumenti necessari per meglio esaminare i casi concreti sottoposti alla sua attenzione. Infatti, non mancherà un’analitica trattazione sui maggio‑ ri contrasti che si registrano nell’attuale panorama giurispru‑ denziale. In particolare: • Sulla rilevanza nel nostro ordinamento del principio di retroattività della lex favorevole (espresso dalla Corte Edu nel caso Scoppola, rifiutato dalla C.Cost., sent. n. 236 del 2011); • Sull’individuazione di criteri certi per risolvere i casi di concorso apparente di Norme (in cui le sez.un. del 2010, n. 1235 affermano la vincolatività dell’art. 7 CEDU nel nostro ordinamento con riferimento al principio di preve‑ dibilità); • Sull’ammissibilità di un sindacato in malam partem della Corte Cost. in caso di violazione del diritto comunitario (Corte Cost. 28 gennaio 2010, n. 28); • Sull’accoglimento di un principio di legalità sostanziale ad opera delle Sezioni unite 21 gennaio 2010 n. 18288 (con‑ forme all’interpretazione delle previsioni della CEDU che considerano elemento di diritto anche il mutamento della giurisprudenza); • Sulla natura giuridica delle confische previste dall’ordina‑ mento interno (che per la Corte Edu sono delle pene, men‑ tre il legislatore interno le considera misure di sicurezza). Gazzetta F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o 85 2 0 1 2 ● Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267 Disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa. La nuova disciplina del falso in attestazioni e relazioni del professionista nella legge fallimentare Art. 236‑bis Falso in attestazioni e relazioni ● Federico Baffi *** Praticante avvocato abilitato al patrocinio Dal trentesimo giorno successivo all’entrata in vigore della Legge di conversione 134/2012, la disciplina del falso si arric‑ chisce di una nuova figura di reato, introdotta dall’Esecutivo nel Decreto Legge 83/2012, la cui formulazione originaria è stata mantenuta anche all’esito dei passaggi parlamentari. Dall’undici di settembre è infatti penalmente rilevante la condotta del professionista che espone informazioni false od omette informazioni rilevanti nell’ambito dei procedimenti di concordato preventivo e di omologazione di accordi di ristrut‑ turazione, nonché dei piani di cui all’articolo 67 terzo comma, lettera d) L.F. 1 elaborati a partire da questa data. L’ambito di applicazione Nell’ambito delle procedure concordatarie, la norma mira a tutelare la veridicità delle informazioni contenute in un nu‑ merus clausus di relazioni o attestazioni. Il reato si perfeziona, tassativamente, solo laddove il pro‑ fessionista esponga informazioni false od ometta informazio‑ ni vere e rilevanti nell’attestare la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano di risanamento della esposizione de‑ bitoria, e di riequilibrio della situazione finanziaria dell’im‑ presa, nell’ambito del quale atti, pagamenti e garanzie conces‑ se su beni del debitore non sono soggetti a revocatoria (artt. 67, terzo comma, lett. d) L.F.); • la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano 1 Art. 67. Atti a titolo oneroso, pagamenti, garanzie 3 [..] d) gli atti, i pagamenti e le garanzie concesse su beni del debitore purché posti in essere in esecuzione di un piano che appaia idoneo a consentire il risanamen‑ to della esposizione debitoria dell’impresa e ad assicurare il riequilibrio della sua situazione finanziaria; un professionista indipendente designato dal debitore, iscritto nel registro dei revisori legali ed in possesso dei requisiti previsti dall’art. 28, lettere a) e b) deve attestare la veridicità dei dati aziendali e la fatti‑ bilità del piano; il professionista è indipendente quando non è legato all’impre‑ sa e a coloro che hanno interesse all’operazione di risanamento da rapporti di natura personale o professionale tali da comprometterne l’indipendenza di giudizio; in ogni caso, il professionista deve essere in possesso dei requisiti pre‑ visti dall’art. 2399 del codice civile e non deve, neanche per il tramite di sogget‑ ti con i quali è unito in associazione professionale, avere prestato negli ultimi cinque anni attività di lavoro subordinato o autonomo in favore del debitore ovvero partecipato agli organi di amministrazione o di controllo; il piano può essere pubblicato nel registro delle imprese su richiesta del debitore. [..] penale 1. Il professionista che nelle relazioni o attestazioni di cui agli artt. 67, terzo comma, lett. d), 161, terzo comma, 182‑bis, 182‑quinquies e 186‑bis espone informazioni false ovvero omette di riferire informazioni rilevanti, è punito con la re‑ clusione da due a cinque anni e con la multa da 50.000 a 100.000 euro. 2. Se il fatto è commesso al fine di conseguire un ingiusto profitto per sé o per altri, la pena è aumentata. 3. Se dal fatto consegue un danno per i creditori la pena è aumentata fino alla metà. 86 D i r i t t o e p r o c e d u r a presentato con la domanda di concordato preventivo, se‑ condo quanto richiesto dall’art. 161 secondo e terzo com‑ ma L.F. 2; • la veridicità dei dati aziendali e l’attuabilità dell’accordo con i creditori, relativamente alla idoneità dell’accordo stesso ad assicurare l’integrale pagamento dei creditori estranei, nei rispetto di specifici termini (ex art. 182‑bis L.F. 3); 2 Art. 161. Domanda di concordato 1.La domanda per l’ammissione alla procedura di concordato preventivo è proposta con ricorso, sottoscritto dal debitore, al tribunale del luogo in cui l’impresa ha la propria sede principale; il trasferimento della stessa intervenuto nell’anno antecedente al deposito del ricorso non rileva ai fini della individua‑ zione della competenza. 2.Il debitore deve presentare con il ricorso: a) una aggiornata relazione sulla situazione patrimoniale, economica e finan‑ ziaria dell’impresa; b) uno stato analitico ed estimativo delle attività e l’elenco nominativo dei creditori, con l’indicazione dei rispettivi crediti e delle cause di prelazione; c) l’elenco dei titolari dei diritti reali o personali su beni di proprietà o in pos‑ sesso del debitore; d) il valore dei beni e i creditori particolari degli eventuali soci illimitatamente responsabili. e) un piano contenente la descrizione analitica delle modalità e dei tempi di adempimento della proposta. 3.Il piano e la documentazione di cui ai commi precedenti devono essere ac‑ compagnati dalla relazione di un professionista, designato dal debitore, in possesso dei requisiti di cui all’articolo 67, terzo comma, lettera d), che attesti la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano medesimo. Analoga re‑ lazione deve essere presentata nel caso di modifiche sostanziali della proposta o del piano. [..] 3 Art. 182‑bis. Accordi di ristrutturazione dei debiti 1. L’imprenditore in stato di crisi può domandare, depositando documentazio‑ ne di cui all’ articolo 161, l’omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti stipulato con i creditori rappresentanti almeno il sessanta per cento dei crediti, unitamente ad una relazione redatta da un professionista, designato dal debitore, in possesso dei requisiti di cui all’articolo 67, terzo comma, lettera d) sulla veridicità dei dati aziendali e sull’attuabilità dell’accordo stesso con par‑ ticolare riferimento alla sua idoneità ad assicurare l’integrale pagamento dei creditori estranei nei rispetto dei seguenti termini: a) entro cento venti giorni dall’omologazione, in caso di crediti già scaduti a quella data; b) entro cento venti giorni dalla scadenza, in caso di crediti non ancora scaduti alla data dell’omologazione. 2. L’accordo è pubblicato nel registro delle imprese e acquista efficacia dal giorno della sua pubblicazione. 3.Dalla data della pubblicazione e per sessanta giorni i creditori per titolo e causa anteriore a tale data non possono iniziare o proseguire azioni cautelari o esecutive sul patrimonio del debitore, né acquisire titoli di prelazione se non concordati. Si applica l’ articolo 168, secondo comma. 4. Entro trenta giorni dalla pubblicazione i creditori e ogni altro interessato possono proporre opposizione. Il tribunale, decise le opposizioni, procede all’omologazione in camera di consiglio con decreto motivato. 5. Il decreto del tribunale è reclamabile alla corte di appello ai sensi dell’ arti‑ colo 183, in quanto applicabile, entro quindici giorni dalla sua pubblicazione nel registro delle imprese. 6. Il divieto di iniziare o proseguire le azioni cautelari o esecutive di cui al terzo comma può essere richiesto dall’imprenditore anche nel corso delle trattative e prima della formalizzazione dell’accordo di cui al presente articolo, depositan‑ do presso il tribunale competente ai sensi dell’articolo 9 la documentazione di cui all’articolo 161, primo e secondo comma, lettere a), b), c) e d) e una propo‑ sta di accordo corredata da una dichiarazione dell’ imprenditore, avente valore di autocertificazione, attestante che sulla proposta sono in corso trattative con i creditori che rappresentano almeno il sessanta per cento dei crediti e da una dichiarazione del professionista avente i requisiti di cui all’articolo 67, terzo comma, lettera d), circa la idoneità della proposta, se accettata, ad assicurare l’integrale pagamento dei creditori con i quali non sono in corso trattative o che hanno comunque negato la propria disponibilità a trattare. L’istanza di sospensione di cui al presente comma è pubblicata nel registro delle imprese e produce l’effetto del divieto di inizio o prosecuzione delle azioni esecutive e cautelari, nonché del divieto di acquisire titoli di prelazione, se non concordati, dalla pubblicazione. 7. Il tribunale, verificata la completezza della documentazione depositata, fissa con decreto l’udienza entro il termine di trenta giorni dal deposito dell’istanza di cui al sesto comma, disponendo la comunicazione ai creditori della docu‑ mentazione stessa. Nel corso dell’udienza, riscontrata la sussistenza dei presup‑ posti per pervenire a un accordo di ristrutturazione dei debiti con le maggio‑ p e n a l e Gazzetta F O R E N S E • in caso di richiesta del debitore di autorizzazione a contrar‑ re finanziamenti, la funzionalità dei medesimi alla miglio‑ re soddisfazione dei creditori (182‑quinquies L.F. 4); • in caso di richiesta di continuità aziendale, la conformità al piano allegato alla domanda di concordato preventivo, la funzionalità del medesimo alla migliore soddisfazione dei creditori, la ragionevole capacità di adempimento dei contratti pubblici in corso e di quelli eventualmente stipu‑ lati dal debitore dopo l’inizio della procedura (186‑bis L.F.5). ranze di cui al primo comma e delle condizioni per il regolare pagamento dei creditori con i quali non sono in corso trattative o che hanno comunque nega‑ to la propria disponibilità a trattare, dispone con decreto motivato il divieto di iniziare o proseguire le azioni cautelari o esecutive e di acquisire titoli di prela‑ zione se non concordati assegnando il termine di non oltre sessanta giorni per il deposito dell’accordo di ristrutturazione e della relazione redatta dal profes‑ sionista a norma del primo comma. Il decreto del precedente periodo è recla‑ mabile a norma del quinto comma in quanto applicabile. 8. A seguito del deposito di un accordo di ristrutturazione dei debiti nei termi‑ ni assegnati dal tribunale trovano applicazione le disposizioni di cui al secondo, terzo, quarto e quinto comma. Se nel medesimo termine è depositata una do‑ manda di concordato preventivo, si conservano gli effetti di cui ai commi sesto e settimo. 4 Art. 182‑quinquies. Disposizioni in tema di finanziamento e di continuità azien‑ dale nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione dei debiti 1. Il debitore che presenta, anche ai sensi dell’articolo 161 sesto comma, una domanda di ammissione al concordato preventivo o una domanda di omolo‑ gazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti ai sensi dell’articolo 182 bis, primo comma, o una proposta di accordo ai sensi dell’articolo 182 bis, sesto comma, può chiedere al tribunale di essere autorizzato, assunte se del caso sommarie informazioni, a contrarre finanziamenti, prededucibili ai sensi dell’art. 111, se un professionista designato dal debitore in possesso dei requi‑ siti di cui all’articolo 67, terzo comma, lettera d), verificato il complessivo fabbisogno finanziario dell’impresa sino all’omologazione, attesta che tali fi‑ nanziamenti sono funzionali alla migliore soddisfazione dei creditori.2. L’auto‑ rizzazione di cui al primo comma può riguardare anche finanziamenti indivi‑ duati soltanto per tipologia ed entità, e non ancora oggetto di trattative. 3. Il tribunale può autorizzare il debitore a concedere pegno o ipoteca a garan‑ zia dei medesimi finanziamenti. 4. Il debitore che presenta domanda di ammissione al concordato preventivo con continuità aziendale, anche ai sensi dell’articolo 161 sesto comma, può chiedere al tribunale di essere autorizzato, assunte se del caso sommarie infor‑ mazioni, a pagare crediti anteriori per prestazioni di beni o servizi, se un pro‑ fessionista in possesso dei requisiti di cui all’articolo 67, terzo comma, lettera d), attesta che tali prestazioni sono essenziali per la prosecuzione della attività di impresa e funzionali ad assicurare la migliore soddisfazione dei creditori. L’attestazione del professionista non è necessaria per pagamenti effettuati fino a concorrenza dell’ammontare di nuove risorse finanziarie che vengano appor‑ tate al debitore senza obbligo di restituzione o con obbligo di restituzione po‑ stergato alla soddisfazione dei creditori. 5. Il debitore che presenta una domanda di omologazione di un accordo di ri‑ strutturazione dei debiti ai sensi dell’articolo 182‑bis, primo comma, o una proposta di accordo ai sensi dell’articolo 182‑bis, sesto comma, può chiedere al Tribunale di essere autorizzato, in presenza dei presupposti di cui al quarto comma, a pagare crediti anche anteriori per prestazioni di beni o servizi. In tal caso i pagamenti effettuati non sono soggetti all’azione revocatoria di cui all’articolo 67. 5 Art. 186‑bis. Concordato con continuità aziendale 1. Quando il piano di concordato di cui all’art. 161, secondo comma, lett. e) prevede la prosecuzione dell’attività di impresa da parte del debitore, la cessio‑ ne dell’azienda in esercizio ovvero il conferimento dell’azienda in esercizio in una o più società, anche di nuova costituzione, si applicano le disposizioni del presente articolo, nonché gli articoli 160 e seguenti, in quanto compatibili. Il piano può prevedere anche la liquidazione di beni non funzionali all’esercizio dell’impresa. 2. Nei casi previsti dal presente articolo: a) il piano di cui all’articolo 161, secondo comma, lett. e), deve contenere anche un’analitica indicazione dei costi e dei ricavi attesi dalla prosecuzione dell’atti‑ vità d’impresa prevista dal piano di concordato, delle risorse finanziarie neces‑ sarie e delle relative modalità di copertura; b) la relazione del professionista di cui all’articolo 161, terzo comma, deve at‑ testare che la prosecuzione dell’attività d’impresa prevista dal piano di concor‑ dato è funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori; c) Il piano può prevedere una moratoria fino a un anno dall’omologazione per il pagamento dei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, salvo che sia F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o Il soggetto attivo del reato Il falso in attestazioni e relazioni è un reato proprio, quindi riferibile alla figura del professionista designato dal debitore. Il novero dei possibili soggetti agenti è tassativamente ri‑ stretto dal combinato disposto degli artt. 67 L.F. (come mo‑ dificato dalla medesima legge di conversione 134/2012) e dell’art. 28 lett. a) e b) L.F.6 a cui l’art. 67 L.F. fa riferimento: avvocati, dottori commercialisti, ragionieri e ragionieri com‑ mercialisti, studi professionali associati o società tra profes‑ sionisti, questi ultimi con la limitazione imposta dalla norma relativamente alla necessaria designazione al loro interno di una persona fisica che sia responsabile della procedura. Il professionista dovrà essere indipendente, secondo i ca‑ noni stabiliti dagli artt. 67 comma terzo lett. d) L.F. e 2399 C.C., ovvero • non legato all’impresa e a coloro che hanno interesse all’operazione di risanamento da rapporti di natura per‑ sonale o professionale tali da comprometterne l’indipen‑ denza di giudizio; • in possesso dei requisiti previsti dal sopracitato art. 2399 del codice civile per accedere alla carica di sindaco, • privo (nei cinque anni precedenti all’incarico) di rapporti diretti di lavoro subordinato o autonomo in favore del debitore, ovvero di ruoli di amministrazione o di control‑ lo, neanche per il tramite di soggetti con i quali è unito in associazione professionale. prevista la liquidazione dei beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione. 3. Fermo quanto previsto nell’articolo 169‑bis, i contratti in corso di esecuzio‑ ne alla data di deposito del ricorso, anche stipulati con pubbliche amministra‑ zioni, non si risolvono per effetto dell’apertura della procedura. Sono ineffica‑ ci eventuali patti contrari. L’ammissione al concordato preventivo non impedi‑ sce la continuazione di contratti pubblici se il professionista designato dal de‑ bitore di cui all’art. 67 ha attestato la conformità al piano e la ragionevole ca‑ pacità di adempimento. Di tale continuazione può beneficiare, in presenza dei requisiti di legge, anche la società cessionaria o conferitaria d’azienda o di rami d’azienda cui i contratti siano trasferiti. Il giudice delegato, all’atto della cessio‑ ne o del conferimento, dispone la cancellazione delle iscrizioni e trascrizioni. 4. L’ammissione al concordato preventivo non impedisce la partecipazione a procedure di assegnazione di contratti pubblici, quando l’impresa presen‑ ta in gara: a) una relazione di un professionista in possesso dei requisiti di cui all’articolo 67, lettera d) che attesta la conformità al piano e la ragionevole capacità di adempimento del contratto; b) la dichiarazione di altro operatore in possesso dei requisiti di carattere gene‑ rale, di capacità finanziaria, tecnica, economica nonché di certificazione, richie‑ sti per l’affidamento dell’appalto, il quale si è impegnato nei confronti del concorrente e della stazione appaltante a mettere a disposizione, per la durata del contratto, le risorse necessarie all’esecuzione dell’appalto e a subentrare all’impresa ausiliata nel caso in cui questa fallisca nel corso della gara ovvero dopo la stipulazione del contratto, ovvero non sia per qualsiasi ragione più in grado di dare regolare esecuzione all’appalto. Si applica l’articolo 49 del decre‑ to legislativo 12 aprile 2006, n. 163. 5. Fermo quanto previsto dal comma precedente, l’impresa in concordato può concorrere anche riunita in raggruppamento temporaneo di imprese, purché non rivesta la qualità di mandataria e sempre che le altre imprese aderenti al raggruppamento non siano assoggettate ad una procedura concorsuale. In tal caso la dichiarazione di cui al precedente comma, lettera b), può provenire anche da un operatore facente parte del raggruppamento. 6. Se nel corso di una procedura iniziata ai sensi del presente articolo l’esercizio dell’attività d’impresa cessa o risulta manifestamente dannosa per i creditori, il tribunale provvede ai sensi dell’articolo 173. Resta salva la facoltà del debitore di modificare la proposta di concordato. 6 Art. 28. Requisiti per la nomina a curatore 1. Possono essere chiamati a svolgere le funzioni di curatore: a) avvocati, dottori commercialisti, ragionieri e ragionieri commercialisti; b) studi professionali associati o società tra professionisti, sempre che i soci delle stesse abbiano i requisiti professionali di cui alla lettera a). In tale caso, all’atto dell’accettazione dell’incarico, deve essere designata la persona fisica responsabile della procedura; [..] 2 0 1 2 87 Il secondo comma dell’art. 236‑bis L.F. lascia, però, alcuni inquietanti spiragli di estensione della responsabilità agli even‑ tuali “altri” che con il falso conseguano l’ingiusto profitto: non può aprioristicamente escludersi che, in sede applicativa, l’even‑ tuale addebito di responsabilità per tali soggetti possa spinger‑ si persino oltre i confini della responsabilità concorsuale. L’elemento psicologico del reato Come sottolineato anche dal servizio novità a cura dell’Uf‑ ficio del Massimario della Suprema Corte di Cassazione7, l’elemento psicologico necessario perché si perfezioni il reato in esame è il dolo generico, ovvero la previsione con coscien‑ za e volontà di affermare il falso od omettere di informazioni vere e soprattutto rilevanti8. Il dolo specifico è invece richiesto solo per l’ipotesi aggra‑ vata prevista in caso di perseguimento del fine di ingiusto profitto. Consumazione del reato e tentativo Il falso in attestazioni e relazioni appare come un reato unisussistente, che si perfeziona solo nel momento in cui il falso entra a far parte della procedura concorsuale o paracon‑ corsuale. Ne consegue l’inconfigurabilità del tentativo, il quale ‑ secondo radicati orientamenti giurisprudenziali 9 supportati dalla migliore dottrina ‑ risulterebbe incompatibi‑ le con la frazionabilità dell’ iter criminis. La struttura delle ipotesi delittuose previste dalla norma L’art. 236‑bis L.F. prevede un’ipotesi commissiva ed una omissiva. Sono previste due circostanze aggravanti: una prima, speciale, ovvero applicabile solo alla fattispecie prevista da questa norma, ad effetto comune, e quindi con un possibile aumento di pena fino ad un terzo. L’ingiusto profitto descritto dalla norma potrà certamen‑ te riguardare sia il soggetto agente, che, eventualmente, per‑ sona da questi diversa. Sulla qualificazione di tale ingiusto profitto, sarà invece, presumibilmente, l’applicazione della norma a dilatarne o comprimerne la portata aldilà del mero incremento di stru‑ mentalità patrimoniale: se da una parte la lettera della norma parla di “profitto” e non di “vantaggio”, dall’altra non vi è infatti alcun riferimento ad un vantaggio patrimoniale stricto sensu inteso, e ciò lascia margini di dubbio, specialmente se la memoria si sposta indietro, fermandosi al lungo e combat‑ tuto percorso che ha portato alla esclusione dei vantaggi privi di contenuto patrimoniale dall’ambito di operatività dell’art. 323 c.p. prima della riforma. La seconda aggravante è anch’essa speciale, ma non ad effetto comune, bensì ad effetto speciale, comportando un aumento di pena superiore al terzo, e si configura quando si verifica un danno per i creditori. 7 Pistorelli L. – Carcano D. Relazione III/07/2012,. Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione, Servizio Novità 8Sul criterio della rilevanza, si tornerà in seguito. 9 Cfr. Cass. pen., sez. V, 22 ottobre 1992 “quando l’autore della falsità è lo stesso soggetto che deve formare l’atto, non c’è falso punibile fino a quando l’atto rimane nella disponibilità dell’agente che può apportarvi modificazioni o aggiunte e può anche rinunciare a compierlo.” penale Gazzetta 88 D i r i t t o e p r o c e d u r a Anche in materia di qualificazione del danno per i credi‑ tori, sarà l’applicazione della norma a comprimerne o dilatar‑ ne la nozione classica di diminutio patrimoni. Il bene giuridico tutelato Il bene giuridico che ictu oculiappare tutelato dalla norma è quello dell’affidamento: il reato, così come inquadrato, sembra riconducibile tra quelli contro la fede pubblica, seb‑ bene la scelta normativa relativa alla sua collocazione non riesca a fugare del tutto dubbi su possibili diverse opzioni. Inoltre non può escludersi a priori che possa rivelarsi in sede applicativa come reato plurioffensivo, quantomeno in merito alle ipotesi descritte di falso aggravato dal persegui‑ mento di un ingiusto profitto, o dal danno per i creditori. Il vuoto normativo in materia La tutela penale della correttezza delle informazioni sulla situazione economica, patrimoniale e finanziaria del debitore era già stata oggetto dei lavori della commissione Trevisana‑ to10, che pochi anni orsono ha modificato il diritto fallimen‑ tare. In quella sede, con lo stralcio in sede parlamentare dei lavori che avevano riguardato le disposizioni penali della materia11, si è persa ancora una volta l’opportunità di una riforma organica, con risultati di cui è sin troppo semplice sottolineare la negatività. In dottrina sono infatti forti le critiche12 alla cd. “stratificazione normativa” utilizzata ed abusata come tecnica novellativa della materia. Se è possibile, in questo come in tanti altri casi, ci si trova addirittura davanti ad una meta‑novella, una novella della novella, o più semplicemente un ritardatario completamento della medesima. La tutela penale arriva quindi in seconda battuta, dopo un illogico e risalente stralcio, che avrebbe potuto a suo tempo rendere la novella coerente e forse com‑ pleta, o quantomeno unitaria. Alla luce di ciò, è stata sottolineata, in sede legislativa così come in dottrina, l’opportunità sopperire alla inadegua‑ tezza dell’art. 236 co.1 L.F. nel sanzionare le azioni fraudo‑ 10 Commissione per l’elaborazione di principi direttivi di uno schema di disegno di legge delega al governo, relativo all’emanazione della nuova legge fallimen‑ tare ed alla revisione delle norme concernenti gli istituti connessi, istituita con D. I. 28 novembre 2001. 11 Art. 16 (Disposizioni penali) La disciplina degli illeciti penali nelle materie di cui alla presente legge si ispira ai seguenti criteri direttivi: [ … ] 8. prevedere il delitto di falsa esposizione di dati o di informazioni o altri comportamenti fraudolenti: consistente nella condotta di esposizione di in‑ formazioni false o di omissione di informazioni imposte dalla legge per l’apertura della procedura di composizione concordata della crisi al fine di potervi indebitamente accedere, ovvero in successivi atti o nei comportamenti di cui ai commi 1 e 5 compiuti nel corso di essa; ovvero di simulazione di crediti inesistenti o di altri comportamenti di frode, al fine di influire sulla formazione delle maggioranze; prevedere che la stessa pena si applica al creditore che riceve il pagamento o accetta la promessa al fine dell’espressione del proprio voto;[…] 12 Insolera G. Riflessi penalistici della nuova disciplina del concordato pre‑ ventivo e delle composizioni extragiudiziali della crisi della impresa in Giu‑ risprudenza Commerciale n. 3 Maggio – Giugno 2006, Giuffrè “La produ‑ zione legislativa di riforma del diritto fallimentare si è manifestata in modo disordinato se non bislacco. Ciò riguarda il noto succedersi dei diversi testi legislativi, ma anche la stessa scelta degli strumenti di legiferazione. In questo modo si sono creati i migliori presupposti per la continua insorgenza di problemi interpretativi di difficile soluzione. Questa osservazione, come vedremo, si amplifica a proposito del coordinamento tra disciplina civilisti‑ ca, ormai completatasi con la pubblicazione del d.lgs. 9 gennaio 2006, di attuazione della l. n. 80 del 2005, e norme penali fallimentari che si sono invece volute mantenere invariate, nonostante i molteplici conati di riforma di cui si era avuta notizia negli ultimi anni.” p e n a l e Gazzetta F O R E N S E lente commesse da soggetti diversi dall’imprenditore indivi‑ duale nell’ambito della procedura concordataria. Tra questi soggetti spicca la figura del professionista incaricato di redi‑ gere le certificazioni, che agisce secondo quasi unanime opi‑ nione13, iure privatorum, e che non avrebbe potuto né avrebbe dovuto quindi essere chiamato a rispondere del reato di falso in atto pubblico prima di questa riforma del 2012: la piena rilevanza pubblicistica è infatti, come noto, riconosciuta, dal complesso di norme in materia di procedura concordataria, solo in capo al curatore ed al commissario giudiziale14. Restava però la possibilità di utilizzare le norme sul con‑ corso di persone per sanzionare i comportamenti di profes‑ sionisti che formavano documenti falsi, utilizzati dall’impren‑ ditore individuale per accedere al concordato preventivo. Una tutela secondo alcuni punti di vista scarna, se con‑ frontata con un dato: l’art. 236 c.p. finiva col colpire solo gli imprenditori individuali e non gli organi societari, nonostan‑ te alcuni forzati orientamenti giurisprudenziali, fortemente criticati per la violazione del principio di legalità utilizzata per perseguire questi ultimi. Ne conseguiva, quindi, l’impossibilità di perseguire il comportamento illecito di un professionista concorrente di un soggetto, sì organico, ma non rientrante nel novero di quelli ritenuti dalla norma come soggetti attivi di un reato proprio. La tendenza legislativa responsabilizzatrice Se non vi era, ieri, dubbio in merito alla inopportunità della caducazione del versante penalistico nella precedente riforma, non può non sottolinearsi, oggi, come e quanto re‑ centi interventi legislativi stiano modificando il quadro delle responsabilità in senso diametralmente opposto. La relazione illustrativa del Governo al D.L. 83/12, nell’in‑ trodurre il reato di falso in attestazioni e relazioni, nel mese di giugno sottolineava come questo intervento si rendesse necessario per evitare “asimmetrie irragionevoli” 15 rispetto al contenuto della norma introdotta con l’art.19 comma se‑ condo16 della l. 3/2012, la quale punisce il componente dell’or‑ 13 Bricchetti R. in “La disciplina della crisi d’impresa e il nuovo sistema revo‑ catorio: la riforma del diritto fallimentare nella delega legislativa”, in www. fallimento.ipsoa.it, Ipsoa. 14 Cfr. Insolera G. in Op. Cit. “assume un rilievo decisivo come, nel quadro complessivo della riforma, si sia mantenuta la tradizionale specifica attribuzio‑ ne della qualifica di Pubblico Ufficiale nei confronti del curatore (art. 30) e del commissario giudiziale (art. 165). Si è così confermata l’adozione, in questo campo, di una chiave di identificazione espressa della qualifica, ma assume si‑ gnificato di argomento a contrario anche la circostanza che non si sia fatto ri‑ corso a tale metodo per inquadrare le nuove figure”. 15 Relazione illustrativa del Governo allegata al d.l. 83/12 “La sanzione penale prevista è necessaria per saldare i meccanismi di tutela e bilanciare adeguata‑ mente il ruolo centrale riconosciuto al professionista attestatore nell’intero in‑ tervento normativo. Peraltro, tale soluzione si impone per evitare asimmetrie irragionevoli, in ottica costituzionale, rispetto alla rilevanza penale della con‑ dotta dell’organismo di composizione della crisi da sovraindebitamento del debitore non fallibile che “rende false attestazioni in ordine alla veridicità dei dati contenuti nella proposta o nei documenti ad essa allegati ovvero in ordine alla fattibilità del piano di ristrutturazione dei debiti proposto dal debitore”, a norma dell’articolo 19, secondo comma, della legge n. 3 del 2012”. 16 Procedimento per la composizione delle crisi da sovra indebitamento Art. 19 Sanzioni [ … ] 2. Il componente dell’organismo di composizione della crisi che rende false attestazioni in ordine all’esito della votazione dei creditori sulla proposta di accordo formulata dal debitore ovvero in ordine alla veridicità dei dati conte‑ nuti in tale proposta o nei documenti ad essa allegati ovveroin ordine alla fat‑ tibilità del piano di ristrutturazione dei debiti proposto dal debitore è punito F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o ganismo di composizione della crisi che renda false attesta‑ zioni, in ordine all’esito od ai dati contenuti nella proposta di accordo (o nei suoi allegati), all’interno procedimento per la composizione delle crisi da sovra indebitamento. Se a questo dato affianchiamo quello della responsabilità penale, che sorge – anche – in capo al professionista se, al fine di ottenere per sé o per altri un pagamento parziale dei tributi e dei relativi accessori, indica nella documentazione presentata per la transazione fiscale elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo, elementi passivi fittizi per un ammontare complessivo superiore ai 50mila euro, avremo un ulteriore indizio per sottolineare quanto e come il professionista sia al centro dell’attenzione del legislatore per quel che riguarda la sanzione penale. A destare talune perplessità, in questo frangente, sono la natura e la statura del destinatario ben più “qualificato”– quantomeno dall’ordinamento‑ rispetto al professionista at‑ testatore. Nel caso dell’art. 236‑bis, forse coerentemente con un impianto che ha “privatizzato” alcune procedure concorsua‑ li, appare infatti evidente come, in qualche modo, il legislato‑ re abbia compiuto un ulteriore passo nella direzione di solle‑ vare un’Autorità come la Magistratura fallimentare da talune scelte e responsabilità, caricando e moltiplicando sulle spalle del professionista quel peso tolto all’Autorità stessa. Pochi dubbi ci sono in ordine ad una evidente necessità ordinamentale di regolamentare l’operato del professionista attestatore, e questo è stato fatto presente anche dal legislato‑ re, o meglio, dall’Esecutivo, che ancora una volta ha svolto il ruolo di supplente di un Parlamento immobile ed inerme sia in fase di redazione delle norme in generale, sia soprattutto, in particolare, in fase di conversione di questa norma scritta dall’Esecutivo, con buona pace del principio di riserva asso‑ luta di legge come intesa da Bricola. Qualche dubbio in più sorge guardando la cornice editta‑ le e più in generale la tecnica di redazione della norma. Pene da Pubblico Ufficiale a fronte di una natura ibrida del pro‑ fessionista Volendo per un attimo superare i dubbi già palesati che riguardano la riconducibilità del falso in attestazioni e relazio‑ ni nell’alveo dei delitti contro la fede pubblica, paragonando le sanzioni previste per questa norma con quelle relative ai reati previsti dal codice agli artt. 476 e ss., ci si ritrova a nota‑ re quanto la pena detentiva prevista sia alta, nel minimo e nel massimo, e quanto sia per molti versi più vicina a quelle pre‑ viste per i falsi dei Pubblici Ufficiali che per quelli dei privati. Senza particolari timori reverenziali nell’utilizzo di tale aggettivo, la pena pecuniaria prevista dall’art. 236‑bis è ad‑ dirittura definibile come “biblica”. Rispetto a buona parte delle altre previsioni che punisco‑ no il falso, a fronte di una così severa previsione edittale, in materia di falso in attestazioni e relazioni, il professionista appare però maggiormente esposto a rischi per quel che ri‑ guarda i dati che egli è tenuto ad attestare: essendo soggetto a stringenti canoni di indipendenza previsti dalla novella, con la reclusione da uno a tre anni e con la multa da 1.000 a 50.000 euro. […] 2 0 1 2 89 senza voler aprire il vaso di Pandora della problematica rela‑ tiva all’induzione, non può non sottolinearsi come proprio il requisito di indipendenza scopra a questi il fianco, se in buo‑ na fede, rispetto alla problematica della fonte di quanto egli è tenuto ad attestare. La richiesta asetticità del professionista lo rende infatti particolarmente vulnerabile rispetto a fenomeni noti nel mon‑ do delle crisi d’impresa, quali ad esempio l’inesistenza di al‑ cune attività, la loro sopravvalutazione, l’effettiva consistenza o la fittizietà delle passività. Non è difficile prevedere quanto e come saranno in sede applicativa richiesti al professionista tassi di diligenza proba‑ bilmente vicini alla chiaroveggenza, stante la mancata cono‑ scenza di circostanze non comunicate, che ex post verranno contestate e qualificate come palesi. La tecnica redazionale della norma e la trappola della rilevanza In realtà il primo comma della norma suscita già a prima lettura un serio interrogativo: la condotta omissiva è, in qual‑ che modo, para‑tassativizzata dall’ombrello della rilevanza, mentre per quel che riguarda la condotta commissiva, almeno a giudicare dal tenore letterale, l’esposizione di qualsiasi in‑ formazione falsa è bastevole perché il reato sia integrato. I sessanta giorni necessari per la conversione del decreto legge non sono bastati al nostro Parlamento per correggere questa palese disarmonia, introducendo almeno il criterio della rilevanza quale canone di qualificazione delle informa‑ zioni che possono esporre del professionista alla contestazio‑ ne di falso in attestazioni e relazioni. Durante il periodo di vigenza del Decreto Legge, a sotto‑ lineare questa prima grande ombra sulla norma, suggerendo questo tipo di soluzione, quantomeno in termini ermeneutici, è stato anche il Servizio Novità a cura dell’Ufficio del Massi‑ mario della Suprema Corte di Cassazione, con una relazione17 le cui grida d’allarme sul tema sono state in parte esposte anche su stampa specializzata durante il periodo di vigenza del decreto legge18. A ben vedere, però, il requisito della rilevanza è in re ipsa un elemento in grado di suscitare dubbi in merito al rispetto dei canoni di tassatività e determinatezza; ce lo testimoniano la storia e l’evoluzione degli articoli 2621 e 2622 C.C., con il lunghissimo dibattito creato da dottrina e giurisprudenza attorno al concetto di rilevanza, seppur diversamente inteso ed articolato dalle norme sulle false comunicazioni sociali, rispetto a quella sulla falsità delle informazioni attestate dal professionista. Senza voler tornare indietro alle formulazioni precedenti l’ultima novella del falso in bilancio, basterà ricordare anche solo alcune delle problematiche ermeneutiche sorte in quel caso, a causa al riferimento ad un concetto di rilevanza comun‑ 17Pistorelli l. – Carcano D. Rel. cit in nota 7. “se interpretata letteralmente, la norma incriminatrice finisce per rivelare un’asimmetria tra le condotte prese in considerazione, giacché qualsiasi falsità commissiva, ancorché ad oggetto dati di scarsa rilevanza, rischia di integrare il reato di nuovo conio a fronte della previsione, invece, di una più restrittiva modulazione della tipicità delle falsità omissive. Distonia questa non facilmente giustificabile e che potrebbe dunque suggerire interpretazioni tese ad estendere il requisito di rilevanza anche alla condotta commissiva”. 18 Cfr. Bricchetti R. – Pistorelli L. “Operazioni di risanamento, professionisti nel mirino” in Guida al Diritto n. 29/2012del 14.07.2012, pag.45. penale Gazzetta 90 D i r i t t o e p r o c e d u r a que più circoscritto di quello utilizzato dall’Esecutivo prima e dal Parlamento poi con l’introduzione dell’art. 236‑bis L.F. Anche a fronte di un indice concreto come la patrimonializza‑ zione delle soglie di rilevanza, ci sono voluti, infatti, anni di confronti e contributi per stabilire quali fossero il bene giuri‑ dico protetto dalla norma, la natura giuridica delle soglie, i margini di sopravvivenza del concetto di “falso qualitativo”. Eppure quella norma dagli orizzonti liquescenti19 era, in termini di tassatività e determinatezza, ben più precisa di quanto non appaia a prima vista questa. Il rischio di un revirement del falso colposo mascherato da dolo eventuale Questa cornice, ben poco confortante, lascia aperto un interrogativo: il deficit di tassatività della norma e la sua ne‑ bulosa formulazione contribuiscono infatti ad alimentare, almeno in chi scrive, l’idea che dietro l’angolo possa palesar‑ si, in sede applicativa, un tipo di addebito di responsabilità in capo al professionista che somigli sinistramente a quel falso colposo alla cui insussistenza, nel nostro ordinamento pena‑ listico, si è giunti solo dopo aspri e lunghi confronti. Sarebbe confortante poter escludere a priori una contesta‑ zione di falso in attestazioni e relazioni a titolo di dolo even‑ tuale, ma purtroppo l’eccessiva dilatazione dell’utilizzo di contestazioni supportate dalla facile ricerca di questa forma di dolo, unite alla sempre più labile linea di confine che lo divide dalla colpa, non consentono una tale dose di ottimismo, anche a causa di un legislatore in generale pigro, ed in ritardo nell’aggiornare, quantomeno, le cornici edittali dei reati pu‑ nibili a titolo di colpa. p e n a l e F O R E N S E A fronte di “asimmetrie” ‑create dallo stesso legislatore con un metodo di normazione assolutamente alluvionale‑ e da questi poste a motivazione dell’introduzione di questa norma, 20la soluzione scelta rischia di mostrare in sede appli‑ cativa ben più gravi asimmetrie, allo stato latenti. Il rischio concreto in fase giudiziaria è infatti veder coin‑ volto il professionista la cui valutazione prognostica venga resa errata da elementi da lui non controllabili né prevedibili: solo e rigorosamente ex post gli potrebbe infatti essere mosso un addebito di colpevolezza per la mera assenza chiaroveg‑ genza ex ante, il tutto a tutela di beni nei confronti dei quali alcuni comportamenti previsti dalla norma non mostrano nemmeno un connotato minimo di offensività, tale da giusti‑ ficare una scelta di politica criminale così aspra. In conclusione, la norma, così come formulata appare purtroppo estremamente pericolosa per una serie di categorie che vedono sempre più a rischio il loro operato, in un fran‑ gente, come quello della composizione delle crisi d’impresa, nel quale l’ordinamento sembra aver scelto di confermare una insolita abdicazione a tutte le sue monolitiche preogative pubblicistiche, riservandosi, però, di dar a queste spazio con una pretesa di “punire”improvvisamente rigida, alla quale, non fa però da contrappeso alcuna responsabilizzazione di chi ‑in sede concordataria e paraconcordataria e con una quali‑ fica vera e propria di Pubblico Ufficiale‑ ha il ruolo di ammet‑ tere, omologare, “sorvegliare”. L’effettiva offensività delle condotte sanzionate ed una preoccu‑ pante anticipazione della soglia di tutela In termini di ragionevolezza, al termine di questa prima lettura, il legislatore sembrerebbe aver tralasciato un ulterio‑ re dato estremamente rilevante, avendo ricondotto in un alveo singolo situazioni estremamente diverse tra loro, lasciando così trasparire una improvvisa quanto indomabile ansia di punire severamente ciò che fino a ieri aveva volontariamente deciso di lasciare impunito. L’elenco apparentemente breve di attestazioni e relazioni nell’ambito delle quali spiega la sua operatività dell’art. 236‑bis nasconde infatti una rilevante insidia: in termini di tipicità, di colpevolezza, e soprattutto in termini sanzionatori la norma non fa nessuna differenza tra tipi di attestazioni dal contenuto estremamente diverso. Sono sanzionate infatti allo stesso modo sia le falsità che riguardano attestazioni di dati lato sensu fattuali, sia quelle che riguardano valutazioni che non si ritiene errato definire come “prognostiche”, con evidentissimi scarti in termini di elemento psicologico necessario perché sia integrato il reato con un tipo di attestazioni o con un altro: ne deriva quindi, un grave pregiudizio per il professionista‑soggetto attivo del reato, al quale in alcuni casi rischiano di essere richiesti om‑ niscienza e volontà. 19 Napoleoni V.., Gli orizzonti liquescenti delle false comunicazioni sociali: il delitto di cui all’art. 2621 c.c. come reato di pura omission,.in Cass. Pen. 1999 pag. 295 Gazzetta 20Cfr. nota 15 Gazzetta F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o ● CORTE DI CASSAZIONE, Sezioni unite penali, sentenza 17 luglio 2012 (ud. 21 giugno 2012), n. 28719 A cura di Angelo Pignatelli Avvocato È legittimato alla proposizione del ricorso straordinario ex art. 625 bis c.p.p., il condannato al solo risarcimento dei danni in favore della parte civile che prospetti un errore di fatto nella decisione della Corte di cassazione relativa a tale capo *** La questione di diritto per la quale il ricorso è stato rimes‑ so alle Sezioni unite è la seguente: “se sia ammissibile la pro‑ posizione del ricorso straordinario per errore di fatto nei confronti della decisione di legittimità che confermi le statu‑ izioni civili di condanna dell’imputato”. Sul punto, si registrano due contrapposti orientamenti giurisprudenziali: Il primo indirizzo negativo fa leva sull’assunto, più volte ribadito dalle medesime Sezioni unite, secondo il quale, poiché il ricorso straordinario è ammesso solo a favore del condan‑ nato e considerato che il rimedio previsto dall’art. 625 bis c.p.p., ha natura di norma eccezionale, possono costituire oggetto della impugnazione straordinaria soltanto quei prov‑ vedimenti della Corte di Cassazione che rendano definitiva la sentenza di condanna, e non anche altre decisioni, fra le qua‑ li quelle che intervengano in procedimenti incidentali, o prov‑ vedimenti di altra natura, seppure collegati in modo indiretto con la pronuncia definitiva di condanna (sez.un., 30 aprile 2002 n. 16103, Basile; sez.un., 30 aprile 2002, n. 16104, De Lorenzo; sez. IV 03 ottobre 2007, n. 42725, Mediati, Rv. 238302; sez. V, 16 giugno 2006, n. 30373, Nappi). Ne consegue, pertanto che secondo tale orientamento, oggetto del ricorso straordinario possono essere, dunque, esclusivamente pronunce di condanna, dovendosi intendere con tale termine, l’applicazione di una sanzione penale: più in particolare, si è affermato che con l’indicazione del termine “condannato”, quale specificazione soggettiva che identifica la parte legittimata alla proposizione del ricorso straordinario, l’art. 625 bis c.p.p., avrebbe inteso individuare la figura del soggetto imputato, il quale in tale sua qualità abbia subito una condanna ad una delle pene contemplate dalle leggi penali (sez. III, 28 gennaio 2004, n. 6835, Mongiardo, Rv. 228495; sez. V, 08 novembre 2005, n. 45937, Ierinò, Rv. 233218; sez. I, 15 febbraio 2008, n. 11653, Brusa; sez. IV, 21 luglio 2009, n. 38269, Somma, Rv. 245292). L’indirizzo opposto ritiene che alla proposizione dell’erro‑ re di fatto contenuto in un provvedimento della Corte di cas‑ sazione sia legittimato anche il soggetto che, per effetto di esso, risulti condannato anche solo agli effetti civili, sul rilievo che la qualità di condannato sarebbe fatta discendere da una qualsiasi sentenza di condanna, senza ulteriori distinzioni. Ciò si desumerebbe da un passaggio della sentenza delle Sezioni unite De Lorenzo, già citata, nel quale si afferma che, attesa la natura di strumento eccezionale insuscettibile di applicazio‑ ne analogica, costituendo deroga al principio di irrevocabilità delle decisioni della Corte di cassazione, il ricorso straordina‑ rio non è esperibile se non contro sentenze di condanna, senza tuttavia distinguere se di condanna tout court o anche di condanna ai soli effetti civili; cosicché, sarebbe legittimo rite‑ nere che tale strumento sia esperibile, in via generale, contro penale I contrasti risolti dalle Sezioni unite penali ● 91 2 0 1 2 92 D i r i t t o e p r o c e d u r a tutte le sentenze di condanna (sez. I, 12 marzo 2003, n. 12720, Nosari). Nella medesima prospettiva si è più di recente (sez. VI, 27 aprile 2010, n. 26485, Chiatante) ribadita la legittima‑ zione a proporre ricorso straordinario a norma dell’art. 625 bis c.p.p., anche in capo all’imputato (o al responsabile civile ex art. 83 c.p.p.) che risulti condannato al risarcimento dei danni in favore della parte civile, per errore di fatto prodot‑ tosi nella decisione della Corte di cassazione. L’assunto riposa nella ratio della collocazione sistematica della norma, nel senso che il giudice penale è chiamato ad emettere pronunce di condanna, non solo per la responsabilità penale ma anche per quella civile, ove la relativa azione sia stata esercitata in sede penale mediante la costituzione di parte civile, ai sensi dell’art. 74 c.p.p. e segg., in relazione a quanto previsto dall’art. 185 c.p. Una soluzione contraria, apparirebbe in contrasto con i principi costituzionali che valgono tanto nel processo civile che in quello penale. In altri termini, si assisterebbe, proseguono i Giudici Er‑ mellini, ad una irragionevole disparità di trattamento, giacché mentre, ove l’azione di danno fosse stata esercitata in sede propria, la parte sarebbe ammessa a far valere l’errore di fatto della Corte di cassazione attraverso i rimedi previsti dal codi‑ ce di procedura civile, lo stesso diritto non sarebbe esercitabi‑ le in caso di azione civile esercitata nel processo penale. Conclusivamente, le Sezioni unite hanno enunciato il se‑ guente principio di diritto: «è legittimato alla proposizione del ricorso straordinario ex art. 625 bis c.p.p., il condannato al solo risarcimento dei danni in favore della parte civile che prospetti un errore di fatto nella decisione della Corte di cassazione relativa a tale capo». CORTE DI CASSAZIONE, Sezioni unite penali, sentenza 21 giugno 2012 (dep. 17 luglio 2012), n. 28717 Sull’ammissibilità del ricorso straordinario per errore di fatto contro la sentenza di legittimità di parziale annullamento con rinvio *** Le Sezioni unite sono state chiamate a pronunciarsi sul quesito “se possa ritenersi ammissibile la proposizione del ricorso straordinario per errore di fatto di cui all’art. 625 bis c.p.p. avverso la sentenza della Corte di Cassazione che abbia pronunciato l’annullamento con rinvio soltanto in riferimen‑ to alla questione relativa alla sussistenza di una circostanza aggravante, e che, dunque, abbia determinato la irrevocabi‑ lità del giudizio in punto di sussistenza della responsabilità penale”. Al riguardo, si registrano due diversi indirizzi. Il primo nega la legittimazione al ricorso straordinario da parte del condannato con sentenza oggetto di annullamento parziale da parte della Corte di cassazione, in quanto viene, in particolare, valorizzato il rilievo ‑ già enunciato in sez.un., n. 16104 del 27 marzo 2002, De Lorenzo ‑ per il quale, con‑ siderata la natura di rimedio straordinario che caratterizza il ricorso di cui all’art. 625 bis c.p.p., insuscettibile per ciò stesso di applicazione analogica, e tenuto conto del fatto che p e n a l e Gazzetta F O R E N S E esso deroga al principio di irrevocabilità delle decisioni della Corte di cassazione, il ricorso straordinario è ammissibile soltanto contro le sentenze di condanna. E per sentenze di condanna, vertendosi in tema di pronunce della Corte di cassazione, non possono che intendersi le sentenze che riget‑ tano o che dichiarano inammissibili i ricorsi proposti avverso sentenze di condanna. Pertanto, come non sono suscettibili di ricorso straordinario le decisioni di legittimità emesse nell’am‑ bito dei procedimenti incidentali, così non lo sono le decisio‑ ni di annullamento con rinvio, perché non determinano la forma‑ zione del giudicato e quindi non trasformano la con‑ dizione dell’imputato in quella di condannato, che è la sola a fungere da presupposto imprescindibile della legittimazione attiva alla impugnazione straordinaria. In merito, poi, alle decisioni di annullamento, sono impugnabili ‑ secondo tale orientamento ‑ soltanto quelle di annullamento parziale, ma limitatamente a quei capi della sentenza che, secondo quanto disposto dall’art. 624 c.p.p., acquistano autorità di cosa giu‑ dicata perché non in connessione essenziale con i capi annul‑ lati. Per questi ultimi, invece, il ricorso straordinario può es‑ sere esperito soltanto all’esito del giudizio rescissorio, una volta che sia passata in giudicato la sentenza del giudice di merito. Una soluzione, questa, che varrebbe, nei casi di an‑ nullamento totale, dal momento che una siffatta pronuncia travolge tutte le parti della sentenza impugnata e quindi de‑ volve al giudizio rescissorio l’intera res giudicanda, impeden‑ do che l’imputato acquisti la qualità di condannato (sez. I, 28 gennaio 2004, n. 4975, Ratizzino, Rv 227335). Nel medesimo senso, si è anche puntualizzato che la irrevocabilità e la ese‑ cutività della sentenza, condizioni necessarie per la proponi‑ bilità del ricorso straordinario, devono riguardare il capo di imputazione nella sua interezza, e non può dirsi che si sia formato il giudicato se permane la condizione di imputato. Varrebbe quindi il principio secondo il quale non si è in pre‑ senza di una condanna allorché è stata accertata soltanto la responsabilità dell’imputato, ma non è ancora stata applicata la relativa pena (sez. I, 15 giugno 2007, n. 24659, Metelli, Rv 239463; in termini sostanzialmente analoghi, sez. I, 28 gen‑ naio 2009, n. 16692, Mancuso, Rv 243551; sez. V, 16 luglio 2009, n. 40171, Metelli, Rv244613). In senso opposto, si è invece affermato il principio per il quale deve ritenersi legittimato a proporre ricorso straordina‑ rio per errore materiale o di fatto, in qualità di soggetto “condannato”, anche l’imputato nei cui confronti sia interve‑ nuta una sentenza della Corte di cassazione di annullamento con rinvio di una sentenza di condanna, quando il rinvio ri‑ guardi soltanto il quo modo della condotta ed il quantum del conseguente trattamento sanzionatorio, avendo tale pronun‑ cia contenuto e valenza di rigetto per quel che riguarda l’ac‑ certamento dell’an della colpevolezza (sez. V, 21 novembre 2007, n. 217, dep. 2008, Di Caro Scorsone, Rv 239462). In altra occasione, pur ribadendosi l’assunto secondo il quale il rimedio previsto dall’art. 625 bis c.p.p. non può essere attiva‑ to contro sentenze di annullamento con rinvio che non deter‑ minano la formazione della cosa giudicata e che, quindi, non trasformano la condizione giuridica dell’imputato in quella di condannato, si è tuttavia operato un distinguo tra il carattere parziale o totale dell’annullamento; nel primo caso, infatti, la formazione di un giudicato parziale rende ammissibile il ri‑ corso straordinario limitatamente a quei capi della sentenza l u g l i o • a g o s t o F O R E N S E che, a norma dell’art. 624 c.p.p., acquistano autorità di cosa giudicata, non essendo in connessione essenziale con i capi annullati; nel secondo caso, invece, rispetto ai capi investiti dall’annullamento, l’impugnazione straordinaria non può essere rivolta all’annullamento con rinvio. In tale ultima eventualità ‑ si è osservato ‑ la impugnazione straordinaria può ritenersi ammissibile soltanto all’esito del giudizio rescis‑ sorio, allorquando sia passata in giudicato la sentenza emessa dal giudice del rinvio, e deve poter avere ad oggetto sia la decisione con la quale la Corte rigetti o dichiari inammissibi‑ le il ricorso avverso la condanna adottata in sede di rinvio, sia la precedente sentenza di annullamento con rinvio, che all’ul‑ tima si salda ai fini della formazione del giudicato (sez. I, 15 aprile 2009, n. 17362, Di Matteo). L’orientamento che esclu‑ de la legittimazione a proporre immediatamente ricorso straordinario nel caso di sentenza di annullamento parziale con rinvio in punto di pena ‑ differendone la esperibilitàsol‑ tanto all’esito della definizione del giudizio di rinvio e dell’eventuale ricorso per cassazione proposto avverso la re‑ lativa sentenza ‑ non è stato condiviso alla luce delle non poche aporie di sistema che da tale impostazione sarebbero scaturite. Al di là, infatti, della non condivisibilità, per le ra‑ gioni già esposte, del fondamento teorico su cui quell’orien‑ tamento fa leva (si afferma, infatti, che soltanto dopo l’esau‑ rimento del giudizio di rinvio sorgerebbe la condizione di condannato agli effetti della legittimazione a proporre ricor‑ so straordinario) occorre subito osservare come il sistema non richiede affatto ‑ e non sembra anzi consentire ‑ che la senten‑ za del giudice di rinvio possa formare oggetto di ricorso, fa‑ cendo valere un errore (ostativo) della sentenza di annulla‑ mento. Di conseguenza, la sentenza della cassazione che giudichi sulla pronuncia adottata in sede di rinvio (ipotesi, questa, per di più eventuale) non è contaminata da alcun tipo di vizio, posto che l’errore di fatto ha inciso esclusivamente sulla originaria pronuncia rescindente, nella parte in cui ‑ per stare al caso che qui interessa ‑ non ha annullato la sentenza di condanna del giudice di merito. All’esito della approfondita analisi le Sezioni unite hanno affermato il principio per il quale « deve ritenersi legittimata alla proposizione del ricorso straordinario per errore mate‑ riale o di fatto anche la persona condannata con sentenza annullata con rinvio in relazione alla sussistenza di una cir‑ costanza aggravante». CORTE DI CASSAZIONE Sezioni unite penali, sentenza 18 luglio 2012 (ud. 19 aprile 2012), n. 28997 Le Sezioni unite escludono la legittimità della disciplina delle inter‑ cettazioni di conversazioni o comunicazioni ex art. 266 c.p.p. e ss., per eseguire controlli occulti sulla corrispondenza dei detenuti *** La questione di diritto per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni unite, può così essere enunciata: “se alla sottoposi‑ zione a controllo e all’acquisizione probatoria della corrispon‑ denza del detenuto possa‑ no estendersi le disposizioni relative alle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni”. La controversia sorgeva da un provvedimento del pubbli‑ 2 0 1 2 93 co mini‑ stero, convalidato dal G.i.p., che ordinava alla dire‑ zione del carcere l’intercettazione per la durata di 40 giorni della corrispondenza epistolare e telegrafica in ingresso e in uscita destinata al detenuto o inviata da questo, previa estra‑ zione di copia delle missive, senza che di tale attività fosse informato né il detenuto né i mittenti o i destinatari della corrispondenza. L’ordinanza di rimessione alle Sezioni unite riassumeva gli indirizzi in conflitto: il primo orientamento (Sentenza Costa, sez. V, del 18 ottobre 2007, n. 3579, dep. 2008, Rv. 238902), ritiene la disciplina prevista per le intercettazioni di conversa‑ zioni o comunicazioni di cui all’art. 266 c.p.p., applicabile in via analogica anche alle operazioni di intercetta‑ zione della corrispondenza inviata da un detenuto o a lui trasmessa, rile‑ vandosi che l’art. 18‑ter Ord. Pen. ‑ per il quale il detenuto deve essere immediatamente informato in caso di trattenimento della corrispondenza “ha una finalità diversa, di natura preven‑ tiva, … incompatibile con la fase delle indagini preliminari, disciplinata dalle norme del codice di procedura penale”. Il secondo orientamento, espresso nelle sentenze sez. II, del 13 giugno 2006, n. 20228, Rescigno, Rv. 234652, sez. VI, del 13 ottobre 2009, n. 47009, Giacalone, Rv. 245183, sez. V, del 29 aprile 2010, n. 16575, Azoulay, Rv. 246870, precisano “non può ignorarsi che il ricorso alla analogia, … prospetta‑ to nella sentenza Costa per superare l’ostacolo letterale del disposto dell’art. 266 c.p.p., (che fa riferimento alle sole inter‑ cettazioni di conversazioni o comunicazioni telefoniche), an‑ che per la espressa riserva assoluta di legge e di giurisdizione prevista per la compressione di tali diritti dall’art. 15 Cost., non può non destare perplessità per la indubbia compromis‑ sione di diritti costituzionalmente garantiti che comporta”. In base all’art. 254 c.p.p. ‑ precisa la Corte ‑ il sequestro da parte dell’a.g.”di lettere, pieghi, pacchi, valori, telegrammi o altri oggetti di corrispondenza” è assistito da particolare garanzie. E, nel corso delle indagini preliminari, stante la previsione di cui all’art. 353 c.p.p., comma 3, gli ufficiali di polizia giudiziaria, se vi è l’urgente necessità di acquisire og‑ getti di corrispondenza, sono abilitati ad ordinare a chi è preposto al servizio postale di sospendere l’inoltro; ordine che cessa di effetto se il p.m. non dispone il sequestro entro le ventiquattro ore. In ogni caso, disposto il sequestro, d’inizia‑ tiva o su impulso della polizia giudiziaria, il p.m., in base al combinato disposto degli artt. 365 e 366 c.p.p., deve deposi‑ tare il relativo verbale, entro il terzo giorno successivo all’at‑ to, dandone avviso al difensore dell’indagato (salva la facoltà di ritardare il deposito, per non oltre trenta giorni, ricorrendo i presupposti dell’art. 366 c.p.p., comma 2). Ciò detto in via generale, affermano i Giudici Ermellini, non si può dubitare che sia “corrispondenza” anche quella che transita per gli istituti di detenzione, diretta verso l’esterno dal detenuto o a lui spedita; e che il detenuto ha diritto di vedere inoltrata o di ricevere, non trattandosi di res di cui abbia disponibilità l’amministrazione carceraria. E qui la ragione di specifica tutela, oltre che in forza della riferita norma costituzionale, riceve maggior ragione proprio dallo stato di costrizione del soggetto che intrattiene contatti epi‑ stolari con soggetto libero, dovendo egli necessariamente af‑ fidarsi per tali contatti all’amministrazione, che smista la posta diretta ai detenuti o da loro spedita. È quindi proprio in base alla speciale condizione del detenuto, cui deve essere penale Gazzetta 94 D i r i t t o e p r o c e d u r a comunque assicurato il rispetto dei diritti fondamentali com‑ patibili con tale status (v., tra le altre, Corte cost., sentt.nn. 26 del 1999, 212 del 1997, 410 e 349 del 1993), che i poteri di intrusione dell’autorità giudiziaria nella corrispondenza che transita per gli istituti penitenziari ricevono apposita regola‑ mentazione, tra l’altro con previsione di limiti temporali e della facoltà di reclamo, ad opera dell’art. 18‑ter ord. pen., inserito dalla legge 8 aprile 2004, n. 95, anche a seguito di numerose decisioni della Corte EDU (v., tra le tante, sentenze del 23 febbraio 1993 e del 28 settembre 2000, Messina c. Italia, del 15 novembre 1996, Domenichini c. Italia e del 26 luglio 2001, Di Giovine c. Italia). Stante tale peculiare regolamentazione del sequestro di corrispondenza epistolare, ad avviso dei Supremi Giudici, non può essere condiviso l’assunto (espresso in particolare dalla sentenza Costa, cit.) secondo cui la disciplina dell’art. 266 c.p.p., sia applicabile “in via analogica” anche ad essa (sia o non riferibile a soggetto detenuto o internato). Come già rimarcato, il Supremo Consesso ribadisce che in p e n a l e Gazzetta F O R E N S E base all’art. 15 Cost., comma 2, la libertà e segretezza della corrispondenza può avvenire soltanto per atto motivato dell’au‑ torità giudiziaria “con le garanzie stabilite dalla legge”. E in materia presidiata dalla riserva di legge e di giurisdi‑ zione, non è consentita interpretazione analogica o estensiva di discipline specifica‑ mente dettate per singoli settori, quale quella di cui all’art. 266 c.p.p. e ss., che, particolarmente, si riferisce alle intercettazioni “di conversazioni o comunicazio‑ ni telefoniche o di altre forme di telecomunicazione”. Sulla scorta delle argomentazioni richiamare, le Sezioni unite affermano il principio di diritto secondo cui « la disci‑ plina delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, di cui all’art. 266 c.p.p. e ss., non è applicabile alla corrispon‑ denza, dovendosi per la sottoposizione a controllo e la utiliz‑ zazione probatoria del con‑ tenuto epistolare seguire le forme del sequestro di corrispondenza di cui agli artt. 254 e 353 c.p.p., e, trattandosi di corrispondenza di detenuti, anche le particolari formalità stabilite dall’art. 18 ter dell’Ordinamen‑ to Penitenziario». F O R E N S E ● Rassegna di legittimità ● A cura di Alessandro Jazzetti Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Napoli Andrea Alberico Dottore di Ricerca in Diritto Penale Avvocato l u g l i o • a g o s t o 2 0 1 2 95 Casellario giudiziale ‑ Iscrizioni ‑ Decreto penale di condanna ‑ Benefici previsti dall’art. 460, comma quinto, c.p.p. ‑ Cancellazione dell’iscrizione nel casellario giudiziale ‑ Esclusione In tema di decreto penale di condanna, tra i benefici pre‑ visti dall’art. 460, comma quinto, c.p.p. non rientra, quale effetto dell’estinzione del reato, anche la cancellazione dell’iscrizione nel casellario giudiziale, non essendo quest’ul‑ tima tassativamente elencata dall’art. 5 del d.P.R. n. 313 del 2002, lett. g) ed h), che si pone quale unica norma applicabi‑ le a seguito dell’abrogazione dell’art. 687 cod. proc. pen. per effetto dell’art. 52 del citato d.P.R. Cass., sez. I, sentenza 11 gennaio 2012, n. 25041 (dep. 22 giugno 201) Rv. 252732 Pres. Giordano, Est. Tardio Imp. P.G. in proc. Aguzzi, P.M. D’Angelo (Conf.) (Annulla senza rinvio, Gip Trib. Rieti, 19 novembre 2010) Competenza – Competenza per materia ‑ Incompetenza ‑ Rileva‑ bilità ‑ Incompetenza ‑ Conflitto fra Corte d’Assise e tribunale in composizione collegiale ‑ Competenza della Corte d’Assise ‑ Ra‑ gioni ‑ Fattispecie La Corte d’Assise, essendo giudice superiore rispetto agli altri giudici di primo grado ai sensi dell’art. 38 della legge 10 aprile 1951, n. 287, una volta verificata la regolare costituzio‑ ne delle parti, non può più spogliarsi della competenza inve‑ stendo il Tribunale in composizione collegiale. (Nella specie, relativa ad un conflitto fra Corte d’Assise e tribunale in com‑ posizione collegiale, la S. C. ha chiarito che l’avvenuto muta‑ mento del collegio di Assise per incompatibilità del giudice a latere non comporta la regressione del processo alla fase che precede l’apertura del dibattimento). Cass., sez. I, sentenza 19 giugno 2012, n. 25076 (dep. 22 giugno 201) Rv. 252742 Pres. Giordano, Est. La Posta, Imp. Conf. comp. in proc. Li‑ gato, P.M. Galasso (Conf.) (Dichiara competenza, Trib. Santa Maria Capua Vetere, 10 novembre 2011) Fonti del diritto ‑ Circolari ‑ Ausilio per l’interpretazione ‑ Effetti vincolanti ‑ Esclusione ‑ Fattispecie La circolare interpretativa è atto interno alla P.A. che si risolve in un mero ausilio ermeneutico e non esplica alcun effetto vincolante non solo per il giudice penale, ma anche per gli stessi destinatari, poiché non può comunque porsi in con‑ trasto con l’evidenza del dato normativo. (Fattispecie in tema di condonabilità di opera non residenziale, ammessa da Cir‑ colare del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti in via interpretativa e disattesa in fase esecutiva in applicazione del suddetto principio). Cass., sez. III, ordinanza 13 giugno 2012, n. 25170 (dep. 25 giugno 2012) Rv. 252771 Pres. De Maio, Est. Ramacci, Imp. La Mura, P.M. Stabile (Conf.) (Dichiara inammissibile, App. Salerno, 28 giugno 2011) Fonti del diritto ‑ Leggi – Legge penale ‑ Successione di leggi ‑ In‑ tervenuta depenalizzazione ‑ Sentenza di assoluzione perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato ‑ Inesistenza di norme transitorie ‑ Trasmissione degli atti all’autorità amministra‑ tiva ‑ Dovere del giudice ‑ Insussistenza civile Gazzetta 96 D i r i t t o e p r o c e d u r a In caso di annullamento senza rinvio della sentenza im‑ pugnata per non essere il fatto previsto dalla legge come reato, ma solo come illecito amministrativo, il giudice non ha l’ob‑ bligo di trasmettere gli atti all’autorità amministrativa com‑ petente a sanzionare l’illecito amministrativo qualora la legge di depenalizzazione non preveda norme transitorie analoghe a quelle di cui agli artt. 40 e 41 legge 24 novembre 1981, n. 689, la cui operatività è limitata agli illeciti da essa depe‑ nalizzati e non riguarda gli altri casi di depenalizzazione. Cass., sez. un., sentenza 29 marzo 2012, n. 25457 (dep. 28 giugno 2012) Rv. 252693 Pres. Lupo, Est. Fiale, Imp. Campagne Rudie, P.M. Fedeli (Diff.) (Annulla in parte con rinvio, App. Genova, 17 novembre 2010) Impugnazioni ‑ Cassazione – Casi di ricorso ‑ Ricorso straordinario per errore di fatto ‑ Imputato condannato solo agli effetti civili ‑ Legittimazione ‑ Sussistenza È legittimato alla proposizione del ricorso straordinario, a norma dell’art. 625‑bis, c.p.p, anche l’imputato condanna‑ to al solo risarcimento dei danni in favore della parte civile, che prospetti un errore di fatto nella decisione della Corte di cassazione relativamente al capo concernente le statuizioni civili, per l’ontologica identità di diritti processuali tra l’azio‑ ne penale e l’azione civile. Cass., sez. un., sentenza 21 giugno 2012, n. 28719 (dep. 17 luglio 2012) Rv. 252695 Pres. Lupo, Est. Macchia, Imp. Marani, P.M. Ciani (Conf.) (Revoca in parte, Cass., 03 giugno2010) Impugnazioni ‑ Interesse ad impugnare ‑ Assoluzione perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato ‑ Statuizione che dispone la trasmissione degli atti all’autorità amministrativa ‑ Interesse ad impugnare ‑ Sussistenza Nella ipotesi di assoluzione perché il fatto non è più pre‑ visto dalla legge come reato, sussiste l’interesse dell’imputato ex art. 568, comma quarto, c.p.p., ad impugnare con ricorso per cassazione la statuizione concernente l’ordine di trasmis‑ sione degli atti all’autorità amministrativa per l’applicazione delle sanzioni relative a un illecito depenalizzato. Cass., sez. un., sentenza 29 marzo 2012, n. 25457 (dep. 28 giugno 2012) Rv. 252693 Pres. Lupo, Est. Fiale, Imp. Campagne Rudie, P.M. Fedeli (Diff.) (Annulla in parte con rinvio, App. Genova, 17 novembre 2010) Misure cautelari ‑ Personali ‑ Disposizioni generali ‑ Scelta delle misure (criteri) ‑ Art. 1, comma quarto, legge n. 62 del 2011 ‑ Inter‑ pretazione L’art. 1, comma quarto, della legge n. 62 del 2011 (che dichiara applicabili le disposizioni dell’art. 1 solo a decorre‑ re dal 1o gennaio 2014, fatta salva la possibilità di utilizzare i posti già disponibili a legislazione vigente presso gli istituti a custodia attenuata) si interpreta nel senso che tale applica‑ zione differita non può concernere il comma primo (che ha modificato l’art. 275 comma quarto c.p.p. ampliando il no‑ vero dei minori beneficiari della tutela in esso accordata mediante l’elevazione del limite di età che comporta il divie‑ p e n a l e Gazzetta F O R E N S E to di custodia cautelare in carcere per il genitore), mentre, laddove ricorrano esigenze di eccezionale rilevanza, solo queste ultime possono giustificare il differimento dell’appli‑ cazione a far data dal momento in cui sarà completato il piano straordinario delle carceri oppure dal 1o gennaio 2014. Cass., sez. IV, sentenza 26 aprile 2012, n. 22338 (dep. 08 giugno 2012) Rv. 252740 Pres. Marzano, Est. Dovere, Imp. P.M. in proc. Brognoli, P.M. Fodaroni (Diff.) (Rigetta, Trib. lib. Brescia, 21 febbraio 2012) Notificazioni – All’imputato – Decreto di irreperibilità (efficacia) ‑ Decreto di irreperibilità ai fini della notifica dell’avviso di con‑ clusione delle indagini preliminari ‑ Efficacia ai fini della notifica del decreto di citazione a giudizio ‑ Sussistenza ‑ Limiti Il decreto di irreperibilità emesso dal P.M. ai fini della notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari è efficace anche ai fini della notifica del decreto di citazione a giudizio, salvo che il P.M. effettui ulteriori indagini dopo la notifica di detto avviso. Cass., sez. un., sentenza 24 magio 2012, n. 24527 (dep. 20 giugno 2012) Rv. 252692 Pres. Lupo, Est. Davigo, Imp.: Napolitano, P.M. Fedeli (Conf.) (Rigetta, App. Milano, 11 maggio 2011) Parte civile ‑ Impugnazioni ‑ Sentenza di proscioglimento ‑ Speci‑ fico riferimento agli effetti civili ‑ Necessità ‑ Sussistenza È inammissibile l’appello, proposto dalla parte civile avverso la sentenza di proscioglimento, rivolto unicamente ad ottenere l’affermazione della responsabilità penale degli imputati in assenza di alcun riferimento, neppure implicito, agli effetti di carattere civile che si intendano conseguire. Cass., sez. IV, sentenza 3 maggio 2012, n. 23155 (dep. 12 giugno 2012) Rv. 252763 Pres. Sirena PA., Est. Montagni A., Rel. Montagni A., Imp. Di Curzio e altri, P.M. Policastro A. (Diff.) (Rigetta, App. Roma, 24 maggio 2010) Procedimenti speciali ‑ Giudizio abbreviato ‑ In genere ‑ Eccezione di incompetenza territoriale ‑ Ammissibilità ‑ Condizioni L’eccezione di incompetenza territoriale è proponibile “in limine” al giudizio abbreviato non preceduto dall’udienza preliminare, mentre, qualora il rito alternativo venga instau‑ rato nella stessa udienza, l’incidente di competenza può es‑ sere sollevato, sempre “in limine” a tale giudizio, solo se già proposto e rigettato in sede di udienza preliminare. (In mo‑ tivazione la Corte ha precisato che, pur in assenza nel giudi‑ zio speciale di una fase dedicata alla soluzione delle questio‑ ni preliminari, l’eccezione può essere proposta in quella de‑ dicata alla verifica della costituzione delle parti). Cass., sez. un., sentenza 29 marzo 2012, n. 27996 (dep. 13 luglio 2012) Rv. 252612 Pres. Lupo, Est. Siotto, Imp. Forcelli, P.M. Fedeli (Conf.) (Annulla con rinvio, App. Bologna, 21 ottobre 2010) Procedimenti speciali – Giudizio abbreviato ‑ In genere ‑ Richiesta di retrocessione dal rito in conseguenza di contestazione integra‑ tiva ‑ Revocabilità ‑ Condizioni F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o In tema di giudizio abbreviato, la richiesta di retrocessio‑ ne dal rito avanzata ai sensi dell’art. 441 bis c.p.p. può esse‑ re validamente revocata dall’imputato prima che il giudice provveda sulla stessa, non potendosi in tal caso qualificare la suddetta revoca come riproposizione della domanda di abbreviato. Cass., sez. V, sentenza 27 aprile 2012, n. 24125 (dep. 18 giugno 2012) Rv. 252806 Pres. Marasca, Est. Fumo, Imp. Melella e altro, P.M. D’Am‑ brosio (Diff.) (Rigetta, App. Ancona, 28 aprile 2011) Prove ‑ Mezzi di prova ‑ Testimonianza ‑ Incompatibilità – Impu‑ tato di reato collegato ‑ Interrogatorio delle persone indagate in reato connesso o collegato ai sensi dell’art. 371, comma secondo, lett. b) c.p.p. di iniziativa della P.G. ‑ Necessità degli avvisi previsti dall’art. 64 c.p.p. ‑ Sussistenza ‑ Ragioni In tema di interrogatorio delle persone indagate in reato connesso o collegato ai sensi dell’art. 371, comma secondo, lett. b) c.p.p., l’atto deve sempre essere preceduto, a pena di inammissibilità, dagli avvisi previsti dall’art. 64 c.p.p. anche quando è compiuto di iniziativa della polizia giudiziaria, non essendo coerente né ragionevole che detta garanzia sia rico‑ nosciuta solo quando all’interrogatorio proceda il pubblico ministero. Cass., sez. I, sentenza 10 maggio 2012, n. 22643 (dep. 11 giugno 2012) Rv. 252741 Pres. Giordano, Est. Santalucia, Imp. Andriietes, P.M. Volpe (Diff.) (Annulla con rinvio, Trib. Reggio Calabria, 18 maggio 2011) Prove – Mezzi di ricerca della prova ‑ Intercettazioni di conversa‑ zioni o comunicazioni – Esecuzione delle operazioni ‑ Operazioni di ascolto eseguite presso impianti installati in una Procura diver‑ sa da quella che ha disposto le intercettazioni ‑ Trasmissione del procedimento per competenza alla Procura distrettuale ‑ Prose‑ guibilità delle operazioni nei locali della Procura territoriale, ov‑ vero presso apparati diversi ‑ Conseguenze ‑ Indicazione L’attribuzione del procedimento alla Procura distrettuale in ragione della competenza funzionale ex art. 51, com‑ 2 0 1 2 97 ma terzo ‑”bis”, c.p.p., non può di per sé comportare ‑ nel caso in cui il G.i.p. distrettuale abbia disposto la proroga della durata delle operazioni di intercettazione, o, comunque, l’attivazione di nuove intercettazioni ‑ la caducazione delle condizioni legittimanti l’utilizzo di apparati diversi da quelli esistenti presso la Procura della Repubblica del luogo ove erano state attivate le intercettazioni le cui risultanze abbia‑ no determinato la trasmissione del procedimento per com‑ petenza alla Procura distrettuale. Ne consegue che le inter‑ cettazioni possono proseguire presso la Procura territoriale e l’adozione di uno specifico provvedimento esecutivo delle operazioni di registrazione per l’impiego di apparecchiature alternative è richiesto soltanto nell’ipotesi in cui la Procura distrettuale ritenga, per esigenze organizzative o per motivi in ogni caso collegati alle esigenze di indagine, che le suddet‑ te operazioni debbano essere effettuate nei locali della stessa Procura distrettuale, ovvero con impianti in dotazione di altri organi di polizia. Cass., sez. VI, sentenza 6 marzo 2012, n. 25120 (dep. 22 giugno 2012) Rv. 252614 Pres. Di Virginio, Est. Carcano, Imp. Cicala e altri, P.M. Cesqui (Parz. Diff.) (Rigetta in parte, App. Lecce, sez.dist. Taranto, 11 febbraio 2011) Reati fallimentari – Reati di persone diverse dal fallito ‑ Fatti di bancarotta ‑ Bancarotta impropria da reato societario ‑ Compo‑ nente del consiglio di amministrazione ‑ Responsabilità per omesso impedimento del reato ‑ Mancata acquisizione delle in‑ formazioni necessarie allo svolgimento dell’incarico ‑ Reato ‑ Sus‑ sistenza Il componente del consiglio di amministrazione risponde del concorso nella bancarotta impropria da reato societario per mancato impedimento del reato anche quando egli sia consapevolmente venuto meno al dovere di acquisire tutte le informazioni necessarie all’espletamento del suo mandato. Cass., sez. V, sentenza 29 marzo 2012, n. 23091 (dep. 12 giugno 2012) Rv. 252803 Pres. Ferrua, Est. Sandrelli, Imp. P.G. in proc. Baraldi e altro, P.M. Izzo (Conf.) (Annulla con rinvio, App. Bologna, 12 ottobre 2010) penale Gazzetta 98 D i r i t t o ● ● p r o c e d u r a p e n a l e Gazzetta F O R E N S E DIRITTO PENALE Rassegna di merito e A cura di Alessandro Jazzetti Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Napoli Giuseppina Marotta Avvocato Circostanze attenuanti generiche: concessione – Criteri La concessione o no delle circostanze attenuanti generiche risponde a una facoltà discrezionale del giudice, il cui eserci‑ zio, positivo o negativo che sia, deve essere motivato nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente il pensiero del decidente circa l’adeguamento della pena in concreto inflitta alla gravità effettiva del reato e alla personalità del reo. Tali attenuanti non vanno intese, comunque, come oggetto di una “benevola concessione” da parte del giudice, né l’applicazio‑ ne di esse costituisce un diritto in assenza di elementi negati‑ vi, ma la loro concessione deve avvenire come riconoscimen‑ to dell’esistenza di elementi di segno positivo, suscettibili di positivo apprezzamento (Corte di Cassazione, sez. 11 penale, sentenza 17 febbraio – 10 marzo 2011, n. 9849; Cass. pen., sezione V I, sentenza 28 ottobre‑23 novembre 2010 n. 41365). Tribunale Nola, coll. B) sentenza 28 giugno 2012, n. 1743 Pres. Napoletano, Est. Scermino Concorrenza sleale: soggetto attivo – Requisiti (art. 513 bis c.p.) L’art. 513 bis c.p. rimanda ad una ipotesi delittuosa che può essere posta in essere solo ed esclusivamente da soggetti che rivestono una determinata qualifica ossia quella di eser‑ centi di una attività commerciale, industriale o comunque produttiva (cfr. tra le altre sez. VI, sentenza 31 gennaio 1996, n. 7627; sez. II, sentenza 16 maggio 2001, n. 26918). La Su‑ prema corte non ha mancato sul punto di rilevare, non solo che il reato di illecita concorrenza con minacce o violenza (art. 513 bis c.p.) ha natura di reato proprio, in quanto la norma incriminatrice richiede che il soggetto attivo eserciti un’attività commerciale, industriale o comunque produttiva, ma anche che “tale requisito non deve essere inteso in senso meramente formale, essendo sufficiente, per la sua (del reato) configurabilità, lo svolgimento di fatto della predetta attivi‑ tà. Tribunale Nola, coll. A) sentenza 18 luglio 2012, n. 1974 Pres. Est. Aschettino Concorrenza sleale: attività criminali di tipo mafioso – Necessi‑ tà – Esclusione (art. 513 bis c.p.) Sebbene reato in contestazione al capo 1 sia stato intro‑ dotto nel codice penale dalla l. n. 646 del 1982, art. 8 (legge antimafia Rognoni‑La Torre) con la finalità tipica di repri‑ mere forme di concorrenza illecita di stampo mafioso che si attuano con l’intimidazione finalizzata a controllare (o a impedire) la concorrenza nello specifico ambiente della cri‑ minalità organizzata di tipo mafioso (Cass., sez. II, 9 genna‑ io 1998 n. 131), la giurisprudenza ha avuto modo di precisa‑ re che la disposizione in esame, per le modalità di inserimen‑ to nel codice penale, può trovare applicazione anche al di fuori dell’ambito delle attività criminali di tipo mafioso (Cass., sez. VI, 12 aprile 2007 n. 37528), in quanto il riferi‑ mento alle condotte tipiche della criminalità organizzata non intende affatto dimensionare l’ambito di applicabilità della F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o norma, restringendolo alle sole operazioni di criminalità organizzata ed a condotte di appartenenti ad organizzazioni criminali, ma solo caratterizzare i comportamenti punibili, con il ricorso ad un significativo parallelismo (Cass., sez. II, 15 marzo 2005 n. 13691; Cass., sez. III, 15 febbraio 1995 n. 450). In definitiva, la disposizione in esame, avente quale scopo la tutela dell’ordine economico e, quindi, del normale svolgimento delle attività produttive ad esso inerenti, mira a reprimere tutti quei comportamenti diretti ad arrecare, nell’esercizio di un’attività imprenditoriale, una turbativa al libero mercato, attraverso l’uso strumentale della violenza o della minaccia (cfr. sez. VI, sentenza n. 1089/2009). Tribunale Nola, coll. A) sentenza 18 luglio 2012, n. 1974 Pres. Est. Aschettino Estorsione: intermediazione per la restituzione del bene sottrat‑ to ‑ Sussistenza del reato (art. 629 c.p.) Il delitto di estorsione punisce il fatto di colui che chiede ed ottiene dal derubato il pagamento di una somma di denaro come corrispettivo dell’attività di intermediazione posta in es‑ sere per la restituzione del bene sottratto, in quanto la vittima subisce gli effetti di una minaccia implicita, e cioè quella della mancata restituzione del bene, in mancanza del versamento della richiesta di denaro a compenso dell’attività di intermedia‑ zione svolta (sez. II, sentenza n. 4565 del 02 dicembre 2004 ud. ‑ dep. 08 febbraio 2005 ‑ Rv. 230908). Quando, vi è la richiesta di un compenso a chi possedeva, accompagnata dalla prospet‑ tazione della mancata restituzione del bene sottratto, detta condotta non può che considerarsi tesa a coartare l’altrui vo‑ lontà a scopo di profitto: colui che sia stato privato illecitamen‑ te di un bene, infatti, conserva il diritto alla restituzione, oltre che l’aspettativa morale di riacquistarlo, sicché la richiesta di denaro in cambio dell’adempimento dell’obbligo giuridico di restituire, che incombe sull’agente, influisce sulla libertà di de‑ terminazione del soggetto passivo ed integra, di per sé, minaccia rilevante ai sensi dell’alt 629 c.p. (sez. II, sentenza n. 8309 del 24 giugno 1998 ud. (dep. 10 luglio 1998) Rv. 211184). Tribunale Nola coll. B) sentenza 14 giugno 2012, n. 1571 Pres. Est. Napoletano Estorsione: aggravante di più persone riunite – Differenze con concorso di persone nel reato – Requisiti (art. 629 c.p.) Mette conto evidenziare che sul punto si sono, di recente, pronunciate le Sezioni unite della Corte di Cassazione, chia‑ mate a dirimere il contrasto giurisprudenziale segnalato, precisando che “nel reato di estorsione, la circostanza aggra‑ vante speciale delle più persone riunite richiede la simultanea presenza di non meno di due persone nel luogo ed al momen‑ to di realizzazione della violenza o della minaccia ‑ sez.un., sentenza n. 21837 del 29 marzo 2012 ud. (dep. 05 giugno 2012) Rv. 252518). Le Sezioni unite hanno risolto il contra‑ sto nel senso sopra riportato, sulla scorta della interpretazio‑ ne letterale, rispettosa del principio di legalità nella duplice accezione della precisione e determinatezza della condotta punibile e del divieto di analogia in malam partem in materia penale e di quella logico sistematica, delineando con chiarez‑ 2 0 1 2 99 za la differenza tra la ipotesi di concorso di persone nel de‑ litto di estorsione e quella aggravata delle “più persone riu‑ nite” nel luogo e nel momento ove venga esercitata la violen‑ za o la minaccia tesa a coartare la volontà della vittima, non potendosi la circostanza aggravante identificare con una generica ipotesi di concorso di persone nel reato. Tribunale Nola, coll. B) sentenza 14 giugno 2012, n. 1571 Pres. Est. Napoletano Falsa testimonianza: causa di non punibilità – Limiti e presupposti (art. 372 – 384 c.p.) In tema di falsa testimonianza la causa di non punibilità prevista dall’art. 384 c.p. è applicabile anche quando il pros‑ simo congiunto dell’ ‘imputato abbia operato la scelta di non avvalersi della facoltà di astenersi dal testimoniare, in quan‑ to la suddetta causa, che trova la sua giustificazione nell’ istinto della conservazione della propria libertà e del proprio onore (nemo tenetur se detegere) e nell’esigenza di tener con‑ to agli stessi fini dei vincoli di solidarietà familiare, presup‑ pone una situazione di necessità nettamente distinta da quella prevista in via generale dall’art. 54 c.p. poiché non richiede che il pericolo non sia stato causato dall’agente, nella quale il nocumento alla libertà e all’onore è evitabile solo con la commissione di uno dei reati contro l’amministra‑ zione della giustizia: ne consegue che l’obbligo legale di testi‑ moniare o anche la libera scelta di farlo, nell’ipotesi in cui non si eserciti, ove prevista, la facoltà di astenersi, non inci‑ dono sull’operatività della suddetta esimente. Tribunale Nola coll. D) sentenza 6 giugno 2012, n. 1483 Pres. Napoletano, Est. Di Petti Lesioni volontarie: indebolimento permanente di organo – Pre‑ supposti (art. 582, 585 c.p.) In tema di lesioni volontarie, l’indebolimento permanen‑ te della funzione visiva non è escluso dal fatto che l’occhio abbia riacquistato completa efficienza grazie all’applicazione d’una protesi poiché la permanenza dell’indebolimento va riferito alla normale funzione dell’organo, prescindendo dall’uso coadiuvante di mezzi artificiali (in senso conforme sez. V, sentenza n. 9903 del 06 ottobre 1993). Per cui la ri‑ costruzione del pavimento orbitale a mezzo di una membra‑ na riassorbibile comporta un indebolimento permanente dell’organo e della funzione visiva anche in assenza di una diplopia, ciò vale anche per gli organi costituenti plurimi o a funzione similare laddove il danno ad uno solo dell’organo geminato (es. rene, testicolo, occhio), può configurare l’ag‑ gravante dell’indebolimento permanente anche se non quella della perdita dell’uso di organo. Tribunale Nola, coll. A) sentenza 18 luglio 2012, n. 1974 Pres. Est. Aschettino Reato proprio: responsabilità dei concorrenti – Estensione – Cri‑ teri di valutazione ed applicazione (art. 117 c.p.) L’art. 117 c.p. prevede il “mutamento del titolo dì reato per taluno dei concorrenti” posto che, in assenza della norma penale Gazzetta 100 D i r i t t o e p r o c e d u r a specifica, la condotta posta in essere dagli imputati potrebbe essere ricondotta al reato di violenza privata o di estorsione. Come è noto l’estensione della responsabilità per il reato proprio anche ai concorrenti che non rivestono la qualifica richiesta dalla norma ha formato oggetto di attenzione ed è stata sottoposta ad una profonda rivisitazione dalla giuri‑ sprudenza di legittimità che si è sforzata di far rientrare la disciplina codicistìca nell’alveo del principio di personalità della responsabilità fissato dall’art. 27 della Costituzione. In particolare sì è escluso che l’ipotesi disciplinata dall’alt. 117 c.p. possa configurare un’ipotesi di responsabilità c.d. “og‑ gettiva” che scatta a prescindere da qualsìasi valutazione in ordine alla colpevolezza del soggetto agente, al contrario si è sostenuto, e sul punto il collegio condivide in pieno l’appro‑ do della giurisprudenza di legittimità, che è sempre necessa‑ rio operare una rigorosa valutazione della sussistenza del nesso psichico che deve riguardare non solo la volontà e co‑ scienza della condotta criminosa ma anche la conoscenza da parte del concorrente privo della qualifica della sussistenza in capo ad uno dei concorrenti della qualità che vale a qua‑ lificare il reato come reato proprio. Tribunale Nola coll. A) sentenza 18 luglio 2012, n. 1974 Pres. Est. Aschettino Recidiva: aumento obbligatorio – Condizioni (art. 99 c.p.) Per i delitti contemplati dall’art. 407 co. 2 lett. a), l’art. 99 co. 5 c.p., prevede l’obbligatorietà della rilevanza sanziona‑ toria della recidiva. Tale comma di chiusura si riferisce ad ogni forma di recidiva facoltativa ed ha la funzione di prefi‑ gurare in rapporto a ciascuna di esse altrettante ipotesi di recidiva obbligatoria, sicché l’applicazione dell’aumento di pena è sottratto alla valutazione discrezionale del giudice, quando il soggetto commetta un nuovo delitto incluso tra quelli indicati dall’art. 407 co. 2 lett. a). Tanto è avvalorato anche dal dato testuale della disposizione, avendo il legisla‑ tore non solo espressamente previsto l’obbligatorietà dell’au‑ mento di pena, ma addirittura stabilito che nei casi indicati dal secondo comma, per i quali non è previsto un aumento obbligatorio nel quantum, l’aumento da apportare non pos‑ sa essere inferiore ad un terzo della pena da infliggere per il nuovo delitto. Corte di Appello Napoli, sez. I sentenza 12 luglio 2012, n. 3685 Pres. Marotta, Est. Saraceno Ricettazione: delitto presupposto – Accertamento – Criteri (art. 648 c.p.) Ai fini della configurabilità del reato di ricettazione, non si richiede l’accertamento giudiziale del delitto presupposto né dei suoi autori, né dell’esatta tipologia di esso, essendo sufficiente che sia raggiunta la prova logica della provenien‑ za illecita delle utilità oggetto delle operazioni compiute: il che, nella specie, ricorreva per effetto dei riscontri testimo‑ niali resi dall’Organo di PG nonché della denuncia di furto versata in atti (Cass. pen., sez. V, 21 maggio 2008, n. 36940; Cass. pen., n. 36779 del 2006, Cass. pen., sez, II, 11 maggio 2005, n. 23396, Cass. pen., sez, II, 23 febbraio 2005, n. 13448, Cass. pen., sez, IV, 7 novembre 1997, n. 11303, p e n a l e Gazzetta F O R E N S E Cass, pen., n. 2311 del 1995). Tribunale Nola, coll. B) sentenza 28 giugno 2012, n. 1743 Pres. Napoletano, Est. Scermino Ricettazione: elemento materiale – Possesso della cosa (art. 648 c.p.) Sotto altro profilo, va rammentato come ai tini della sussistenza del delitto di ricettazione. la ricezione, che ne è l’elemento materiale, è comprensiva di qualsiasi consegui‑ mento del possesso della cosa proveniente da reato, mentre, quanto al profitto, è sufficiente qualsiasi utilità o vantaggio derivante dal possesso della cosa (cfr. Cass., sez. II, n. 2804 del 16 marzo 19923: onde il fatto di aver sorpreso il preve‑ nuto nella materiale disponibilità del bene furtivo soddisfa‑ ceva per tabulas i richiamati elementi richiesti dalla norma incriminatrice. Tribunale Nola, coll. B) sentenza 28 giugno 2012, n. 1743 Pres. Napoletano, Est. Scermino Ricettazione: provenienza delittuosa del bene –Consapevolezza dell’agente – Limiti e condizioni (art. 648 c.p.) Ai fini del reato contestato, la consapevolezza dell’agente della provenienza delittuosa della cosa acquistata o ricevuta può ricavarsi da qualsiasi elemento, e, in particolare, dalla sua peculiare natura, in quanto tale da ingenerare in una persona di media levatura la certezza che la cosa non poteva essere legittimamente posseduta da chi la deteneva ovvero, anche, dal Pomessa ‑ o non attendibile ‑ indicazione della provenienza della cosa ricevuta, la quale è sicuramente rive‑ latrice della volontà di occultamento, logicamente spiegabile con un acquisto in mala fede. (Cass. pen., sez. II, 22 gennaio 2008, n. 5996; Cass. pen., sez. II, 17 maggio 2007, n. 23387; Cass. pen., sez. II, 03 aprile 2007, n. 23025; Cass. pen., sez. II, 07 aprile 2004, n. 18034). Tribunale Nola, coll. B) sentenza 28 giugno 2012, n. 1743 Pres. Napoletano, Est. Scermino Riciclaggio: condotta punibile ‑ Presupposti (art. 648 bis c.p.) Sussiste il reato di cui all’art. 648 bis c.p. nell’ipotesi in cui l’agente, ricevuta un’autovettura che egli sa essere di pro‑ venienza delittuosa, vi apponga, allo scopo di ostacolare l’accertamento ditale provenienza, targhe di pertinenza di altro veicolo o compia altre simili operazioni tese ad impedi‑ re il riconoscimento o l’identificazione del veicolo (cfr. tra le altre Cass. pen., sez II, n. 12766 del 11/200; Cass. pen. 2 giugno 2000, n. 6534; Cass. pen., sez I 21 giugno 1997 n. 3373). Tribunale Nola, coll. B) sentenza 14 giugno 2012, n. 1568 Pres. Napoletano, Est. De Majo Riciclaggio: elemento soggettivo – Criteri di accertamento (art. 648 bis c.p.) L’elemento soggettivo del delitto di riciclaggio è integrato dal dolo generico, che ricomprende sia la volontà di compie‑ F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o re le attività relative ad impedire l’identificazione della pro‑ venienza delittuosa di beni, sia la consapevolezza di tale provenienza (Cass., sez. II, 7 gennaio 2011,n. 546). La scien‑ za dell’agente in ordine alla provenienza dei beni da determi‑ nati delitti può sì essere desunta da qualsiasi elemento ma sussiste solo quando gli indizi in proposito siano così gravi ed univoci da autorizzare la logica conclusione della “certezza” che i beni ricevuti per la sostituzione siano di derivazione delittuosa specifica (Cassazione penale, sez. VI, n. 9090 del 06 aprile 1995). Ed a tal fine il giudice di merito è tenuto ad indagare se, date le particolari modalità del fatto, l’agente poteva, allorché ricevette, acquistò od occultò il bene, aver raggiunto la certezza della sua illecita provenienza e, dunque, dell’ anteriorità di un reato commesso da altri. Tribunale Nola, coll. B) sentenza 14 giugno 2012, n. 1568 Pres. Napoletano, Est. De Majo Tentato omicidio: elementi costitutivi – Valutazione (art. 56, 575 c.p.) Al fine di determinare la sussistenza del reato tentato, deve essere compiuta una duplice valutazione che tenga conto del profilo oggettivo della fattispecie tentata (idoneità e non equivocità degli atti) e del profilo soggettivo della stessa (dolo). L’idoneità, ossia la suscettibilità degli atti a produrre l’evento previsto dalla norma incriminatrice quale elemento del delit‑ to consumato, va valutata con giudizio ex ante, che tenga conto delle circostanze in cui opera l’agente e delle modalità dell’azione, in modo da determinarne la reale adeguatezza causale e l’attitudine degli stessi atti a creare una situazione di pericolo attuale e concreto di lesione del bene protetto dalla norma. Gli atti sono, quindi inidonei se, in assoluto, sulla base di detta valutazione, difettino intrinsecamente di qualsiasi efficacia causale, senza ovviamente tener conto delle circostanze impreviste che escludono l’evento. L’univo‑ cità della direzione dell’atto, cioè la probabilità che, per il grado di sviluppo dell’azione, possa prevedersi come verosi‑ mile la consumazione del delitto va desunta, anch’essa con giudizio ex ante, non solo dalla sua oggettiva sintomaticità (cd. Criterio di essenza) ma anche aliunde da qualsiasi ele‑ mento collaterale (cd. Criterio di prova), come ad esempio dall’ulteriore condotta dell’agente e dalle sue successive di‑ chiarazioni. Tribunale Nola, G.u.p. Sepe sentenza 30 luglio 2012, n. 334 2 0 1 2 101 Violenza sessuale: condotte punibili (art. 609 bis c.p.) La condotta vietata dall’art. 609 bisc.p. ricomprende ‑ se connotata da costrizione (violenza minaccia o abuso di auto‑ rità), sostituzione ingannevole di persona ovvero abuso di condizioni di inferiorità tisica o psichica ‑ oltre ad ogni forma di congiunzione carnale, qualsiasi atto che, risolvendosi in un contatto corporeo tra soggetto attivo e soggetto passivo, ancorché fugace ed estemporaneo, o comunque coinvolgendo la corporeità sessuale di quest’ ultimo, sia finalizzato e nor‑ malmente idoneo a porre in pericolo la libertà di autodeter‑ minazione del soggetto passivo nella sua sfera sessuale. Le finalità dell’agente e l’eventuale soddisfacimento del proprio piacere sessuale non assumono un rilievo decisivo ai tini del perfezionamento del reato, che è caratterizzato dal dolo ge‑ nerico e richiede semplicemente la coscienza e volontà di compiere atti pervasivi della sfera sessuale altrui. Ne deriva che anche i palpeggiamenti ed i toccamenti possono costitui‑ re una indebita intrusione nella sfera sessuale. laddove il ri‑ ferimento al sesso non deve limitarsi alle zone genitali, com‑ prendendo pure quelle ritenute «erogene» (stimolanti dell’istinto sessuale) dalla scienza medica, psicologica ed antropologico‑sociologica, siccome parimenti suscettibili di eccitare la concupiscenza sessuale anche in modo non com‑ pleto e/o di breve durata, (Cassazione penale, sez. IV. 03 ottobre 2007. n. 3447; Cassazione penale, sez. III, 02 febbra‑ io 2007, n. 9250; Cassazione penale, sez. III, 05 giugno 2008, n. 27469: Cass. pen., sez. un. 27 novembre 2008, n. 3287.) Tribunale Nola, coll. B) sentenza 14 giugno 2012, n. 1566 Pres. Napoletano, est. Scermino Violenza sessuale: elemento soggettivo – Requsiti (art. 609 bis c.p.) L’elemento soggettivo del reato di abuso sessuale consiste nella coscienza e volontà di compiere un atto invasivo e lesi‑ vo della libertà sessuale della persona non consenziente, re‑ stando pertanto irrilevante l’eventuale fine ulteriore, sia esso di concupiscenza, ludico o d’umiliazione. propostosi dal soggetto agente. Tribunale Nola, coll. B) sentenza 14 giugno 2012, n. 1566 Pres. Napoletano, Est. Scermino PROCEDURA PENALE Tentato omicidio: pericolo di vita – Nozione e criteri di valutazione (art. 56, 575 c.p.) La nozione medica di pericolo di vita, può costituire per il Giudice un indice della idoneità degli atti posti in essere dall’agente, ma non può essere l’unico, necessario parametro posto a base della decisione. È ben possibile, infatti, che un’azione sia assolutamente idonea a cagionare la morte di un uomo e sia altresì diretta in maniera inequivocabile a rag‑ giungere tale risultato, pur senza ledere minimamente l’inte‑ grità fisica della vittima (si pensi ad es. al caso di un soggetto contro il quale viene sparato un colpo di arma da fuoco che però non lo raggiunge, mancandolo di pochi centimetri.) Tribunale di Nola, G.u.p. Sepe sentenza 30 luglio 2012, n. 334 Prova documentale: sentenze nonirrevocabili ‑ Valutazione ‑ Limiti (art. 238 bis c.p.) Le sentenze pronunziate in procedimenti penali diversi e non ancora divenute irrevocabili, legittimamente acquisite al fascicolo del dibattimento nel contraddittorio tra le parti, possono essere utilizzate come prova limitatamente all’esi‑ stenza della decisione e alle vicende processuali in esse rap‑ presentate, ma non ai fini della valutazione delle prove e della ricostruzione dei fatti oggetto di accertamento in quei procedimenti. Tribunale Nola, coll. C) sentenza 25 maggio 2012, n. 1356 Pres. Di Iorio, Est. Cervo Napolitano penale Gazzetta 102 D i r i t t o e p r o c e d u r a p e n a l e Valutazione della prova: testimonianza della persona offesa mi‑ norenne in caso di reati contro la libertà sessuale – Criteri (art. 192 c.p.p.) Costituisce generale e consolidato principio quello secondo il quale, in tema di reati contro la libertà sessuale, la valutazio‑ ne del contenuto delle dichiarazioni della persona offesa mino‑ renne, oltre a non sfuggire alle regole generali in materia di testimonianza. in relazione alla attenta verifica della natura disinteressata e della coerenza intrinseca del narrato, richiede la necessità di accertare. da un lato, la cosiddetta capacità a deporre, ovvero l’attitudine psichica, rapportata all’età, a me‑ morizzare gli avvenimenti e a riferirne la verificazione in modo coerente e compiuto. e. dall’altro, il complesso delle situazioni che attingono la sfera interiore del minore, il contesto delle relazioni con l’ ambito familiare ed extrafamiliare e i processi di rielaborazione delle vicende vissute (Cass. pen., sez. III, sent. n. 39994 del 26 settembre 2007, RV. 237952). Più in partico‑ lare, si rileva che con il necessario uso dell’indagine psicologica, condotta da un consulente o da un perito, due aspetti prelimi‑ nari debbono essere vagliati dal Giudicante: l’attitudine del minore a testimoniare, sotto il profilo intellettivo ed affettivo, e la sua credibilità (Cass. sez. III, sent. n. 41282 del 5 ottobre 2006, RV. 235578). Il primo consiste nell’accertamento della capacita del minore di recepire le informazione di raccordarle con altre, di ricordarle e di esprimerle in una visione complessa. da considerare in relazione al1’età, alle condizioni emozionali, che regolano le sue re1azoni con il mondo esterno, alla qualità e natura dei rapporti familiari. Il secondo è diretto ad esamina‑ re il modo in cui la giovane persona offesa ha vissuto ed ha ri‑ elaborato la vicenda, in maniera da selezionare sincerità, tra‑ visamento dei fatti e menzogna sebbene, questo ulteriore ac‑ certamento è stato talvolta inserito nella diversa tematica della valutazione della generale attendibilità del mezzo di pro‑ va venendo a coincidere con essa in tal senso. Tribunale Nola, coll. B) sentenza 14 giugno 2012, n. 1566 Pres. Napoletano, Est. Scermino Tribunale Nola, coll. B), sentenza 14 giugno 2012, n. 1566, Pres. Napoletano, Scermino est., De Majo. Valutazione della prova: escussione di persona offesa da abuso sessuale – Verifica psicologica – Necessità – Limiti e condizioni (art. 192 c.p.p.) La pregnante verifica psicologica di chi denuncia un abu‑ so sessuale si rende necessaria solo allorché la parte lesa sia un soggetto che si trova ancora nella prima infanzia, non anche quando si tratti dì persona già adolescente: ciò in considera‑ zione della naturale maturazione connessa all’età ed in assen‑ za di elementi ‑ quali una particolare predisposizione all’ela‑ borazione fantasiosa od alla suggestione ‑ tali da rendere dubbio il narrato. In altri termini, superata la prima infanzia, opera secondo la più avvertita giurisprudenza una sorta pre‑ sunzione iuris tantum di piena capacità di distinguere la real‑ tà e di comprendere il significato degli accadimenti a favore del dichiarante: presunzione superabile solo a fronte di con‑ creti indici di segno contrario (cfr, Cass. sez. III, sent n. 44971 del 6 novembre 2007. Rv. 238279, nel caso di specie, la per‑ sona offesa aveva meno di 11 anni; in termini analoghi, Cass., sez III, sent. n. 27742 del 6 maggio 2008, RV. 240695, a mente della quale «la sola età adolescenziale non costituisce “in re ipsa” circostanza tale da escludere la capacità a deporre in assenza di patologie incidenti su tale capacità»). LEGGI PENALI SPECIALI Gazzetta F O R E N S E Valutazione della prova: testimonianza di p.o.minorenne ‑ Rimo‑ zione/reticenza – Credibilità ‑ Sussistenza (art. 192 c.p.p.) Il dato della rimozione e del patimento era sintomatico non solo del grave imbarazzo che stava vivendo in quel mo‑ mento la dichiarante, ma anche della veridicità di episodi che, alla loro rievocazione, erano capaci di innescare nuovamen‑ te, nella sua sfera psichica, una forte sofferenza emotiva ed espositiva, il che non poteva che confermare in via logico‑in‑ diziaria la effèttività dei fatti riferiti, essendo la iniziale reti‑ cenza, vergogna ed angoscia nella narrazione incompatibile con la non verificazione dei fatti riferiti (cfr, Cass. sez. III, sent. n. 1057 del 19dicembre 2006, RV. 236024). Tribunale Nola, coll. B) sentenza 14 giugno 2012, n. 1566 Pres. Napoletano, Est. Scermino Sentenze irrevocabili: valutazione ‑ Criteri e limiti (art. 238 bis c.p.p.) Le sentenze irrevocabili acquisite ai sensi dell’art. 238 bis c.p.p.. sono pienamente utilizzabili ai fini della prova del fatto in esse accertato, non solo di quello direttamente riferibile alla statuizione contenuta nel dispositivo, ma anche di ogni altra acquisizione fattuale evidenziata nel corpo della motiva‑ zione, purché siano oggetto di valutazione alla stregua dei criteri fissati nello stesso art. 238 bis attraverso il richiamo all’art. 192 co. 30 c.p.p., dunque purché siano valutate unita‑ mente agli altri elementi che ne confermino l’attendibilità. Tribunale Nola, coll. C) sentenza 25 maggio 2012, n. 1356 Pres. Di Iorio, Est. Cervo, Napolitano Armi: porto illegale – Detenzione – Assorbimento – Limiti e con‑ dizioni (l. 110/75) In tema di reati concernenti le armi, il delitto di porto il‑ legale assorbe per continenza quello di detenzione, escluden‑ done il concorso materiale, solo quando la detenzione dell’ar‑ ma inizi contestualmente al porto della medesima in luogo pubblico e sussista altresì la prova che l’arma non sia stata in precedenza. Pertanto, l’affermazione di responsabilità per il reato di porto illegale di arma comporta, inassenza di prova contraria – come nella fattispecie in esame ‑. l’affermazione di responsabilità per il connesso reato di detenzione illegale della stessa arma, in quanto tale reato costituisce il normale antecedente logico del primo sicché è ravvisabile il concorso tra i due reati, in quanto si tratta di condotte diverse che inte‑ grano distinte ipotesi delittuose ‑ sez. II, sentenza n. 3998 del 13 gennaio 2010 ud. (dep. 29 gennaio 2010) Rv. 246427. Tribunale Nola, coll. B) sentenza 25 maggio 2012, n. 1355 Pres. Napoletano, Est, Scermino F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o Armi: nozione di clandestinità (l. 110/75) Quanto al reato di cui all’art. 23 l. 110/75, si osserva che rientra nella nozione di arma clandestina quella il cui nume‑ ro di matricola sia stato totalmente, o anche solo parzialmen‑ te, cancellato, atteso che la norma contenuta nell’art. 23 1. 110/75 mira a garantire la facile ed immediata controllabilità dell’arma ai fini di un pronto riconoscimento della sua pro‑ venienza. Pertanto, per la sussistenza del reato in esame, non è necessario che la mancanza o l’alterazione dei dati di im‑ matricolazione dell’arma sia ditale natura da non consentire la ricostruzione dei numeri, contrassegni o sigle, essendo, invece, sufficiente che siffatta ricostruzione, anche se possi‑ bile con i mezzi offerti dalla tecnica, sia resa più difficoltosa o comunque ritardata. Né è necessario che le manomissioni riguardino tutti gli estremi relativi, bastando l’abrasione del solo numero di matricola (o addirittura di parte dello stesso) perché, anche in tali ipotesi, si rendano disagevoli la indivi‑ duazione di ciascuna arma ed il controllo dei vari movimen‑ ti della stessa (Cass. pen., sez. I, 21 marzo 85, n. 2618). Tribunale Nola, coll. B) sentenza 25 maggio 2012, n. 1355 Pres. Napoletano, Est, Scermino Armi: ricettazione – Presupposti (l. 110/75 – art. 648 c.p.) Relativamente al reato di ricettazione, si osserva che in mancanza di elementi atti a dimostrare la legittima prove‑ nienza dell’arma ‑ e quindi che il detentore ha provveduto di persona ad eliminare i contrassegni, commettendo, così. il reato di cui all’art. 23 quarto comma l. 110/75 si deve presu‑ mere l’esistenza del delitto di ricettazione sulla base del fatto stesso del possesso dell’arma clandestina, da ritenersi indizio sufficiente dell’illecita provenienza dell’arma: in tal caso, il detentore dovrà rispondere sia di ricettazione che del reato previsto dall’art. 23, terzo comma della legge citata. Tribunale Nola, coll. B) sentenza 25 maggio 2012, n. 1355 Pres. Est. Napoletano Armi: detenzione e porto – Armi comuni e armi clandestine ‑ Con‑ corso di reati – Condizioni (l. 497/74 – l. 110/75) Tra i reati di detenzione e porto di arma comuni da sparo (artt. 10,12, e 14 l. n. 497/74 sostitutivi degli artt. 2,4 e 7 l. n. 895167) e i reati previsti dall’art. 23 l. 110/75 non si veri‑ fica alcun assorbimento, tutelando le norme rispettivamente indicate per i detti reati un bene giuridico diverso, infatti la norma contenuta nel citato art. 23 l.110/75 (come già eviden‑ ziato sopra) mira a garantire la facile ed immediata controlla‑ bilità dell’arma ai fini di un pronto riconoscimento della sua provenienza, mentre le norme relative alla denunzia delle armi e alla licenza di porto d’armi sono dettate perché l’Au‑ torità di PS. possa avere tempestiva conoscenza delle persone che detengono le armi e che sono autorizzate a portarle fuori della propria abitazione (Cass. pen., sez. I, 21 aprile 88, n. 4862). Tribunale Nola, coll. B) sentenza 25 maggio 2012, n. 1355 Pres. Est. Napoletano 2 0 1 2 103 Armi: ricettazione e detenzione illegale – Concorso – Sussistenza (l. 110/75 – art. 81 c.p.) Tra il delitto di detenzione di arma clandestina e quello di ricettazione, non sussiste un rapporto di specialità, sia per la diversa obiettività giuridica delle fattispecie, sia per il diverso contenuto dei due precetti in presunto conflitto, avuto riguardo al fatto che il “delitto presupposto della ricettazione di un’arma si identifica nella “clandestinizzazione”, ad opera di terzo, dell’arma stessa (Cass. pen., sez. II, 5 aprile 89, n. 4700). Tribunale Nola, coll. B) sentenza 25 maggio 2012, n. 1355 Pres. Est. Napoletano Bancarotta fraudolenta: soggetto attivo – Responsabilità (art. 216 L.F.) Tra i soggetti attivi del reato è compreso l’amministratore di fatto in quanto qualsiasi soggetto che di fatto si sia inserito nell’attività amministrativa di una società poi dichiarata fallita, risponde del reato di cui agli artt. 2l6 e 223 legge fallimentare, come diretto destinatario delle disposizioni in esse contenute. le quali indicano, tra gli altri. gli amministratori, con riferimen‑ to non ad una formale attribuzione di qualifiche. ma all’eserci‑ zio concreto delle funzioni che la sostanziano. Ne deriva che l’amministratore di fatto di una società può rispondere del rea‑ to fallimentare quand’anche l’amministratore legale della stessa non sia ritenuto colpevole sul punto, dovendosi aver riguardo all’effettivo potere di gestione svolto nell’attività sociale. Tribunale Nola, coll. A) sentenza 13 giugno 2012, n. 1559 Pres. Aschettino, Est. de Majo Bancarotta fraudolenta: amministratore di fatto – responsabili‑ tà – Sussistenza (art. 216 L.F.) Secondo l’interpretazione giurisprudenziale. l’amministra‑ tore di fatto risponde del reato di cui agli artt. 223 e 216 legge fallimentare sia quale “extraneus”, in concorso con gli organi legali della società, sia autonomamente, quale diretto destina‑ tario della norma incriminatrice. Nella prima ipotesi è neces‑ saria la prova dell’apporto causale dato dall’extraneus al fatto proprio dell’amministratore legale. Nella seconda ipotesi. è sufficiente la prova della gestione della società da parte dell’am‑ ministratore di fatto la cui responsabilità è diretta e personale. e non concorsuale. prescinde da quella dell’amministratore legale e si staglia quand’anche sia esclusa la responsabilità di quest’ultimo (cfr. Cass. pen., sez. V, 17 gennaio 1996, Cass.. pen. 1997.547). Peraltro, una volta accertata la massiccia in‑ gerenza di un soggetto nella gestione della società, si giudica ultroneo indagare, se tale intromissione costituisca una attivi‑ tà di concorso dell’ “extraneus’ oppure una attività delittuosa come “intraneus”, in veste di amministratore di fatto. (cfr. Cass. pen., sez. V., 9 giugno 1993, R. pen. cc. 1995, 73). Tribunale Nola, coll. A) sentenza 13 giugno 2012, n. 1559 Pres. Aschettino, Est. de Majo Bancarotta fraudolenta: destinatario delle norme incriminatri‑ ci – Criteri di individuazione (art. 216 L.F.) La posizione dell’amministratore di fatto, destinatario penale Gazzetta 104 D i r i t t o e p r o c e d u r a delle norme incriminatrici della bancarotta fraudolento, va determinata con riferimento alle esposizioni civilistiche che. regolando l’attribuzione della qualifica di imprenditore e di amministratore di diritto, costituiscono la parte precettiva di norme che sono sanzionale dalla legge penale. La disciplina sostanziale si traduce. in via processuale, nell’accertamento di elementi sintomatici di gestione o cogestione della società, risultanti dall’organico inserimento del soggetto, qua/e ‘in‑ traneus’ che svolge funzioni gerarchiche e direttive, in qual‑ siasi momento dell”iter” di organizzazione, e commercializ‑ zazione dei beni e servizi rapporti di lavoro con i dipendenti materiali e negoziali con i finanziatori, fornitori e clienti in qualsiasi branca aziendale, produttiva, amministrativa, con‑ trattuale, disciplinare. Infatti secondo il consolidato e condi‑ visibile orientamento giurisprudenziale, quando sia provato che l’imprenditore ha avuto a disposizione determinati beni, ove non abbia saputo rendere conto del loro mancato repe‑ rimento o non abbia saputo giustificare la destinazione per le effettive necessità dell’impresa, si deve dedurre che li ha dolosamente distratti. posto che il fallito ha l’obbligo giuri‑ dico di fornire la dimostrazione della destinazione data ai beni acquisiti al suo patrimonio, con la conseguenza che dalla mancata dimostrazione può essere legittimamente de‑ sunta la prosa della distrazione o dell’occultamento. Tribunale Nola, coll. A) sentenza 13 giugno 2012, n. 1559 Pres. Aschettino, Est. de Majo Bancarotta fraudolenta: distrazione di beni – Mancata dimostra‑ zione della destinazione – Sussistenza del reato (art. 216 L.F.) Ricorre l’ipotesi di bancarotta fraudolenta se all’atto dell’inventano fallimentare non risultano presenti alcuni beni e l’imprenditore fallito non riesce a fornire alcuna giustifica‑ zione sul/a destinazione assegnata agli stessi: l’imprenditore, infatti, è posto in posizione di garanzia per la tutela del patri‑ monio d’impresa, cespite destinato alla soddisfazione delle pretese creditorie, sicché lo stesso si libera da ogni responsabi‑ lità penale solo se riesce a fornire la prova che l’ammanco è dipeso da fatti esterni alla sua condotta o da circostanze fisio‑ logicamente connesse alla funzione gestoria. In pratica. “la prova della distrazione o dell’occultamento dei beni della im‑ presa dichiarata fallita può essere desunta anche dalla sola mancata dimostrazione, ad opera dell’amministratore, della destinazione dei beni. Ciò in quanto quest’ultima costituisce valida presunzione della dolosa distrazione, rilevante, ai sensi dell’art. 192 c.p.p, al fine di affermare la responsabilità dell’im‑ putato, non costituendo in alcun modo inversione dell’onere della prosa fatto che sia rimessa all’interessato la dimostrazio‑ ne della concreta destinazione dei beni o del loro ricavato. Tribunale Nola, coll. A) sentenza 13 giugno 2012, n. 1559 Pres. Aschettino, Est. de Majo p e n a l e Gazzetta F O R E N S E Bancarotta fraudolenta patrimoniale: elemento soggettivo – Re‑ quisiti (art. 216 comma 1 n. I L.F.) Quanto all’elemento psicologico va infatti ricordato che non è necessario il dolo specifico, ma è sufficiente il dolo generico, il quale deve considerarsi insito nella consapevole volontà del fatto distrattivo, implicante di per sé l’accettazio‑ ne della conseguenza tipica della condotta, consistente nella sottrazione di beni alla garanzia della massa dei creditori cui erano destinati. Tribunale Nola, coll. A) sentenza 13 giugno 2012, n. 1559 Pres. Aschettino, Est. de Majo Bancarotta documentale fraudolenta: omessa tenuta di contabi‑ lità interna – Differenze con il reato di bancarotta semplice (art. 216 L.F.) L’omessa tenuta della contabilità interna (ovvero la sua sottrazione nell’imminenza della procedura concorsuale) integra gli estremi del reato di bancarotta documentale frau‑ dolenta e non quello di bancarotta semplice qualora si accer‑ ti che scopo dell’omissione e/o della sottrazione sia quello di recare pregiudizio ai creditori. Laddove nella specie la fina‑ lità predetta poteva evincersi da tutta la condotta tenuta dall’imputato nonché dal fatto che una così estesa omissione della tenuta contabile è incompatibile con un’ipotesi di tra‑ scuratezza colposa, attesa la rilevante dimensione organizza‑ tiva dell’impresa gestita (cfr. volume di affari di centinaia di milioni di lire). Da tanto ne discende ulteriormente la prova della consa‑ pevole finalità di recare pregiudizio ai creditori, al fine di occultare le proprie condotte gestorie antidoverose. Tribunale Nola, coll. A) sentenza 13 giugno 2012, n. 1559 Pres. Aschettino, Est. de Majo Bancarotta fraudolenta: aggravanti ‑ Aumento di pena – Moda‑ lità (art. 219 L.F.) In tema di reati fallimentari. nel caso di consumazione di una pluralità di condotte tipiche di bancarotta nell’ambito del medesimo fallimento le stesse mantengono la propria autonomia ontologica, dando luogo ad un concorso di reati, unificati, ai soli fìni sanzionatori nel cumulo giuridico pre‑ vi1o dall’art. 219, comma secondo, L.F., disposizione che pertanto non prevede sotto il profilo strutturale, una circo‑ stanza dettata per i reati fallimentari una peculiare disciplina della continuazione derogatoria di quella ordinaria di cui all’art. 81 c.p. Tribunale Nola, coll. A) sentenza 13 giugno 2012, n. 1559 Pres. Aschettino, Est. de Majo Diritto amministrativo Sistema Idrico Integrato. Moduli Gestionali e determinazione delle tariffe 107 Alessandro Barbieri Eccezione di compromesso, bando di gara e capitolato di appalto: questioni e brevi riflessioni 113 Francesco Rinaldi Rassegna di giurisprudenza sul Codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture 119 (d.lgs. 12 Aprile 2006, n. 163 e ss. mm.) amministrativo A cura di Almerina Bove F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o ● Sistema Idrico Integrato. Moduli Gestionali e determinazione delle tariffe ● Alessandro Barbieri Avvocato 2 0 1 2 107 S ommario: Premessa. La qualificazione del Servizio Pubblico Integrato (S.I.I.) – 1. Il quadro normo‑giurispru‑ denziale relativo ai moduli gestionali per lo svolgimento del S.I.I. – 2. Sistemi tariffari applicabili ai servizi idrici fino al 2009 – 3. Modalità di determinazione della tariffa nel siste‑ ma non normalizzato dopo il 2009. Premessa. La qualificazione del Servizio Pubblico Integrato (S.I.I.) L’indagine relativa al modulo gestionale utilizzabile per il c.d. Sistema Idrico Integrato, deve muovere da alcune premes‑ se di ordine normo – giurisprudenziale, funzionali ad inqua‑ drare la disciplina giuridica applicabile al “servizio idrico integrato”. Quest’ultimo, infatti, è individuato dall’art. 141 comma 2 del d.lgs. n. 152/2006, recante “Norme in materia ambien‑ tale” (cosiddetto codice dell’ambiente), come quel servizio “costituito dall’insieme dei servizi pubblici di captazione, adduzione e distribuzione di acqua ad usi civili di fognatura e di depurazione delle acque reflue”. Esso “deve essere gesti‑ to secondo principi di efficacia, efficienza ed economicità, nel rispetto delle norme nazionali e comunitarie”. Si tratta, ormai per pacifica acquisizione, di un servizio sussumibile nel quadro dei pubblici a rilevanza economica, categoria che, in linea di principio, può dirsi corrispondente alla categoria del servizio di interesse economico generale (Corte Cost. sent. n. 272/2004 e n. 325/2010, nonché Corte Cost., sent. n. 187 del 15 giugno 2011) prevista dall’ordina‑ mento comunitario (su cui cfr. Corte di Giustizia UE 18 giu‑ gno 1998, in causa C 35/96; Libro Verde della Commissione Europea del 21 maggio 2003). Ciò posto, quanto a definizione del servizio, si chiarisce che, come è noto, la disciplina normativa di riferimento, ma‑ xime in tema di suo affidamento, ha conosciuto plurime modifiche nel corso degli ultimi anni. Sul versante organizzativo, il servizio in esame si struttu‑ ra (ex art. 146 d.lgs. 156/2006), sulla base degli ambiti terri‑ toriali ottimali (A.T.O.), definiti dalle Regioni in attuazione della l. 5 gennaio 1994, n. 36. Peraltro, le Autorità d’Ambito territoriali, previste dall’art. 148 del d.lgs. n. 152/2006, sono state soppresse dall’art. 2 comma 186 bis della l. 23 dicembre 2009, n. 1911 con decorrenza 01.01.20112; le funzioni già esercitate dalle Autorità – tra cui la scelta della forma di gestione del servizio, l’affidamento ed il relativo controllo ex art. 142 comma 3 del d.lgs. n. 152/2006 – devono essere attribuite con legge dalle Regioni, nel rispetto dei principi di sussidiarietà, differenzia‑ zione ed adeguatezza3. 1 La richiamata disposizione prevede, tra l’altro, la nullità decorso il predetto termine di ogni atto compiuto dall’autorità d’ambito territoriale, nonché la soppressione di essa autorità a partire dal termine sopra indicato, pur a prescin‑ dere dall’entra in vigore della Legge Regionale di attribuzione delle funzioni già esercitate da tali Enti. 2Tale termine è stato prorogato dapprima al 31.03.2011 (ex art. 1 comma 1 D.L. n. 225/2010); successivamente al 31.12.2011 (d.P.C.M. 21.03.2011); e infine al 31.12.2012 (art. 13 comma 2 D.l. 216/2011). 3 Cfr. sul punto, art. 1 comma 1 quinques del D.L. 25 gennaio 2010, conv. in L. n. 42/2010. Secondo la Corte Costituzionale, peraltro, al legislatore regionale compete esclusivamente disporre l’attribuzione delle funzioni delle soppresse AAT, essendo di pertinenza esclusiva del legislatore statale, invece, la disciplina dell’affidamento della gestione del SII attenendo tale aspetto alla materia della amministrativo Gazzetta 108 d i r i t t o a m m i n i s t r at i v o In relazione alle modalità di affidamento della gestione del servizio idrico integrato, originariamente l’art. 150 com‑ ma 1 del d.lgs. n. 152/2006 disponeva che “l’autorità d’am‑ bito, nel rispetto del piano d’ambito e del principio della unitarietà della gestione per ciascun ambito, delibera la for‑ ma di gestione tra quelle di cui all’art. 113 comma 5 del de‑ creto legislativo 18 agosto 2000, n. 267”4. Per i profili relativi alle modalità di svolgimento del servi‑ zio, la norma è stata abrogata sia in modo espresso sia per incompatibilità dall’art. 23 bis l. n. 133/2008, direttamente o a mezzo del regolamento approvato con d.P.R. n. 168/20105. A seguito del noto referendum, con d.P.R. 18 luglio 2011, n. 113, l’art. 23 bis è stato abrogato, con efficacia ex nunc, a decorrere dal giorno successivo a quello della pubblicazione del decreto stesso sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana (ossia dal 21 luglio 2011). L’abrogazione dell’art. 23 bis ha comportato, di conse‑ concorrenza e tutela dell’ambiente (da ultimo, cfr. Corte Cost. n. 6272012). Per converso, l’Ente o il soggetto, individuato dalla legge regionale, come deputato ad esercitare le competenze già intestate alle AAT, annovera tra le sue funzioni quelle di deliberare la forma di gestione del SII e di aggiudicare la gestione di tale servizio. 4 L’art. 113 comma 5 del d.lgs. n. 267/2000, come sostituito dall’art. 14 comma 1 lett. d) della legge 24 novembre 2003, n. 326 (che ha convertito in legge il de‑ creto legge 30 settembre 2003, n. 269) nonché dall’art. 4 comma 234 della legge 24 dicembre 2003, n. 350 disponeva quanto segue: “L’erogazione del servizio avviene secondo le discipline di settore e nel rispetto della normativa dell’Unione Europea, con conferimento della titolarità del servizio: a) a società di capitali individuate attraverso l’espletamento di gara ad evidenza pubblica; b) a società a capitale misto pubblico e privato nelle quali il socio privato venga scelto attraverso l’espletamento di gare con procedura ad evidenza pub‑ blica che abbiano dato garanzia di rispetto delle norme interne e comunitarie in materia di concorrenza secondo le linee di indirizzo emanate dalle autorità competenti attraverso provvedimenti o circolari specifiche; c) a società a capi‑ tale interamente pubblico a condizione che l’ente o gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante dell’attività con l’ente o gli enti pubblici che la controllano”. 5 L’art. 23 bis della l. n. 133/2008 statuiva al primo comma che “le disposizioni contenute nel presente articolo si applicano a tutti i servizi pubblici locali e prevalgono sulle relative discipline di settore con esse incompatibili”. Il com‑ ma 11 dello stesso art. 23 bis stabiliva, altresì, che l’art. 113 del Testo Unico Enti locali è abrogato nelle parti incompatibili con le disposizioni del medesimo articolo. L’art. 12 del D.P.R. n. 168/2010, in attuazione della delega a tal fine conferita al Governo dal comma 10 dell’art. 23 bis, ha precisato che – a decor‑ rere dall’entrata in vigore del regolamento – sono o restano abrogate le seguen‑ ti disposizioni: a) articolo 113, commi 5, 5 bis, 6, 7, 8, 9 escluso il primo pe‑ riodo, 14, 15 bis, 15 ter e 15 quater, del decreto legislativo n. 267 del 2000 e successive modificazioni; b) articolo 150 comma 1 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, ad eccezione della parte in cui individua la competenza dell’Autorità d’ambito per l’affidamento e l’aggiudicazione. Ne deriva che, antecedentemente all’abrogazione referendaria, al conferimento della gestione del servizio idrico trovavano applicazione le disposizioni ex art. 23 bis, ossia: a) a favore di imprenditori o di società in qualunque forma costituite individua‑ te mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, nel rispetto dei principi del Trattato che istituisce la Comunità Europea e dei principi generali relativi ai contratti pubblici e, in particolare, dei principi di economicità, effi‑ cacia, imparzialità, trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento e proporzionalità; b) a società a partecipazione mista pubblica e privata, a condizione che la selezione del socio avvenga mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, nel rispetto dei principi di cui alla lettera a), le quali abbiano ad oggetto, al tempo stesso la qualità di socio e l’attribuzione di specifici compiti operativi connessi alla ge‑ stione del servizio e che al socio sia attribuita una partecipazione non inferiore al 40 per cento; c) in via derogatoria: per situazioni eccezionali che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace ed utile ricorso al mercato, l’affidamento può avvenire in favore di società a capitale intera‑ mente pubblico, partecipata dall’ente locale, che abbia i requisiti richiesti dall’ordinamento comunitario per la gestione cosiddetta in house e, comunque, nel rispetto dei principi della disciplina comunitaria in materia di controllo analogo sulla società e di prevalenza dell’attività svolta dalla stessa con l’ente o gli enti pubblici che la controllano. Gazzetta F O R E N S E guenza, la caducazione – con la medesima decorrenza – del citato regolamento approvato con d.P.R. n. 168/2010, adot‑ tato sulla base della norma di delega contenuta nel comma 10 del medesimo articolo. Non applicandosi alle modalità di affidamento della ge‑ stione del servizio idrico integrato l’art. 4 del successivo d.l. n. 138/2011 (per espressa esclusione di cui al comma 34, ad eccezione dei commi da 19 a 27 relativi alle cause di incom‑ patibilità comunque applicabili), è necessario soffermarsi – nel dettaglio – su quale sia la disciplina normativa attualmente vigente nel settore. Orbene, l’assetto successivo al referendum abrogativo è stato scolpito dalla Corte Costituzionale nella pronuncia re‑ lativa all’ammissibilità del quesito referendario6. Il giudice delle Leggi ha osservato che, dall’abrogazione referendaria, non deriva né una lacuna normativa incompati‑ bile con gli obblighi comunitari né l’applicazione di una nor‑ mativa contrastante con il suddetto assetto concorrenziale minimo inderogabile richiesto dall’ordinamento comunitario. In altri termini, l’abrogazione dell’art. 23 bis l. n. 133/2008 non ha comportato alcuna reviviscenza delle norme abrogate da tale articolo, con conseguente applicazione immediata nell’ordinamento italiano della disciplina comunitaria relati‑ va alle regole concorrenziali minime in tema di gara ad evi‑ denza pubblica per l’affidamento della gestione del servizio idrico integrato7. Nell’alveo di queste ultime, la Corte Costituzionale inten‑ de riferirsi in particolare ai principi del Trattato per il funzio‑ namento dell’Unione Europea nonché alla giurisprudenza della Corte di Giustizia8. Da quanto precede, dunque, discende: che, giusta l’abrogazione dell’art. 23 del d.l. n. 112/2008 e l’inapplicabilità al servizio idrico intergrato dell’art. 4 del D.L. n. 138/20119, conv. in Legge n. 148/2007, nelle modifiche introdotte dalla Legge n. 183/2011 – in virtù della deroga ex art. 4 comma 32 del cit. D.L. n. 138/2011 – si deve ritenere che l’affidamento della gestione del servizio idrico integrato risulta assoggettata alla disciplina comunitaria relativa alle regole concorrenziali minime in tema di gara ad evidenza pubblica, stante, per un verso, l’assenza attuale di un corpus normativo specifico e, per altro, l’insussistenza di una ipotesi di reviviscenza delle norme abrogate dall’art. 23 bis D.L. 6 Corte Cost. sent. n. 24/2011, poi ribadita nella successiva sent. n. 320/2011. 7 Cfr. sul punto Corte Costituzionale, 20 luglio 2012, sentenza n. 199 la quale nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 del decreto‑legge, 13 ago‑ sto 2011, n. 138 convertito con modificazioni dalla legge 14 settembre 2011, n. 148 ha chiarito, in un obiter dictum, che “Le poche novità introdotte dall’art. 4 accentuano, infatti, la drastica riduzione delle ipotesi di affidamenti diretti dei servizi pubblici locali che la consultazione referendaria aveva inteso escludere. Tenuto, poi, conto del fatto che l’intento abrogativo espresso con il referendum riguardava «pressoché tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica» (sentenza n. 24 del 2011) ai quali era rivolto l’art. 23‑bis, non può ritenersi che l’esclusione del servizio idrico integrato dal novero dei servizi pubblici locali ai quali una simile disciplina si applica sia satisfattiva della vo‑ lontà espressa attraverso la consultazione popolare, con la conseguenza che la norma oggi all’esame costituisce, sostanzialmente, la reintroduzione della disci‑ plina abrogata con il referendum del 12 e 13 giugno 2011”. 8In tale senso, testualmente, cfr. Corte Conte, sezione regionale di controllo per la Lombardia, n. 7/2012/PAR; nonché in dottrina C. Tessarolo, L’affidamen‑ to della gestione del servizio idrico integrato, in www.dirittodeiservizipubblici. it del 12.04.2012. 9Norma, come detto, dichiarata costituzionalmente illegittima dalla sentenza della Corte Costituzionale, 20 luglio 2012, n. 199. F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o 112 /20 08 (a sua volta colpito dalla Consultazione Referendaria)10; la sussistenza, a normativa vigente, della titolarità, in capo all’ente d’ambito competente e fino al 31.12.2012, dell’attribuzione di procedere all’affidamento del servizio; il venir meno di tale potere a partire dal 01.01.2013, al‑ lorché le autorità d’ambito risultano normativamente soppres‑ se anche in difetto dell’intervento legislativo regionale depu‑ tato a disciplinare la nuova organizzazione per ambiti ottima‑ li della gestione del servizio e la individuazione del soggetto istituzionale chiamato ad affidare il servizio. Con riferimento, peraltro, a quanto immediatamente so‑ pra esposto, va rilevato, in concreto, come sia dato assoluta‑ mente pacifico che alcuni Enti d’Ambito, come ad esempio l’ATO 2 in Regione Campania, non abbiano mai esercitato le proprie funzioni istituzionali, maxime, esercitando la propria competenza principale consistente nell’affidamento al Gesto‑ re del S.I.I. Ciò è tanto vero che, a titolo esemplificativo, in Regione Campania, proliferano forme di autogestione del S.I.I. (cfr. i casi dell’Abc/Arin; Ottogas; Acquedotti Scpa etc.), le quali non potrebbero rinvenire spiegazione diversa se non in quella della inoperatività dell’Ente d’Ambito (si tratta del c.d. sistema di gestione non “normalizzato”). A suffragio di quanto precede, è agevole osservare, peral‑ tro, come sia proprio la sussistenza di regimi non normaliz‑ zati il presupposto fattuale della competenza ex art. 2 com‑ ma 3 del D.L. 79/1995 e art. 31 comma 29 L. 448/1998, in capo al C.I.P.E. di stabilire, “fino a quando non sarà adotta‑ to il metodo normalizzato di determinazione delle tariffe per il servizio idrico integrato […] i criteri, i parametri ed i limi‑ ti per la determinazione e l’adeguamento delle tariffe del servizio acquedottistico, del servizio di fognatura e per l’ade‑ guamento del servizio di depurazione”. 1. Il quadro normo‑giurisprudenziale relativo ai moduli gestiona‑ li per lo svolgimento del S.I.I. Si è ora nella condizione di affrontare il tema del modulo gestionale suscettibile di utilizzazione ai fini dell’esercizio del S.I.I. In via preliminare, ed alla luce delle indicazioni della giurisprudenza più recente, non residua dubbio sul fatto che risulti precluso agli Enti interessati cedere le reti che costitu‑ iscono patrimonio indisponibile ai sensi dell’art. 822 e 824 c.c., maxime, alla luce del fatto che in materia di servizio idrico non sussiste norma che preveda la separazione tra la rete e gestione del servizio. Il che, peraltro, è anche alla base del pronunciamento della Suprema Corte Costituzionale in ordine alla impossibi‑ lità per gli Enti interessati di ricorrere alla società interamen‑ te pubblica ex art. 113 comma 13 D.lgs 267/00, chiamata a gestire la rete conferita in proprietà dagli enti partecipanti11. 10 Cfr. Corte Cost. sentenza n. 24/2011. 11 Corte Costituzionale, 25 novembre 2011, n. 320 secondo cui “al riguardo, va osservato che la proprietà pubblica delle reti implica, indubbiamente, l’assog‑ gettamento di queste – e, dunque, anche delle reti idriche – al regime giuridico del demanio accidentale pubblico, con conseguente divieto di cessione e di mutamento della destinazione pubblica. In particolare le reti, intese in senso ampio, vanno ricomprese, in quanto appartenenti ad enti pubblici territoriali, 2 0 1 2 109 I moduli gestionali cui è possibile fare ricorso alla stregua delle indicazioni giurisprudenziali più recenti, ed in linea con i principi che informano il sistema nazionale e comunitario, dunque, sono: • affidamento ad una società in house12 ; • società mista costituita con gara c.d. a doppio oggetto; • affidamento in concessione a terzi scelti con procedura ad evidenza pubblica nel rispetto dei principi del Trattato. a) L’affidamento alla società diretto in favore di una so‑ cietà in house, trova la propria giustificazione nella circostan‑ za che tale soggetto si atteggia come longa manus dell’ammi‑ nistrazione/amministrazioni partecipanti, costituendone, per così dire, naturale prolungamento per la gestione di un S.P.L. di rilevanza economica. Ciò in quanto: i) il capitale sociale è in titolarità completamente pubblica; ii) sussiste sulla società il c.d. controllo analogo ad opera dell’amministrazione par‑ tecipante; iii) svolge in favore dell’Ente pubblico la parte più importante – se non esclusiva – della propria attività. Sotto il profilo contabile, peraltro, è appena il caso di precisare che le società in house sono, per la loro stessa natu‑ ra di longa manus dell’amministrazione partecipante, assog‑ gettate al patto di stabilità interno, sì come stabilito dall’art. 4 comma 14 d.l. 138/201113 (ed ancor prima dall’art. 18 com‑ ma 2 bis della Legge 133/2008)14. Anche se, un orientamento giurisprudenziale degno di con‑ tra i beni demaniali, ai sensi del combinato disposto del secondo com‑ ma dell’art. 822 e del primo comma dell’art. 824 cod. civ. Il comma 1 dell’art. 143 del d.lgs. n. 152 del 2006 (anch’esso anteriore alla disposizione regionale impugnata) conferma la natura demaniale delle infrastrutture idriche, dettando una specifica normativa di settore. Esso dispone, infatti, che: «Gli acquedotti, le fognature, gli impianti di depurazione e le altre infrastrutture idriche di proprietà pubblica, fino al punto di consegna e/o di misurazione, fanno parte del demanio ai sensi degli articoli 822 e seguenti del codice civile e sono inalienabili se non nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge». È, perciò, evidente l’incompatibilità del regime demaniale stabilito dal comma 5 dell’art. 23‑bis del decreto‑legge n. 112 del 2008 e dal comma l dell’art. 143 del d.lgs. n. 152 del 2006 con il conferimento in proprietà previsto dal comma 13 dell’art. 113 del TUEL”. 12 si ricorda che “il controllo, per essere “analogo”, secondo la giurisprudenza comunitaria, deve tradursi nella possibilità di influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni importanti (cfr. sul punto, Corte giust., sentenza 13 novembre 2008, causa C‑324‑07 Coditel Brabant SA. In preceden‑ za, si segnalano le sentenze 13.10.2005, causa C‑458/03 Parking Brixen, para. 67‑70; 11.2.2005, causa C‑26/03 Stadt Halle e 18 novembre 1999, causa C‑107/98 Teckal). Il Consiglio di Stato, Sez. V, n. 1365/2009, con ampi richiami alla citata sen‑ tenza della Corte di Giustizia “Coditel Brabant SA”, ha altresì affermato che: “il requisito del controllo analogo non sottende una logica “dominicale”, rive‑ lando piuttosto una dimensione “funzionale”: affinché il controllo sussista anche nel caso di una pluralità di soggetti pubblici partecipanti al capitale della società affidataria non è dunque indispensabile che ad esso corrisponda simmetricamente un “controllo” della governance societaria. (…) Non può invero obliterarsi che l’attività delle società‑organo, come quelle affidatarie in house di servizi pubblici, rimane un’attività “funzionalizzata”, rispetto alla quale la “forma” degli strumenti giuridici utilizzati non rileva in sé, risultando invece finalizzata al miglior conseguimento degli scopi legali dell’amministra‑ zione” (cfr. Cons. Stato, Sez. V, n. 1365/2009). In maggior dettaglio, è stato ritenuto che, con riferimento al requisito del control‑ lo analogo (Cfr. Corte di Giustizia, causa C. 324/07, 13 novembre 2008; Cons. Stato, Ad. Plen. N. 1/2008), debba sussistere un controllo stringente sul soggetto gestore e l’ente pubblico deve esercitare poteri maggiori rispetto a quelli che il diritto societario riconosce alla maggioranza sociale, e che le decisioni più impor‑ tanti del soggetto gestore debbano essere necessariamente e statutariamente sot‑ toposte al vaglio preventivo dell’ente affidante (Cfr. Corte dei Conti, sezione re‑ gionale di controllo per il Piemonte, delibera n. 3/2012/SRCPIE/PAR; cfr. Auto‑ rità Garante della Concorrenza e del Mercato, AS894B del 6 settembre 2011). 13 Cfr. Corte Conti, sezione di controllo per la Lombardia, deliberazione n. 350/2011. 14 Cfr. Corte Conti, Sezioni Riunite in sede di Controllo, “Rapporto 2012 sul coordinamento della finanza pubblica”. amministrativo Gazzetta 110 d i r i t t o a m m i n i s t r at i v o siderazione per la sua completezza, afferma che, allo stato, l’obbligo di assoggettamento al patto di stabilità interno delle società in house, risulti privo di efficacia e di operatività in ra‑ gione della mancata adozione del decreto ministeriale di cui all’art. 18 comma 2 bis del d.l. 112/2008, convertito in Legge 133/2008, chiamate a definire a seguito di un percorso concer‑ tativo con altri ministeri interessati e sentita la Conferenza unificata Stato/Regioni, le modalità e la modulistica per l’assog‑ gettamento al patto di stabilità interno di siffatte società1516. Del pari si segnala che, con riferimento all’applicabilità alle società in house del c.d. obbligo di consolidamento ex art. 20 comma 9 del d.l. n. 98/2011, convertito in Legge n. 111/2011 [secondo cui “ai fini del computo del rapporto percentuale tra spese di personale e spese correnti, si calco‑ lano le spese sostenute anche dalle società a partecipazione pubblica locale totale o di controllo che sono titolari di affi‑ damento diretto di servizi pubblici locali senza gara, ovvero che svolgono funzioni volte a soddisfare esigenze di interesse generale aventi carattere non industriale né commerciale, ovvero che svolgono attività nei confronti della pubblica amministrazione a supporto di funzioni amministrative di natura pubblicistica. La disposizione di cui al precedente periodo non si applica alle società quotate su mercati regola‑ mentati”], una parte della giurisprudenza contabile ritiene operativo tale obbligo17, viceversa la Corte dei Conti, sezione delle Autonomie, con deliberazione n. 14/AUT/2011/QMIG ha precisato che “in conclusione, l’ambito soggettivo è circo‑ scritto alle seguenti società: a) partecipate in modo totalitario da un ente pubblico o da più enti pubblici congiuntamente, tenuto conto del concetto univocamente accolto di società in house, come società che vive “prevalentemente” di risorse provenienti dall’ente locale (o da più enti locali), caratteriz‑ zata da un valore della produzione costituito per non meno dell’80% da corrispettivi dell’ente proprietario”. Con tale ultimo pronunciamento, è appena il caso di pre‑ cisarlo, la Sezione delle Autonomie si è espressa su di una questione di massima. Con riguardo, peraltro, all’orientamento più restrittivo viene affermata la insussistenza di un concorrente ed autono‑ mo limite percentuale di spesa di personale in capo alla socie‑ tà in house singolarmente intesa, dovendosi piuttosto “con‑ solidare” un solo tetto di spesa complessivo. Non di meno, è bene precisarlo, pur in mancanza del ci‑ tato decreto ministeriale costituisce orientamento altrettanto pacifico quello per il quale l’esercizio concreto dei poteri di vigilanza intestati alle amministrazioni partecipanti, impone a queste ultime di procedere alla redazione di un bilancio consolidato (società ed ente locale) funzionale all’osservanza al patto di stabilità18. b) Dall’esame della giurisprudenza emerge che l’affida‑ mento ad una società mista in cui il socio privato operativo è 15 Cfr. Corte Conti, sezione di controllo per la Lombardia, deliberazione 7/2012/ PAR. 16 Cfr. Corte Conti, Sezioni Riunite in sede di Controllo, “Rapporto 2012 sul coordinamento della finanza pubblica”, pagg. 164 e ss, 277 e ss. 17 Cfr. Corte Conti, sezione di controllo per la Lombardia, deliberazione 7/2012/ PAR. 18 Corte dei Conti, sez. reg. contr. Piemonte, n. 14/2010; cfr. altresì, sez. reg. contr. Sardegna n. 24/2010; Corte dei Conti, SS.RR. in sede di controllo del. n. 28/2011. Gazzetta F O R E N S E scelto mediante gara “a doppio oggetto” appare legittimo, purché: a) la gara unica per la scelta del partner e l’affidamen‑ to dei servizi definisca esattamente l’oggetto dei servizi mede‑ simi (deve trattarsi di servizi “determinati”); b) la selezione dell’offerta migliore sia rapportata non solo alla solidità fi‑ nanziaria dell’offerente, ma alla capacità di svolgere le presta‑ zioni specifiche oggetto del contratto; c) il rapporto instau‑ rando abbia durata predeterminata. In sostanza, in linea di principio, i compiti operativi rela‑ tivi alla gestione del servizio che devono rientrare nella pro‑ cedura concorsuale di gara per la scelta del socio operativo di una società mista per un servizio pubblico locale a rilevanza economica devono essere gli stessi oggetto del contratto di servizio con la predetta società mista. È rimessa alla discre‑ zionalità dell’Amministrazione, nel rispetto della vigente normativa a tutela della concorrenza, l’individuazione della latitudine dell’attività da conferire al socio privato operativo e delle modalità di svolgimento della procedura. In relazione ad una società mista per la gestione del S.I.I. con socio operativo scelto con gara a doppio oggetto, si ritie‑ ne peraltro insussistente l’obbligo di assoggettamento al patto di stabilità interno, così come l’obbligo di consolida‑ mento delle spese di personale ex art. 20 comma 9 del D.L. 98/2011, ovvero i divieti e le limitazioni in materia di assun‑ zioni ex art. 18 comma 2 bis primo e secondo periodo del d.l. n. 112/2008. c) Con riferimento all’affidamento al terzo scelto con procedura ad evidenza pubblica, pur non trovando in toto applicazione le disposizioni del D.lgs n. 163/2006, si ritiene pacifica comunque la doverosità dell’osservanza dei principi di trasparenza, non discriminazione e concorsualità sanciti dal diritto nazionale e comunitario, nonché dalle disposizione di cui alla Legge n. 27/2012. 2. Sistemi tariffari applicabili ai servizi idrici fino al 2009 Individuati i modelli gestionali suscettibili di utilizzazione, appare utile dettagliare la disciplina vigente circa la determi‑ nazione della tariffa applicabile al S.I.I. La tariffa del servizio idrico risulta, per la prima volta, organicamente disciplinata con la Legge Galli (L. n. 36/1994) la quale, all’art. 13 (ora art. 154 del d.lgs. 152/2006), ha de‑ finito la tariffa quale “corrispettivo del servizio idrico inte‑ grato” ovvero del “servizio costituito dall’insieme dei servizi pubblici di captazione, addu‑zione e distribuzione di acqua ad usi civili, di fognatura e di depurazione delle acque reflue” (cfr. art. 4, comma 1, lett. f. della Legge Galli). Con l’art. 13 della Legge Galli, ora recepito ed integrato dall’art. 154 del d.lgs. 152/2006, è stata stabilito, in altre parole, un’unica tariffa per tutti i servizi rientranti nel servizio idrico integrato, in un’ottica di concentrazione della gestione di tutti i servizi sopra delineati in capo ad un unico gestore definito “gestore del servizio idrico integrato”. A tale scopo, è stata individuata anche una nuova dimen‑ sione territoriale so‑vra comunale di riferimento con l’obiet‑ tivo precipuo di superare la frammentazione e conseguire adeguate dimensioni gestionali: l’Ambito territoriale ottimale (ATO) al cui funzionamento è preposta l’Autorità di Ambito Territoriale Ottimale (ATO). Nel sistema sopra delineato, definito altresì quale sistema “normalizzato” e/o “a regime”, la tariffa del servizio idrico F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o integrato viene, quindi, stabilita dall’Autorità di Ambito Ter‑ ritoriale Ottimale in relazione al modello di gestione, alla quantità e qualità della risorsa idrica, al livello qualitativo del servizio, al piano finanziario, ai costi reali ed alle economie conseguenti al miglioramento dell’efficienza ed al superamen‑ to della frammentazione delle preesistenti gestioni. Come noto, tuttavia, il sistema a regime di determinazio‑ ne tariffaria così co‑me definito dal Codice dell’Ambiente (d.lgs. 152/2006), in molti casi non risulta pienamente attua‑ to, in ragione, prevalentemente, della mancata attuazione di alcuni ATO e della mancata individuazione dei vari gestori del servizio idrico integrato. Ne è conseguito che in alcuni ambiti territoriali, non esista un unico soggetto deputato alla gestione del servizio idrico integrato ma più soggetti, pubblici e/o privati, deputati ognu‑ no di essi alla gestione di una parte del servizio idrico inte‑ grato (quali, ad esempio, il servizio di fornitura, fognatura e depurazione). In tale contesto, l’approvazione della relativa tariffa è stata stabilita, fino al 2009, dall’Ente locale competente, in virtù di quanto previsto dagli art. 42 e 117 del T.U. degli Enti Locali (d.lgs. 267/2000), sulla base delle delibere e de‑ terminazioni del CIPE (Comitato Interministeriale per la programmazione economica) il quale aveva competenza, ai sensi dell’art. 2 comma 3 del D.L. 79/1995 e dell’art. 31 com‑ ma 29 L. 448/1998, a stabilire, “fino a quando non sarà adottato il metodo normalizzato di determinazione delle tariffe per il servizio idrico integrato […] i criteri, i parame‑tri ed i limiti per la determinazione e l’adeguamento delle tarif‑ fe del servizio acque‑dottistico, del servizio di fognatura e per l’adeguamento del servizio di depurazione”. Dal quadro sopra delineato, in definitiva, emergevano due sistemi: Il primo di tipo normalizzato, la cui tariffa veniva stabi‑ lita e determinata dall’Autorità d’Ambito, in caso di piena attuazione degli ATO; Il secondo di tipo transitorio – quale quello applicabile ai servizi idrici rica‑denti nei Comuni dell’Isola di Ischia – la cui tariffa veniva approvata dai Comuni stessi, sulla base dei criteri, parametri e limiti stabiliti dal CIPE. 3. Modalità di determinazione della tariffa nel sistema non nor‑ malizzato dopo il 2009 Il sistema transitorio così come definito dal d.l. 79/1995 e dalla l. 448/1998, che assegnava le competenze circa la de‑ terminazione delle tariffe al CIPE, risulta oggi abrogato per effetto dell’art. 23 bis, comma 8, del d.l. 112/2008 così come interpretato dall’art. 10, comma 28 del d.l. 13 maggio 2011 n. 70. In particolare, con tale ultima disposizione è stato previsto che “l’articolo 23‑bis, comma 8, del decreto‑legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, come modificato dall’articolo 15 del decreto‑legge 25 settembre 2009, n. 135, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 novembre 2009, n. 166, si in‑ terpreta nel senso che, a decorrere dalla entrata in vi‑gore di quest’ultimo, e’ da considerarsi cessato il regime transitorio di cui all’articolo 2, comma 3, del decreto‑legge 17 marzo 1995, n. 79, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 maggio 1995, n. 172”. 2 0 1 2 111 La norma interpretativa ha, in definitiva, chiarito che il regime transitorio di cui all’art. 2, comma 3, del D.L. 79/1995 – in cui, come ribadito, attribuiva le competenze alla determinazione delle tariffe in capo al CIPE – è cessato alla data di entrata in vigore del D.L. 135/2009, ovvero alla data del 30 settembre 2009, con conseguente cessazione di tutte le competenze in capo al CIPE circa la determinazione delle po‑litiche tariffe nello specifico settore idrico. Tale cessazione di competenze non pare, d’altronde, esse‑ re messa in discussione dagli esiti del referendum abrogativo, indetto con decreto del Presidente della Repubblica del 23 marzo 2011, sull’art. 23 bis del d.l. 112/2008. Al riguardo, sebbene in teoria gli esiti del referendum avrebbe potuto com‑portare una riviviscenza dell’art. 2 com‑ ma 3 del d.l. 79/1995 e pertanto anche una rinnovata compe‑ tenza del CIPE, è altresì vero che il d.l. 70/2011 non si era limitato ad una conferma della cessazione del sistema non normalizzato di determinazione delle tariffe, ma aveva anche determinato un trasferimento delle competenze in mate‑ria di regolazione delle tariffe dal CIPE in favore dell’Agenzia Na‑ zionale per la rego‑lazione e la vigilanza in materie di acque (cfr. art. 10, commi 11 e ss del d.l. 70/2011). Cosicché, a prescindere della riviviscenza dell’art. 2 com‑ ma 3 del d.l. 79/1995 – la quale assegnava le competenze in materia tariffaria al CIPE – in ogni caso, per effetto del d.l. 70/2011, le competenze in merito alla regolazione delle ta‑riffe si dovevano considerare trasferite in favore della neo‑ nata Autorità Nazionale per la regolazione e la vigilanza in materia di Acque. A conclusione di tale articolato percorso normativo, va altresì rilevato come – per effetto dell’art. 21, comma 13 e 19, del successivo d.l. 214/2011 – le competenze in materia tarif‑ faria nello specifico settore idrico sono state nuovamente oggetto di trasferimento passando dall’Autorità Nazionale per la regolazione e la vigilanza in materia di Acque (oggetto peraltro di soppressione per effetto della medesima normativa) in favore dell’Autorità per l’Energia Elettrica ed il Gas. Tale ultima Autorità con deliberazione del 1 marzo 2012, 74/2012/R/IDR ha avviato un procedimento per l’adozione di provvedimenti tariffari e per l’avvio delle attività di raccol‑ ta di dati e informazioni in materia di servizi idrici: attività quest’ultima proseguita con l’adozione di un documento per la consultazione 204/2012/R/IDR che rappresenta, allo stato, un punto provvisorio di riferimento per la determinazione delle nuove tariffe idriche. Da quanto sopra delineato, emerge quindi, come allo stato, non via siano riferimenti certi per la determinazione delle tariffe specie nel sistema, come nella specie, di tipo non normalizzato. Tuttavia, alla luce dei principi di fonte comunitaria e na‑ zionale nonché dei primi punti di riferimento forniti dall’Au‑ torità per l’Energia Elettrica ed il Gas, non pare che tale si‑ tuazione possa inibire alle amministrazioni competenti di procedere alla eventuale determinazione e/o rideterminazione della tariffa del servizio idrico specie nel caso in cui la tariffa applicata non sia in grado di coprire integralmente i costi operativi di gestione del servizio. Al riguardo, è, innanzitutto, principio consolidato desu‑ mibile dalla normativa comunitaria e nazionale quello secon‑ do cui la tariffa del servizio idrico – nelle varie forme in cui amministrativo Gazzetta 112 d i r i t t o a m m i n i s t r at i v o lo spesso si articola (depurazione, fognatura e fornitura idri‑ ca) – in quanto corrispettivo del servizio reso sia stabilito in misura tale da assicurare la copertura integrale di tutti i costi di esercizio e di investimento. Di tanto viene fatta espressa menzione dalla Commissione Europea la quale, nell’esplicitare il significato dell’art. 9 della direttiva dell’allora Comunità Europea – oggi Unione Euro‑ pea – 2000/60/CE (Direttiva Quadro Acque), chiarisce che tra i costi che la tariffa per il servizio idrico deve integralmen‑ te coprire vi sono: a) i costi finanziari dei servizi idrici, che comprendono gli oneri legati alla fornitura ed alla gestione dei servizi in questione. Essi comprendono tutti i costi opera‑ tivi e di manutenzione e i costi di capitale (quota capitale e quota interessi, nonché l’eventuale rendimento del capitale netto; b) i costi ambientali, ovvero i costi legati ai danni che l’utilizzo stesso delle risorse idriche causa all’ambiente, agli ecosistemi ed a coloro che usano l’ambiente (ad esempio una riduzione della qualità ecologica degli ecosistemi acquatici o la salinizzazione e degradazione di terreni produttivi); c) i costi delle risorse, ovvero i costi della mancate opportunità imposte ad altri utenti in conseguenza dello sfruttamento intensivo delle risorse al di là del loro livello di ripristino e ricambio naturale (ad esempio legati all’eccessiva estrazione di acque sotterranee). Inoltre, lo stesso principio viene recepito dal Testo Unico degli Enti Locali (d.lgs. 267/2000) al cui art. 117 viene stabi‑ lito “1. Gli enti interessati approvano le tariffe dei servizi pubblici in misura tale da assicurare l’equilibrio economi‑ co‑finanziario dell’investimento e della connessa gestione. I criteri per il calcolo della tariffa relativa ai servizi stessi sono i seguenti: a) la corrispondenza tra costi e ricavi in modo da assicurare la integrale copertura dei costi, ivi compresi gli oneri di am‑mortamento tecnico‑finanziario; b) l’equilibrato rapporto tra i finanziamenti raccolti ed il capitale investito; c) l’entità dei costi di gestione delle opere, tenendo conto an‑che degli investimenti e della qualità del servizio; d) l’ade‑ guatezza della remunera‑zione del capitale investito, coeren‑ te con le prevalenti condizioni di mercato”. Proprio alla luce di tale principi non pare che si possa dubitare del potere, da parte degli Enti locali competenti, di Gazzetta F O R E N S E determinare e/o rideterminare le tariffe per il servizio idrico al fine di garantire la copertura integrale dei costi di gestione del servizio stesso. Anzi, tenuto conto che di quanto eviden‑ ziato dalla Giurisprudenza Amministrativa circa le conse‑ guenze negative per la collettività derivanti da un eventua‑le mancato esercizio di tale potere, l’adeguamento tariffario parrebbe porsi addirittura come doveroso. Come è stato evidenziato dal Consiglio di Stato, infatti, “un incremento dei costi non coperto dalle tariffe porterebbe alla conseguenza della necessaria copertura del costo a cari‑ co della collettività anziché dell’utenza, in proporzione al consumo” (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 24 febbraio 2011 n. 1175). L’esatta copertura del costo del servizio idrico da parte delle tariffa risulta, peraltro, riconosciuto dalla stessa Auto‑ rità dell’Energia Elettrica e del Gas la quale, nel documento per la consultazione 204/2012/R/IDR, ha esplicitamente evidenziato che “il nuovo metodo tariffario per la determi‑ nazione della tariffa del servizio idrico integrato, dovrà conformarsi al d.P.R. 116/2011, al diritto dell’Unione Euro‑ pea e del Decreto Legge n. 70/11; in particolare, tale metodo dovrà assicurare, pena la violazione del decreto legge 70/11, del diritto comunitario e degli stessi principi affermati dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 26/11), la copertura inte‑ grale di tutti i costi di esercizio e di investimento, compresi i costi finanziari”. In ogni caso, poiché l’Autorità dell’Energia Elettrica e del Gas ha avviato un’istruttoria anche al fine di fornire con ur‑ genza le indicazioni circa i metodi di determinazione della tariffa, pare opportuno prima dell’eventuale approvazione di nuove tariffe sottoporre i criteri della nuova tariffa all’Auto‑ rità medesima per un parere di competenza. Ai fine della determinazione della nuova tariffa si segnale che, alla luce anche del referendum abrogativo del 12‑13 giu‑ gno 2011, la stessa potrà tenere conto del costo operativo di gestione e dei costi di investimento, ma non potrà tenere con‑ to “dell’adeguatezza della remunerazione del capitale inve‑ stito” il cui riferimento stabilito all’art. 154 comma 1 del d. lgs. 152/2006 è stato espunto per effetto del citato referendum abrogativo. F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o ● Eccezione di compromesso, bando di gara e capitolato di appalto: questioni e brevi riflessioni ● Francesco Rinaldi Avvocato 2 0 1 2 113 Sommario: Premessa – 1. Le clausole del bando di gara prevalgono su quelle del capitolato? – 2. La diversità di previsioni tra bando, capitolato e contratto, ed i facta con‑ cludentia – 3. La par condicio competitorum e la complessa natura del bando di gara o lex specialis – 4. I diversi atti della procedura selettiva dell’evidenza pubblica (bando, ca‑ pitolato e lettera d’invito) e la regola della complementarie‑ tà – 5. La contrapposizione logica tra bando e capitolato speciale in materia di clausola di compromissoria e la par condicio competitorum – 6. La natura e la funzione della clausola compromissoria – 7. La relatività e l’autonomia della clausola compromissoria – 8. Ancora sulla natura del bando di gara e del capitolato – 9. La proposizione di do‑ manda riconvenzionale nell’ambito dell’atto di resistenza a giudizio arbitrale – 10. Considerazioni conclusive. Premessa Come di frequente avviene, l’indagine proposta trae ori‑ gine da alcune applicazioni concrete in materia di eccezione preliminare di compromesso e/o di competenza di Collegio arbitrale, in conseguenza di dubbie interpretazioni circa la validità ed efficacia di clausole compromissorie contenute in capitolati speciali di appalti e bandi di gara, con specifico riferimento alla materia dei lavori pubblici. Un caso «tipo» può essere così sinteticamente riassunto: una clausola di esclusione della competenza arbitrale conte‑ nuta in un bando di gara di lavori pubblici ha preminenza rispetto a contrarie pattuizioni successive contenute nell’am‑ bito del capitolato speciale? La questione, così posta, ne sottintende un’altra di porta‑ ta più generale: in caso di contrasto tra le clausole del bando di gara e quelle del capitolato, a quale tra queste dovrà essere accordata prevalenza? Nel caso specifico, il bando di gara (di data, evidentemen‑ te, anteriore) escludeva la possibilità di ricorrere ad arbitrato, il capitolato speciale (di data successiva), invece, sottoscritto dalla Stazione appaltante e dall’Impresa aggiudicataria dei lavori, ne consentiva la possibilità. 1. Le clausole del bando di gara prevalgono su quelle del capito‑ lato? Al quesito di portata generale, ossia se alle clausole del bando di gara possa o meno essere accordata generale preva‑ lenza rispetto alle clausole del capitolato, quelli che sembrano, allo stato, essere gli orientamenti maggioritari della giurispru‑ denza amministrativa danno soluzione affermativa, in consi‑ derazione del fatto che «il capitolato assolve alla preminente funzione di predeterminare l’assetto negoziale degli assetti dell’amministrazione e dell’impresa aggiudicataria in seguito all’espletamento della gara e non di regolamentare diretta‑ mente la procedura selettiva», quest’ultima affidata, piutto‑ sto, alle regole del bando di gara1. Nell’ambito della fattispecie concreta, come accennato, il bando di gara, regolarmente pubblicato nel Bollettino uffi‑ 1 In tal senso, tra le tante, cfr. Tar Lazio, sez. III‑quater, 22 febbraio 2007, n. 1609, in www.lexitalia.it; ed in senso sostanzialmente conforme, v. anche Cons. di Stato, sez. V, 29 agosto 2006 n. 5035, e già Cons. di Stato, sez. VI, 17 luglio 1998, n. 1101, in www.lexitalia.it. amministrativo Gazzetta 114 d i r i t t o a m m i n i s t r at i v o ciale regionale, stabiliva espressamente e senza dubbie termi‑ nologie l’esclusione della competenza arbitrale; il capitolato speciale di appalto, di data successiva, prevedeva, al contrario, espressamente la clausola arbitrale. Se ci si fermasse ad una generica ed esemplificativa affer‑ mazione di prevalenza delle clausole del bando di gara rispet‑ to alle clausole del capitolato di appalto, si potrebbe generi‑ camente concludere nel senso, quindi, della prevalenza delle prime su quelle del capitolato e, di conseguenza, per la fonda‑ tezza dell’eccezione di compromesso e/o di incompetenza del Collegio arbitrale. Tuttavia, la questione si prospetta ben più complessa ed articolata di quanto non possa a prima vista apparire. 2. La diversità di previsioni tra bando, capitolato e contratto, ed i facta concludentia È difatti, ragionevole interrogarsi sulla validità ed efficacia della clausola arbitrale, la quale pur sempre risulta da una – benché successiva –, concorde manifestazione di volon‑ tà da parte dell’Amministrazione committente ed impresa esecutrice dei lavori, attraverso, prima, l’introduzione nell’am‑ bito del capitolato e, successivamente, attraverso la sottoscri‑ zione del contratto di appalto, che espressamente richiama il capitolato speciale di appalto, del quale costituisce, dunque parte integrante2: in tale prospettiva, può, dunque, ritenersi che anche il contratto di appalto contenga la clausola arbitra‑ le di cui al capitolato speciale. Ci si chiede, di conseguenza, se la sottoscrizione del con‑ tratto di appalto (successiva, naturalmente, sia al bando che al capitolato speciale) e con espresso richiamo a tutti i patti del capitolato speciale, ivi compresa la clausola compromis‑ soria, possa o meno aver prodotto, su di un piano, se si vuole, più strettamente «privatistico», una sorta di effetto novativo rispetto alla clausola di esclusione dell’arbitrato, espressa, invece, nel bando; ed inoltre, se si vuole, su di un piano piut‑ tosto «pubblicistico», se un simile effetto «derogatorio» del bando di gara possa o meno considerarsi ammissibile, avuto riguardo specialmente al noto principio della par condicio competitorum, regola sovraordinata. In questa complessa prospettiva ermeneutica, si rendereb‑ be, altresì, opportuno qualche ulteriore rilievo in merito al comportamento eventualmente tenuto dalle parti contraenti (amministrazione e impresa) successivamente all’accettazione del bando ed alla sottoscrizione del contratto di appalto, di cui parte integrante ne è il capitolato speciale. In chiave esegetica, potrebbe, cioè, assumere significato il comportamento successivamente tenuto dalle parti litiganti, come ad esempio, l’aver preliminarmente aderito al giudizio arbitrale nominando proprio arbitro e successivamente revo‑ cato tale volontà, spiegando, appunto, l’eccezione di compe‑ tenza arbitrale; o aver effettuato atto di resistenza a giudizio arbitrale ma con contestuale proposizione di domanda ricon‑ venzionale. Ci si chiede, cioè, se simili comportamenti successivi pos‑ 2 Sul punto, Corte ha, in più di un’occasione, ribadito la comune natura nego‑ ziale del capitolato speciale d’appalto e del relativo contratto, affermando, al‑ tresì, che il capitolato speciale costituisce, appunto, «allegato indispensabile» del contratto «avente anch’esso valore negoziale» (così, Cass., sez. I, 8 agosto 2001, n. 10925). Gazzetta F O R E N S E sano assumere, in aggiunta agli atti di gara (bando, capitola‑ to e contratto), significato concludente, nel senso, cioè, della validità o meno della clausola compromissoria. 3. La par condicio competitorum e la complessa natura del bando di gara o lex specialis Alla luce della descrizione che precede, come in parte accennato, è, ora, possibile tracciare i principi di riferimento che possano essere dirimenti in relazione all’eccezione pregiu‑ diziale di compromesso nell’ambito di una simile fattispecie conflittuale. Da un lato, si manifesta la natura pubblicistica, nel senso di «normativa speciale» (o lex specialis) del bando, destinata, di regola, a prevalere su ogni altra disposizione contraria del capitolato e, quindi, del contratto di cui è integrazione, con l’ovvia conseguenza della incompetenza arbitrale, sottinten‑ dendo la violazione della par condicio competitorum. Da un’altra prospettiva, tuttavia, si potrebbe, però, obiet‑ tare che, in primo luogo, non ogni disposizione del bando, sic et simpliciter, ha necessariamente efficacia prevalente rispet‑ to alle condizioni negoziali di gara espresse nel capitolato speciale e nel contratto. Per intenderci, e seppure con le dovu‑ te precisazioni e distinzioni, al bando di gara, com’è noto, viene comunemente riconosciuta una «doppia» natura: pub‑ blicistica ed inderogabile (attinente, cioè, alle condizioni re‑ lative alla scelta del contraente, che è propriamente la fase pubblicistica), privatistica e negoziale (condizioni del futuro contratto). In secondo luogo, la redazione del capitolato spe‑ ciale d’appalto, unilateralmente da parte dell’amministrazio‑ ne committente, e la successiva sottoscrizione del contratto da parte di entrambi i contraenti, potrebbero produrre, am‑ missibilmente, quell’effetto novativo e derogatorio del bando di gara al quale si faceva sopra cenno. 4. I diversi atti della procedura selettiva dell’evidenza pubblica (bando, capitolato e lettera d’invito) e la regola della complementarietà Risulta evidente la complessità delle questioni poste. In primo luogo, è necessario chiarire la natura ed i rap‑ porti intercorrenti tra i diversi atti della lex specialis (bando, capitolato e lettera d’invito, benché quest’ultima sia neutra sul punto non facendo riferimento alla clausola compromis‑ soria). Una prima considerazione può, tuttavia, essere tratta. Il bando di gara, come si accennava, comunemente con‑ tiene regole relative alla regolamentazione della procedura selettiva, in ciò distinguendosi dal capitolato (che pure è atto della lex specialis) che detta, invece, regole che assolvono alla preminente «funzione di predeterminare l’assetto negoziale degli interessi dell’amministrazione ed dell’impresa aggiudi‑ cataria in seguito all’espletamento della gara»3. In questi limiti, viene solitamente accordata prevalenza alle disposizioni del bando rispetto al capitolato. Nel limite, cioè, in cui vi sia «contrapposizione logica» tra due prescri‑ zioni contenute nei due diversi atti di gara (bando e capitola‑ to). Se, cioè, si tratta di prescrizione volta a regolamentare la 3 Così, tra le tante in materia di distinzione tra bando e capitolato, Cons. di Stato, sez. V, 29 agosto 2006, n. 5035, in www.lexitalia.it. F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o selezione tra i concorrenti, nel rispetto del principio della par condicio, dovrà essere data prevalenza alle disposizioni del bando. Tale osservazione consente di effettuare una prima pre‑ cisazione: deve, cioè, esservi contrapposizione logica tra due prescrizioni dei due atti di gara, come accade nel caso di specie. Diverso, cioè, sarebbe stato il caso in cui, ad esempio e per rimanere in argomento, il bando di gara non contenesse alcu‑ na prescrizione in merito alla clausola arbitrale, contenuta esclusivamente nel capitolato, in termini positivi (cioè, di deferimento al collegio arbitrale) o in termini negativi (cioè, di esclusione della competenza arbitrale). In tal caso, non essendovi contrapposizione logica, non si potrebbe applicare il principio della prevalenza, costituendo ius receptum, il principio secondo il quale «le clausole conte‑ nute nei diversi atti che compongono la lex specialis di una gara pubblica (bando, capitolato, lettera di invito) vanno interpretate in un rapporto non di prevalenza ma di complementarietà»4. Sicché, ove alcuna prescrizione vi fosse nel bando circa l’arbitrato, si potrebbe tranquillamente applicare il capitolato e, di conseguenza, affermare la competenza del Collegio ar‑ bitrale, in corretta applicazione della regola della complemen‑ tarietà. Nel caso di specie, invece, essendovi contrapposizione logica tra le prescrizioni del bando e del capitolato in merito alla competenza arbitrale, si rende necessario un ulteriore approfondimento circa la natura della prescrizione. La suesposta regola della complementarietà svolge una funzione di integrazione, nel senso, cioè, che la disciplina di una gara pubblica è determinata «dall’integrazione delle di‑ sposizioni contenute in ciascuno dei predetti atti i quali, nel dettare le modalità di svolgimento del procedimento concor‑ suale vincolanti per tutti i partecipanti, assolvono all’impre‑ scindibile funzione di garantire il rispetto della par condicio tra le imprese concorrenti»5. Di conseguenza, secondo conso‑ lidato principio giurisprudenziale, «nell’interpretazione delle clausole del bando di gara per l’aggiudicazione di un contrat‑ to della pubblica amministrazione deve darsi prevalenza alle espressioni letterali in esso contenute, escludendo ogni pro‑ cedimento ermeneutico in funzione integrativa diretto ad evidenziare pretesi significati e ad ingenerare incertezze nell’applicazione»6. Alla luce dei suesposti principi può essere tratta un’altra considerazione: se vi è contrapposizione logica tra due pre‑ scrizioni del bando e del capitolato e se le prescrizioni hanno ad oggetto la regolamentazione del procedimento di selezione, allora non solo dovrà essere accordata prevalenza alle dispo‑ sizioni del bando ma dovrà essere, altresì, esclusa ogni inter‑ pretazione diversa dal dato letterale, non residuando alcun potere discrezionale dell’amministrazione in considerazione del principio, appunto prevalente, della par condicio. 4 In tal senso, tra le numerose decisioni in materia, v. Tar Sardegna, Cagliari, sez. I, 20 luglio 2007, n. 1672, in www.lexitalia.it; ed in senso conforme, v. Tar Venezia, sez. I, 23 settembre 2002, n. 5708, in www.lexitalia.it. 5 Così, Tar Sardegna, Cagliari, sez. I, 20 luglio 2007, n. 1672, cit. 6 In tale direzione, cfr. Cons. di Stato, sez. V, 30 agosto 2005, n. 4413, in www. lexitalia.it. 2 0 1 2 115 Tanto per fare un esempio, si consideri il caso di due opposte prescrizioni del bando e del capitolato in materia di cauzione: il bando impone la prestazione di cauzione a pena di esclusione, il capitolato espressamente la esclude. È evi‑ dente che in un simile caso prevarrà il bando e, di conseguen‑ za, l’impresa che non ha prestato cauzione dovrà essere esclusiva. 5. La contrapposizione logica tra bando e capitolato speciale in materia di clausola di compromissoria e la par condicio competitorum La fattispecie concreta si prospetta ancor più complessa, atteso che le prescrizioni in contrapposizione logica non han‑ no, però, ad oggetto la regolamentazione della procedura selettiva, bensì, e più semplicemente, il deferimento in arbitri di future controversie relative alla gara di appalto. Il che, seppure in prima approssimazione, condurrebbe ad escludere la pur sostenibile applicabilità, sic et simpliciter, delle suesposte regole di prevalenza di bando. Per intenderci, non sembra ci si trovi di fronte a prescri‑ zioni relative ad assicurare la par condicio competitorum. La concorde compromissione in arbitri, successiva al ban‑ do ed all’aggiudicazione, cioè, è in grado di violare la par condicio a fronte dell’esclusione? Per intenderci meglio, è possibile ritenere che, se non vi fosse stata l’esclusione della clausola arbitrale, vi sarebbe stata una diversa, presumibilmente più ampia partecipazione alla gara pubblica? Ed in ogni caso, la novazione della previ‑ sione del bando, determina la violazione del principio dell’eguale trattamento tra le imprese partecipanti? In manie‑ ra ancora più esplicita, può, nel caso in esame, l’amministra‑ zione esimersi dal rispettare la clausola di esclusione dell’ar‑ bitrato inserita nel bando, senza, per ciò solo, violare la par condicio di tutti i concorrenti? Ed ancora, può l’amministra‑ zione disapplicare la clausola del bando, costituendo questo l’atto con cui l’amministrazione si è originariamente autovin‑ colata e trattandosi di atto tendenzialmente immodificabile? La risposta ai suesposti interrogativi può, forse corretta‑ mente, essere la seguente, e, cioè, che i principi di riferimento e lo svolgimento della vicenda concreta sembrano poter in‑ durre ad affermare la sussistenza della competenza del Colle‑ gio arbitrale, naturalmente ove si condividano le seguenti ed ulteriori considerazioni. Si consideri, difatti, che, se in assenza di previsioni, sia del bando che del capitolato, ben potrebbero le parti contraenti scegliere di deferire eventuali controversie ad un Collegio arbitrale, sottoscrivendo la clausola compromissoria; ad eguale soluzione dovrebbe potersi pervenire nel caso in esame, nel quale, cioè, a fronte di una clausola di esclusione del ban‑ do, tuttavia, le parti contraenti decidano, comunque, di no‑ vare detta clausola di esclusione, compromettendo in arbitri la controversia. Ciò, naturalmente, è possibile solo a condizione che si convenga circa la natura «negoziale» della clausola del bando di gara, nel caso di specie, la clausola compromissoria. Solo, cioè, ove si convenga sulla circostanza che la clausola com‑ promissoria in oggetto (sia in termini di esclusione, sia in termini di previsione positiva), benché, prima negativa (ban‑ do), poi, positiva (nel capitolato e successivamente sottoscrit‑ ta dai contraenti nel contratto di appalto), conservi la sua amministrativo Gazzetta 116 d i r i t t o a m m i n i s t r at i v o autonoma natura negoziale e continui a svolgere la sua fun‑ zione. Solo in tal caso, difatti, potrà essere affermata la libera disponibilità delle parti circa la compromettibilità della con‑ troversia in arbitri, anche in presenza, cioè, di pregressi divie‑ ti, successivamente novati tra i contraenti, non trattandosi di clausola del bando diretta a regolamentare la procedura se‑ lettiva. Per intenderci ancora meglio, come in parte accennato, nell’ambito del contenuto del bando di gara è possibile, secon‑ do un tradizionale e condivisibile insegnamento dottrinale e giurisprudenziale, distinguere due parti: «una di natura sostan‑ ziale, intesa a rendere noti l’oggetto del contratto e le sue con‑ dizioni; una concernente le modalità di svolgimento della gara. La prima parte non può essere modificata in sede di gara o di aggiudicazione; la seconda è pure immutabile poiché con essa la p.a. è vincolata a seguire determinate modalità, alla cui os‑ servanza ogni concorrente ha un interesse legittimo» 7. Dunque, se la clausola compromissoria non attiene né all’oggetto, né alle condizioni dell’appalto, né alle modalità di svolgimento della gara, ma è autonoma rispetto agli atti di gara ed al contratto, potrà allora essere oggetto di modifica da parte della stessa amministrazione come è avvenuta nel caso di specie, attraverso l’inserzione della clausola nel capi‑ tolato speciale e nel contratto. Gazzetta F O R E N S E contratti di diritto privato comune, che hanno ad oggetto diritti patrimoniali, e consiste nella rimessione a giudici pri‑ vati della decisione, a seconda dei casi di controversie future o di controversie attuali10. Ne consegue l’effetto di deroga alla giurisdizione ordinaria. In questa prospettiva, «nell’istituto dell’arbitrato, così come derivato dalla riforma legislativa del 1994, la eccezio‑ ne, con la quale si deduca l’esistenza di una clausola compro‑ missoria per arbitrato rituale, non attiene alla competenza, ma al merito, essendo diretta a far valere non l’incompetenza del giudice adito, ma la rinunzia convenzionale delle parti all’azione giudiziaria ed alla giurisdizione dello Stato, e, quindi, l’improponibilità della domanda. Tale eccezione è riservata esclusivamente alla parte e non pio più essere pro‑ posta dopo la chiusura dell’udienza di trattazione di cui all’art. 183 c.p.c.»11. 6. La natura e la funzione della clausola compromissoria Ove si convenga circa la natura «negoziale» della clauso‑ la del bando di gara, a prescindere, cioè, dalla sua previsione positiva o negativa (cioè, di esclusione), conservando questa la sua autonomia rispetto sia al bando che al capitolato e non incidendo sulla procedura selettiva, potrà essere modificata (in un senso o nell’altro) dai contraenti, rimanendo nella loro disponibilità. Naturalmente, nella fattispecie concreta, la clausola compromissoria è già contenuta nel capitolato spe‑ ciale. Si rende opportuno un approfondimento, seppur breve, circa la natura e la funzione della clausola compromissoria. Posta la distinzione tra compromesso (qui la controversia è già nata e determinata) e la clausola compromissoria (qui la controversia è eventuale futura e non determinata8), delicata e complessa è la natura giuridica di simili patti. Pur necessitando di ben altro approfondimento, è, tutta‑ via, possibile, in sintesi, aderire alla tesi prevalente (anche in giurisprudenza) secondo la quale si tratta di contratto o pat‑ to di diritto privato sostanziale (e non processuale) pur avendo effetti processuali 9. La funzione o causa del compromesso e della clausola compromissoria è speciale, nel senso che, a differenza dei 7. La relatività e l’autonomia della clausola compromissoria Altri due profili della clausola compromissoria assumono peculiare significato, anche per la vicenda in oggetto. Il primo, è rappresentato dalla natura relativa dell’ecce‑ zione di compromesso, nel senso, cioè, che la parte convenuta in giudizio (ordinario o arbitrale) ha l’onere di sollevarla, in mancanza intendendosi rinunziata con riferimento alla singo‑ la controversia in essere12. Ciò confermerebbe la libera disponibilità della compro‑ missione o meno in arbitri della controversia. Il secondo profilo, è rappresentato dall’autonomia della clausola compromissoria, nel senso, cioè, che pur accedendo ad altro negozio (appalto), tuttavia, costituisce negozio giuri‑ dico a sé stante. Così, ad esempio, la nullità del negozio non determina, di regola, la nullità della clausola compromisso‑ ria. Il principio di autonomia della clausola compromissoria sembra assumere peculiare significato nella vicenda in esame, trattandosi, cioè, di negozio a sé stante, sia rispetto al bando (che lo esclude), sia rispetto al capitolato ed al contratto di appalto (che lo prevedono)13. Una diversa conclusione potrebbe condurre alla violazio‑ ne dei principi dell’autonomia privata (cfr. l’art. 41 della Cost.) in assenza di sovraordinate ragioni giustificative, quali, ap‑ punto, la par condicio competitorum14. Corollario della natura intrinsecamente e necessariamen‑ te volontaristica dell’arbitrato, sia in relazione alla scelta di sottrarre la decisione della controversia al giudice ordinario, sia con riferimento alla costituzione del collegio arbitrale ed alla scelta degli arbitri15, è il principio della piena libertà circa la scelta dell’an della via arbitrale. 7 Per tutti, v. A. Cianflone – G. Giovannini, L’appalto di opere pubbliche, Milano, 2003, spec. pp. 220, 295, 476, 1212 e ss., cui si rinvia anche per op‑ portuni approfondimenti di natura bibliografica. 8In argomento, cfr., in particolare, Redenti, voce Compromesso, in Noviss. Dig. it., p. 785 e ss.; Carnelutti, Sistema dir. proc. civ., I, p. 550 ss.; Vecchione, L’arbitro nel sistema del processo civile, p. 356 ss.; e la consolidata giurispru‑ denza ivi citata. 9 Così, espressamente, Cianflone – Giovannini, op. cit., spec. p. 478 e ss. Ri‑ costruzione, questa, proposta da Redenti, op. ult. cit., p. 785 ss.; Carnelutti, op. ult. cit., p. 55o ss.; Vecchione, op. ult. cit., p. 356 ss.; Andrioli, in Comm., cit., IV, p. 779 e ss.; Schizzerotto, Dell’arbitrato, p. 166 ss.; ed in giurispru‑ denza condivisa, in particolare, da Cass., sez. un., 13 dicembre 1971, n. 3620; nonché, Cass., 3 dicembre 1954, n. 6414. 10 Così, Cianflone – Giovannini, op. cit., spec. p. 1323 e ss. 11 Così, Cass., 8 agosto 2001, n. 10925. 12 Cfr. Redenti, op. ult. cit., p. 785 e ss.; ed in giurisprudenza, v. Cass., 12 luglio 1978, n. 3515, la quale ritiene come non possa essere eccepita dall’attore; nonché, Cass., 28 giugno 1975, n. 2655. 13Il principio di autonomia è pacificamente affermato sia in dottrina (per tutti, v. Redenti, op. ult. cit., p. 785 e ss.; Cianflone – Giovannini, op. cit., p. 1323 e ss.), sia in giurisprudenza (v. Cass., 26 giugno 1992, n. 8028; Cass., 11 otto‑ bre 1972, n. 3003; Cass., 28 gennaio 1972, n. 244). 14Seppure in fattispecie diverse da quella in esame, v. Tar Bari, Puglia, sez. I, 28 gennaio 2003, n. 394, in www.lexitalia.it; nonché, Corte Cost., sent. n. 127 del 1977. 15 Così, Lodo Roma, reso in data 28 marzo 2006. F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o Principi questi che, specificamente in materia di lavori pubblici, risultano essere stati recepiti nei diversi interventi legislativi dalla legge Merloni (l. 11.2.1994, n. 109; l. 14.5.2005, n. 80 e Codice dei contratti pubblici, artt. 241. e ss. d.lgs. 12.4.2006, n. 163)16. In particolare, il Codice dei contratti pubblici del 2006 attribuisce un campo estremamente ampio di applicazione, non solo ai lavori pubblici, ma anche «a tutte le controversie su diritti soggettivi, derivanti dall’esecuzione dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi, forniture, concorsi di pro‑ gettazione e di idee, comprese quelle conseguenti al mancato raggiungimento dell’accordo bonario» (art. 241, co. 1). Ed inoltre, si osservi come sia considerato «ormai certo che la fonte dell’opzione per la sede arbitrale non possa più ricer‑ carsi e porsi in una legge ordinaria o, in generale, in una volon‑ tà autoritativa, bensì debba essere individuata esclusivamente nella volontà concorde delle parti di derogare alla G.O., optan‑ do per una soluzione della controversia in una sede diversa»17. 8. Ancora sulla natura del bando di gara e del capitolato Qualche ulteriore riflessione si rende necessaria in merito alla natura del bando di gara e del capitolato speciale. Come in parte accennato, il bando di gara, oggi discipli‑ nato dall’art. 64 del Codice dei contratti pubblici (come modif. dall’art. 1, co. 1, lett. q), del d.lgs. n. 152 del 2008), è un atto giuridico di natura complessa con due immediati profili: uno interno, riproduttivo (riproduce i contenuti essenziali dello schema contrattuale) e integrativo (integra lo schema nego‑ ziale attraverso clausole di attuazione eventualmente omesse, ad es.: tempi di consegna, documentazione, etc.); uno esterno, nel senso che il bandi rende conoscibile la delibera a contrar‑ re e lo schema contrattuale18. Inoltre, il bando costituisce sempre una dichiarazione di volontà e, come tale rientra nell’ambito dei provvedimenti amministrativi a contenuto prescrittivo. Il bando, difatti, «si rivolge a destinatari individuabili solo nella fase di esecuzio‑ ne dell’atto e fissa le regole da rispettare nella fase di scelta del contraente»19. Ha differenza del capitolato generale di appalto, non ha natura normativa, proprio perché privo dei caratteri della generalità e dell’astrattezza 20. Definire il bando di gara lex specialis equivale ad affermarne il suo carattere autoritativo e, di conseguenza, l’obbligatorietà delle relative clausole per la stazione appaltante ed i concorrenti21. 16 Per un commento al codice dei contratti pubblici, v. Commentario breve alla legislazione sugli appalti pubblici e privati, Breviaria iuris, a cura di Carul‑ lo‑Iudica, Padova, 2009. 17 Così, Corte Cost., sentenze nn. 127 del 1977, n. 54 del 1996, n. 493 del 1994, n. 232 del 1994, n. 206 del 1994, n. 49 del 1994, n. 488 del 1991; nonché, Tar Puglia Bari, n. 467 del 2002; in dottrina, v., in particolare, Ruffini, Volontà delle parti e arbitrato nelle controversie relative agli appalti pubblici, in Riv. dell’arbitrato, 2001, spec. p. 654 e ss.; Id., Patto compromissorio, in Riv. dell’arbitrato, 2005, p. 711 e ss. 18 Per una ricostruzione particolarmente significativa, in tale prospettiva, v., per tutti, Franzese, Il contratto oltre privato e pubblico, contributi della teoria generale per il ritorno ad un diritto unitario, Padova, 1998, p. 27 e ss.; nonché, Benedetti, I contratti della pubblica amministrazione tra specialità e diritto comune, Torino, 1999, p. 7 e ss. 19 Così, Cons. Stato., sez. IV, n. 7258 del 2002, in www.lexitalia.it. 20In tal senso, cfr., in particolare, Cons. di Stato, sez. V, n. 1225 del 2002, in www. lexitalia.it. 21Secondo la ricostruzione particolarmente significativa operata da Cons. di 2 0 1 2 117 Naturalmente, vi sono diverse tipologie di bandi, a secon‑ da della tipologia di gara. L’art. 5, co. 7, del Codice dei contratti pubblici attribuisce, inoltre, alle Stazioni appaltanti il potere di «adottare capito‑ lati, contenenti la disciplina di dettaglio e tecnica della gene‑ ralità dei propri contratti o di specifici contratti, nel rispetto del presente codice e del regolamento di cui al comma 1. I capitolati menzionati nel bando o nell’invito costituiscono parte integrante del contratto». Dunque, il capitolato è espressione della capacità regola‑ mentare, di natura amministrativa, della Stazione appaltante. Si distinguono, almeno in linea generale, due categorie di capitolati: capitolati generali e capitolati speciali. Il primo, contiene le condizioni generali applicabili indi‑ stintamente ad una categoria di appalti; il secondo, invece, ha la funzione di disciplinare l’oggetto di uno specifico con‑ tratto di appalto ed è redatto in relazione ad uno specifico contratto. Entrambi, sotto il profilo contenutistico, conten‑ gono norme di dettaglio e tecniche22. L’ultimo inciso del co. 7 dell’art. 5, «costituiscono parte integrante del contratto», conferma la loro natura di atto amministrativo non normativo, ma di natura negoziale. Naturalmente anche il capitolato è lex specialis, quindi, atto autoritativo nel senso che vincola l’amministrazione, al pari del bando di gara, alla sua osservanza 23. In tal senso, alle norme del capitolato viene comunemente attribuita natura pubblicistica 24; anche se, secondo altro di‑ verso orientamento, invece, si tratterebbe di norme di natura civilistica, in quanto attinenti alla fase di formazione progres‑ siva del contratto, riconducibili sostanzialmente alle condi‑ zioni generali di contratto, regolamentate dal Codice civile all’art. 1341 del cod. civ. 25. Così, ad esempio, ove le parti abbiano richiamato il capito‑ lato per disciplinare il rapporto contrattuale, come avviene nel caso che esso costituisca parte integrante del contratto, le nor‑ me del capitolato, ivi comprese quelle che «prevedono il defe‑ rimento delle controversie nascenti dal contratto ad un Colle‑ gio arbitrale, assumono la stessa natura e portata negoziale dell’atto che le richiama, perdendo qualsiasi collegamento con la fonte normativa di provenienza, e conservando efficacia indipendentemente dalle successive modifiche della stessa»26. Con specifico riferimento alla clausola compromissoria può, altresì, osservarsi, in chiave storica, come simili clausole (positive, cioè, nel senso della devoluzione; o negative, nel senso dell’esclusione) solitamente vengono contenute, per le anzidette ragioni, nell’ambito del capitolato generale o specia‑ le, e non, invece, nell’ambito del bandi di gara. Ed inoltre, nell’ambito dell’evoluzione legislativa in materia di appalti pubblici sembra potersi scorgere un favor arbitrati 27. Stato, sez. IV, nn. 6440/2002 e 7528/2002, in www.lexitalia.it. 22 A. Cianflone – G. Giovannini, L’appalto di opere pubbliche, Milano, 2003, spec. pp. 220, 295 e ss. 23 Così, C.G.C.E., sez. VI, 24 aprile 2004, C‑496/99 P. 24In tal senso, cfr., in particolare, Alesio, in Dir. e giust., 2004, spec. pp. 17 e 39 e ss. 25In questa prospettiva, v., in particolare Casetta, Manuale di diritto ammini‑ strativo, Milano, 2007, p. 207 e ss. 26 Così, Cass., n. 23670 del 2006. 27In tale direzione, sembra porsi la dottrina e la giurisprudenza prevalenti, in precedenza citate. amministrativo Gazzetta 118 d i r i t t o a m m i n i s t r at i v o Gazzetta F O R E N S E orientamenti, uno meno recente, ma ampiamente condiviso, favorevole alla tesi secondo la quale la proposizione della do‑ manda riconvenzionale implicherebbe tacita rinunzia alla ecce‑ zione di compromesso32. Secondo questo orientamento, come accade dinanzi al Giudice ordinario, se la parte non si limita a formulare sem‑ plici difese o a sollevare eccezioni in senso proprio, ma pro‑ ponga una domanda riconvenzionale, pone in essere una condotta processuale che, risolvendosi, come quella dell’atto‑ re che faccia valere le sue pretese, in una richiesta al Giudice ordinario di emettere una statuizione relativa al rapporto processuale dedotto in giudizio, implica la volontà di rinun‑ ziare all’eccezione di arbitrato. Secondo un altro, più recente ed egualmente ampiamente condiviso, orientamento, invece, la domanda riconvenzionale deve sempre ritenersi proposta in via subordinata al mancato accoglimento dell’eccezione di compromesso che, se accolta, preclude la cognizione sia della domanda dell’attore, sia di quella riconvenzionale33. 9. La proposizione di domanda riconvenzionale nell’ambito dell’at‑ to di resistenza a giudizio arbitrale Una ulteriore problematica questione merita di essere, sep‑ pur brevemente, esaminata. Ci si chiede, precisamente, se la proposizione di domanda riconvenzionale nell’ambito atto di resistenza a giudizio arbitra‑ le possa o meno integrare, in chiave interpretativa, gli estremi del comportamento concludente tenuto dalle parti litiganti, nel senso, cioè, della volontà di devolvere la controversia in arbitri, in considerazione anche della libertà delle forme: «la stipulazio‑ ne della convenzione arbitrale deve ritenersi validamente effet‑ tuata con lo scambio delle missive concernenti la proposta e l’accettazione del deferimento ad arbitri, non potendo la richie‑ sta di costituzione di un collegio e la relativa accettazione esse‑ re diversamente interpretate se non come concorde volontà di compromettere la lite»28. Dovendosi, naturalmente, aggiungere che, in ogni caso, hanno forma scritta il capitolato speciale, il contratto di appalto, l’istanza di accesso a giudizio arbitrale ed i successivi atti. Si ricordi, in proposito, l’art. 1362 del cod. civ. che, unita‑ mente alle altre norme di ermeneutica contrattuale (artt. 1362‑1371 del cod. civ.), è considerato applicabile anche ai contratti della pubblica amministrazione, ai bandi di gara, ai capitolati speciali e generali29. Questa norma impone di considerare il comportamento complessivo tenuto dalle parti, «anche posteriore alla conclu‑ sione del contratto». Precisamente, in materia in tema di interpretazione delle clausole del bando di gara, la giurisprudenza ha enucleato i se‑ guenti principi di portata generale, sulla base della considera‑ zione che i principi di ermeneutica non sono tanto quelli propri degli atti amministrativi (tipicamente unilaterali ed organizza‑ tivi), quanto quelli relativi agli accordi (stante la preordinazione del bando a sollecitare le offerte e ad indicare, sia pure nelle linee generali, il contenuto del futuro rapporto convenzionale). Si tratta di principi desunti dalle regole dell’ermeneutica con‑ trattuale e dalle regole dell’affidamento: la ricerca dell’effettiva intenzione dell’amministrazione, la funzione della clausola ad assicurare la par condicio, la regola della buona fede oggettiva30. In sostanza, nell’interpretare il bandi di gara (e lo stesso vale per la lettera d’invito), non deve dimenticarsi come ci si trovi innanzi ad un atto‑provvedimento amministrativo consi‑ stente in manifestazione di volontà31. Di conseguenza, in merito al significato da attribuirsi alla proposizione della domanda riconvenzionale, nel senso, cioè, di possibile rinunzia all’eccezione di compromesso, può osservar‑ si quanto segue. Effettivamente in giurisprudenza si sono affermati due 10. Considerazioni conclusive Qualora si condividano le riflessioni che precedono, circa la complessa ed articolata problematica in esame, nel senso della compromettibilità in arbitri di simili controversie, può assume‑ re specifico significato la descritta autonomia della clausola compromissoria. Tale potere di disposizione sembra, insomma, essere rimesso alla libera volontà delle parti, a prescindere, cioè, anche da specifiche previsioni di divieto, che potrebbero, sep‑ pure con la dovuta prudenza, essere considerate modificabili, senza, per ciò solo, ingenerare profili di violazione della par condicio competitorum. Certo, per dovere di completezza, occorre pure rilevare come le questioni sottese alla complessa vicenda in indagine non si esauriscano affatto nelle brevi note che precedono, risultando di ben più ampia portata. A tali ulteriori questioni in attesa di adeguata soluzione, in questa sede, anche per ovvie ragioni di brevità e di sintesi, è solo possibile fare cenno. Si consideri, ad esempio, la dibattuta rilevabilità d’ufficio o meno del difetto di potestas iudicandi del collegio arbitrale nelle ipotesi di nullità del compromesso o della clausola compromissoria34. Ad ogni modo, vale sempre quell’insegnamento che, special‑ mente in materia di validità dell’atto giuridico negoziale, invita alla prudenza, «in senso contrario a qualsiasi resa ad un prag‑ matismo, che si risolva in acquiescenza al disordine normativo e rinuncia al compito propositivo dell’interprete», spinti dalla «necessità di evitare facili fughe dalle proprie responsabilità, con l’alibi di quella frantumazione concettuale, in cui indubbiamen‑ te il disordine normativo corre il rischio di tradursi»35. 28In tal senso, v. Cass., sez. I, 2 febbraio 2007, n. 2256; in senso conforme, Cass., sez. I, n. 1989 del 2000. 29Tra le tante in materia, v. Cons. di Stato, sez. IV, 29 aprile 2002, n. 2279; Cass., 29 novembre 2005, n. 26047; Cons. di Stato, sez. V, n. 37 del 2007; in dottri‑ na, per tutti, cfr. A. Cianflone – G. Giovannini, L’appalto di opere pubbliche, cit., pp. 220, 295 e ss. 30Tra le numerose decisioni in materia, particolare significati assumono le seguen‑ ti: Cons. di Stato, sez. IV, n. 335 del 2 luglio 1985; Cons. di Stato, sez. V, 3 ottobre 2002, n. 5215; Cons. di Stato, sez. V, 25 marzo 2002, n. 1695; Cons. di Stato, 10 giugno 2002, n. 3205, in www.lexitalia.it; in dottrina, per tutti, cfr. Cianflone – Giovannini, op. ult. cit., p. 295 e ss. 31 Cosi, Ponte, in Urb. e app., 2003, p. 1201 e ss.; Di Donna, in Urb. e app., 2005, p. 350 e ss. 32Orientamento condiviso, tra le altre, da Cass., sez. III, 5 dicembre 2003, n. 18643; Cass., sez. II, 16 dicembre 1992, n. 13317; Cass., nn. 3449 e 3499 del 1972; Corte App. Genova 26 febbraio 2002. 33In questa direzione, invece, Trib. Bergamo, 22 aprile 2008; Cass., sez. II, 7 luglio 2004, n. 12475; Cass., sez. III, 19 dicembre 2000, n. 15941; Trib. Belluno, 26 ottobre 2005; Trib. Bologna, sez. II, 7 luglio 2004, n. 2075; Cass., sez. I, 30 maggio 2007, n. 12684. 34In senso affermativo, di recente, v. Cass., sez. I, 24 luglio 2007, n. 16332. 35 Così, in maniera particolarmente significativa, E. Quadri, A proposito della ristampa del «contributo alla teoria del negozio giuridico» di Renato Scogna‑ miglio, in Riv. dir. civ., 2009, II, p. 385 e ss., ma spec. p. 402. F O R E N S E ● Rassegna di giurisprudenza sul Codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (d.lgs. 12 Aprile 2006, n. 163 e ss. mm.) ● A cura di Almerina Bove Dottore di ricerca e Avvocato presso l’Avvocatura Regionale della Campania l u g l i o • a g o s t o 2 0 1 2 119 Aggiudicazione definitiva. Termine per l’impugnazione Anche per le gare d’appalto indette in epoca anteriore all’entrata in vigore del Codice del processo amministrativo, il termine per l’impugnazione dell’aggiudicazione definitiva da parte dei concorrenti non aggiudicatari inizia a decorre‑ re dal momento in cui essi hanno ricevuto la comunicazione di cui all’art. 79, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 163 del 2006, e non dal momento, eventualmente successivo, in cui la stazione appaltante abbia concluso con esito positivo la verifica del possesso dei requisiti di gara in capo all’aggiudi‑ catario, ai sensi dell’art. 11, comma 8, dello stesso decreto. Adunanza Plenaria, 31 luglio 2012, n. 31 Pres. Giancarlo Coraggio; Estens. Raffaele Greco Annullamento dell’esclusione dell’impresa sopravvenuto alla formazione della graduatoria. Obbligo di rinnovo delle operazio‑ ni di gara Nella gara per l’affidamento di contratti pubblici l’inte‑ resse fatto valere dal ricorrente che impugna la sua esclusio‑ ne è volto a concorrere per l’aggiudicazione nella stessa gara; pertanto anche nel caso dell’offerta economicamente più vantaggiosa, in presenza del giudicato di annullamento dell’esclusione stessa sopravvenuto alla formazione della graduatoria, il rinnovo degli atti deve consistere nella sola valutazione dell’offerta illegittimamente pretermessa, da effettuarsi ad opera della medesima commissione preposta alla procedura. Adunanza Plenaria, 26 luglio 2012, n. 30 Pres. Francesco Coraggio; Estens. Anna Leoni A.T.I. Obbligo di indicazione delle parti del servizio che saranno eseguite dai singoli operatori riuniti. Sussiste anche per le ATI orizzontali L’art. 37, comma 4, del Codice dei Contratti pubblici n. 163 del 2006, nella parte in cui ha previsto che “nel caso di forniture o servizi nell’offerta devono essere specificate le parti del servizio che saranno eseguite dai singoli operatori riuniti o consorziati” si applica non solo quando si tratti di a.t.i. verticali, ma anche di a.t.i. orizzontali. In particolare, l’indicazione delle parti si rende necessa‑ ria al fine di evitare che l’esecuzione di quote rilevanti dell’appalto siano eseguite da soggetti sprovvisti delle qua‑ lità prescritte dalla lex specialis in ordine ai requisiti di ca‑ pacità tecnico finanziaria e persegue altresi’ la finalità di assecondare il corretto esplicarsi delle dinamiche concorren‑ ziali, assicurando l’effettività del raggruppamento e impe‑ dendo la partecipazione fittizia di imprese. Adunanza Plenaria, 5 luglio 2012, n. 26 Pres. Giancarlo Coraggio; Estens. Francesco Caringella Attestazione SOA. Onere di tempestiva richiesta di verifica trien‑ nale al fine della partecipazione a gare indette nelle more della proroga dell’attestazione La proroga a cinque anni dell’efficacia delle attestazioni SOA disposta dall’art. 7, comma 1, della legge 1o agosto 2002, n. 166 e dall’art. 1 del d.P.R. 10 marzo 2004, n. 93, è subordinata alla richiesta di verifica triennale ed al suo positivo esito. L’impresa che abbia richiesto in termini la verifica trien‑ nale del proprio attestato SOA può partecipare alle gare amministrativo Gazzetta 120 d i r i t t o a m m i n i s t r at i v o indette dopo il triennio anche se la verifica sia compiuta successivamente, fermo restando che l’efficacia dell’aggiu‑ dicazione è subordinata, ai sensi dell’art. 11, comma 8, del d.lgs 12 aprile 2006, n. 163, all’esito positivo della verifica stessa. Viceversa, l’impresa che abbia presentato la richiesta fuori termine può partecipare alle gare soltanto dopo la data di positiva effettuazione della verifica. Adunanza Plenaria, 18 luglio 2012, n. 27 Pres. Giancarlo Coraggio; Estens. Maurizio Meschino Dichiarazioni ex. art 38, lett.c). 1. Incorporazione e fusione socie‑ taria. Fusione e Obbligatorietà della dichiarazione per gli ammi‑ nistratori delegati e i direttori tecnici che hanno operato nell’ul‑ timo anno presso la società incorporata o le società fusesi. – 2. Decorrenza del principio di diritto affermato 1. Nei casi di incorporazione o di fusione societaria, perfezionatesi prima della partecipazione ad una pubblica gara, la dichiarazione ex art. 38 del D.lgs n. 163 del 2006 circa l’insussistenza di reati incidenti sulla moralità profes‑ sionale deve essere resa a pena di esclusione anche da parte degli amministratori delegati e dei direttori tecnici che han‑ no operato nell’ultimo anno presso la società incorporata o le società fusesi. Ciò in quanto le fattispecie della incorporazione e della fusione pur non realizzando un’ipotesi di successione uni‑ versale danno vita ad un soggetto composito in cui prose‑ guono la loro esistenza le società partecipanti all’operazione societaria. Per l’effetto, non si possono considerare “altrui” gli amministratori che sono amministratori di un soggetto che è parte del tutto, e che conserva la sua identità origina‑ ria pur sotto una diversa forma giuridica. 2. I concorrenti che prima della Adunanza Plenaria n. 10 del 2012 non abbiano reso la dichiarazione di cui alla stessa lettere c) rispetto agli amministratori delegati o ai direttori tecnici che hanno operato nella societtecnicai o incorporata nell’ultimo anno possono essere esclusi dalla procedura di gara soltanto quando il bando di gara abbia esplicitato tale onere di dichiarazione e la conseguente causa di esclusione; in caso contrario, l’esclusione risulta legittima solo ove vi sia la prova che gli amministratori per i quali è stata omessa la dichiarazione abbiano effettivamente pregiudizi penali. Adunanza Plenaria 7 Giugno 2012, n. 21 Pres. Giancarlo Coraggio; Estens. Rosanna de Nictolis Gazzetta F O R E N S E Dichiarazioni ex art. 48 – Verifica a campione del controllo del possesso dei requisiti di capacità economico – finanziaria e tecnico organizzativa. Necessità di richiesta scritta da parte della stazione appaltante Ai sensi dell’art. 48 del d.lgs 163 del 2006, il potere di controllo esercitato dalla stazione appaltante, finalizzato alla verifica del possesso dei requisiti tecnici ed economici da par‑ te concorrenti all’uopo sorteggiati, presuppone una richiesta specifica di esibizione della documentazione, a nulla rilevando che un rappresentante della ditta possa essere stato presente alla seduta pubblica nella quale è avvenuto il sorteggio. È pertanto da ritenersi illegittima l’esclusione del concor‑ rente che in mancanza di un’esplicita richiesta da parte dell’am‑ ministrazione abbia omesso di esibire la documentazione at‑ testante il possesso dei requisiti. Tar Campania, Napoli, sez I, 18 Giugno2012, n. 3480 Pres. Cesare Mastrocola; Estens. Fabio Donadono Offerta tecnica. Presentazione di un’offerta composta di un nume‑ ro di cartelle superiore a quello massimo prescritto dal bandi a pena di eslcusione. Impine l’esclusione dalla gara Ove la normativa di gara preveda che la presentazione della offerta debba essere contenuta in un numero di cartelle prefissato, a pena di esclusione, ogni violazione, anche mini‑ ma, del limite prefissato non può che comportare l’esclusione, non prevedendo la legge di gara alcuna tolleranza. Consiglio di Stato, sez. V, 14 maggio 2012, n. 2745 Pres. Calogero Piscitello; Estens. Antonio Amicuzzi Principio di pubblicità della seduta di apertura delle offerte tecniche al fine di verificarne lo “stato di consistenza”. Si applica anche alle procedure negoziate e agli affidamenti in economia, in relazione sia ai settori ordinari che ai settori speciali di rilevanza comunitaria I principi di pubblicità e trasparenza che governano la di‑ sciplina comunitaria e nazionale in materia di appalti pubblici comportano che, qualora all’aggiudicazione debba procedersi col criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, l’aper‑ tura delle buste contenenti le offerte e la verifica dei documen‑ ti in esse contenuti vadano effettuate in seduta pubblica anche laddove si tratti di procedure negoziate, con o senza previa predisposizione di bando di gara, e di affidamenti in economia nella forma del cottimo fiduciario, in relazione sia ai settori ordinari che ai settori speciali di rilevanza comunitaria. Adunanza Plenaria, 31 luglio 2012, n. 31 Pres. Giancarlo Coraggio; Estens. Raffaele Greco Diritto tributario La tutela contro gli atti dell’esecuzione esattoriale 123 tributario Achille Benigni Gazzetta F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o ● 123 Sommario: 1. Premessa; 2. La tutela contro gli atti dell’ese‑ cuzione forzata tributaria nel vigente assetto ordinamentale; 3. Rapporti tra avviso di accertamento esecutivo ed esecuzio‑ ne forzata; 4. Ipotesi particolari e spunti ricostruttivi; 5. Conclusioni. ● Achille Benigni Avvocato Premessa L’introduzione dell’istituto dell’accertamento esecutivo ad opera dell’art.29 d.l. 31 maggio 2010 n. 78 (conv. in l. 30 luglio 2010 n. 122)1 sembra avere generato una nuova tipologia di provvedimenti che un’autorevole dottrina ha definito “impoesattivi”2. Con essi, infatti, il legislatore ha inteso cumulare in un uni‑ co atto le funzioni di accertamento e riscossione dei tributi, precedentemente affidate a distinti provvedimenti, allo scopo di accelerare gli effetti del prelievo fiscale in tema di imposte sui redditi ed Iva. Le osservazioni che seguono si propongono di mettere in luce alcune problematiche sollevate dall’istituto in esame ed in particolare quelle inerenti al difetto di coordinamento tra que‑ ste norme e le disposizioni preesistenti, che disciplinano la tu‑ tela del contribuente nella delicata fase che collega l’esercizio della potestà di imposizione con la riscossione coattiva del credito fiscale. 1. La tutela contro gli atti dell’esecuzione forzata tributaria nel vigen‑ te assetto ordinamentale L’attuale assetto normativo è costituito dagli artt. 2 e 19 d.lgs. n. 546 del 1992 che segnano i cd. limiti orizzontali e ver‑ ticali della giurisdizione delle commissioni tributarie e dagli artt. 57 e 58 d.p.r. n. 602 del 1973 (nel testo novellato dal d.lgs. 26 febbraio 1999 n. 46) che disciplinano le opposizioni all’ese‑ cuzione, agli atti esecutivi e di terzo in materia di esecuzione esattoriale. Dalla ricognizione di queste norme traspare la scelta “di si‑ stema” del legislatore di devolvere alla giurisdizione delle com‑ missioni tutte le controversie tributarie aventi ad oggetto l’impu‑ gnazione di una serie di atti qualificati dall’art.19 d.lgs. n. 546 del 1992 come “autonomamente impugnabili”, secondo un’elen‑ cazione che per molti anni è stata ritenuta tassativa3. In questa elencazione, tuttavia, non rientrano gli atti *Il presente contributo riproduce, con integrazioni, il testo della relazione svolta al convegno di studi “Politiche di deflazione fiscale e garanzie costituzionali: l’accertamento esecutivo ed il nuovo rito delle liti minori” tenutosi ad Avellino il 13 aprile 2012. 1 L’art. 29 del detto decreto ‑ rubricato “concentrazione della riscossione nell’ac‑ certamento” ‑ prevede che gli avvisi di accertamento concernenti le imposte sui redditi e l’Iva ed i connessi provvedimenti sanzionatori debbano contenere anche l’intimazione ad adempiere, entro il termine di presentazione del ricorso, all’ob‑ bligo di pagamento degli importi in essi indicati, ovvero, in caso di tempestiva impugnazione, di quelli dovuti in base all’art.15 d.p.r. n. 602 del 1973. Lo stesso articolo, poi, soggiunge che tali atti diventano esecutivi decorsi sessanta giorni dalla notifica e devono altresì contenere l’avvertimento che, decorsi ulte‑ riori trenta giorni dalla scadenza del termine per il pagamento, la riscossione delle somme richieste, in deroga alle disposizioni in tema di iscrizione a ruolo è affidata in carico agli agenti della riscossione, anche ai fini dell’esecuzione for‑ zata (fatta salva l’ipotesi in cui vi sia fondato pericolo per il positivo esito della riscossione, nella quale l’affidamento all’agente può avvenire da parte dell’uffi‑ cio anche prima della scadenza dei detti termini). 2 La definizione è stata coniata da C. Glendi in Notifica degli atti “impoesattivi” e tutela cautelare ad essi correlata, in Dir. prat. trib., 2011, I, p. 481 ss. 3 Cfr. Cass. SS. UU. 26 marzo 1999 n. 185 in Fisco, 1999. In passato la giurispru‑ denza tendeva a rimarcare il carattere tassativo dell’elenco di cui all’art.19 – qua‑ le espressione del principio di tipicità degli atti impugnabili – senza peraltro escludere l’ammissibilità di una sua interpretazione estensiva. Solo in epoca re‑ cente la S. C. ha esteso ulteriormente tale concetto, fino a ricomprendervi ogni ipotesi di atto amministrativo idoneo ad esprimere compiutamente ed in modo autoritativo la pretesa tributaria. tributario La tutela contro gli atti dell’esecuzione esattoriale* 2 0 1 2 124 d i r i t t o dell’esecuzione forzata (pignoramento, vendita forzata, decre‑ to trasferimento, ecc.) in quanto per questi ultimi, ‑ che si pongono a valle rispetto agli atti autonomamente impugnabi‑ li – tuttora permane la giurisdizione del giudice ordinario (ex art.2 d.lgs. n. 546 del 1992). Trattasi però di una giurisdizione fortemente depotenziata, posto che ‑ come è noto ‑ in materia di esecuzione esattoriale l’opposizione di terzo è ammessa, ma con una serie di limitazioni attinenti al profilo delle prove utilizzabili a sostegno delle ragioni del terzo opponente, men‑ tre l’opposizione all’esecuzione è vietata (salvo che con essa non si sollevi una questione concernente la pignorabilità dei beni) ed è altresì vietata l’opposizione agli atti esecutivi relati‑ va alla regolarità formale ed alla notificazione del titolo ese‑ cutivo e del precetto4. Le predette norme sono state sottoposte anche al vaglio della Consulta, che però sino ad oggi ha sempre respinto le re‑ lative eccezioni5. Cercherò di dimostrare come questo assetto, già insoddisfa‑ cente prima della novella, sia destinato ad entrare definitiva‑ mente in crisi a seguito dell’impatto con le nuove norme. 2. Rapporti tra avviso di accertamento esecutivo ed esecuzione forzata È stato osservato6 che con la scomparsa del ruolo la sequen‑ za di atti che collegano la fase dell’imposizione fiscale con quella della riscossione coattiva si è accorciata, in quanto è ve‑ nuta meno una delle possibilità di accesso alla giurisdizione tributaria, la quale – giova ricordarlo – è pur sempre una giuri‑ sdizione di tipo “impugnatorio”, nel senso che la lite fiscale necessita per potersi radicare di un atto impugnabile. Orbene, nel sistema attuale possono configurarsi varie ipo‑ tesi in cui tale accesso risulta complicato o addirittura precluso del tutto. In primo luogo va considerata l’eventualità, non rara nella pratica, di un accertamento che non sia stato validamente noti‑ ficato (come accade nei casi di notificazione nulla o addirittura inesistente). Fino a ieri in un caso del genere era possibile per il contri‑ 4 La giustificazione prevalente era che la funzione delle opposizioni regolate dagli artt.615 e 617 del c.p.c. è svolta nel nostro caso dai ricorsi contro il ruolo e l’avviso di mora (oggi sostituito dall’intimazione ad adempiere di cui all’art.50 d.p.r. n. 602 del 1973), che sono impugnabili dinanzi al giudice tri‑ butario. 5Invero, se si esamina la giurisprudenza costituzionale più recente, formatasi in relazione al testo novellato degli artt. 57 e 58 d.p.r. n. 602 del 1973, si noterà che le pronunzie sono tutte di inammissibilità. L’ultima in ordine di tempo è l’ordinanza n. 133 del 13 aprile 2011 (in Fisco, 2011, 17, p. 2708) che ha di‑ chiarato manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituziona‑ le del combinato disposto degli articoli 57 e 60 del d.p.r. n. 602 del 1973. Nella fattispecie la Corte ha rilevato che al contribuente erano state notificate, successivamente alla cartella di pagamento, alcune intimazioni ad adempiere che avrebbero potuto essere impugnate dinanzi al giudice tributario senza ne‑ cessità di ricorrere ai rimedi delle opposizioni esecutive previste dal codice di rito. Sicché, in definitiva, non può escludersi che in un diverso contesto fattua‑ le, o con una differente prospettazione della questione di legittimità, la Consul‑ ta possa in futuro approdare ad un giudizio di incostituzionalità delle norme citate. 6 A. Carinci, Prime considerazioni sull’avviso di accertamento “esecutivo” ex DL n. 78/2010, in Riv. dir. trib. 2011, I, p. 175. L’A. osserva che l’avviso di accertamento sarà d’ora in poi l’unico atto che il contribuente riceverà prima della possibile aggressione esecutiva. Trattasi, però, di osservazione formulata prima delle modifiche introdotte dall’art.8 d.l. 2 marzo 2012 n. 16, che ha prescritto l’obbligo della comunicazione dell’affidamento dell’atto impoesattivo all’agente della riscossione mediante raccomandata semplice, cui accennerò infra. t r i b u ta r i o Gazzetta F O R E N S E buente impugnare la cartella di pagamento (ergo, l’iscrizione a ruolo), deducendo il vizio di notifica dell’atto presupposto: il ricorso contro il ruolo, in pratica, assolveva anche la funzione di sottoporre al vaglio del giudice tributario la legittimità e – se‑ condo l’orientamento prevalente, che tende a ricostruire la giurisdizione tributaria in termini di giurisdizione sul rapporto e non solo sull’atto7 – anche la fondatezza della pretesa imposi‑ tiva, nel senso che in tale giudizio sarebbe stato possibile per il ricorrente sollevare questioni concernenti il presupposto e la base imponibile8. Oggi tutto questo è più complicato: se il vizio incide sul procedimento di notificazione dell’avviso di accertamento, può generarsi un vero e proprio deficit di tutela giurisdizionale, te‑ nuto conto che non vi saranno più un’iscrizione a ruolo ed una cartella di pagamento suscettibili di impugnazione autonoma dinanzi al giudice tributario. Se il contribuente è “fortunato”, potrebbe essere raggiunto medio tempore da un provvedimento di tipo cautelare (quale può essere un preavviso di fermo amministrativo o di iscrizione ipotecaria)9, ossia da un atto comunque ricompreso nell’elenco di cui all’art. 19 ed il cui carattere di atto autonomamente im‑ pugnabile ne farebbe una comoda via di accesso alla giurisdi‑ zione tributaria, che ovviamente sarebbe estesa anche al rappor‑ to. Analogamente, nel caso in cui fosse notificata al contribuen‑ te una intimazione ad adempiere ex art.50 d.p.r. 602 del 1973 (perché nel frattempo è decorso un anno dalla notificazione dell’accertamento), quest’ultimo potrebbe impugnare tale atto facendo valere il vizio di notifica (ovvero la mancata notifica‑ 7Non è qui il caso di soffermarsi sull’annosa diatriba relativa all’oggetto del processo tributario, che vede storicamente contrapposte due correnti di pensie‑ ro, facenti capo alla teoria dichiarativa e costitutiva dell’obbligazione tributaria. Ai fini che qui interessano, mi limito a rilevare come la giurisprudenza abbia da tempo assunto una posizione “sincretistica”, ritenendo che il giudizio tribu‑ tario, benché introdotto mediante l’impugnazione di un atto, è comunque fina‑ lizzato all’accertamento dell’obbligazione tributaria. Per un’accurata sintesi di tale problematica cfr. A. Giovannini, Il ricorso e gli atti impugnabili, in Aa. Vv., Il processo tributario, a cura di F. Tesauro, Torino, 1998, passim. 8 La disposizione dell’ultima parte dell’art.19 comma 3o d.lgs. n. 546 del 1992 prevede, infatti, che la mancata notificazione di un atto autonomamente impu‑ gnabile, adottato precedentemente all’atto notificato, ne consente l’impugna‑ zione unitamente a quest’ultimo. Tale norma (per vero assai discussa per la sua formulazione criptica), viene normalmente interpretata nel senso che il ricor‑ rente avrebbe sempre una duplice opzione difensiva, potendo egli limitarsi a chiedere l’annullamento dell’atto impugnato a causa della mancata (doverosa) notificazione dell’atto presupposto, ovvero entrare nel merito della pretesa fi‑ scale, domandando al giudice tributario di pronunziarsi sulla legittimità della stessa. Cfr. G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, Parte generale, V ed., Padova, 2003, p. 619. Sebbene questa seconda opzione possa sembrare inop‑ portuna in termini di strategia difensiva (e in molti casi lo è, tenuto conto che la mancata notifica dell’atto presupposto è di per sé sufficiente a provocare la caducazione di quello successivo, determinando un vizio proprio di quest’ulti‑ mo, Cass. SS. UU. 25 luglio 2007 n. 16412 in Boll. Trib. 2007, 19, p. 1554, ma vedi, in senso contrario, la recentissima Cass. Sez. V, 4 maggio 2012 n. 6721 in Fisco, 2012, p.3303, che, contravvenendo ad un indirizzo consolidato, sembra postulare l’onere di estensione dell’impugnativa all’atto presupposto), possono tuttavia configurarsi casi nei quali, non essendo ancora spirati i termi‑ ni per l’esercizio della potestà di imposizione, il contribuente potrebbe avere interesse a far accertare l’inesistenza dell’obbligazione tributaria al fine di scongiurare definitivamente la riattivazione della pretesa (si pensi ad es. al re‑ gime delle obbligazioni solidali, ove l’interesse ad ottenere un giudicato favore‑ vole sul rapporto è collegato alla invocabilità di tale giudicato da parte degli altri coobbligati, ex art. 1306, comma 2o, c.c.). 9 È controversa la natura cautelare anziché esecutiva di tali provvedimenti. Al‑ cuni recenti pronunciamenti della S. C. (Cass. SS. UU. 22 febbraio 2010 n. 4077 in Giur. trib. n. 10/2010 p. 862; Cass. SS. UU. 19 marzo 2009 n. 6594 in Giur. trib. n. 10/2009 p. 876) sembrerebbero deporre a favore della natura esecutiva di tali atti, in virtù del loro essere prodromici all’esecuzione forzata, anche se non vi è dubbio che la funzione primaria dell’ipoteca e del fermo amministra‑ tivo resti quella di garantire il credito erariale. F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o zione) dell’atto impoesattivo prodromico, ottenendone l’annul‑ lamento. Se però tutto questo non accade, nel senso che il primo atto successivo all’avviso di accertamento è il pignoramento, si pone concretamente il problema del tipo di tutela esperibile da parte del contribuente. Un’impostazione eccessivamente formalistica rischierebbe, infatti, di precludere ogni possibilità di difesa giurisdizionale, il che è irragionevole, per cui bisogna ricercare delle soluzioni interpretative che siano compatibili con l’attuale assetto ordina‑ mentale e nel contempo rispettose dei principi costituzionali. De jure condito, la soluzione più logica, anche sul piano sistematico, è quella di ipotizzare la tutela dinanzi al giudice tributario ogni qual volta si contesti la legittimità dell’atto impoesattivo. È evidente, infatti, che il vizio di notifica, in quanto afferente ad un atto recettizio, è destinato ad inficiarne la legittimità. A tal proposito, come è stato giustamente osservato, la tesi della S. C. che ha esteso la sanatoria degli atti processuali ai vizi di notifica degli avvisi di accertamento10, già di per sé discutibile, appare oggi incompatibile con la natura, la struttura e la funzio‑ ne del nuovo avviso di accertamento esecutivo: il carattere recet‑ tizio di tale atto, che acquista efficacia esecutiva solo all’esito della sua notificazione al destinatario, fa sì che, da un lato, la notificazione rappresenti un elemento costitutivo dell’intera fattispecie11 e, dall’altro, che essa non possa essere surrogata da forme equipollenti, tanto meno dalla conoscenza effettiva12. Nel nostro caso, infatti, l’avviso di accertamento non è soltanto il veicolo della pretesa impositiva ma è anche ‑ in quanto atto esattivo ‑ il titolo che rende possibile l’esecuzione coattiva della pretesa stessa. 10 Ci si riferisce ai principi sanciti da Cass. SS. UU. 5 ottobre 2004 n. 19854 in Giur. trib. 1/2005, p. 14 e poi sostanzialmente ribaditi da numerose pronunzie successive (tra cui Cass. sez. trib. 12 luglio 2006 n. 15849 e Cass. sez. trib. 2 luglio 2009 n. 15554). In tali decisioni la S. C. ha propugnato la soggezione dell’avviso di accertamento al regime delle nullità della notificazione nel pro‑ cesso ed a quello delle relative sanatorie ex artt. 156 e 160 c.p.c., con la conse‑ guenza che la nullità della notificazione del provvedimento impositivo può essere sanata per raggiungimento dello scopo e per effetto della proposizione del ricorso, fatte salve le decadenze eventualmente maturate. Trattasi di un’im‑ postazione fortemente (e giustamente) avversata in dottrina, che si pone in contrasto con il più rigoroso orientamento che ravvisa nella notificazione un elemento costitutivo, anziché un mero requisito di efficacia, dell’atto recettizio. Cfr. in proposito C. Glendi, La sanatoria delle nullità di notifica degli atti impugnati nel processo tributario, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1978, I, p. 45 ss; C. Scalinci, La notifica dell’atto tributario recettizio: un Giano bifronte tra sa‑ natoria e decadenza, in Riv. dir. trib. 2005, II, p. 13 ss., in particolare p. 33. 11 È stato altresì evidenziato che la notifica dell’avviso di accertamento esecutivo dovrebbe avvenire ai sensi dell’art.60 d.p.r. 600 del 1973, ossia con la necessa‑ ria intermediazione dell’agente notificatore anche nella ipotesi di notificazione a mezzo posta, laddove per i successivi atti determinativi della pretesa richia‑ mati nell’ultima parte del primo comma dell’art. 29, tale intermediazione, in base alla lettera della legge, non risulterebbe necessaria, potendo gli stessi esse‑ re notificati direttamente a mezzo posta e cioè senza il ricorso al messo notifi‑ catore di cui all’art.60. Glendi, op. loc. cit., p. 494. 12Osserva C. Glendi, op. loc. ult. cit., p. 488, che con la nuova disciplina la formazione del titolo esecutivo non preesiste alla notifica, ma dipende dalla stessa, sicché la ricostruzione operata dalla S. C. con riferimento ai vecchi av‑ visi di accertamento, già di per sé discutibile per le ragioni esposte nella nota 11, appare ancor meno plausibile se riferita al nuovo avviso di accertamento, la cui disciplina positiva subordina testualmente alla notificazione la esecutivi‑ tà del titolo (la quale ex art. 29, comma 1o, lettera b) si determina solo allo scadere del sessantesimo giorno dalla notifica). È evidente perciò che la notifi‑ cazione‑procedimento assume in questo caso un preciso valore sul piano effet‑ tuale, ponendosi come condizione essenziale e non altrimenti surrogabile per la produzione di un ventaglio di effetti giuridici i quali, all’incontro, giammai potrebbero riconnettersi alla conoscenza effettiva del provvedimento. 2 0 1 2 125 Ora, se è già difficile ammettere che la conoscenza effetti‑ va della pretesa fiscale possa in qualche modo surrogare la notificazione dell’atto che quella pretesa veicola all’esterno, risulta ancor più arduo pensare che un simile regime possa valere anche in relazione a quegli ulteriori effetti (che sono, poi, quelli previsti dagli artt. 2910 c.c. e 474 c.p.c.), la cui produzione è ex lege subordinata al perfezionamento del pro‑ cedimento notificatorio13. Ne deriva che la proposizione del ricorso contro l’avviso di accertamento esecutivo non potrebbe produrre alcun effetto sanante del vizio di notifica. Bisogna però considerare anche l’ipotesi estrema in cui il contribuente non abbia proprio cognizione del provvedimento impoesattivo (come può accadere nei casi di notificazione ine‑ sistente, o nelle più gravi ipotesi di notificazione nulla). In quest’ultimo caso, qualora il primo atto ricevuto sia il pignoramento, possono prospettarsi diverse soluzioni, per vero nessuna del tutto appagante per l’interprete. Escludendo l’opzione estrema del solve et repete14 e della possibilità di una successiva azione risarcitoria (che, peraltro, in tal caso non avrebbe più come destinatario l’agente della riscos‑ sione, ma l’ente impositore e sarebbe regolata dai principi gene‑ rali: art. 2043 ss. c.c.)15, le strade percorribili sono tre: • il contribuente impugna il pignoramento dinanzi al giudice tributario; • il contribuente impugna dinanzi al giudice tributario l’avvi‑ so di accertamento non notificato; • il contribuente propone opposizione esecutiva dinanzi al giudice ordinario. La prima opzione – che pure trova riscontro in alcune pro‑ nunzie di merito16– si infrange contro il dato testuale dell’art. 2 (da leggere in combinato disposto con l’art.19) del d.lgs. n. 546, che esclude la giurisdizione delle commissioni per questo genere di controversie. Tenderei ad escludere anche la praticabilità della terza opzione, vale a dire il ricorso alle opposizioni esecutive di cui al codice di rito, non tanto ‑ o non solo ‑ perché vi osterebbe il disposto dell’art. 57 d.p.r. n. 602 del 197317, quanto perché 13Tale regime è del resto coerente con la regola generale dell’art. 479 c.p.c. che impone la notificazione al debitore del titolo esecutivo (e del precetto), oltre che con le previsioni della legge n. 241 del 1990 (art. 21‑bis) che prescrivono l’ob‑ bligo di notifica per tutti i provvedimenti limitativi della sfera giuridica dei privati. cfr. A. CARINCI, Prime considerazioni sull’avviso di accertamento “esecutivo” ex d.l. n. 78/2010, in Riv. dir. trib., 2011, I, p. 168. 14 La regola del solve et repete, originariamente contenuta nella legge abolitrice del contenzioso amministrativo fu dichiarata incostituzionale dalla Consulta nel 1961 (Corte Cost. 31 marzo 1961 n. 21 in Foro it., 1961, I, p.561). Ci si riferi‑ sce in questo caso alla possibilità di attivare l’ordinario procedimento di rim‑ borso previsto dall’art.21 d.lgs. 546 del 1992, che sarebbe ovviamente precluso nell’ipotesi di definitività dell’atto impoesattivo validamente notificato. 15 La possibilità di coinvolgere nel giudizio risarcitorio il concessionario (oggi agente) della riscossione, prevista dall’art. 59 d.p.r. n. 602 del 1973, si riferisce infatti alle sole ipotesi in cui il vizio dal quale discende l’illegittimità dell’esecu‑ zione sia imputabile a tale soggetto (come ad es. nei casi di vizi concernenti la cartella esattoriale o gli atti successivi), laddove, nel caso che ne occupa, l’azio‑ ne risarcitoria troverebbe titolo nella responsabilità esclusiva dell’ente imposi‑ tore che abbia omesso di notificare l’avviso di accertamento. 16 Comm. trib. prov. Treviso 4 marzo 2009 n. 23 in Fisco, 2009, p. 5371 e Comm. trib. prov. Milano 27 ottobre 2009 n. 255 in Corr. trib. n. 48/2009 p. 3921, con nota di A. Vozza, La giurisdizione sulle controversie relative all’illegittimi‑ tà del pignoramento, ove si afferma la ricorribilità di tale atto qualora unita‑ mente ad esso venga impugnata anche la cartella di pagamento non notifica‑ ta. 17 C. Glendi, op. loc. ult. cit. p. 505, pur riconoscendo che la materia è “scivo‑ losa”, tende ad ammettere questa possibilità di tutela nei soli casi di mancata tributario Gazzetta 126 d i r i t t o in tal caso si chiederebbe al giudice ordinario di decidere una controversia che nella sostanza resta tributaria. È evidente infatti che se il giudizio tributario – secondo il costante inse‑ gnamento della S. C. – deve poter essere (in presenza di certe condizioni) anche un giudizio sul rapporto e non solo sull’at‑ to18, sarebbe assurdo ritenere che laddove manchi un atto impugnabile e laddove, oltretutto, questa mancanza sia pato‑ logica, perché dovuta ad un’omissione dell’ente impositore, tale giudizio non possa efficacemente esplicarsi dinanzi al giudice naturale19. Così stando le cose, la soluzione più corretta sembra essere la seconda: ammettere l’impugnazione dinanzi alla commissio‑ ne tributaria provinciale con la precisazione però che, in tal caso, oggetto dell’impugnazione non è il pignoramento (atto dell’esecuzione forzata), ma pur sempre l’atto impoesattivo non notificato (o invalidamente notificato), impugnabile ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 1920. Il termine di sessanta giorni in questo caso decorrerà dalla notifica del pignoramento, perché da quel momento il contribuente sarà edotto dell’esistenza di una pretesa impositiva ed avrà quindi il diritto (e l’onere) di contestarla21. In questo quadro si inserisce la recentissima modifica intro‑ dotta dall’art.8, comma 12o, d.l. n. 16 del 2012 (cd. “decreto sulle semplificazioni fiscali” convertito in legge 26 aprile 2012 n. 44), che impone all’agente della riscossione l’obbligo di co‑ municare a mezzo raccomandata semplice (ossia senza avviso di ricevimento) la presa in carico delle somme da riscuotere. o inesistente notifica del titolo esecutivo, osservando che l’art.57 1o comma let‑ tera b) d.p.r. 602, nell’escludere le opposizioni ex art.617 c.p.c. relative alla notificazione del titolo esecutivo postula che una notificazione vi sia comunque stata, poiché, in mancanza, vi sarebbe soltanto un atto esecutivo privo di titolo e perciò invalido. Pur apprezzando lo sforzo esegetico dell’A., animato dall’in‑ tento di individuare delle forme di tutela esperibili, non credo che la formula‑ zione della norma lasci molti spazi all’interprete. Da un lato, infatti, l’espres‑ sione “opposizioni relative alla notificazione del titolo esecutivo” è talmente generica da ricomprendere tutte le ipotesi di vizi attinenti al procedimento notificatorio, senza possibilità di distinguere tra notificazione nulla e/o inesi‑ stente (oltretutto assimilabili sul piano delle conseguenze, posto che si sta parlando di atti recettizi). Dall’altro, occorre considerare che la mancata noti‑ ficazione dell’avviso di accertamento, ossia dell’atto contenente la pretesa tri‑ butaria, ricadrebbe nella più grave ipotesi di inesistenza del diritto a procedere ad esecuzione, deducibile con il rimedio dell’opposizione all’esecuzione di cui all’art. 615 c.p.c. in questo caso tuttavia precluso dal divieto di cui all’art. 57 comma 1 lettera a). 18 Per quanto detto supra in nota 8. 19 Profilandosi in tal caso una possibile lesione degli artt. 24, 111 e 113 cost. 20 Così F. Randazzo, Le problematiche di giurisdizione nei casi di riscossione tributaria non preceduta da avviso di mora, in Riv. dir. trib., 2003, II, p. 923, il quale osserva che il pignoramento è l’occasione per l’impugnazione dell’atto processuale rilevante che esso presuppone. 21In questa prospettiva ermeneutica non va trascurato l’istituto della rimessione in termini che, nell’attuale configurazione prevista dal secondo com‑ ma dell’art.153 c.p.c., è pacificamente applicabile anche al processo tributario in forza del generale rinvio di cui all’art.1, comma 2o, d.lgs. n. 546 del 1992. Sull’applicabilità di tale principio anche al termine di impugnazione del prov‑ vedimento amministrativo, in quanto termine processuale, vedi F. Randazzo, Ricorso tributario tardivo e rimessione in termini dopo la riforma dell’art.153 c.p.c. in Riv. dir. trib. 2011, I, p. 219 nonché F. Tesauro, Riflessi sul processo tributario delle recenti modifiche del codice di procedura civile, in Rass. Trib., 2010, p. 966. Sotto altro profilo è stata ipotizzata la proponibilità di un ricor‑ so “al buio” con il quale il contribuente si limiti ad impugnare l’avviso di ac‑ certamento, per quanto risultante dal pignoramento, deducendo la nullità o l’inesistenza della notifica e riservandosi la possibilità di avvalersi della facoltà prevista dall’ultimo comma dell’art.19 nel caso in cui l’ufficio produca in giu‑ dizio l’atto presupposto. Così C. Glendi op. loc. ult. cit., p. 503, nota 48. Per vero, in tale ipotesi non dovrebbe ritenersi preclusa al contribuente neppure la facoltà di contestare il merito della pretesa fiscale, attraverso l’istituto della integrazione dei motivi di ricorso, disciplinato dall’art. 24, comma 2o, d.lgs. n. 546 del 1992. t r i b u ta r i o Gazzetta F O R E N S E Tale innovazione va accolta positivamente, nella misura in cui offre al contribuente un’ulteriore possibilità di accesso alla giurisdizione tributaria, tenuto conto che dal momento della ricezione della raccomandata potrà farsi decorrere il termine di sessanta giorni per adire la commissione tributaria provinciale ex art.19 ult. comma d.lgs. 546.22 Analoghe considerazioni valgono per l’ipotesi in cui il vizio astrattamente deducibile riguardi uno dei cd. atti impoesattivi “secondari”, ossia gli atti successivi all’avviso di accertamento, con i quali l’ufficio provvede alla riliquidazione delle somme dovute (ad es. nel caso di riscossione frazionata ex art. 68 d.lgs. 546). Anche in tale ipotesi il contribuente potrebbe far valere il vizio rappresentato dalla mancata (o invalida) notificazione di tali atti con le stesse modalità già esaminate a proposito dell’av‑ viso di accertamento esecutivo23. Qualora, invece, il contribuente intenda far valere un vizio proprio del pignoramento o dei successivi atti esecutivi, torne‑ rebbero applicabili i rimedi del codice di rito, ma con le rigide limitazioni di cui agli art. 57 e 58 d.p.r. 602, sicché riemergereb‑ be quel deficit di tutela giurisdizionale richiamato in premessa. 3. Ipotesi particolari e spunti ricostruttivi Bisogna, a questo punto, dare conto di talune situazioni specifiche che mettono ulteriormente in luce l’inadeguatezza dell’assetto normativo vigente e la necessità di ricercare nuovi approdi interpretativi. 1) Si consideri, ad esempio, l’ipotesi di un accertamento esecutivo validamente notificato, ma privo di un requisito es‑ senziale ai fini della sua legittimità di titolo esecutivo (ad es. carente dell’intimazione ad adempiere nei sessanta giorni dalla notifica). Si tratta di capire se la mancanza di un simile requisi‑ to incida sulla funzionalità dell’atto impositivo o solo sulla idoneità del medesimo a legittimare l’esecuzione forzata. Si potrebbe osservare che, trattandosi di vizio che rende l’atto inidoneo a legittimare l’esecuzione forzata, sino a quando quest’ultima non venga intrapresa, il destinatario dell’avviso non può subire alcun pregiudizio, di guisa che un’eventuale impu‑ gnazione immediata potrebbe essere dichiarata inammissibile per carenza di interesse ad agire (art. 100 c.p.c.). In realtà le cose non stanno così, per almeno due ragioni. In primo luogo, si può concordare con quella dottrina che, muovendo dalla natura complessa del nuovo avviso di accerta‑ mento – che assolve cioè la triplice funzione di atto impositivo, titolo esecutivo e precetto – pone l’accento sul carattere unitario ed inscindibile del provvedimento, il quale deve nascere comple‑ to di tutti i suoi elementi costitutivi, a pena di illegittimità24. 22I recenti arresti della giurisprudenza di legittimità, inclini ad ammettere un ac‑ cesso alla giurisdizione tributaria non più condizionato dall’elenco di atti contenuto nell’art.19 d.lgs. 546, inducono a ritenere superato il problema della individuazione dell’oggetto specifico dell’impugnazione. Peraltro, anche senza arrivare ad ipotizzare un’autonoma impugnabilità di tale atto (non tanto perché non ricompreso nell’elenco dell’art.19, quanto per la sua valenza pura‑ mente informativa e non provvedimentale), sembra ragionevole ammettere anche in tale ipotesi l’applicazione del rimedio della rimessione in termini del contribuente per l’impugnativa dell’atto presupposto non notificato. 23Sulla impugnabilità autonoma di questi atti non sussistono dubbi, atteso che essi esprimono una pretesa definita, conformemente all’indirizzo corrente della S. C.: cfr. tra le tante Cass. SS. UU. 10 agosto 2005, n. 16776, in Fisco, 2005, p. 5862; Cass. SS. UU. 24 luglio 2007 n. 16293, in Fisco 2007, p. 6427. 24 Così C. Glendi, op. loc. ult. cit., 484 in nota 6, il quale osserva che le tre funzioni sono così intimamente connesse da risultare pressoché inscindibili, di guisa che un avviso di accertamento esecutivo che difetti della intimazione ad F O R E N S E l u g l i o • a g o s t o Vi è poi una seconda considerazione da fare, che attiene ai riflessi di tale impostazione sul diritto di difesa del contribuen‑ te: se quest’ultimo dovesse rinunziare a dedurre in prima battu‑ ta e cioè in sede di impugnazione dell’avviso di accertamento, gli eventuali vizi concernenti le funzioni di titolo esecutivo e precetto, riservandosi di denunciarli nella successiva fase esecu‑ tiva, correrebbe seriamente il rischio di trovarsi la strada sbar‑ rata dalle preclusioni di cui all’art. 57, comma 1o, lett. b) d.p.r. n. 602 del 197325. Per tali ragioni a me pare che la soluzione più equilibrata, anche costituzionalmente, sia quella che cerca di salvaguardare il diritto di difesa, consentendo l’impugnativa dell’avviso di accertamento anche per ragioni che attengono alla regolarità formale del titolo esecutivo o del precetto, in considerazione del fatto che l’atto non è conforme al modello legale, ossia al mo‑ dello tipizzato nell’art. 29 d.l. n. 78 del 2010. Diversamente opinando, è lecito dubitare della tenuta costituzionale del vigen‑ te assetto normativo. 2) Occorre poi considerare l’ipotesi in cui il vizio attenga specificamente al pignoramento come può accadere, ad es., nel caso in cui l’azione esecutiva sia stata avviata prima del decorso del termine di trenta giorni fissato dalla legge per l’affidamento dell’avviso all’agente della riscossione26. In tale ipotesi l’impro‑ cedibilità dell’esecuzione non potrebbe che essere dedotta con il rimedio dell’opposizione all’esecuzione, il quale però, de lege lata, è precluso dall’art. 5727. In tal caso il deficit di tutela giurisdizionale è palese, difet‑ tando de jure condito un rimedio giurisdizionale nei confronti di un atto che pure è immediatamente lesivo degli interessi del contribuente sottoposto ad esecuzione28. 3) In dottrina è stato anche osservato che la nuova discipli‑ na non reca alcuna previsione specifica in ordine al tema della riscossione nei confronti degli eventuali coobbligati, dal che potrebbe discendere l’applicabilità dell’art. 25 d.p.r. n. 602 del 1973 che permette all’agente della riscossione di notificare al coobbligato la cartella formata in base al ruolo intestato al de‑ adempiere, non solo non vale come titolo esecutivo o precetto, ma non vale neppure come atto di imposizione, senza che si possa immaginare l’utilizzo alternativo di una iscrizione a ruolo, oggi non più normativamente prevista. 25In questa prospettiva va sicuramente rimeditata l’impostazione seguita da Cass. SS. UU. 6 novembre 2002 n. 15563, che rischia di compromettere ogni possibile ipotesi di tutela dell’interesse del contribuente raggiunto dall’atto impoesattivo. A questa conclusione perveniva a suo tempo F. RANDAZZO in Le problematiche di giurisdizione, op. loc. cit., p. 918. 26 Poiché tale affidamento ai sensi dell’art.29 comma 1 lett. b) può avvenire solo dopo che è decorso questo ulteriore termine, vuol dire che prima di ciò l’azione esecutiva è improcedibile. Dubito invece che analoga conseguenza si produca in ipotesi di mancata spedizione della raccomandata prescritta dal novellato primo comma dell’art.29, trattandosi di un adempimento dalla cui omissione la legge non fa derivare particolari conseguenze e che, pertanto, dovrebbe ri‑ flettersi solo sulla esigibilità degli interessi di mora e delle spese successive. 27Si pensi anche all’eventualità che l’esecuzione venga intrapresa dopo che è de‑ corso il termine di tre anni dal momento in cui l’accertamento è divenuto defi‑ nitivo (art.29 comma 1o, lett. e) come novellato dall’art.8 comma 12o d.l. n. 16 del 2012). Trattandosi di un termine prescritto a pena di decadenza, il suo de‑ corso dovrebbe determinare l’inesistenza del diritto a procedere ad esecuzione e quindi un vizio del pignoramento astrattamente deducibile con il rimedio dell’opposizione all’esecuzione (preclusa tuttavia dall’art.57). 28Non essendo esperibile la tutela cautelare di cui all’art.47 d.lgs. n. 546 del 1992 (per carenza di giurisdizione delle commissioni tributarie), l’unico rimedio ipotizzabile sarebbe quello della sospensione di cui all’art. 60 d.p.r. 602 del 1973, la quale tuttavia presuppone l’ammissibilità dell’opposizione ex art. 57 e 58 (in aggiunta ai due requisiti previsti dalla norma stessa e cioè la sussisten‑ za di gravi motivi e di un fondato pericolo di danno grave ed irreparabile). In tal caso la lesione degli artt. 24 e 113 Cost. appare evidente. 2 0 1 2 127 bitore principale29. Francamente non credo che tale interpreta‑ zione possa essere ragionevolmente sostenuta, se non altro perché essa provocherebbe un’inaccettabile reviviscenza del fenomeno della “supersolidarietà tributaria”30. Non deve, infatti, sfuggire che l’avviso di accertamento esecutivo non è solo titolo esecutivo e precetto, ma è anche, e soprattutto, atto di imposizione, di guisa che la disciplina detta‑ ta con riferimento al ruolo è senz’altro recessiva rispetto a quel‑ la scolpita in tema di accertamento dal Giudice delle Leggi. 4. Conclusioni In conclusione, mi pare che i tempi siano maturi per rime‑ ditare l’intero assetto delle tutele giurisdizionali avverso gli atti dell’esecuzione esattoriale. Due sono le strade: o si interviene legislativamente sugli artt.57 e 58 d.p.r. n. 602 del 1973 ammettendo l’esistenza di una giurisdizione ordinaria concorrente con quella tributaria, ancorché limitata alle sole ipotesi di tutela contro gli atti esecu‑ tivi, ma comunque idonea ad assicurare ex artt. 24 e 113 cost. una protezione piena ed effettiva degli interessi dei contribuen‑ ti esecutati, oppure – ed è questa la soluzione a mio avviso preferibile sul piano sistematico – si modifica il testo degli artt. 2 e 19 del decreto n. 546 del 1992, facendo sì che tra gli atti au‑ tonomamente impugnabili dinanzi al giudice tributario siano inclusi anche gli atti dell’esecuzione forzata tributaria31. In alternativa a queste due soluzioni, entrambe de jure con‑ dendo, è senz’altro auspicabile un intervento della Consulta, cui si chiede semplicemente di essere un po’ più coraggiosa nel sal‑ vaguardare i diritti dei contribuenti; quanto meno di esibire lo stesso zelo manifestato in epoca recente allorquando si è tratta‑ to di proteggere l’interesse del Fisco (si pensi alle recenti pronun‑ zie in tema di Irap o di proroga dei termini di accertamento). 29 Accenna a tale possibilità, sia pure in forma dubitativa, A. Carinci, op. loc. ult. cit., p. 178, osservando che l’avere subordinato l’efficacia esecutiva dell’ac‑ certamento alla sua notifica farebbe pensare che tale efficacia debba essere circoscritta al destinatario della notificazione medesima (ed eventualmente agli eredi ex art.477 c.p.c.). 30 Ci si riferisce al principio per cui l’avviso di accertamento, sebbene notificato ad uno dei coobbligati, esplica la sua efficacia anche nei confronti degli altri. Que‑ sta concezione, già osteggiata dalla prevalente dottrina tributaristica, ebbe fine con la storica sentenza della Corte Cost. 16 maggio 1968 n. 48, pubblicata in Foro it., 1968, I, p.1968, che dichiarò, in chiave interpretativa, l’incostituziona‑ lità della norma (supposta) “per la quale dalla contestazione dell’accertamento di maggiore imponibile nei confronti di uno solo dei coobbligati, decorrono i termini per l’impugnazione giurisdizionale anche nei confronti degli altri”. 31In realtà basterebbe eliminare la previsione dell’ultima parte del primo com‑ ma dell’art. 2, se è vero che la più recente giurisprudenza di legittimità è incline ad ammettere la ricorribilità dinanzi al giudice tributario di ogni atto idoneo ad esprimere una ben individuata pretesa, senza necessità di attendere che essa si vesta della forma autoritativa di uno dei provvedimenti di cui all’art.19. Così tra le ultime Cass. SS. UU. 10 agosto 2005 n. 16776, Cass. sez. trib., 6 luglio 2010 n. 15946 (ord.); Cass. sez. trib., 15 giugno 2010 n. 14373. Proprio sulla scorta di tale orientamento, da più parti si è affermato che l’elenco degli atti di cui all’art.19 non sarebbe più una condizione di accesso alla giustizia tributaria. In tal senso, anche se in termini critici vero il nuovo indirizzo esege‑ tico, S. Muscarà La giurisdizione (quasi) esclusiva delle Commissioni Tribu‑ tarie nella ricostruzione sistematica delle SS. UU. della Cassazione, in Riv. dir. trib., 2006, II, p. 39, nonché A. Carinci, Dall’interpretazione estensiva dell’elen‑ co degli atti impugnabili al suo abbandono: le glissment progressif della Cassa‑ zione verso l’accertamento negativo nel processo tributario, in Riv. dir. trib., 2010, II, p. 617, il quale osserva che il superamento del carattere tassativo dell’elenco di cui all’art.19 determina, quale inevitabile corollario, l’abbandono dello stesso modello processuale di impugnazione‑merito. tributario Gazzetta Diritto internazionale [ A cura di Francesco Romanelli ] Rassegna di diritto comunitario A cura di Francesco Romanelli 131 F O R E N S E ● Rassegna di diritto comunitario ● A cura di Francesco Romanelli Avvocato e Specialista di diritto ed economia delle Comunità europee l u g l i o • a g o s t o 2 0 1 2 131 Codice doganale comunitario – Regolamento (CEE) n. 2913/92 – Articolo 204, paragrafo 1, lettera a) – Regime del perfezionamen‑ to attivo – Sistema della sospensione – Nascita di un’obbligazione doganale – Inadempienza dell’obbligo di presentazione del conto di appuramento entro il termine prescritto L’articolo 204, paragrafo 1, lettera a), del regolamento (CEE) n. 2913/92 del Consiglio, del 12 ottobre 1992, che istituisce un codice doganale comunitario, come modificato dal regolamento (CE) n. 648/2005 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 aprile 2005, deve essere interpretato nel senso che la violazione dell’obbligo di presentare il conto di appuramento all’ufficio di controllo entro 30 giorni dalla scadenza del termine per l’appuramento, previsto dall’artico‑ lo 521, paragrafo 1, primo comma, primo trattino, del rego‑ lamento (CEE) n. 2454/93 della Commissione, del 2 luglio 1993, che fissa talune disposizioni d’applicazione del regola‑ mento n. 2913/92, come modificato dal regolamento (CE) n. 214/2007 della Commissione, del 28 febbraio 2007, com‑ porta il sorgere di un’obbligazione doganale per il complesso delle merci di importazione da appurare, ivi comprese quelle riesportate al di fuori del territorio dell’Unione europea, qualora le condizioni di cui all’articolo 859, punto 9, del suddetto regolamento n. 2454/93 siano considerate non sod‑ disfatte. C.G.U.E., sez. III, 06.09.2012, Causa C262/10 La ricorrente principale ha importato concentrati di succo di frutta che ha trasformato nell’ambito del regime del perfe‑ zionamento attivo nella forma del sistema della sospensione, come le era consentito dall’autorizzazione a tal fine concessa‑ le. Conformemente a tale autorizzazione, il termine per l’ap‑ puramento di tale regime scadeva il quarto trimestre civile successivo al vincolo delle merci non comunitarie al suddetto regime, consentendole di immettere in libera pratica, senza dichiarazione doganale, merci tal quali o prodotti compensa‑ tori. Sebbene il conto di appuramento dovesse essere presen‑ tato nei 30 giorni successivi all’appuramento del regime doga‑ nale, la Ricorrente principale omise di farlo ignorando la diffida dello Hauptzollamt che reclamava tale conto entro un termine fissato. In assenza di detto conto di appuramento, lo Hauptzollamt contabilizzò i dazi all’importazione sul comples‑ so delle merci importate per le quali il termine per l’appura‑ mento era scaduto, fino a concorrenza del loro valore totale. Successivamente alla scadenza del termine fissato nella diffida dell’ufficio, la Ricorrente principale ha presentò il suo conto di appuramento relativo alle merci oggetto del procedimento principale, da cui risultava un importo di dazi all’importazio‑ ne, corrispondente ad un quantitativo di merci di importazio‑ ne non esportate entro i termini impartiti, inferiore rispetto a quello preso in considerazione dallo Hauptzollamt. La Ricor‑ rente principale ha contestato la differenza tra l’importo dei dazi all’importazione contabilizzato dallo Hauptzollamt e quello risultante dal proprio conto di appuramento e, in segui‑ to al rigetto del suo reclamo, ha presentato ricorso dinanzi al Finanzgericht Hamburg (Sezione tributaria del Tribunale di Amburgo) al fine di ottenere lo sgravio dei dazi che riteneva di non essere tenuta a pagare. Il Tribunale Federale Tributario cui è stata sottoposta le controversia ha ritenuto dover effet‑ tuare un rinvio pregiudiziale alla CGUE per chiarire se l’arti‑ colo 204, paragrafo 1, lettera a), del codice doganale debba essere interpretato nel senso che si applica anche al mancato internazionale Gazzetta 132 D i r i t t o I n t e r n a z i o n a l e assolvimento di quegli obblighi da adempiere solo successiva‑ mente all’appuramento del relativo regime doganale utilizza‑ to, cosicché il mancato assolvimento dell’obbligo di presenta‑ re il conto di appuramento all’ufficio doganale di controllo entro 30 giorni dalla scadenza del termine stabilito per l’ap‑ puramento, in caso di merci di importazione che, nel quadro di un regime di perfezionamento attivo nella forma del sistema della sospensione, vengano in parte riesportate nel termine stabilito, faccia sorgere un’obbligazione doganale per l’intero quantitativo delle merci di importazione da appurare, laddo‑ ve non sussistano le condizioni di cui all’articolo 859, punto 9, del regolamento di esecuzione. Convenzione europea dei diritti dell’Uomo – Violazione dell’art. 8 – Diritto al rispetto della vita privata e familiare – Danno mora‑ le – Indennizzo – Procreazione medicalmente assistita – L. 40/2004 – Divieto di diagnosi pre-impianto dell’embrione – Pro‑ porzionalità - esclusione» Il divieto di diagnosi pre-impianto di cui alla legge italia‑ na n.40/2004 in materia di procreazione medicalmente assi‑ stita vìola il diritto al rispetto della vita privata e familiare per inosservanza del principio di proporzionalità C.E.D.U., sez. II, 28.08., 2012, Proc. n. 54270/10 La Corte europea ha dichiarato che il divieto di sottopor‑ re a diagnosi l’embrione di una coppia portatrice sana di fi‑ brosi cistica che aveva già dato alla luce un altro bambino affetto da tale patologia costituisca una violazione del diritto alla non interferenza dello Stato nella vita privata e familiare dei cittadini. La Corte è arrivata a tale conclusione osservan‑ do l’evidente contraddizione dell’ordinamento italiano che vieta in sede di inseminazione artificiale la diagnosi pre-im‑ pianto ma consente l’interruzione volontaria di gravidanza nell’ipotesi in cui il feto sia affetto da gravi patologie eviden‑ ziabili prima dell’impianto dell’ovulo fecondato. Il Governo italiano ha annunciato l’impugnazione della sentenza in esame. Libera prestazione dei servizi – Normativa tributaria – Deduzione a titolo di spese professionali dei compensi corrisposti per retri‑ buire prestazioni di servizi – Compensi corrisposti ad un presta‑ tore di servizi stabilito in un altro Stato membro in cui non è as‑ soggettato all’imposta sui redditi o vi è assoggettato ad un regime impositivo notevolmente più vantaggioso – Deducibilità subor‑ dinata all’obbligo di fornire la prova del carattere effettivo e ve‑ ritiero della prestazione nonché del carattere normale del corri‑ spettivo ad essa attinente – Ostacolo – Giustificazione – Lotta Gazzetta F O R E N S E alla frode e all’evasione fiscale – Efficacia dei controlli fiscali – Ripartizione equilibrata del potere impositivo tra gli Stati membri – Proporzionalità L’articolo 49 CE deve essere interpretato nel senso che esso osta ad una normativa di uno Stato membro in forza della quale i corrispettivi per prestazioni o servizi, versati da un contribuente residente ad una società non residente, non sono considerati spese professionali deducibili qualora quest’ultima non sia assoggettata, nello Stato membro in cui è stabilita, ad un’imposta sui redditi o vi sia assoggettata, per i redditi in questione, ad un regime impositivo notevolmente più vantaggioso di quello in cui rientrano tali redditi nel primo Stato membro, a meno che il contribuente non dimo‑ stri che tali corrispettivi si riferiscono ad operazioni effettive e veritiere e che essi non superano i limiti normali, mentre, secondo la regola generale, siffatti corrispettivi sono deduci‑ bili a titolo di spese professionali allorché sono necessari per realizzare o conservare i redditi imponibili ed il contribuente ne dimostra l’effettività e l’importo. C.G.U.E., sez. I, 05 luglio 2012, Causa C318/10 Una società di diritto belga, ricorrente nel procedimento principale, costituì, in comune con un gruppo nigeriano, una controllata per la coltivazione di palmeti, ai fini della produ‑ zione di olio di palma. Gli accordi tra le parti prevedevano, da un lato, che la ricorrente avrebbe fornito servizi retribuiti e venduto attrezzature alla controllata comune e, dall’altro, che avrebbe corrisposto una parte degli utili realizzati da quest’ultima, a titolo di commissioni di assistenza commer‑ ciale, alla capofila del gruppo nigeriano. Cessata la joint venture, le parti si accordarono per il pagamento della somma di USD 2 000 000 a titolo di liquidazione. Di conseguenza, la ricorrente aveva iscritto come onere, nei suoi bilanci, un importo pari a BEF 28 402 251 per il pagamento delle com‑ missioni dovute all’altra contraente. Atteso che la quest’ultima godeva dello status di società holding, disciplinata dal diritto lussemburghese del 31 luglio 1929 sul regime fiscale delle società di partecipazioni finanziarie, e che essa non era dun‑ que assoggettata ad un’imposta analoga all’imposta belga sulle società, l’amministrazione tributaria belga (in prosieguo: l’«amministrazione tributaria»), in applicazione dell’articolo 54 del CIR 1992, ha respinto la deduzione della somma di BEF 28 402 251 a titolo di spese professionali. La Corte di Cassazione belga cui era finalmente giunta la cognizione della controversia ha quindi proposto rinvio pregiudiziale alla CGUE. Questioni Può la pubblica Amministrazione rifiutarsi di adempiere un contratto di appalto nel caso in cui l'impresa aggiudicatrice, pur avendo eseguito regolarmente la propria prestazione, versi in una condizione di irregolarità ai fini del D.U.R.C.? / Elisa Asprone 135 Se ed entro che limiti si configura il reato di abuso d’ufficio ex art. 323 c.p. con riguardo all’attività discrezionale della Pubblica Amministrazione / Anna Sofia Sellitto 138 La tutela cautelare nel giudizio amministrativo alla luce delle novità contenute nel codice del processo amministrativo: ai fini della rapida definizione della controversia nel merito è ammessa la tutela cautelare, oppure l’applicazione dell’art. 55 comma 10 del c.p.a. rappresenta un’alternativa rispetto alla concessione dell’istanza cautelare? / Maria Teresa Della Vittoria Scarpati 141 questioni [ A cura di Mariano Valente / Procuratore dello Stato ] F O R E N S E ● DIRITTO CIVILE Può la pubblica Amministrazione rifiutarsi di adempiere un contratto di appalto nel caso in cui l'impresa aggiudicatrice, pur avendo eseguito regolarmente la propria prestazione, versi in una condizione di irregolarità ai fini del D.U.R.C.? ● Elisa Asprone Dottore in Giurisprudenza La questione prende spunto dalla sentenza n. 1167 del 28.5.2012, emessa dall'Ufficio del Giudice di Pace di Bene‑ vento, in persona della Dott.ssa Anto‑ nella Pulcino, e offre l'opportunità di affrontare l'interessante tematica ine‑ rente il Documento unico di regolarità contributiva (c.d. D.U.R.C.), sopratutto con riguardo agli effetti che un'eventua‑ le sua irregolarità riverbera sul piano funzionale del rapporto contrattuale instauratosi tra P.a. e privato. Detta pronuncia, nella sua portata innovativa, giunge ad affermare che la sopravvenuta assenza o irregolarità del D.U.R.C. incide sul sinallagma del rap‑ porto obbligatorio, in modo da giustifi‑ care l'esperibilità dell'exceptio inadem‑ plenti contractus ex art.1460 c.c. Occorre, preliminarmente, soffer‑ marsi sulla natura del documento unico di regolarità contributiva e sulle norme che ne tratteggiano la struttura. Com'è noto, la disciplina del certifi‑ cato di regolarità contributiva – che attesta l'assolvimento da parte delle imprese degli obblighi legislativi e con‑ trattuali nei confronti di Inps, Inail e Casse edili – rinviene la sua fonte negli artt. 2 del D.L. 25 settembre 2002, n. 210, come modificato dalla legge di conversione 22 novembre 2002, n. 266 e 86 comma 10 D.lgs. 10 settembre 2003, n. 276. Tali norme demandano agli istituti di previdenza – le cui certificazioni si impongono alle stazioni appaltanti – la verifica della regolarità contributiva delle imprese partecipanti alle procedu‑ l u g l i o • a g o s t o 2 0 1 2 re di gara per l'aggiudicazione di appal‑ ti con la pubblica amministrazione. Data l'inderogabilità della disciplina de qua, nel caso in cui la lex specialis di un appalto pubblico non preveda l'obbli‑ go per l'impresa aggiudicataria di presen‑ tare alla stazione appaltante la certifica‑ zione relativa alla regolarità contributiva, la medesima deve ritenersi integrata, di diritto, dalla prescrizione di tale obbligo ex art. 2 D.L. 210 del 2002. In materia di gare, dunque, l'impre‑ sa che si rende aggiudicataria di un appalto deve non solo essere in regola con gli obblighi previdenziali ed assi‑ stenziali gravanti sulla medesima fin dal momento della presentazione della do‑ manda, ma deve conservarli, altresì, per tutto lo svolgimento del rapporto con‑ trattuale. L'art. 1, comma 1, del D.L. 25 set‑ tembre 2002 n. 210, convertito con modificazioni in L. 22 novembre 2002, n. 266, ha provveduto a sanzionare con lo strumento della revoca dell'affida‑ mento la mancata presentazione di tale documento alla stazione appaltante. Di conseguenza, in giurisprudenza si è sostenuto che l'eventuale accerta‑ mento di una pendenza di carattere previdenziale e assistenziale in capo all'impresa, pur dichiarata aggiudicata‑ ria dell'appalto, prodottosi anche in epoca successiva alla scadenza del ter‑ mine per partecipare al procedimento di scelta del contraente implica, a secon‑ da dei casi, l'impossibilità per l'ammi‑ nistrazione appaltante di stipulare il contratto con l'impresa medesima, ov‑ vero la risoluzione dello stesso (ex mul‑ tis: Cons. St., Sez. IV, 12 marzo 2009, n. 1458, pres. Vacirca – Est. De Felice con commento di Francesco Bertini in Urbanistica e Appalti 2009, n. 10 pag. . 1214‑1223) Opportuno è ancora rilevare la con‑ siderazione, ispirata da una logica di economia dei mezzi giuridici, secondo la quale si renderebbe doverosa l'esclu‑ sione dalla gara ogni qualvolta si evin‑ ca, a monte – in un momento cioè ante‑ cedente all'aggiudicazione ‑, che l'im‑ presa partecipante sia sprovvista del Documento unico di regolarità contri‑ butiva, senza dover ravvisare la neces‑ sità, poi, a valle, di attivare lo strumen‑ to di autotutela previsto dalla norma. L'art. 38, comma 1, lett. i) del Codi‑ ce dei contratti pubblici, nell'elencare i requisiti soggettivi di ordine generale 135 per la partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, servizi e forniture e per la stipulazione dei relativi contratti, provvede a comminare la sanzione dell'esclusione nei confronti dei sogget‑ ti che “hanno commesso violazioni gravi, definitivamente accertate, alle norme in materia di contributi previ‑ denziali e assistenziali, secondo la legi‑ slazione italiana o dello stato in cui sono stabiliti”. A tal riguardo, si precisa che il re‑ cente intervento ad opera del decreto sviluppo – D.L. n. 70 del 2011 – ha comportato un'estensione del requisito della gravità relativa alle violazioni eventualmente commesse dal concor‑ rente alla gara, anche in ipotesi per le quali, in precedenza, esso non era de‑ terminante ai fini della valutazione da parte della stazione appaltante. Il novellato comma 2 dell'art. 38 d.lgs. 163/2006, invero, stabilisce che si intendono gravi le violazioni di cui alla lett. i) che siano ostative al rilascio del D.U.R.C., di cui al comma 2 dell'art.2, L. 266 del 2002. Il riferimento operato alla L. 266 non può prescindere dalle previsioni di cui agli artt. 8 e 9 del Decreto del Mi‑ nistro del lavoro e della previdenza so‑ ciale 24 ottobre 2007, che elencano le cause non ostative al rilascio del D.U.R.C. regolare da parte degli enti preposti. Tale previsione interviene a dirime‑ re solo formalmente un contrasto inter‑ pretativo in ordine all'attività valutativa della stazione appaltante riguardo alla gravità delle violazioni in tema di con‑ tributi previdenziali e assistenziali. Sulla base delle norme richiamate, infatti, sembra potersi ritenere che l'at‑ tività valutativa delle stazioni appaltan‑ ti sia esercitata, prioritariamente, dagli istituti a ciò deputati (Inail, Inps, Casse edili). Tali enti sono tenuti ad accertare se sussistono violazioni in ordine alla regolarità contributiva dell'impresa e dunque se si ravvisano i presupposti per il rilascio del D.U.R.C.. Qualora, invece, venga in tale sede riscontrata una irregolarità che giusti‑ fichi un diniego alla richiesta del DU.R.C. effettuata dalle S. A., giusta la presenza di gravi violazioni, quest'ulti‑ ma dovrebbe, per ciò solo, prenderne atto e adottare i provvedimenti di esclu‑ sione dalla gara. questioni Gazzetta 136 Come si è detto, il richiamato con‑ trasto interpretativo appare solo for‑ malmente sopito dal recente intervento legislativo, attesa la permanenza di ar‑ resti giurisprudenziali del tutto antite‑ tici in materia. A fronte, infatti, di un orientamento che propugna un'applicazione automa‑ tica di detti parametri, in forza della quale l'esclusione dalla gara si giustifica sulla base di una violazione contributi‑ va che superi i limiti di scostamento (5% – 100 euro)(cfr. Cons.St. Sez V, 4 aprile 2011, n. 2100; Cons. St. Sez. IV, 12 marzo 2009, n. 1458; a sostegno del filone formalistico si vedano anche: Cons. St. sez V, 23 ottobre 2007, n. 5575; Cons. St. Sez. V, 23 gennaio 2008, n. 147; T.A.R. Toscana 2 febbra‑ io 2009, n. 109; T.A.R. Trentino Alto Adige, Trento, 21 gennaio 2008, n. 8; T.A.R. Lazio, Roma, 12 febbraio 2009, n. 1551), si contrappone il filone sostan‑ zialistico, minoritario, secondo il quale i parametri che determinano l'irregola‑ rità contributiva non sono da conside‑ rarsi inderogabili, atteso che “la previ‑ sione di un'entità minima del debito previdenziale, al di sotto del quale non c'è irregolarità contributiva, ha lo sco‑ po di semplificare il procedimento di rilascio del D.U.R.C., ma non esclude che, se venga superato il limite anzidet‑ to, non debba la S. A. verificare la ( gravità o meno del debito”. Cfr. Cons. St. Sez. IV, 24 febbraio 2011, n. 2100; a sostegno del filone sostanzialistico si vedano anche: Cons.St. Sez. V, 11 mag‑ gio 2009, 2874, con commento di Francesco Bertini in Urbanistica e Ap‑ palti 2009, n. 10 pag. 1214‑1223; T. A .R . Veneto 26 maggio 20 0 9, n. 1601; T.A.R. Emilia Romagna, Bo‑ logna, 19 giugno 2008, n. 716, in Foro Amm. CdS, 2008, 2, 565, la sen‑ tenza del T.A.R. Calabria, Reggio Calabria 22 ottobre 2008, n. 537, in ForoAmm T.A.R. 2008, 10, 2884 ed il parere dell'Autorità di Vigilanza 8 no‑ vembre 2007, n. 102). Occorre, a tal punto, soffermarsi ad evidenziare il vero elemento di novità della sentenza che qui si commenta, rappresentato dalla possibilità, ricono‑ sciuta alla stazione appaltante, a fronte della riscontrata irregolarità del D.U.R.C. dell'impresa aggiudicataria, di rifiutarsi di adempiere la propria prestazione (il pagamento del prezzo), servendosi dello strumento fornito q u e s t i o n i dall'art. 1460 c. c., giusta la qualifica‑ zione della posizione contributiva irre‑ golare dell'impresa parte del contratto come un vero e proprio inadempimen‑ to. Vale a ciò dar conto dell'indirizzo della giurisprudenza, secondo il quale “L'impresa che partecipa ad una gara pubblica deve essere in regola con gli obblighi previdenziali ed assistenziali sulla stessa gravanti sin dal momento della presentazione della domanda e conservare la correttezza contributiva per tutto lo svolgimento del rapporto contrattuale: ne consegue che l'even‑ tuale accertamento di una pendenza di carattere previdenziale o assistenziale in capo all'impresa nel corso dell'esecu‑ zione del contratto ne determina la ri‑ soluzione.” Si sostiene, ancora, che “un eventuale adempimento tardivo dell'ob‑ bligazione contributiva, quand'anche ricondotto retroattivamente, quanto ad efficacia, al momento della scadenza del termine di pagamento gioverebbe soltanto nell'ambito delle reciproche relazioni di credito e di debito tra i soggetti del rapporto obbligatorio”(Ex multis, Cons. St. Sez. IV, 30 gennaio 2006, n. 288; T.A.R. Venezia Sez. I, 17 maggio 2007, n. 1507). Sulla base di ciò, la sentenza che qui si commenta ha rinvenuto nella posizio‑ ne dell'impresa sprovvista di un valido DURC un vero comportamento ina‑ dempiente, tale da giustificare l'attiva‑ zione del rimedio contrattuale ex art. 1460 c.c. Nei contratti a prestazioni corri‑ spettive, infatti, tale norma offre la possibilità alla parte (tenuta ad adem‑ piere cronologicamente per seconda) di rifiutare la propria prestazione, allor‑ quando l'altra parte non adempia o non offra di adempiere la propria (inadem‑ plenti non est adimplimendum). L'eccezione consente, dunque, una sospensione dell'adempimento, con lo scopo di prevenire il rischio di uno squilibrio contrattuale provocato dall'inadempimento altrui. Ancorando la sua ratio nell'alveo dell'autotutela contrattuale, l'eccezione di inadempimento ha carattere autono‑ mo, costituendo un rimedio a protezio‑ ne dell'interesse del creditore a non eseguire il contratto a fronte dell'ina‑ dempimento dell'altra parte, assicuran‑ do in tal modo l'equilibrio contrattuale nella posizione delle parti nell'esecuzio‑ Gazzetta F O R E N S E ne del contratto (Gorla, 154…<<perico‑ lo di uno squilibrio fra due patrimoni. È questo squilibrio che la legge vuol prevenire concedendosi l'exceptio inad. contractus>>). La parte che si avvale di tale rime‑ dio, cioè, si pone in una situazione di inadempimento, ma tale adempimento risulta giustificato e tollerato dall'ordi‑ namento, in quanto imputabile al credi‑ tore (trova, al riguardo, applicazione il principio che pone a carico del credito‑ re le conseguenze pregiudizievoli deri‑ vanti dal suo fatto (Bianca, Dell'ina‑ dempimento, 135)). Il fondamento riposa, dunque, senza alcun dubbio nell'equità. Come autorevole dottrina ha evi‑ denziato, “l'eccezione è un rimedio che assicura il mantenimento dell'equili‑ brio contrattuale, ma l'idea dell'equili‑ brio non si sovrappone a quella dell'equità, bensì si combina con essa per renderla <<à la fois plus précise et plus large>>”(Cassin, 422). Presupposti per la sua attivazione sono: a) la corrispettività delle presta‑ zioni; b) l'inadempimento della contro‑ prestazione. Orbene, al fine di descrivere ed analizzare la possibilità, riconosciuta nella sentenza in argomento, di offrire alla stazione appaltante la facoltà di rifiutarsi di adempiere la propria presta‑ zione (il pagamento del corrispettivo), a fronte della posizione irregolare in ma‑ teria di contributi assistenziali e previ‑ denziali dell'impresa aggiudicataria (o concessionaria), occorre procedere nell'esercizio di verificare la possibilità di rinvenire nella fattispecie de qua i presupposti idonei ad attivare il mecca‑ nismo di autotutela in questione. E' da precisare, preliminarmente, che l'attivazione di meccanismi contrat‑ tuali propri del diritto comune nell'al‑ veo di una procedura di affidamento di concessioni e di appalti è pacificamente riconosciuta. Si rinviene, invero, nella stipulazio‑ ne del contratto pubblico il punto di contatto tra la disciplina pubblicistica e privatistica, la prima lasciando il posto alla seconda. Sulla scia di tale impostazione, la giurisprudenza ordinaria ed ammini‑ strativa, avallata anche dalla Consulta (cfr. Corte Cost., 23.11.2007, n. 401), sostiene che l’attività contrattuale della pubblica amministrazione si sostanzi in F O R E N S E un unico procedimento complesso a struttura bifasica, ove ad un momento tipicamente procedimentale di evidenza pubblica ne segue uno di carattere pret‑ tamente negoziale. In particolare, si individua una prima fase, disciplinata da norme pubblicistiche, finalizzata alla selezione della controparte del‑ la pubblica amministrazione attraverso una rigida serie di atti procedimentali, che si conclude con il provvedimento di aggiudicazione definitiva (c.d. “confine estremo della fase pubblicistica”). A questa prima fase ne segue una seconda, retta interamente dal diritto privato, che ha inizio con la stipulazio‑ ne del contratto tra la pubblica ammi‑ nistrazione e il privato aggiudicatario e che prosegue, poi, con l’esecuzione del rapporto negoziale. Orbene, nell'applicazione dei sum‑ menzionati requisiti è lapalissiano con‑ statare la ricorrenza del primo. Il contrat‑ to inerente la stazione appaltante e l'im‑ presa si qualifica, senza alcun dubbio, a prestazioni corrispettive, essendo la S. A. tenuta, a fronte dell'esecuzione della prestazione ad opera dell'impresa aggiu‑ dicatrice, al pagamento del prezzo. In secondo luogo, occorre verificare se la sopravvenuta assenza del D.U.R.C. o la sua irregolarità possa atteggiarsi alla stregua di un inadempimento. Ebbene, allorquando si ravvisi tale assenza o irregolarità nel momento antecedente la stipulazione, la S. A. avrà a disposizione il rimedio offerto dall'art. 38 lett.i) del codice dei contrat‑ ti pubblici ovvero, allorquando la man‑ canza del D.U.R.C. sopravvenga – de‑ terminando di fatto un mutamento della situazione originaria – l'attivazio‑ ne, expressis verbis, del rimedio di au‑ totutela amministrativa (revoca del provvedimento). E' da evidenziare, ancora, che, data la natura dell'obbligo inderogabile di correttezza contributiva e assistenziale gravante sull'impresa aggiudicataria per tutta la durata del rapporto contrat‑ tuale, è giocoforza ritenere che anche tale obbligo costituisca oggetto dell'ob‑ bligazione, tale da giustificare, allor‑ quando venga meno, la qualificazione della posizione dell'impresa alla stregua di un vero e proprio inadempimento. Detta tesi è supportata dal richia‑ mato indirizzo del supremo consesso di giustizia amministrativa () allorquando qualifica, in termini espliciti, la viola‑ l u g l i o • a g o s t o 2 0 1 2 zione della regolarità contributiva come un inadempimento e legittima, altresì, la stazione appaltante all'attivazione del rimedio della risoluzione (ex multis, Cons. St. Sez. IV, 30 gennaio 2006, n. 288; T.A.R. Venezia Sez. I, 17 mag‑ gio 2007, n. 1507). Appare, dunque, abbastanza chiaro che se si stratta di un inadempimento contrattuale possono giocoforza appli‑ carsi i rimedi previsti dal codice civile di reazione a tale posizione inadem‑ piente. Orbene, anche se si voglia prescin‑ dere dalla ricorrenza, appena dimostra‑ ta, dei presupposti che permettono l'attivazione dell'eccezione di inadempi‑ mento in parola, milita a favore della positiva esperibilità dell'art. 1460 c.c. nella fattispecie descritta, anche un'al‑ tra argomentazione di carattere logi‑ co‑giuridico. Partendo dal dato normativo del secondo comma dell'art.1460 c.c., oc‑ corre sottolineare che il rimedio in pa‑ rola non può attivarsi allorquando il rifiuto sia contrario alla buona fede. Ebbene si è osservato che ulteriore requisito per l'attivazione del rimedio in argomento è rappresentato dalla gravità dell'inadempimento (C. 21 agosto 1985, n. 4461; in dottrina si veda Persico, 144; Dalmartello, Eccezione di ina‑ dempimento, 357; Galasso, 296; Pille‑ bout, 221). A detta della Corte di Cassazione, infatti, “Quando una delle parti giusti‑ fica il proprio inadempimento con l'ade mpimento dell'altra ai sensi dell'art. 1460 c.c., occorre procedere alla valutazione comparativa del com‑ portamento dei contraenti con riferi‑ mento non solo all'elemento cronologi‑ co delle rispettive inadempienze, ma altresì ai rapporti di causalità e propor‑ zionalità delle stesse rispetto alla fun‑ zione economico‑sociale del contratto al fine di stabilire se effettivamente il comportamento di una parte giustifichi il rifiuto dell'altra di eseguire la presta‑ zione dovuta, tenendo presente il prin‑ cipio che quando l'inadempimento di una parte non sia grave, il rifiuto dell'al‑ tra non è di buona fede e quindi non è giustificato”(Cass. n. 699 del 2000). Seguendo detta tesi, che ritiene im‑ prescindibile per l'attivazione dell'ecce‑ zione inademplenti non est ademplen‑ dum anche la sussistenza del requisito della gravità, deve convenirsi per l'espe‑ 137 ribilità di tale eccezione in caso di un D.U.R.C. irregolare. Come innanzi accennato, il recente decreto sviluppo ha evidenziato che le violazioni ostative al rilascio del docu‑ mento unico di regolarità contributiva di cui al D.L. 210 del 2002, devono ri‑ tenersi gravi, al fine di giustificare l'esclusione del soggetto aggiudicatore. In tal modo, seguendo l'orientamen‑ to prevalente che sottrae ogni valutazio‑ ne discrezionale alla S. A. riguardo al requisito della gravità – concependo una sorta di automatismo di esclusione alla riscontrata violazione contributiva, ad opera degli enti di previdenza e assi‑ stenza, che superi i limiti di scostamen‑ to – se ne deduce che l'assenza o l'irre‑ golarità del D.U.R.C. è expressis verbis considerata grave dal legislatore, con‑ sentendo, in tal modo, di rinvenire nel requisito de quo quel presupposto di “gravità” cui subordinare l'attivazione dell'eccezione di inadempimento. Anche però a voler seguire l'orienta‑ mento che ritiene irrilevante la gravità dell'inadempimento al fine di procedere all'esperibilità dell'exceptio in esame, si perverrebbe al medesimo risultato: quello, cioè, di considerarla attivabile a fronte di un D.U.R.C. irregolare. Tale tesi, invero, si fonda sulla con‑ siderazione che la buona fede di cui è parola nel secondo comma dell'art. 1460 c.c. non equivarrebbe a gravità, ma si ancorerebbe a diversi parametri: a) l'eccessiva onerosità delle conseguenze che l'eccezione comporterebbe per il debitore; b) l'estinzione dell'obbligazio‑ ne dell'una o dell'altra parte; c) viola‑ zione di un diritto fondamentale della persona (Bianca, La responsabilità, pag. 349). Orbene, il ritenere che l'inadempi‑ mento di cui è parola nell'art. 1460 c.c. debba qualificarsi come grave non co‑ glierebbe, a detta di tale tesi, il pro‑ prium dell'eccezione de qua, la quale è un rimedio provvisorio che non estin‑ gue il contratto, ma anzi ne lascia aper‑ to l'adempimento, consentendo all'ina‑ dempiente di regolarizzare la propria posizione. Essa è pertanto il rimedio appropriato con riguardo alle inesattez‑ ze di lieve entità in quanto salvaguarda la parte non inadempiente mentre non preclude all'altra di rendere la propria prestazione conforme al dovuto. “La gravità dell'inadempimento è infatti un presupposto specificamente questioni Gazzetta 138 previsto dalla legge in tema di risolu‑ zione e trova ragione nella radicalità e definitività di tale rimedio, mentre l'eccezione di inadempimento non estingue il contratto, ma ne sospende l'esecuzione, permettendo al debitore di eliminare un'inesattezza della presta‑ zione che, per quanto lieve, lo esporreb‑ be comunque al risarcimento del dan‑ no” ( Bia nca, L a res pon sabilit à , pag.347; Cassin, 360, 362). Quand'anche quindi, seguendo det‑ to indirizzo, si ritenga non indispensa‑ bile il requisito della gravità al fine di attivare l'exceptio inademplenti con‑ tractus, in riferimento all'irregolarità o assenza del D.U.R.C. tale eccezione dovrebbe ritenersi praticabile. Ed invero, ricostruita in tal modo la funzione e la natura dell'exceptio in esame, deve ritenersi che la stessa costi‑ tuisca un quid minus rispetto al rimedio della risoluzione, differenziandosi ri‑ spetto a quest'ultima, seguendo tale tesi, per la intensità dell'inadempimento. Orbene, volendo rappresentare la questione in esame sulla base di figure geometriche che facilmente aiutano la mente nell'opera di comprensione, può pensarsi a dei cerchi concentrici: allor‑ quando si ammetta, come nell'ipotesi di assenza o irregolarità del D.U.R.C., l'esperibilità del rimedio della risoluzio‑ ne – il cerchio maggiore‑ deve giocofor‑ za ammettersi la possibilità di esperire il rimedio dell'exceptio inademplenti contractus – il cerchio minore contenu‑ to in quello maggiore‑. In conclusione, dunque, anche vo‑ lendo seguire filoni interpretativi diffe‑ renti e partendo dal dato di base, evi‑ denziato dal Consiglio di Stato (ex multis, Cons. St. Sez. IV, 30 gennaio 2006, n. 288; T.A.R. Venezia Sez. I, 17 maggio 2007, n. 1507; Consiglio di Stato, Sez. IV, 12 marzo 2009, n. 1458), della qualificazione dell'assenza o irre‑ golarità del D.U.R.C. come un vero e proprio inadempimento, si giunge al medesimo risultato, peraltro fatto pro‑ prio dalla sentenza che qui si commenta: l'esperibilità, da parte della stazione appaltante, del rimedio di autotutela contrattuale rappresentato dall'exceptio inademplenti contractus ex 1460 c.c. q u e s t i o n i ● DIRITTO PENALE Se ed entro che limiti si configura il reato di abuso d’ufficio ex art. 323 c.p. con riguardo all’attività discrezionale della Pubblica Amministrazione? ● Anna Sofia Sellitto Dottoressa in Giurisprudenza L’art. 323 c.p. punisce il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servi‑ zio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero ometten‑ do di astenersi in presenza di un interes‑ se proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzional‑ mente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto. Tale fattispecie criminosa è stata prima modificata dalla L. 86/1990, poi dalla L. 234/1997: la disciplina vigente mira a circoscrivere l’ambito e la porta‑ ta di tale norma, fornendo una esplica‑ zione più dettagliata e puntuale della condotta illecita e ciò allo scopo di porre fine agli interventi espansionistici dell’Autorità giudiziaria rispetto ad una precedente formulazione troppo ampia e generica. L’attuale versione dell’art. 323 c.p., come pure si ricava dai lavori prepara‑ tori, nel prevedere che la condotta del pubblico ufficiale si caratterizzi per la violazione di norme di legge o di rego‑ lamento, ha voluto evitare, quanto al controllo del giudice penale, che questi, ispirandosi ad esigenze di giustizia espresse da principi quali l’uguaglianza, l’imparzialità, il buon andamento, pos‑ sa sindacare i comportamenti che rien‑ trano nell’ambito di discrezionalità del pubblico ufficiale, o sovrapponendo alle scelte dell’amministratore proprie scelte che ritiene più rispettose di cano‑ ni fondamentali, o apprezzando in via sintomatica la violazione di legge, va‑ lendosi dei tradizionali strumenti del sindacato di eccesso di potere, quali l’irragionevolezza della motivazione Gazzetta F O R E N S E addotta, l’inadeguatezza dell’istrutto‑ ria, la disparità di trattamento e via dicendo. Quanto appena detto, tuttavia, non esclude ex se dall’area del penalmente rilevante l’esercizio di poteri discrezio‑ nali. Il giudice è infatti chiamato ad accertare una violazione di norme di legge sulla base di tutti gli strumenti ermeneutici coessenziali alla sua fun‑ zione. Ma è allora configurabile il reato di cui all’art. 323 c.p. laddove si tratti di attività discrezionale della Pubblica amministrazione, ad esempio allor‑ quando si tratti di fissare i requisiti di ammissione alla gara d’appalto e dun‑ que le restrizioni alla possibilità di prendervi parte siano rimesse, sia con riferimento all’an che al quomodo, alla discrezionalità della P.a.? La questione prospettata trae spun‑ to da una recentissima sentenza del 12.06.2012 pronunciata dal Tribunale penale di Santa Maria Capua Vete‑ re – Sez. II. Prima però di analizzarne il contenuto sono opportune alcune pre‑ cisazioni preliminari intorno al reato in questione. Le indicazioni giurisprudenziali ci rc a i l b ene g iu r id ico prote t to dall'art. 323 c.p. abitualmente non vanno oltre il richiamo all' HYPER‑ LIN K "http:// bd05.leggiditalia.it / cgi‑bin/FulShow? TIPO=5&NOTXT= 1&K EY= 05AC0 0009837" art. 97 Cost. nel suo duplice scopo di tutela dell'imparzialità e del buon andamento della P.a. (HYPERLINK "http://bd44. leggiditalia.it/cgi‑bin/FulShow?TIPO =5&NOTXT=1&KEY=44MA000056 6257+o+44MA0000566258" Cass., Sez. V, 5.5.1999) benché venga in qual‑ che occasione sottolineato come la le‑ sione del buon andamento non sia di per sé sufficiente a configurare l'abuso, risultando invece essenziale la viola‑ zione di prescrizioni normative precise e non generalissime o di principio. Coerentemente, nell'ambito di questo indirizzo, viene negato rilievo alle violazioni di norme genericamente strumentali alla regolarità dell'attività a m m i n i s t r at iva (C a s s . , S e z . II , 4.12.1997), oppure aventi carattere meramente procedurale (HYPERLINK "http://bd44.leggiditalia.it / cgi‑bin/ FulShow? TIPO=5&NOTXT=1&KEY =44MA0000565450+ o+44MA000 0533374" Cass., Sez. VI, 1.3.1999). F O R E N S E La giurisprudenza della Suprema Corte asserisce talora che la sola P.a. riveste il ruolo di soggetto passivo (HYPERLINK "http://bd44.leggidita‑ lia.it/cgi‑bin/FulShow?TIPO=5&NOT X T=1& K EY= 4 4M A0 0 02 2 24855" C ass., S ez . III , 14.4 ‑19. 5. 2010 , n. 18811), riproponendo in tal modo un orientamento già emerso in relazione al testo previgente (Cass., Sez. II, ord., 4.12.1997, n. 3529) che considera il privato solo come un civilmente dan‑ neggiato. Più spesso, viene invece riconosciuta la natura plurioffensiva dell'illecito in quanto oggetto di tutela è anche l'inte‑ resse del privato a non essere turbato nei propri diritti (HYPERLINK "http:// bd44.leggiditalia.it/cgi‑bin/FulShow?T IPO=5&NOTXT=1&KEY=44MA000 0934803" Cass., Sez. VI, 22.3.2006, n. 20399). L'autore, che deve rivestire la quali‑ fica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, non risponde, ex art. 323, del semplice abuso di qualità e perciò, quando agisca del tutto al di fuori dell'esercizio della funzione o del servizio, il reato non è configurabile (HYPERLINK "http://bd44.leggidita‑ lia.it/cgi‑bin/FulShow?TIPO=5&NOT X T=1& K EY= 4 4M A0 0 0 08927 72" Cass., Sez. II, 9.2.2006, n. 7600; HYPERLINK "http://bd44.leggidita‑ lia.it/cgi‑bin/FulShow?TIPO=5&NOT X T=1& K EY= 4 4M A0 0 0 053170 0" Cass., Sez. VI, 25.2.1998, n. 5118). La condotta consiste nella violazio‑ ne commissiva (HYPERLINK "http:// bd44.leggiditalia.it/cgi‑bin/FulShow?T IPO=5&NOTXT=1&KEY=44MA000 0754690" Cass., Sez. VI, 26.3.2003, n. 21432) od omissiva (HYPERLINK "http://bd44.leggiditalia.it/cgi‑bin/Ful Show?TIPO=5&NOTXT=1&KEY=44 M A0 0 0 0870307" Cass., Sez. VI , 28.1‑5.5.2004, n. 21085) di prescrizio‑ ni normative di fonte legislativa statale (Cass., Sez. VI, 10.7.2000), legislativa regionale (C., Sez. VI, 18.10.1999) o di fonte regolamentare (Cass., Sez. VI, 31.3.2000). Fatta questa breve ricostruzione necessaria in ordine al bene tutelato dall’art. 323 c.p. e alla relativa condotta, preme affrontare nel merito la questione al fine di delimitare i limiti e confini della configurabilità della ipotesi delit‑ tuosa nel caso di attività discrezionale della Pubblica Amministrazione. l u g l i o • a g o s t o 2 0 1 2 Come precedentemente accennato, di frequente ricorrenza nell’attività del‑ la P.a. è l’ipotesi in cui questa si trovi a dover stabilire quelle che sono le condi‑ zioni necessarie ed imprescindibili per l’ammissione ad una gara d’appalto; non v’è dubbio che si tratti di un potere discrezionale, rispetto al cui esercizio la valutazione dell’opportunità di prevede‑ re determinati requisiti è rimessa alla pubblica amministrazione, chiamata ad orientarsi nella prospettiva del soddisfa‑ cimento del pubblico interesse nel mi‑ glior modo possibile alla luce della si‑ tuazione di fatto esistente. Come chiarito nella menzionata sentenza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, la determinazione della stazione appaltante deve essere motiva‑ ta con l’indicazione dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche e di op‑ portunità che hanno determinato la decisione dell’amministrazione. Ag‑ giungasi che la P.a. deve esercitare il suo potere in maniera ragionevole, senza introdurre restrizioni alla con‑ correnza che siano sproporzionate ed ingiustificabili rispetto all’oggetto dell’appalto. A tal riguardo, la Suprema Corte ha stabilito che il delitto di abuso d'ufficio è configurabile non solo quando la con‑ dotta si ponga in contrasto con il signi‑ ficato letterale o logico‑sistematico di una norma di legge o di regolamento, ma anche quando la stessa contraddica lo specifico fine perseguito dalla norma, concretandosi in uno “svolgimento della funzione o del servizio” che oltre‑ passi ogni possibile scelta discrezionale attribuita al pubblico ufficiale o all'in‑ caricato di pubblico servizio (HYPER‑ LIN K "http:// bd44.leggiditalia.it / cgi‑bin/FulShow?TIPO=5&NOTXT=1 &KEY=44MA0002252730" Cass., Sez. V, 16.6.2010, n. 35501). Nello stesso senso HYPERLINK "http:// bd44.leggiditalia.it/cgi‑bin/FulShow?T IPO=5&NOTXT=1&KEY=44MA000 2313906" Cass., Sez. VI, 5.7‑30.9.2011, n. 35597 che afferma che il contrasto tra la norma attributiva del potere esercita‑ to e la condotta posta in essere dall'agen‑ te si realizza, ad esempio, quando il pubblico ufficiale agisce per conseguire uno scopo personale o comunque estra‑ neo alla P.A., che si concreta in uno "sviamento" produttivo di una lesione dell'interesse tutelato dalla norma incri‑ minatrice. 139 Le Sezioni Unite della Corte di Cas‑ sazione hanno, altresì, precisato che, ai fini della configurabilità del reato di abuso d'ufficio, sussiste il requisito della violazione di legge non solo quan‑ do la condotta del pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che regolano l'esercizio del potere, ma an‑ che quando la stessa risulti orientata alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il po‑ tere è attribuito, realizzandosi in tale ipotesi il vizio dello sviamento di pote‑ re, che integra la violazione di legge poiché lo stesso non viene esercitato secondo lo schema normativo che ne legittima l'attribuzione (HYPERLINK "http://bd44.leggiditalia.it/cgi‑bin/Ful Show?TIPO=5&NOTXT=1&KEY=44 M A0 0 0 2 33132 6" C a s s . , S . U . , 29.9.2011‑10.1.2012, n. 155). La giurisprudenza di legittimità ha inoltre chiarito che, per pubblica fun‑ zione autoritativa, in tanto può parlarsi di esercizio legittimo in quanto tale esercizio sia diretto a realizzare lo scopo pubblico in funzione del quale è attri‑ buita la potestà, che del potere costitu‑ isce la condizione intrinseca di legalità. Si ha pertanto violazione di legge, rile‑ vante a norma dell’art. 323 c.p., non solo quando la condotta del pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che regolano l’esercizio del pote‑ re (profilo della disciplina), ma anche quando difettino le condizioni funzio‑ nali che legittimano lo stesso esercizio del potere (profilo dell’attribuzione), ciò avendosi quando la condotta risulti volta alla sola realizzazione di un inte‑ resse collidente con quello per il quale il potere è conferito. Anche in questa ipotesi si realizza un vizio della funzio‑ ne legale, che è denominato sviamento di potere e che integra violazione di legge perché sta a significare che la potestà non è stata esercitata secondo lo schema normativo che legittima l’at‑ tribuzione (ex multis Cass. pen. S. U. 29 settembre 2011, n. 155). Va peraltro precisato che alcune pronunce della Suprema Corte ritengo‑ no rilevante ai fini della configurabilità della violazione di legge la norma di cui all’art. 97 Cost., là dove prevede l’im‑ parzialità quale canone comportamen‑ tale cui deve ispirarsi l’amministrazione pubblica. L’imparzialità a cui fa riferi‑ mento l’art. 97 Cost. consiste, infatti, nel divieto di favoritismi, nell’obbligo questioni Gazzetta 140 cioè per la pubblica amministrazione di trattare tutti i soggetti portatori di inte‑ ressi tutelati nella stessa maniera, con‑ formando logicamente i criteri oggettivi di valutazione alle differenziate posizio‑ ni soggettive. In sostanza, il principio d’imparzialità, se riferito all’aspetto organizzativo della pubblica ammini‑ strazione, ha certamente una portata programmatica e non rileva ai fini della configurabilità del reato di abuso d’uf‑ ficio, in quanto detto principio generale deve necessariamente essere mediato dalla legge di attuazione. Lo stesso principio, invece, se riferito all’attività concreta della pubblica amministrazio‑ ne, che ha l’obbligo di non porre in es‑ sere favoritismi e di non privilegiare si‑ tuazioni personali che confliggono con l’interesse generale della collettività, assume i caratteri ed i contenuti precet‑ tivi richiesti dall’art. 323 c.p., in quanto impone al pubblico ufficiale o all’inca‑ ricato di pubblico servizio una precisa regola di comportamento di immediata applicazione (v. da ultimo Cass. pen. 17 febbraio 2011, n. 27453). Come afferma la suindicata senten‑ za del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, alla luce di questi principi espressi dalla Suprema Corte, emerge con chiarezza che nelle ipotesi in esame il dato decisivo per configurare la vio‑ lazione di legge viene individuato nell’esercizio del potere per un fine di‑ verso da quello voluto dalla legge, ov‑ vero per uno scopo personale od egoi‑ stico, e, comunque, estraneo alla pub‑ blica amministrazione. Il giudice pena‑ le, compiendo il suddetto accertamento, non si interessa del “formarsi dell’atto”, ma del fatto concreto, quale risultato della condotta del pubblico ufficiale, senza interferire nell’autonomia della pubblica amministrazione. Visto che le caratteristiche delle norme prese in considerazione sono tali per cui esse non definiscono con precisione la linea di condotta che l’amministrazione pub‑ blica avrebbe dovuto tenere, l’elemento che consente di superare il rischio dell’incursione del giudice penale nell’ambito della discrezionalità ammi‑ nistrativa in sostanza è rappresentato dalla finalità perseguita dall’autore del reato, là dove essa evidenzi che l’eserci‑ zio del potere è avvenuto in vista del conseguimento di interessi privati ec‑ centrici rispetto a quelli costituenti causa delle sua attribuzione. Questo q u e s t i o n i aspetto colora di illiceità qualsiasi com‑ portamento della pubblica amministra‑ zione, quand’anche tenuto nell’esercizio di poteri caratterizzati da margini più o meno ampi di discrezionalità. La pronunzia giurisprudenziale più volte menzionata afferma, altresì, che in casi simili la prova della violazione di legge tende a coincidere con quella dell’intenzionalità dell’evento necessa‑ rio per la configurabilità della fattispe‑ cie. A tal proposito, è bene ricordare che in tema di abuso d’ufficio il dolo inten‑ zionale si sostanzia nella rappresenta‑ zione e nella volizione dell’evento come conseguenza diretta e immediata della condotta dell’agente e obiettivo prima‑ rio da costui perseguito. La prova dell’elemento soggettivo esige, dunque, il raggiungimento della certezza che la volontà dell’imputato sia stata orientata proprio a procurare il vantaggio patri‑ moniale o il danno ingiusto. Prendendo in esame il caso specifico oggetto della sentenza in questione, si consideri la seguente fattispecie. Tizio era imputato del reato di cui all’art. 323 c.p. in quanto emanava un bando di asta pubblica per l’“affidamen‑ to del servizio di refezione scolastica agli alunni delle scuole materne e dell’obbligo, […]” violando l’art. 14 D. lgs. n. 157\95, art. 44 Direttiva CE 2004\18 del 31.3.2004 perché non rap‑ portava nel bando stesso i requisiti della ditta aggiudicataria con l’oggetto dell’ap‑ palto; l’art. 1 comma 2 L. 241\90, per aver previsto prescrizioni alla ditta ag‑ giudicataria inutile con ingiustificato aggravio del procedimento; l’art. 3 L. 241\90, per non aver motivato l’atto amministrativo e le scelte in esso conte‑ nute e violando ogni norma e principio in tema di eguaglianza e di buona am‑ ministrazione (anche con riferimento agli artt. 3 e 87 Cost); così, attestava falsamente la tipologia dei requisiti con‑ cretamente necessari per partecipare alla gara in relazione al reale oggetto del servizio in via di affidamento, impeden‑ do ad altre ditte aventi i requisiti di fatto (e conformi al reale servizio da espletare) di partecipare alla gara al fine di favori‑ re intenzionalmente altra ditta. Nel caso di specie, la sentenza di as‑ soluzione ritiene che non si è raggiunta la prova che l’esercizio del potere discrezio‑ nale nella determinazione di requisiti minimi per la partecipazione alla gara fosse ispirato dalla finalità primaria di Gazzetta F O R E N S E escludere potenziali concorrenti favoren‑ do l’impresa aggiudicataria dell’appalto. Al riguardo, senza arrivare a sostenere l’imprescindibilità di un accordo collusi‑ vo tra l’impresa ed il funzionario pubbli‑ co, sarebbe stato necessario verificare l’esistenza di eventuali ragioni di interes‑ se pubblico che avevano portato la giunta comunale da approvare un bando di gara più restrittivo rispetto a quello relativo all’affidamento del servizio di refezione scolastica nel precedente biennio. Soltan‑ to l’assenza o l’assoluta irragionevolezza di esse avrebbe consentito di dedurre che il potere discrezionale dell’amministra‑ zione era stato esercitato in via primaria in vista del perseguimento di interessi privati, così conferendo alla ritenuta irra‑ gionevolezza del contenuto dell’atto am‑ ministrativo rispetto all’oggetto dell’ap‑ palto il carattere dell’illiceità penale e non della semplice illegittimità rilevante sul piano amministrativo. Si è invece preteso che il Tribunale inferisse la sussistenza della volontà di favorire il privato e, quin‑ di, dello sviamento del potere ammini‑ strativo rispetto alle finalità istituzionali dalla sola irragionevolezza del contenuto dell’atto. In sostanza, si è chiesto al Tri‑ bunale di sostituirsi all’amministrazione pubblica nel valutare l’opportunità di restringere la partecipazione alla gara d’appalto in esame, facendo discendere da detta valutazione la sussistenza o meno del reato, in evidente contrasto con i principi poc’anzi espressi. La sentenza di assoluzione afferma, dunque, che l’ipotizzata violazione di legge non può ritenersi sussistente. Prosegue, altresì, rispetto alla manca‑ ta espressione delle ragioni che avevano indotto l’amministrazione a prevedere indici minimi di capacità per poter parte‑ cipare alla gara d’appalto affermando che va sottolineato che l’inosservanza da parte del pubblico ufficiale del dovere di motivazione del provvedimento è astrattamente idonea ad integrare la vio‑ lazione di legge rilevante ai fini della sussistenza del reato di cui all’art. 323 c.p. (v. Cass. Pen. 27 ottobre 1999 n. 13341). Tuttavia, come per tutte le norme di carattere procedimentale, in quanto tali volte a disciplinare le modalità dell’agere amministrativo in generale, ma non a stabilire in che termini debba essere esercitato un determinato potere, è necessario verificare la sussistenza di un nesso di derivazione logico‑causale F O R E N S E del danno o del vantaggio ingiusto dalla violazione della specifica norma procedimentale, pena un’applicazione formalistica della fattispecie in esame (v. Cass. pen. 24 febbraio 2000, no 4881 e 23 giugno 2006, no 22242). Anche in queste ipotesi, peraltro, sul piano pro‑ batorio il dato che colora di illiceità una difformità dell’azione amministrativa rispetto al modello legale in sé ambigua è peraltro rappresentato dalla finalità privatistica perseguita. Ebbene, nella stessa prospettazione dell’accusa la violazione di legge che si assume produttiva del vantaggio e del correlativo danno non è rappresentata dall’omessa motivazione del provvedi‑ mento, bensì dalla fissazione dei requi‑ siti minimi previsti per la partecipazi‑ one alla gara d’appalto. Anche in relazi‑ one a questo profilo, quindi, non è configurabile la fattispecie oggettiva del delitto di abuso d’ufficio. ● DIRITTO AMMINISTRATIVO La tutela cautelare nel giudizio amministrativo alla luce delle novità contenute nel codice del processo amministrativo: ai fini della rapida definizione della controversia nel merito è ammessa la tutela cautelare, oppure l’applicazione dell’art. 55 comma 10 del c.p.a. rappresenta un’alternativa rispetto alla concessione dell’istanza cautelare? ● Maria Teresa Della Vittoria Scarpati Dottoressa in giurisprudenza L’ordinanza del Consiglio di Stato n. 171/2012 e la sentenza del Tar Cam‑ pania Napoli n. 2260/2012 offrono l’occasione per trarre utili spunti di ra‑ gionamento in merito alle novità in materia cautelare introdotte dal d.lgs. n. 104/2010, istitutivo del Codice del processo amministrativo (cd. cpa). l u g l i o • a g o s t o 2 0 1 2 Preliminarmente pare opportuna una breve ricostruzione del quadro normativo precedente alla introduzione del Codice, anche al fine di individuare ciò che è rimasto invariato e ciò che invece è stato oggetto di modifica e di innovazione. Prima della riforma realizzata dalla l. 21 luglio 2000, n. 205 l'unico rimedio a disposizione del ricorrente per blocca‑ re temporaneamente gli effetti pregiu‑ dizievoli dell’atto impugnato in attesa della decisione di merito era l'istanza di sospensione degli stessi. L'inadeguatez‑ za di tale tutela fu oggetto di rilievo ad opera della Corte Costituzionale, sen‑ tenza del 25 giugno 1985, n. 190, la quale dichiarò l'illegittimità costituzio‑ nale dell'originario art. 21, comma 7, l. 6 dicembre 1971, n. 1034, nella parte in cui non consentiva al giudice ammi‑ nistrativo di adottare in via d'urgenza, nelle controversie patrimoniali in mate‑ ria di pubblico impiego oggetto di giu‑ risdizione esclusiva, i provvedimenti d’urgenza più idonei ad assicurare prov‑ visoriamente gli effetti della futura de‑ cisione sul merito. La giurisprudenza amministrativa, sulla scia tracciata dalla Consulta non‑ ché dalla giurisprudenza comunitaria (sentenza della Corte di Giustizia Fac‑ tortame del 19 giugno 1990 in causa C‑213/89 e sentenza Atlanta del 9 no‑ vembre 1995 in causa C‑465/93), ha proceduto alla erosione della tutela cautelare prevista dal richiamato art. 21. In questo quadro l’introduzione dell’art. 3 della l. n. 205 del 2000 ha rappresentato il primo strumento col quale poteva considerarsi in maniera precisa e puntuale la fattispecie ogget‑ to di esame. Il citato articolo aveva introdotto il comma 8 dell’art.21 della l. Tar e subordinato la sospensione degli effetti del provvedimento impu‑ gnato al contestuale concorso delle seguenti condizioni: a) l’idoneità del provvedimento ad arrecare al suo de‑ stinatario un pregiudizio attuale, grave ed irreparabile non necessariamente di carattere patrimoniale, ma comunque incidente su un bene della vita; b) il fumus boni iuris, inteso come probabi‑ lità che, a conclusione del giudizio di merito, il ricorso risultasse ammissibi‑ le e fondato. L’ordinanza collegiale che, pronunciando sull’istanza di sospen‑ sione, l’accoglieva o la rigettava, dove‑ 141 va essere motivata con l’indicazione, seppure sommaria, delle ragioni sotte‑ se in fatto e in diritto alla determina‑ zione adottata. Con l’introduzione del Codice rima‑ ne fermo il generale quadro di tutela cautelare che la giurisprudenza e la dottrina avevano fin qui elaborato: esso conferma il carattere dell’interinalità e della strumentalità funzionale delle misure cautelari, con particolare riguar‑ do agli interessi pretesivi, attraverso la pratica delle cc.dd. ordinanze cautelari propulsive (o remand), con le quali si ordina all’amministrazione di riprovve‑ dere tenendo conto delle indicazioni giudiziali che costituiscono la rima conformativa per la successiva azione amministrativa, nonché mediante le ordinanze cautelari positive o sostituti‑ ve, dalla portata conformativa del giu‑ dicato cautelare, sostituendosi così il giudice della cautela all’amministrazio‑ ne ed ammettendo il privato allo svol‑ gimento dell’attività negata (Caringella, Manuale di diritto amministrativo, Dike, Roma, 2012, 1850 ss.). Il Codice ha avuto il pregio di dedi‑ care ben 8 articoli (artt. 55‑62) alle misure cautelari, peraltro ampiamente diffusi e seriamente modificativi della disciplina previgente, nella parte in cui hanno attutito la profonda divaricazio‑ ne che sussisteva tra il processo caute‑ lare e il processo di merito. Oggi il nesso di strumentalità tra cautela e merito è particolarmente rafforzato nel Codice, laddove, al comma 4 dell’art. 55 stabilisce espressamente l’improcedibi‑ lità della domanda cautelare fino a che non sia stata presentata l’istanza di fissazione dell’udienza di merito; allo stesso scopo sono dettati gli artt. 56, comma 4 e 61, comma 5 del cpa. In linea generale il Codice offre tre specie di misure cautelari: la prima è quella prevista dall’art. 55 di competen‑ za del Collegio in presenza e nel presup‑ posto di un “pregiudizio grave ed irre‑ parabile” a seguito dell’esecuzione dell’atto impugnato; la seconda è quella che può adottare il Presidente del Tribu‑ nale amministrativo “in caso di estrema gravità ed urgenza”; la terza è quella anteriore alla causa “in caso di eccezio‑ nale gravità ed urgenza”. È regola generale che, in ossequio ai principi di effettività e di pienezza della tutela giurisdizionale, di cui la tutela interinale è espressione, il giudice am‑ questioni Gazzetta 142 ministrativo possa adottare, nella pen‑ denza del giudizio di merito, le misure cautelari necessarie, ai sensi dell’art. 55 del Codice del processo amministrativo, al fine di impedire che, nelle more della definizione del processo amministrati‑ vo, l’esercizio dell’attività oggetto di impugnazione possa cagionare al terzo un pregiudizio grave ed irreparabile. In effetti l’art. 55, al comma 1 con‑ ferisce al non meglio precisato «pregiu‑ dizio» un rilievo esclusivo e sufficiente agli effetti del richiesto intervento cau‑ telare, ed anche dal successivo comma 9 sembra emergere che il danno che giu‑ stifica la tutela cautelare debba essere anche «ingiusto», e non fisiologicamen‑ te conseguente ad un provvedimento legittimamente adottato dall’Ammini‑ strazione. Dal combinato disposto dei due commi emerge che al giudice adito non solo è richiesto di valutare l’esisten‑ za, la gravità e l’irreparabilità del pre‑ giudizio paventato dal ricorrente, ma di indicare anche le ragioni di diritto (il c.d. fumus boni juris) che, sia pure a conclusione di una sommaria delibazio‑ ne, inducono ragionevolmente a preve‑ dere un determinato esito per il ricorso allorché sarà esaminato nel merito. L’intento del legislatore del 2010 era quello di dare rilievo non solo al piano della giustizia, che il Codice richiede sia rapida ed esaustiva, ma anche a quello dell’economia processuale, perché dal testo dell’ordinanza collegiale le parti in causa devono essere messe in condizio‑ ne anche di verificare la convenienza a continuare a coltivare il ricorso ovvero a resistere ad esso. Orbene, il Codice del processo am‑ ministrativo ha avuto il pregio di preci‑ sare ed innovare i presupposti per la concessione della tutela cautelare incen‑ trandola sul principio di effettività scolpito nell’art. 24 Cost. e nell’art. 1 del Codice, alla cui stregua “la giurisdi‑ zione amministrazione assicura una tutela piena ed effettiva secondo i prin‑ cipi della Costituzione e del diritto europeo”. Attualmente, per quanto concerne la tematica oggetto di interesse ed in ossequio ai principi richiamati ed al particolare nesso di strumentalità tra cautela e merito, la generale previsione contenuta nel comma 10 dell’art. 55 rappresenta una reale alternativa rispet‑ to al modello generale di tutela cautela‑ re fin qui delineato. La norma stabilisce q u e s t i o n i che “Il tribunale amministrativo regio‑ nale, in sede cautelare, se ritiene che le esigenze del ricorrente siano apprezza‑ bili favorevolmente e tutelabili adegua‑ tamente con la sollecita definizione del giudizio nel merito, fissa con ordinanza collegiale la data della discussione del ricorso nel merito. Nello stesso senso puo' provvedere il Consiglio di Stato, motivando sulle ragioni per cui ritiene di riformare l'ordinanza cautelare di primo grado; in tal caso, la pronuncia di appello e' trasmessa al tribunale amministrativo regionale per la solleci‑ ta fissazione dell'udienza di merito”. Ne deriva che, qualora il Tar apprez‑ zi favorevolmente le ragioni del ricor‑ rente e le ritenga meglio tutelabili in sede di celere definizione del giudizio non ha l’obbligo, ma solo la facoltà di fissare l’udienza pubblica, senza alcuna previsione del termine entro il quale fissare l’udienza stessa. Detta precisazione appare rilevante nel raffronto con la disposizione conte‑ nuta nel comma 3 dell’art. 119, dedicato ai riti abbreviati, il quale prevede che, qualora il Tar ritenga ad un sommario esame che sussistano profili di fondatez‑ za del ricorso e di un pregiudizio grave ed irreparabile, provveda a fissare l’udienza di trattazione alla “prima udienza suc‑ cessiva alla scadenza del termine di trenta giorni dalla data di deposito dell’ordinanza”. Quest’ultima rappresen‑ ta una nota caratteristica del rito abbre‑ viato che impone, al sorgere di determi‑ nati presupposti, la fissazione dell’udien‑ za di merito in tempi ravvicinati. Detti termini hanno natura ordinatoria, in quanto perseguono una finalità mera‑ mente acceleratoria del giudizio, e per‑ tanto il mancato rispetto degli stessi non implica vizi della sentenza adottata. L’accostamento delle due norme consente di evidenziare che, non è pre‑ vista di regola la concessione dell’istan‑ za cautelare, anche ove si ritenga sussi‑ stano i presupposti del fumus boni juris e del periculum in mora, in quanto l’unico interesse del legislatore appare d i re t to a l la sol le c it a f is sa z ione dell’udienza di merito da parte del Tar. Ciò determina l’auspicata concen‑ trazione della decisione cautelare in quella di merito, nel presupposto che la ravvicinata definizione del giudizio ed il probabile esito favorevole per il ricor‑ rente, almeno in sede di prima valuta‑ zione nella fase cautelare, rendano non Gazzetta F O R E N S E indispensabile la sospensione dell’effi‑ cacia degli atti impugnati (Codice del Processo Amministrativo, a cura di Mario Sanino, UTET, 2011, 525). Tale interpretazione non è senz’altro sorretta dalla formulazione letterale della disposizione contenuta nel com‑ ma 10 dell’art.55 cpa, la quale non esplicita se la misura cautelare sia data o no; tuttavia, si ritiene che la fissazione dell’udienza a breve rappresenti un’al‑ ternativa alla concessione della misura e ne prenda il posto, ponendosi come meccanismo idoneo a dare tutela imme‑ diata alle esigenze del ricorrente. Pertanto, la celere definizione del giudizio mediante l’immediata fissazio‑ ne dell’udienza di merito appare idonea ad impedire il verificarsi degli effetti irreversibili paventati in sede di ricorso. Inoltre, analoghe considerazioni posso‑ no essere svolte in sede di appello cau‑ telare, laddove il Consiglio di Stato gode di perfetta autonomia decisionale, non essendo tenuto ad accordare la tu‑ tela cautelare stessa, ma dovendo limi‑ tarsi a ravvisare l’esistenza dei presup‑ post i per la sol lecit a f issa zione dell’udienza di merito. Vale la pena di precisare che la so‑ luzione contenuta nell’art. 55, com‑ ma 10 cpa è senza alcun dubbio diversa dall’abbinamento della sospensiva al merito prevista dall’art. 60 cpa.: in tale ultimo caso il collegio può decidere immediatamente la controversia, ancor‑ ché sia stato chiamato a pronunciarsi su una domanda cautelare, emanando una sentenza cd. in forma semplificata. Dette considerazioni sono state senz’altro oggetto di recepimento ad opera del Consiglio di Stato, Sez. VI, ordinanza n. 171/2012, il quale si è espresso nei seguenti termini: “ritenuto, sotto il profilo del periculum in mora, che il ricorso meriti accoglimento al solo fin e dell a c ele re fi ssazion e dell’udienza di merito da parte del T.a.r. ai sensi dell’art.55, comma 10, cod.proc.amm.[…]”. Pertanto, il Consiglio di Stato, in applicazione della seconda parte del comma 10 dell’art. 55 del cpa, ha rite‑ nuto di riformare l’impugnata ordinan‑ za cautelare del Tar Campania, nella sola parte in cui quell’ordinanza (al di là del fatto che respingeva l’istanza) non fissava l’udienza di merito. Infatti, ad u n a pr i m a le t t u ra del d isposto dell’art. 55 comma 10 del c.p.a. appare F O R E N S E evidente come, secondo i giudici del gravame, l’ordinanza del Tar Campania dovesse essere riformata soltanto nella parte in cui i giudici di prima istanza non avrebbero considerato “le esigenze del ricorrente […] apprezzabili favore‑ volmente e tutelabili adeguatamente con la sollecita definizione del giudizio nel merito”, con conseguente fissazione mediante ordinanza collegiale del ricor‑ so nel merito. L’art. 55 comma 10 dispone inoltre che “Nello stesso senso puo' provve‑ dere il Consiglio di Stato, motivando sulle ragioni per cui ritiene di riforma‑ re l'ordinanza cautelare di primo gra‑ do; in tal caso, la pronuncia di appello e' trasmessa al tribunale amministra‑ tivo regionale per la sollecita fissazio‑ ne dell'udienza di merito”. Dunque, non era affatto intendimento del Con‑ siglio di Stato svolgere una differente valutazione rispetto a quella effettuata dal Tribunale di prima istanza, in or‑ dine alla necessità di adottare un prov‑ vedimento di sospensione, atteso che tale ultima possibilità pare essere esclusa dalla lettera della norma e che qualora il Consiglio di Stato avesse voluto riformare l’ordinanza anche nell’esito lo avrebbe fatto ai sensi di l u g l i o • a g o s t o 2 0 1 2 quanto disposto dall’art. 62 comma 3 del c.p.a.. La sentenza del T.A.R. Campania, n. 2260/2012 ha confermato le prece‑ denti considerazioni statuendo che “la tutela cautelare riconosciuta dal giudi‑ ce amministrativo è consistita, ai sensi dell’art. 55, co.10, c.p.a., unicamente nella fissazione dell’udienza di merito con priorità per la definizione della controversia, senza alcuna sospensiva degli atti impugnati con il ricorso intro‑ duttivo del giudizio”. In conclusione, dalla disposizione contenuta nell’art. 55 comma 10 emerge che l’esigenza di immediata tutela giu‑ diziale degli interessi pretesivi e opposi‑ tivi trova in essa un ulteriore strumento di risoluzione. Tale istituto offre, me‑ diante la sollecita decisione nel merito, una più intensa efficacia conformativa, ha portata generale ed è utilizzabile tutte le volte in cui, a prescindere dalla natura degli interessi azionati, si rende necessaria, in sostituzione del provvedi‑ mento cautelare, la rapida definizione della controversia nel merito. Infine pare opportuno segnalare l’orientamento di quanti, all’entrata in vigore del Codice, hanno evidenziato i profili di criticità dello stesso, determi‑ 143 nati dal depotenziamento dello stru‑ mento della sentenza in forma semplifi‑ cata a favore di una decisione di merito che allo stato delle cose difficilmente potrebbe avvenire in tempi brevi. L’ef‑ fetto probabile, secondo detta parte della dottrina, è rappresentato dall’ulte‑ riore sovraccarico dei ruoli mercè la fissazione di udienze di merito, riguar‑ danti soprattutto le particolari materie di cui all’art. 119 e 120 cpa, che si van‑ no ad aggiungere alle controversie ordi‑ narie, in ordine alle quali è prevista in via automatica la fissazione dell’udienza di merito in caso di accoglimento della domanda cautelare. Il dubbio espresso consiste nel chiedersi se il depotenzia‑ mento dello strumento della tutela cau‑ telare e della sentenza in forma sempli‑ ficata, sia stata una scelta consapevole o non piuttosto l’effetto indesiderato del tentativo (allo stato) velleitario di addi‑ venire alla rapida definizione di tutte le cause nel merito (“La pronuncia caute‑ lare e l’immediatezza della tutela di merito”, Giulio Castriota Scanderbeg, Consigliere di Stato, Relazione svolta a Lecce il 12 novembre 2010, in occasione del Convegno su “Il Codice del processo amministrativo”, www.giustizia‑ammi‑ nistrativa.it). questioni Gazzetta Recensioni Il principio di continuità di funzionamento degli organi nelle società di capitali, Paolo Divizia, in Quaderni di Giurisprudenza commerciale n. 350, Milano, 2011 147 recensioni Flora Caputo F O R E N S E ● Il principio di continuità di funzionamento degli organi nelle società di capitali, Paolo Divizia, in Quaderni di Giurisprudenza commerciale n. 350, Milano, 2011 ● Flora Caputo Avvocato Nel sistema giuridico italiano il prin‑ cipio di continuità trova applicazione in maniera trasversale, riguardando in particolare l’ambito del diritto costitu‑ zionale ed amministrativo. La maggior parte delle norme organizzative, infatti, nel disciplinare la struttura dei soggetti pubblici prevede, in riferimento ai sin‑ goli organi, congegni rivolti a garantire l’ininterrotta presenza di un soggetto preposto (in via stabile o provvisoria) ad esercitare le proprie funzioni. La stessa Carta costituzionale è ricca di esempi al riguardo, basti pensa‑ re, tra gli altri, all’art. 61 ultimo comma ove é dato leggere che: “finché non siano riunite le nuove Camere sono proroga‑ ti i poteri delle precedenti”, ovvero all’art. 85, ultimo comma ultima parte in cui si precisa che, se le Camere sono sciolte, “nel frattempo sono prorogati i poteri del Presidente in carica”. Nell’ambito dell’organizzazione amministrativa, si suole tradizional‑ mente distinguere tra esigenza di conti‑ nuità formale e sostanziale degli organi, intendendosi con la prima la necessità di una costante copertura dell’organo da parte di un titolare (primario o vica‑ rio), nonché, con la seconda, la necessi‑ tà della stabilità dei titolari (nominati a tempo indeterminato) degli organi, e cioè della durata per un periodo di tem‑ po sufficientemente lungo del medesimo agente nell’ufficio cui è preposto. Nella ricostruzione offerta, il princi‑ pio in esame è conosciuto anche a livello comunitario, sia nell’ambito del funzio‑ namento degli organi/uffici sia nella disciplina dei rapporti contrattuali. Sotto il primo profilo, deve osser‑ l u g l i o • a g o s t o 2 0 1 2 varsi come il principio di continuità sia preso in considerazione a livello genera‑ le dall’art. 3 Trattato istitutivo dell’Unio‑ ne Europea, ove si menziona espressa‑ mente il principio di continuità di fun‑ zionamento dell’azione amministrativa comunitaria. Il principio de qua, inol‑ tre, è sovente richiamato nei provvedi‑ menti istitutivi di nuovi organi attraver‑ so cui si veicola l’azione comunitaria, come avviene ex art.17 Regolamento della Commissione Europea del 9 ago‑ sto 2007, n. 951 - rubricato proprio Principio di continuità - che stabilisce le misure di esecuzione dei programmi di cooperazione transfrontaliera finan‑ ziati nel quadro del regolamento dell’Unione Europea n. 1638/2006. Sotto il secondo profilo, di matrice contrattuale, può osservarsi come l’av‑ vento dell’Euro abbia posto – nei rap‑ porti commerciali pendenti – un proble‑ ma di garanzia di continuità, ed al ri‑ guardo può osservarsi come il principio basilare che ha regolato l’ingresso nella moneta unica sia costituito proprio dal‑ la continuità, principio codificato in termini solenni e categorici dall’art. 3 del regolamento CE 1103/1997 in forza del quale: ‘‘l’introduzione dell’Euro non avrà l’effetto di modificare alcuno dei termini di uno strumento giuridico, né di sollevare o dispensare dall’adempi‑ mento di qualunque strumento giuridi‑ co, né di dare ad una parte il diritto di modificare o porre fine unilateralmente a tale strumento giuridico’’. L’approfondita indagine monografi‑ ca di Paolo Divizia – Professore a con‑ tratto presso l’Università degli Studi di Genova S.S.P.L. – muove da un sempli‑ ce interrogativo di fondo: esiste anche nell’ordinamento societario italiano un principio di continuità di funzionamen‑ to degli organi? O, per dirla diversa‑ mente, la medesima esigenza di conti‑ nuità di funzionamento degli organi e di prevenzione di stasi operative di cui si è detto è avvertita anche in ambito societario? Ed assunto ciò, come è af‑ frontata dal legislatore? La risposta agli interrogativi posti è affermativa, e numerosi sono i riferi‑ menti normativi presenti in seno al Codice Civile del 1942 e nelle pieghe della riforma delle società del 2003 che spingono verso tale soluzione; a partire dalla legge delega n. 366 del 2001 fino alla relazione di accompagnamento al D.lgs. n. 6 del 2003 emerge una singo‑ 147 lare ‘‘tensione’’ del legislatore verso la predisposizione di meccanismi giuridici volti ad assicurare la continuità di fun‑ zionamento dell’organismo societario. Detta esigenza si estrinseca sia nell’ottica interna - rappresentata dagli interessi dei soci, sensibili al buon fun‑ zionamento delle singole componenti societarie - sia nell’ottica esterna - cioè della tutela dei terzi ed in particolare del ceto creditorio, attento a prevenire la disgregazione della ricchezza patrimo‑ niale e dell’avviamento della società. Lo studio monografico di Paolo Divizia si pone l’obiettivo di affrontare l’indicato principio di continuità nelle sue variegate manifestazioni, vaglian‑ done ad un tempo i profili di ordine dogmatico e le applicazioni emergenti nella prassi operativa. L’indagine si sviluppa in modo organico ed analizza i tratti peculiari dei due principali co‑ rollari applicativi del principio di conti‑ nuità, rappresentati dagli istituti della prorogatio e della supplenza, analizzan‑ do sequenzialmente le forme di impiego degli indicati istituti rispetto all’organo amministrativo (Capitoli II e III), di controllo (Capitoli IV e V) e di revisio‑ ne legale dei conti (Capitolo VII). Come chiarito dall’Autore, secondo una prima definizione, la prorogatio è il meccanismo giuridico ‘‘in forza del quale un organo, anche scaduto, ha la possibilità di continuare ad esercitare, sia pure limitatamente, i suoi poteri e ciò non in base ad un atto speciale che concede la proroga stessa, ma di dirit‑ to’’; è cioè un istituto teleologicamente teso ad assicurare la continuità dell’eser‑ cizio delle funzioni. Durante la proro‑ gatio, dunque, la situazione in cui versa il titolare – ormai cessato dalla carica – è quella di chi conserva l’investitura e la competenza in forza di legge, le cui scadenze si pongono come fatto conser‑ vativo dell’ufficio, senza modifica o ri‑ duzione dei poteri ordinari. L’Autore valuta caso per caso l’ope‑ ratività della prorogatio al cospetto delle varie ipotesi di stasi di funzionamento dell’organo, distinguendo fra ipotesi “ordinarie” (quali la morte e la naturale scadenza dell’incarico) ed ipotesi “più problematiche” (quali le dimissioni dalla carica, la decadenza e la revoca da parte dell’assemblea), ponendosi dall’angolo visuale della valutazione della preminen‑ za degli interessi, ora della società, ora del singolo componente l’organo. recensioni Gazzetta 148 La supplenza, di contro, è intesa come sostituzione temporanea del tito‑ lare di un organo o di un ufficio da parte di un altro soggetto nell’esercizio delle funzioni in tutti i casi di impedi‑ mento, assenza o temporanea vacanza. Finalità tipica dell’istituto de quo è quella di garantire la continuità dell’azione dell’organo e prevenire le conseguenze derivanti dalla mancanza, anche solo temporanea, del titolare. Carattere peculiare della supplenza è la preventività, vale a dire l’individuazione ab origine del supplente prima che si verifichino i fatti legittimanti del suben‑ tro da parte del supplente al supplito. La designazione preventiva del supplen‑ te porta con sé una evidente conseguen‑ za sul piano logico, ancor prima che giuridico: essa attua una preposizione in via straordinaria di un’altra persona all’ufficio ordinario, creando una dupli‑ ce titolarità della carica. Nel Capitolo V, inoltre, il tema del ruolo del supplente all’interno del colle‑ gio sindacale è arricchito da numerosi spunti di riflessione anche legati alla figura del sindaco unico di recente in‑ troduzione nell’ordinamento italiano. Con specifico riferimento all’ambito societario, è proposta una distinzione tecnica fra supplenza di persone e sup‑ plenza di organo: mentre nella prima si ha la sostituzione del titolare impedito o assente ad opera di un’altra persona, conseguendo di tal fatta la continuità funzionale della struttura, nella secon‑ da si ha, invece, uno spostamento – tem‑ poraneo o per quel singolo atto – delle competenze, che diventano pertanto di competenza dell’organo supplente. La supplenza di persone è analizza‑ ta attraverso la disamina attenta del contenuto e della portata degli artt. 2397 e 2401 c.c. relativi al collegio sindacale, ed interessanti considerazioni sono svolte, poi, sull’operatività della clausola simul stabunt simul cadent, sulla derogabilità pattizia del funziona‑ mento della stessa e sull’estensibilità re c ens i on i (poi negata) del meccanismo in parola anche all’organo di controllo. La supplenza di organo, invece, appare più nascosta ed è ravvisata dall’Autore nella dialettica organo am‑ ministrativo-organo di controllo, deli‑ neata dall’art. 2406 c.c. in forza del quale: ‘‘In caso di omissione o di ingiu‑ stificato ritardo da parte degli ammini‑ stratori, il collegio sindacale deve con‑ vocare l’assemblea ed eseguire le pub‑ blicazioni prescritte dalla legge’’ e dall’art. 2446 primo comma c.c. ove si legge: ‘‘Quando risulta che il capitale é diminuito di oltre un terzo in conse‑ guenza di perdite, gli amministratori o il consiglio di gestione, e nel caso di loro inerzia il collegio sindacale ovvero il consiglio di sorveglianza, devono senza indugio convocare l’assemblea per gli opportuni provvedimenti’’. Sempre in un’ottica di chiarezza espositiva, l’analisi ha volutamente con‑ trapposto il regime legale di operatività di prorogatio e supplenza con quelli che sono i margini di intervento dell’auto‑ nomia statutaria al riguardo (in parti‑ colar modo nell’alveo della società a responsabilità limitata); interessanti sono, poi, le soluzioni operative (anche redazionali) suggerite per i casi in cui il problema debba essere affrontato nell’ambito delle società di persone (Titolo II del Capitolo III). La monografia assume carattere tra‑ sversale in seno al Capitolo VI nel quale, per oltre 50 pagine (arricchite da un ampio corredo di note richiamanti dot‑ trina nazionale e francese), il problema della prorogatio dei poteri è affrontato con riferimento alle società pubbliche. L’attenzione si concentra su tre macroaree: a) l’analisi della portata del novel‑ lato art. 2449 c.c. (anche alla luce dei numerosi input comunitari); b) l’applica‑ bilità dello stesso articolo alle sempre più diffuse società a responsabilità limitata pubbliche; c) il carattere paradigmatico della speciale disciplina di prorogatio contenuta nella legge n. 444/1994. Gazzetta F O R E N S E La monografia dimostra il suo am‑ pio respiro, poi, soprattutto nei Capito‑ li finali. Nel Capitolo VIII, ad esempio, il tema della continuità di funzionamen‑ to degli organi è analizzato in riferi‑ mento alla fase di scioglimento e liqui‑ dazione, durante la quale muta la fina‑ lità stessa della continuità delle funzio‑ ni sia rispetto all’organo amministrati‑ vo, sia a quello liquidatorio e nella quale assumono rilievo tratti pubblici‑ stici (quali, ad esempio, la tutela dei creditori). Nel Capitolo IX, invece, sono distin‑ te le ipotesi reali e le ipotesi “solo appa‑ renti” di prorogatio nel complesso con‑ testo della variazione dei sistemi di go‑ vernance, sotto la vigenza del novellato art. 2380 c.c., ed una disamina specifica è dedicata alla fattispecie di modifica del sistema di governance adottata con‑ testualmente al perfezionamento di una operazione straordinaria. Dal punto di vista sistematico l’ope‑ ra - assolutamente innovativa nei conte‑ nuti e nelle soluzioni prospettate - ha l’indiscusso pregio di indagare un terre‑ no poco battuto in precedenza dalla dottrina, nonché di mirare sempre alla ricerca di un giusto equilibrio fra profi‑ lo teorico e vaglio della prassi professio‑ nale, come è testimoniato dal richiamo costante (e sovente critico) degli orien‑ tamenti maturati in questi ultimi anni nei differenti Consigli Notarili di Mila‑ no, delle Tre Venezie, di Firenze e, da ultimo, di Napoli. Concludendo, può certamente affer‑ marsi che lo studio monografico di Pa‑ olo Divizia, per quanto denso di conte‑ nuti teorici ed ospitato in una Collana di alta tradizione accademica quali sono i Quaderni di Giurisprudenza commer‑ ciale editi dalla Giuffré e diretti da Renzo Costi, offre anche numerose so‑ luzioni di taglio operativo per avvocati e notai in esercizio (con la sola accor‑ tezza di ricercale nel corpo delle note, per evitare, evidentemente, un eccessivo appesantimento del corpo del testo). Indice delle sentenze Diritto e procedura civile CORTE DI APPELLO App. Napoli, sez. I, 12.07.2012, n. 3685 s.m. CORTE DI CASSAZIONE Cass. civ., sez. II, 07.08.2012, n. 14222 s.m. Cass. civ., sez. II, 03.08.2012, n. 14107 s.m. Cass. civ., sez. II, 24.07.2012, n. 12937 s.m. Cass. civ., sez. II, 24.07.2012, n. 12923 s.m. Cass. civ., sez. lav., 20.07.2012, n. 12693 s.m. Cass. civ., sez. II, 17.07.2012, n. 12289 s.m. Cass. civ., sez. un., 16.07.2012, n. 12103 s.m. Cass. civ., sez. I, 11.07.2012, n. 11644 s.m. Cass. civ., sez. un., 04.07.2012, n. 11135 s.m. Cass. civ., sez. II, 10.04.2012, n.5692 (con nota di D’Alessandro) TRIBUNALE Trib. Nola, coll. A), 18.07.2012, n. 1974 s.m. Trib. Nola, coll. B), 28.06.2012, n. 1743 s.m. Trib. Nola, coll. B), 14.06.2012, n. 1571 s.m. Trib. Nola, coll. B), 14.06.2012, n. 1568 s.m. Trib. Nola, coll. B), 14.06.2012, n. 1566 s.m. Trib. Nola, coll. A), 13.06.2012, n. 1559 s.m. Trib. Nola, coll. D), 06.06.2012, n. 1483 s.m. Trib. Nola, coll. C), 25.05.2012, n. 1356 s.m. Trib. Nola, coll. B), 25.05.2012, n. 1355 s.m. CORTE D’APPELLO App. Potenza, sez. Lav., 09.03.2012, n. 170 (con nota di Sorrentino) TRIBUNALE Trib. Napoli, sez. VII, 19.06. 2012 s.m. Trib. Napoli, sez. VIII , 07 giugno 2012, n. 6891 (con nota di Micillo) Trib. Nola, sez. II, 04.06.2012 s.m. Trib. Napoli, sez. I, 04.06.2012 s.m. Trib. Napoli, sez. X, 01.06.2012 s.m. Diritto e procedura penale CORTE DI CASSAZIONE Cass. pen., sez.un., 18.07.2012 n. 28997 (con nota di Pignatelli) Cass. pen., sez.un., 17.07.2012, n. 28719 (con nota di Pignatelli) Cass. pen., sez.un., 21.06.2012, n. 28717 (con nota di Pignatelli) Cass. pen., sez.I, 19.06.2012, n. 25076 s.m. Cass. pen., sez. III, ord. 13.06.2012, n. 25170 s.m. Cass. pen., sez. I, 10.05.2012, n. 22643 s.m. Cass. pen., sez. IV, 03.05.2012, n. 23155 s.m. Cass. pen., sez. V, 27.04.2012, n. 24125 s.m. Cass. pen., sez. IV, 26.04.2012, n. 22338 s.m. Cass. pen., sez.un., 29.03.2012, n. 27996 s.m. Cass. pen., sez.un., 29.03.2012, n. 25457 s.m. Cass. pen., sez. V, 29.03.2012, n. 23091 s.m. Cass. pen., sez. VI, 06.03.2012, n. 25120 s.m. Cass. pen., sez. I, 11.01.2012, n. 25041 s.m. g.i.p / g.u.p. Trib. Nola, sent. 30.7.2012, n. 334 s.m. Diritto amministrativo CONSIGLIO DI STATO Cons. Stato, Ad. Plen., 31.07.2012, n.31 s.m. Cons. Stato, Ad. Plen., 26.07.2012, n.30 s.m. Cons. Stato, Ad. Plen., 18.07.2012, n.27 s.m. Cons. Stato, Ad. Plen., 05.07.2012, n.26 s.m. Cons. Stato, Ad. Pl., 07.06.2012, n.21 s.m. Cons. Stato, sez.V, 14.05.2012, n. 2745 s.m. T.A.R. T.a.r. Campania, Napoli, sez. I, 18.06.2012, n.3480 s.m. Diritto internazionale CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA C.G.U.E., sez. I, 05.07.2012, Causa C318/10 (con nota di Romanelli) C.G.U.E. , sez. III, 06. 09.2012, Causa C262/10 (con nota di Romanelli) CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO C.E.D.U., sez. II., 28.08.2012, proc. n. 54270/10 (con nota di Romanelli)