Gazzetta Forense n. 4 del 2012

annuncio pubblicitario
Gazzetta
F O R E N S E
Bimestrale
Anno 5 – Luglio‑Agosto 2012
direttore responsabile
Roberto Dante Cogliandro
comitato di direzione
Almerina bove
Corrado d’ambrosio
Alessandro jazzetti
redazione
capo redattore
Mario de Bellis
redazione gazzetta forense
Valeria D’Antò, Melania DuratuRo, Anna Eliseo
editore
Denaro Libri Srl, presso la Mostra d'Oltremare, viale Kennedy, 54 – 80125 Napoli
proprietario
Associazione: Nemo plus iuris
comitato di redazione
Andrea Alberico
Giuseppe amarelli
Antonio ArdituRO
Clelia Buccico
Carlo Buonauro
Sergio Carlino
Raffaele Cantone
Matteo D’Auria
Domenico De Carlo
Mario de Bellis
Andrea Dello Russo
Clelia iasevoli
Rita Lombardi
Raffaele Manfrellotti
Catello MARESCA
Giuseppina MAROTTA
Daniele Marrama
Raffaele MICILLO
Maria Pia Nastri
Giuseppe Pedersoli
Angelo Pignatelli
Ermanno Restucci
Francesco Romanelli
Raffaele Rossi
Angelo Scala
Gaetano scuotto
Mariano Valente
comitato scientifico
Fernando Bocchini
Antonio Buonajuto
Aurelio Cernigliaro
Lorenzo Chieffi
Giuseppe Ferraro
Gennaro MARASCA
Antonio Panico
Giuseppe Riccio
Giuseppe Tesauro
Renato Vuosi
n. registraz. tribunale
N. 21 del 13/03/2007
finito di stampare da
360° ‑ Roma – nel settembre del 2012
SOMMARIO
Editoriale
[ A cura di Roberto Dante Cogliandro ]
Diritto e procedura civile
Controllo notarile e questioni di legittimità costituzionale
9
Raffaele Manfrellotti
L'indennizzo ai medici specializzandi: risarcimento per tardivo recepimento
delle direttive comunitarie e dilatazione del termine prescrizionale 12
Riccardo Esposito
Licenziamentoantisindacale: rilevanza delle dinamiche del caso per l’esclusione
dell’insubordinazionee del danno alla produttività 22
Nota a Corte di Appello di Potenza, sez. lav., 23 febbraio 2012, n. 170
Ida Sorrentino
Rassegna di legittimità [A cura di Corrado d’Ambrosio]
52
Rassegna di merito [A cura di Mario De Bellis e Daniela Iossa]
54
In evidenza
Tribunale di Napoli, sez. VIII civile, sentenza 07 giugno 2012, n. 6891
[Nota redazionale a cura di Raffaele Micillo]
Corte di Cassazione, sezione II civile
sentenza 10 aprile 2012, n. 5692
[Nota redazionale a cura di Pietro d’Alessandro]
57
70
Diritto e procedura penale
I contenuti positivi della prevenzione speciale e il diritto all’educazione
del minore autore di reato
75
Clelia Iasevoli
Relazione introduttiva sull’incidenza delle fonti comunitarie e internazionali
nel nostro ordinamento penale
80
Vittorio Ambrosio
La nuova disciplina del falso in attestazioni e relazioni del professionista
nella legge fallimentare
85
Federico Baffi
I contrasti risolti dalle Sezioni unite penali
91
A cura di Angelo Pignatelli
Rassegna di legittimità [
Rassegna di merito [
A cura di Alessandro Jazzetti e Andrea Alberico ]
A cura di Alessandro Jazzetti e Giuseppina Marotta ]
95
98
Diritto amministrativo
Sistema Idrico Integrato. Moduli Gestionali e determinazione delle tariffe
107
Alessandro Barbieri
Eccezione di compromesso, bando di gara e capitolato di appalto:
questioni e brevi riflessioni 113
Francesco Rinaldi
Rassegna di giurisprudenza sul Codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture 119
(d.lgs. 12 Aprile 2006, n. 163 e ss. mm.)
A cura di Almerina Bove
Diritto tributario
La tutela contro gli atti dell’esecuzione esattoriale 123
Achille Benigni
Diritto internazionale
Rassegna di diritto comunitario 131
A cura di Francesco Romanelli
Questioni
[ A cura di Mariano Valente ]
Può la pubblica Amministrazione rifiutarsi di adempiere un contratto di appalto
nel caso in cui l'impresa aggiudicatrice, pur avendo eseguito
regolarmente la propria prestazione, versi in una condizione di irregolarità
ai fini del D.U.R.C.? / Elisa Asprone
135
Se ed entro che limiti si configura il reato di abuso d’ufficio ex art. 323 c.p. con riguardo all’attività discrezionale della Pubblica Amministrazione / Anna Sofia Sellitto 138
La tutela cautelare nel giudizio amministrativo alla luce delle novità
contenute nel codice del processo amministrativo:
ai fini della rapida definizione della controversia nel merito
è ammessa la tutela cautelare, oppure l’applicazione dell’art. 55
comma 10 del c.p.a. rappresenta un’alternativa rispetto
alla concessione dell’istanza cautelare? / Maria Teresa Della Vittoria Scarpati 141
Recensioni
Il principio di continuità di funzionamento degli organi nelle società di capitali,
Paolo Divizia, in Quaderni di Giurisprudenza commerciale n. 350, Milano, 2011
Flora Caputo
147
Gazzetta
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
●
Accesso alle professioni:
servono modifiche
● Roberto Dante Cogliandro
Notaio
2 0 1 2
5
Quasi in pieno ferragosto il ministro della giustizia Paola
Severino si è soffermata sulla crisi dell’avvocatura in partico‑
lare, di cui il ministro fa parte, sollecitando il Parlamento e
forse lei stessa alla ripresa autunnale a mettere mano ad una
riforma strutturale ed organica sia dell’avvocatura vigente che
delle sue modalità di accesso. Ed è proprio sull’accesso che
vogliamo fare qualche breve osservazione propositiva, nella
speranza che realmente prima della fine della legislatura que‑
sto governo, dotato di ampissima maggioranza, voglia rivisi‑
tare ed adeguare ai tempi, nonché alla situazione che purtrop‑
po si è venuta a creare, ciò che da secoli costituisce uno dei
vanti del nostro pur criticato Paese Italia: il giurista o meglio
l’operatore del diritto.
Il mondo dell’accesso alle professioni post laurea in giuri‑
sprudenza ha attraversato e tuttora vive una profonda crisi
esistenziale e di identità al cospetto delle reali richieste che il
paese richiede ed offre. Mi riferisco in particolare al grosso
scollamento venutosi a creare negli ultimi tempi tra la forma‑
zione universitaria e l’accesso al mondo del lavoro o meglio
delle professioni. Purtroppo la semplificazione del sistema
universitario voluto nell’ultimo decennio ha provocato inevi‑
tabilmente delle ripercussioni sul mondo delle professioni.
Queste infatti se da un lato hanno cercato di resistere alla
cosiddetta semplificazione diffusa, dall’altro fronte si sono
adeguate a un tale sistema semplicistico ed anno rotto i propri
argini a favore del motto “tanto poi la selezione è giusto che
la fa il mercato”. Concetto quest’ultimo intriso di un certo
liberismo che nel mondo delle professioni legali fa solo danni
e non serve al sistema paese.
Infatti l’accesso all’avvocatura è per decenni diventato una
sorta di formalità dove nessun filtro serio ed efficace in nome
della preparazione dei candidati viene fatto. Ed ecco i risulati
che dopo circa vent’anni l’Italia si ritrova un numero spropo‑
sitato di legali che il mercato non riesce ad assorbire. Tutta
colpa della maledetta volontà liberalizzatrice che negli ultimi
anni è di moda nel nostro Paese. Di riflesso anche il mondo
della magistratura e del notariato ne hanno risentito se si
pensa per la prima alla riduzione a due delle prove scritti per
il pubblico concorso e per il secondo all’eliminazione di alcu‑
na forma di preselezione prima di poter arrivare a sostenere le
tre prove scritte.
Così conversando e discutendo con chi si è trovato ad es‑
sere commissario in una delle prove innanzi dette il sentire è
ahimè quasi unanime nel manifestare un calo del livello di
preparazione dei candidati negli ultimi anni e nel caso dell’av‑
vocatura nell’impotenza di un sistema di accesso che ormai
inesorabilmente necessita di una radicale rivisitazione se non
si vuole portare a distruzione quanto ci è invidiato da molti
paese europei.
Ed allora perché non introdurre per l’accesso all’avvocatu‑
ra forme di preselezione che garantiscono comunque un certo
filtro alle prove scritte che devono essere fatte con adeguati
controlli da parte del ministero così da evitare la pratica degli
elaborati fotocopia diffusa negli ultimi anni. Inoltre dato
l’elevato numero di partecipante e la difformità di giudizio tra
le varie sub commissioni che in tempi brevissimi sono tenute
alla correzione perché non spostare il bando da annuale a ogni
due anni. Così certamente ne varrà la maggiore attenzione
nella correzione dei compiti e soprattutto i candidati saranno
naturalmente disincentivati dall’andare a tentare la prova
6
e d i t o r i a l e
senza alcuna pur minima preparazione necessaria.
Altro capitolo è certamente quello delle scuole di specializ‑
zazione delle professioni legali. Così come sono state concepi‑
te e come da quasi dieci anni funzionano non vanno. Innanzi‑
tutto perché la specializzazione dell’approccio avviene solo al
secondo anno, quando invece che vuole studiare per il concor‑
so notarile ad esempio nulla gli interessa delle discipline pena‑
listiche. E così il primo anno si riduce in un’inue perdita di
tempo dove invece il neo laureato potrebbe da subito concen‑
trarsi sugli argomenti che interessano le prove d’accesso. Altro
ma tutt’altro che secondario problema è quello della capacità
dei neo laureati di scrivere argomenti di diritto. Purtroppo
l’università italiana non è una palestra in tal senso ed allora
solo una volta conseguita la laurea e deciso di intraprendere
un pubblico concorso il novello laureato si imbatte di fronte a
questa nuova e complessa prova: far capire a chi ci legge che
Gazzetta
F O R E N S E
determinati argomenti ci sono chiari; cosa spesso molto com‑
plessa e che necessita di lunghe esercitazioni. Occorre che la
facoltà di Giurisprudenza si doti di prove scritte e volte a met‑
tere alla prova in candidato rispetto ad un foglio bianco.
Solo attraverso il ritorno alla massima meritocrazia ed ad
un sistema di selezione valido ed efficace la nostra avvocatu‑
ra potrà tornare ad essere tra qualche decennio ciò che è
stata nei secoli, il cuore della creatività giuridica e della mas‑
sima eloquenza. Chi ci governa deve rendersi conto che la
forte liberalizzazione delle professioni degli ultimi anni ha
finito per imbastardire il mondo dell’avvocatura a danno
della coesione sociale e del ruolo chiave che è da sempre chia‑
mata a svolgere nelle aule giudiziarie. La ricerca della qualità
dovrà essere il live motive dell’azione del ministro Severino
per una riforma organica dell’intero mondo delle professioni
e del suo accesso.
Diritto e procedura civile
Controllo notarile e questioni di legittimità costituzionale
9
Raffaele Manfrellotti
L'indennizzo ai medici specializzandi: risarcimento per tardivo recepimento
delle direttive comunitarie e dilatazione del termine prescrizionale 12
Riccardo Esposito
Licenziamentoantisindacale: rilevanza delle dinamiche del caso per l’esclusione
dell’insubordinazionee del danno alla produttività 22
Nota a Corte di Appello di Potenza, sez. lav., 23 febbraio 2012, n. 170
Ida Sorrentino
Rassegna di legittimità [A cura di Corrado d’Ambrosio]
52
Rassegna di merito [A cura di Mario De Bellis e Daniela Iossa]
54
Tribunale di Napoli, sez. VIII civile, sentenza 07 giugno 2012, n. 6891
[Nota redazionale a cura di Raffaele Micillo]
Corte di Cassazione, sezione II civile
sentenza 10 aprile 2012, n. 5692
[Nota redazionale a cura di Pietro d’Alessandro]
57
70
civile
In evidenza
F O R E N S E
●
Controllo notarile e
questioni di legittimità
costituzionale
● Raffaele Manfrellotti
Ricercatore di Istituzioni di diritto pubblico
presso l’Università di Foggia
l u g l i o • a g o s t o
2 0 1 2
9
Si è spesso sottolineata1 la sostanziale disomogeneità degli
orientamenti della Corte costituzionale in materia di possibi‑
lità di qualificare un dato organo come “giudice a quo” ai
fini della proposizione della questione di legittimità costitu‑
zionale. La Corte ha “serrato e dissertato” le porte del proces‑
so costituzionale secondo criteri talvolta difficilmente com‑
prensibili attraverso gli strumenti del puro ragionamento
giuridico, riconoscendo talvolta tale qualifica ad organi aven‑
ti natura certamente amministrativa 2 , e negandola invece de‑
cisamente dove forse sarebbe stato opportuna una riflessione
più ponderata.
È questo il caso dell’affermata esclusione dal novero dei
soggetti competenti a sollevare la questione di legittimità co‑
stituzionale dei notai nell’esercizio delle proprie funzioni, che
la Corte ha seccamente “stroncato”3 senza, tuttavia, argomen‑
tazioni realmente persuasive, quanto meno alla luce della sua
giurisprudenza precedente.
Senza addentrarsi in considerazioni circa la natura delle
funzioni esercitate dal notaio4 nella prospettiva della teoria
generale del diritto, si possono certamente enucleare i seguen‑
ti dati incontrovertibili: a) il notaio è un pubblico ufficiale che
b) esercita fra l’altro la funzione di “attribuire pubblica fede”
agli atti che è competente a ricevere ai sensi dell’art. 1 della
legge notarile.
La ratio della presenza nel sistema dell’ufficio notarile ri‑
posa dunque sull’esigenza di certezza. Da questo punto di vi‑
sta, le funzioni svolte dal notaio presentano certamente una
matrice comune con l’attività di accertamento esercitata dal
giudice, di cui si può dire, con autorevole dottrina5, che l’ac‑
certamento rappresenta il nucleo essenziale di tutti gli atti che
esso può adottare. Ma vi è di più: ai sensi dell’art. 28 della
legge notarile, il notaio esercita altresì un controllo di liceità
sugli atti di autonomia privata cui è chiamato ad attribuire
fede pubblica, stante il divieto di rogare atti contrastanti con
norme di legge. La statuizione in merito alla possibilità di
rogare o meno un determinato atto, che certamente non è
priva di effetti sulle posizioni soggettive della parte o delle
parti interessate all’atto, può certamente considerarsi avente
un contenuto lato sensu decisiorio.
Alle considerazioni espresse va aggiunto un duplice ordine
di constatazioni. In primo luogo, agli atti notarili (o quanto
meno ad alcuni di essi) è attribuita la stessa efficacia di titolo
esecutivo (art. 474 c.p.c.) e la stessa efficacia probatoria
(art. 2700 c.c.) che è riconosciuta alle decisioni giurisdiziona‑
li. In secondo luogo, il notaio svolge funzioni assolutamente
fungibili rispetto a quelle del giudice, che pertanto possono
considerarsi partecipare alla medesima natura. Si pensi alla
possibilità di deferire le operazioni relative alla divisione giu‑
risdizionale ad un notaio da parte dell’autorità giudiziaria ai
sensi dell’art. 730 c.c.; ma più a monte, si pensi alla stessa
possibilità di escludere l’intervento dell’autorità giudiziaria
qualora lo scioglimento della comunione avvenga per contrat‑
1
2
3
4
5
Da ultimo, da Patroni Griffi, Accesso incidentale e legittimazione degli
“organi a quo”, Napoli, 2012, pp. 41 ss.
Cfr. Corte cost., sent. 9/07/1970 n. 121.
Corte cost., ord. n. 52 del 2003.
Su cui ampiamente Lasagna, Il notaro e le sue funzioni, Genova, 1974, pas‑
sim.
Chiovenda, Principii di diritto processuale civile, Napoli, 1965, pp. 134 ss.
civile
Gazzetta
10
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
to, cui deve necessariamente partecipare un notaio quanto
meno nell’ipotesi in cui esso abbia ad oggetto beni immobili
ai sensi dell’art. 2646 c.c. Il che è quanto dire che l’effetto
divisorio rimesso alla sentenza è il medesimo di quello attri‑
buito all’atto notarile di scioglimento della comunione.
Ma si pensi, altresì, al controllo notarile sulla costituzione
e sulle modifiche dello statuto delle società di capitali
(art. 2330 e art. 2436 c.c.), controllo che ha sostituito quello
del giudice originariamente previsto in sede di omologazione6.
Appare evidente che la sostituzione è possibile solo ove si
ammetta una qualche omogeneità tra le funzioni svolte dai
due organi, quanto meno nella prospettiva di garanzia degli
interessi pubblici sottesi ai controlli relativi agli statuti socie‑
tari. Ai fini delle presenti considerazioni, tale fattispecie
presenta notevoli profili di interesse.
Invero la Corte costituzionale7 ha affermato la legittima‑
zione del giudice a sollevare la questione di legittimità costi‑
tuzionale anche in sede di volontaria giurisdizione relativa
all’omologazione dello statuto delle società di capitali, ovvia‑
mente al tempo in cui esso era previsto. La Corte non ebbe
allora difficoltà ad ammettere la natura oggettivamente pro‑
cessuale (ai limitati fini dell’art. 23 della legge n. 87 del 1953)
dell’attività di controllo del giudice omologante, sulla base del
“preminente interesse pubblico della certezza del diritto (che
i dubbi di costituzionalità insidierebbero) insieme con l’altro
dell’osservanza della Costituzione”8.
Nell’ordinamento attuale, la stessa funzione e le stesse
finalità che prima del 2003 erano attribuite al procedimento
di omologazione sono attribuite al notaio. Si avrebbero serie
perplessità ad escludere la possibilità del notaio di sollevare
la questione di legittimità costituzionale sulla mera conside‑
razione che esso non è un giudice, in primo luogo perché la
natura di giudice dell’organo remittente non è mai stata una
condicio sine qua non della proponibilità della questione, in
secondo luogo perché si addiverrebbe all’assurdo logico per
cui la medesima funzione, che sottende i medesimi interessi
giuridicamente rilevanti, si vedrebbe aperte o chiuse le porte
del Palazzo della Consulta solo che si vedesse attribuita dalla
legge ad un organo piuttosto che ad un altro.
In conclusione sul punto, l’evoluzione del sistema del co‑
dice civile in materia di controlli societari esclude, ancora più
che in passato, che possa considerarsi il ruolo del notaio asso‑
lutamente non ragguagliabile a quello del giudice, ai fini della
proposizione della questione di legittimità costituzionale.
Altro è il problema di inquadrare l’accesso alla Corte co‑
stituzionale del notaio all’interno della recente giurispruden‑
za costituzionale che, come è noto, pone significative restri‑
zioni in tal senso per quanto concerne i poteri del giudice a
quo (astrattamente considerati).
Un primo profilo concerne l’interpretazione “additiva”
dell’art. 1 della legge cost. n. 1 del 1948 e dell’art. 23, co. II,
della legge n. 87 del 1953, che ha aggiunto, accanto ai requi‑
siti della rilevanza e della non manifesta infondatezza della
questione quali valutazioni preliminari alla remissione della
6
Sulla natura del controllo notarile e sul suo raffronto con l’attività del giudice,
G. F. Campobasso, Diritto commerciale 2. Diritto delle società, VIII ed. a cura
di M. Campobasso, Torino, 2012pp. 161 ss.
7 Sent. n. 129 del 1957.
8 Corte cost., sent. n. 129 del 1957, punto 1 del Considerato in diritto.
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
stessa alla Corte, anche il requisito dell’impossibilità di un’in‑
terpretazione conforme alla Costituzione della norma impu‑
gnata9. L’interpretazione adeguatrice costituisce il corollario
di una concezione della Costituzione non limitata a fungere
da parametro di validità degli atti, ma soprattutto ad espri‑
mere la tavola di valori cui il sistema giuridico è ispirato e che
deve, pertanto, vincolare l’interprete nella ricerca del signifi‑
cato delle disposizioni che deve applicare.
L’obbligo di interpretazione conforme modifica il sistema
di accesso alla Corte, originariamente concepito come possi‑
bile solo che vi fosse un fumus di incostituzionalità dell’atto
legislativo da applicare; il subordinare l’intervento della Corte
all’esclusione di un risultato ermeneutico conforme alla Costi‑
tuzione avvicina, infatti, il requisito della non manifesta infon‑
datezza ad una certezza negativa, tale da consentire l’interven‑
to della Corte solo quando la norma non può essere in nessun
modo resa compatibile con il sistema costituzionale.
Peraltro, non risultano chiari i limiti che incontra tale
attività ricostruttiva10. In particolare, potrebbe risultare assai
ardua la distinzione tra interpretazione conforme alla Carta
di una norma e sua disapplicazione, anche parziale, al fine di
renderla compatibile con l’ordinamento. Quest’ultimo risul‑
tato, anzi, è parso persino, in qualche misura, auspicato dal
“nuovo corso” che la stessa Corte ha impresso alla sua giuri‑
sprudenza attraverso una serie di ardite sentenze interpreta‑
tive di rigetto11; a patto, naturalmente, che il giudice non
utilizzi il termine disapplicazione al fine di salvaguardare
l’immagine di un sistema in cui gli si vorrebbe preclusa qual‑
sivoglia deliberazione sulla validità delle norme che esso deve
applicare.
Non vi è dubbio che la ricostruzione su esposta, elaborata
dalla giurisprudenza costituzionale a proposito della figura del
giudice a quo, debba ritenersi applicabile altresì al notaio
qualora gli si riconosca la funzione di sollecitare una pronun‑
zia costituzionale in sede di accesso incidentale alla Corte, e
che pertanto lo stesso notaio sia soggetto all’obbligo di inter‑
pretazione della legge in conformità alla carta costituzionale.
Un ulteriore profilo concerne il sindacato diffuso sulla
compatibilità delle leggi nazionali con le norme comunitarie.
Pur senza volere entrare nel merito di tale problema, si può
osservare che l’integrazione comunitaria abbia avuto un ef‑
fetto (culturale, prima che giuridico) dirompente quanto
all’erosione del dogma dell’intangibilità della legge da parte
dei giudici. Costituisce jus receptum il principio per cui la
magistratura (e non soltanto) può disapplicare gli atti legisla‑
tivi in contrasto con norme comunitarie. L’impostazione
tradizionale, tuttavia, non ha mai chiarito come la limitazio
9Tra le ultime pronunzie in materia, Corte cost., sent. 22 febbraio‑3 marzo 2006,
n. 86, in Giur Cost., 2006, pp. 910 ss.
10 Ampiamente, anche per ulteriori riferimenti, G. Sorrenti, L’interpretazione
conforme a Costituzione, Milano, 2006, pp. 114 ss. e pp. 153 ss. per un ac‑
curato esame della prassi.
11Tra le tante, Corte cost., sent. 22 luglio 2005, n. 299, in Giur. cost., 2005,
pp. 2917 ss.
Sul punto, anche per ulteriori riferimenti, L. Carlassare, Perplessità che
ritornano sulle sentenze interpretative di rigetto, in Giur. cost., 2001,
pp. 191 ss.; M. Esposito, “In penetrabilis pontificum repositum erat”:
brevi considerazioni sulla parabola discendente del diritto scritto, in Giur.
cost., 2004, pp. 3018 ss.; R. Romboli, Interpretazione conforme o disap‑
plicazione della legge incostituzionale?, in Foro it., 2006, I, pp. 3323 ss.
Gazzetta
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
2 0 1 2
11
civile
ne di tale rimedio alla categoria dell’“illegittimità comunita‑
ria” possa ritenersi coerente con il principio costituzionale
fondamentale rappresentato dall’art. 3 Cost., in ragione della
“discriminazione alla rovescia” che essa opera tra gli interes‑
si lesi a seconda che il parametro dell’illiceità dell’atto lesivo
sia nazionale o comunitario.
La fattispecie in esame sarebbe, comunque, diversa dal
controllo di costituzionalità e non avrebbe rilevanza che quale
espressione di una generale valorizzazione dell’interprete nel
sindacato sugli atti del parlamento. Non vi è dubbio infatti,
alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia, che a
prescindere dalla possibilità di qualificarlo giudice a quo ai
fini della questione di legittimità costituzionale al notaio
debba essere riconosciuto il potere‑dovere di disapplicare
norme di legge in contrasto con il diritto comunitario12. In‑
vece, dopo l’introduzione del primo comma dell’art. 117 Cost.
essa assume un importanza non marginale nella prospettiva
della ricostruzione sistemica del sindacato di legittimità
sugli atti legislativi anche quando viziati da illegittimità cos‑
tituzionale13.
12 Si confronti il principio di diritto espresso a proposito dell’amministrazione da
Corte di Giustizia, sent. 22 giugno 1989, c. 103/88, Fratelli Costanzo, in Riv.
it. Dir. pubbl. com., 1991, pp. 423 ss., con nota di Marzona.
13 Per qualche ulteriore considerazione sul punto, che esulerebbe dalla prospetti‑
va del presente lavoro, sia consentito il rinvio a R. Manfrellotti, Sistema
delle fonti e indirizzo politico nelle dinamiche dell’integrazione europea, Torino,
2004, pp. 200 ss.
12
D i r i t t o
e
●
L'indennizzo ai medici
specializzandi:
risarcimento
per tardivo recepimento
delle direttive comunitarie
e dilatazione
del termine
prescrizionale
● Riccardo Esposito
Dottore in Giurisprudenza
p r o c e d u r a
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
Sommario: Premessa. – 1. Analisi della vicenda e degli orien‑
tamenti giurisprudenziali più recenti. – 1.1 Principi essenziali
in tema di prescrizione del diritto al risarcimento danni deri‑
vanti da una ritardata o omessa attuazione di una direttiva
non self‑executing. – 1.2 Periodo entro il quale l’Italia è stata
soggetta al vincolo di recepimento delle direttive e nel quale i
medici specializzandi avrebbero potuto maturare crediti risar‑
citori. – 1.3 Contratto o illecito aquiliano? – 1.4 Il dies a quo
della prescrizione (esclusione del 1o gennaio 1983). – 1.5 Esclu‑
sione della giurisprudenza anche delle date di pubblicazione
delle sentenze Francovich e Brasserie du Pécheur quale dies a
quo, e qualificazione della condotta inadempiente dello Stato
italiano quale recepimento soggettivamente parziale delle di‑
rettive; – 1.6 Ipotesi in cui anche l’inadempimento parziale
soggettivo dell’obbligo di recepimento della direttiva si tradu‑
ce in un illecito istantaneo: individuazione del dies a quo nel
il 27 ottobre 1999. – 1.7 Sintesi – 2. Critica dell’orientamento
espresso da giudici di legittimità che ha fissato il dies a quo del
termine prescrizionale al 27 ottobre 1999 ed ha qualificato
come contrattuale la responsabilità dello Stato. – 2.1 Illogici‑
tà della distinzione tra inadempimento parziale oggettivo e
soggettivo ai fini della qualificazione come istantaneo o per‑
manente dell’illecito statuale. – 2.2 Tutela del legittimo affi‑
damento riposto dallo Stato nei precedenti della Corte di
Cassazione, alla luce dei quali la responsabilità dello Stato da
parziale recepimento di una direttiva non self‑executing dove‑
va qualificarsi come aquiliana e quale dies a quo del relativo
termine prescrizionale doveva individuarsi, al massimo, la
data dell’entrata in vigore del D.lgs. n. 257/1991. – 2.2.1 (Se‑
gue) Il giudizio positivo sulla correttezza della condotta sta‑
tuale ai sensi degli artt. 1175 e 1227, comma 2, c.c. – 2.2.2
(Segue) Il giudizio positivo sulla correttezza della condotta
statuale e l’inescusabilità delle omissioni difensive dei medici
alla luce del mutamento giurisprudenziale in tema di prescri‑
zione, in ragione della ratio e della natura di preclusione pro‑
cessuale di quest’ultima. – 3. Valutazioni conclusive.
Premessa
La vicenda dell’indennizzo comunitario dovuto ai medici
specializzandi per la partecipazione alle scuole di specializza‑
zione continua ad impegnare i giudici nazionali ed all’esito
della più recente giurisprudenza di legittimità si conferma
quale vera e propria storia infinita1.
Da ultimo, la Corte di Cassazione2 ha ribadito che il diritto
dei medici specializzandi al risarcimento del danno da inadem‑
pimento della direttiva 82/76/CE è soggetto a termine prescri‑
zionale decennale, dando continuità ad un innovativo orienta‑
mento delle Sez. Un.3, e ne ha individuato come dies a quo il
giorno 27 ottobre 1999 data in cui è entrato in vigore l’art. 11
della legge n. 370 del 1999: in pratica è stato dilatato di ben
1M. Gorgoni, “La difficile costruzione delle regole risarcitorie per violazione
statale di obblighi comunitari”. La responsabilità civile. VII (2010): 3: pp. 187;
A. Di Majo, “I diritti dei medici specializzandi e lo Stato inadempiente”, Cor‑
riere Giur., 2011, 10, p. 1411 “Contratto e torto nelle violazioni comunitarie
ad opera dello Stato”, Corriere Giur. (2009), 10, p. 1352.
2 Cass. Sez. Lavoro sent. n. 1850 dell'8 febbraio 2012 e Cass. civ. Sez. III, sent.
n. 1182 del 27 gennaio 2012 che danno continuità all'orientamento espresso da
Cass. Civ, Sez. III, sentenze n. 17868 del 31 agosto 2011 e nn. 10813, 10814,
10816 del 17 maggio 2011
3 Cass. Sez. Un., sent. n. 5842 del 10 marzo 2010.
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
tredici anni il termine prescrizionale delle pretese risarcitorie
dei medici specializzandi.
In tale sede, ed in merito a questa dilatazione, si tenterà di
svolgere un’analisi critica dell’iter argomentativo posto alla
base di tale recente orientamento giurisprudenziale secondo
cui: in caso di recepimento parziale di una direttiva non diret‑
tamente applicabile, il dies a quo del termine prescrizionale è
dato dal giorno in cui i soggetti interessati possano interpre‑
tare tale recepimento parziale come inadempimento definitivo
del legislatore, ovvero come “comportamento ragionevolmen‑
te (anche se non necessariamente) significativo di una volontà
di non provvedere per il residuo”.
Secondo tale ragionamento dei giudici di legittimità il d.lgs.
297/1991, che per primo ha attuato la direttiva 82/76/CE,
rappresenterebbe un atto di adempimento parziale e solo dal
27 ottobre 1999 i soggetti interessati al tempestivo e corretto
recepimento delle direttive avrebbero potuto “ragionevolmen‑
te” supporre che il Legislatore non le avrebbe mai recepite in
futuro né in modo diverso, né in modo più ampio di quanto
avesse già fatto con il citato d.lgs. 257/1991.
Ad opinione di chi scrive, anche ove si ritenga che il d.lgs.
257/1991 abbia costituito un mero adempimento parziale
soggettivo delle direttive in materia di trattamento dei medici
specializzandi l’accertamento sulla intervenuta prescrizione dei
crediti vantati dai medici frequentanti tra il primo gennaio
1983 e il 20 ottobre 2007 (periodo in cui l’Italia è stata sotto‑
posta al vincolo di recepimento) andrà compiuto partendo
dalle premesse che il dies a quo del termine prescrizionale:
– non potrà essere posticipato oltre al 31 agosto 1991, data
di entrata in vigore del suddetto d. lgs. 257/19914(primo
decreto di recepimento delle direttive operanti in mate‑
ria);
– o comunque non oltre la data di pubblicazione della sen‑
tenza Francovich5 del 19 novembre 1991 (cause riunite
C‑6/90 e C‑9/90) che “per la prima volta, ebbe a configu‑
rare l’inadempimento dello Stato membro ad una direttiva
sufficientemente specifica nel riconoscere ai singoli un
diritto, sia … l’obbligo risarcitorio, quale situazione sor‑
gente dall’inadempimento della direttiva attributiva di
diritti, ma non self‑executing, in presenza di situazioni
concrete dei singoli che avrebbero loro consentito di ac‑
quisire i diritti nascenti dalla direttiva” (cfr. Corte Cass.,
sez III, sent. n. 10813/2011);
4 Pubblicato in G.U. n. 191 del 16 agosto 1991
5 Corte Giustizia CE, 19 novembre 1991, cause C‑6/90 e 9/90, Francovich, in
Racc. I 5357. con nota di A. Barone, R. Pardolesi, “Il fatto illecito del legis‑
latore”, Foro it. (1992), 4, p. 145 e di G. Ponzanelli, “L’Europa e la respon‑
sabilità civile”. Foro it. (1992), 4, p. 145, il quale evidenzia che “L’applicazione
delle regole di responsabilità civile viene a svolgere in questi casi una chiara
funzione deterrente: si vuole che i singoli Stati rispettino con la massima pun‑
tualità e diligenza le scadenze a loro poste da atti comunitari. Legittimando i
singoli cittadini, ai quali le direttive non trasposte hanno assegnato precisi di‑
ritti, a chiedere ai giudici nazionali il risarcimento dei danni, si mira ad aumen‑
tare il peso e il controllo sulle autorità statuali preposte all’attuazione delle
direttive”. L'illustre A., pur prendendo atto che nella pronuncia si era inteso
riconoscere al risarcimento danni solo una funzione riparatoria, si interroga se,
al fine di garantire la funzione deterrente delle regole di responsabilità civile,
non sarebbe stato necessario assicurare al risarcimento anche una “tinta afflit‑
tivo punitiva nei confronti dello Stato, a tutto vantaggio, in prima battuta, del
singolo stesso, che verrebbe così a godere di una somma di denaro superiore
all’entità del pregiudizio subìto e, in seconda battuta, dell’interesse pubblico
alla regolare osservanza degli impegni comunitari”.
2 0 1 2
13
– e, quindi non può posticiparsi tale dies, addirittura, alla
data del 27 ottobre 1999, come sostenuto dai giudici di
legittimità.
1. Analisi della vicenda e degli orientamenti giurisprudenziali più
recenti.
Per una migliore comprensione della tematica oggetto del
presente contributo, pare utile partire da un riepilogo degli
aspetti fondamentali della vicenda in esame.
1.1 Principi essenziali in tema di prescrizione del diritto al
risarcimento danni derivanti da una ritardata o omessa attua‑
zione di una direttiva non self‑executing.
Tali principi sono stati compiutamente formulati dalla
sentenza Danske, del 14 marzo 2009 (C‑445/06) della Corte
di Giustizia secondo cui:
1. la regolamentazione delle modalità, anche quanto ai ter‑
mini di decadenza o prescrizione, dell’azione risarcitoria
da inadempimento di direttiva attributiva di diritti ai sin‑
goli compete agli ordinamenti interni; la disciplina degli
Stati membri dev’essere ispirata al principio di equivalenza
(che “impone di fissare termini che non siano meno favo‑
revoli di quelli previsti per azioni analoghe”), ed al princi‑
pio di effettività (che “impone comunque che il termine
applicato non sia tale da rendere praticamente impossibile
o eccessivamente difficile ottenere il risarcimento”)
2. “in mancanza di apposita disciplina da parte degli Stati
membri … il giudice nazionale può ricercare analogica‑
mente la regolamentazione dell’azione, ivi compresi even‑
tuali termini di decadenza o prescrizione, in discipline di
azioni già regolate dall’ordinamento, purché esse rispetti‑
no i principi suddetti [equivalenza ed effettività] e, parti‑
colarmente, non rendano impossibile o eccessivamente
gravosa l’azione”; e purché “l’applicazione di un termine
di prescrizione che così ne risulti, cioè che derivi dal rife‑
rimento che il giudice nazionale fa ad una disciplina inter‑
na regolamentante altra azione” possa considerarsi suffi‑
cientemente prevedibile da parte dei soggetti interessati,
dovendo, dunque, il giudice nazionale procedere necessa‑
riamente a tale apprezzamento;
3. l’eventuale termine di prescrizione può decorrere anche
prima della corretta trasposizione della direttiva nell’ordi‑
namento nazionale, se il danno, anche solo in parte, per
questo soggetto si è verificato anteriormente.
Le direttive della cui attuazione si discute sono le direttive
CEE nn. 362/75 e n. 363/75, come trasfuse, coordinate ed
integrate nella direttiva n. 82/76.
1.2 Periodo entro il quale l’Italia è stata soggetta al vin‑
colo di recepimento delle direttive e nel quale i medici specia‑
lizzandi avrebbero potuto maturare crediti risarcitori.
La corretta trasposizione delle citate direttive, “doveva
avvenire entro il 31 dicembre 1982 (art. 16 della direttiva
82/76/Cee)”, ma ad avviso della giurisprudenza “la loro inte‑
grale applicazione, non si è mai verificata nell’ordinamento
italiano… Lo Stato Italiano non rispettò tale termine, tanto
che venne dichiarato inadempiente dalla Corte di Giustizia
con sentenza del 7 luglio 1987, C‑49/86 […] Per un adempi‑
mento pieno sarebbe occorso che lo Stato Italiano avesse
dettato disposizioni intese ad attribuire i diritti previsti dalle
civile
Gazzetta
14
D i r il
tu
tg
o l ei op• ra o
gc
o es d
tu
o r 2a 0 c
1 2
i v i l e
direttive a coloro che, se le direttive fossero state adempiute
entro il 31 dicembre 1982, si sarebbero trovati nelle condizio‑
ni per poterli acquisire e, quindi, ai medici specializzandi che
avevano seguito i corsi di specializzazione a partire dal 1o
gennaio 1983 e lo avevano fatto con modalità conformi a
quanto prevedevano le direttive”.
Tale obbligo di adempimento delle direttive, sussistente a
far data dal 1o gennaio 1983, è perdurato fino al 20 ottobre
2007, per il susseguirsi delle seguenti fonti normative:
– l’art. 44 della direttiva del Consiglio 5 aprile 1993,
n. 93/16/Cee, pur abrogando le direttive 75/362 – 363/Cee,
nonché quella 82/76/Cee, che le aveva modificate, stabilì
che restassero “salvi gli obblighi degli Stati membri relati‑
vi ai termini per il recepimento”, che dunque rimaneva
quello del 31 dicembre 1982;
– successivamente, l’art. 62 della direttiva 2005/36/CE (re‑
cante – negli artt. 25, 26 – una nuova disciplina dei medi‑
ci specializzati) ha previsto l’abrogazione a partire dal 20
ottobre 2007 (cioè dalla data della sua entrata in vigore)
della direttiva 93/16/Cee, e con esso anche dell’art. 44 sopra
cit.: ergo dal 20 ottobre 2007 è cessato l’obbligo dello
Stato Italiano di adempiere, sia pure tardivamente, le di‑
rettive 75/362/Cee, 75/363/Cee e 82/76/Cee.
Ciò premesso:
1. le direttive avrebbero dovuto essere attuate pienamente
entro il 31 dicembre 1982,
2. lo Stato Italiano è stato liberato dall’obbligo di attuazione
tardiva solo dal 20 ottobre 2007.
Da tali premesse consegue che solo i medici specializzandi
i quali si trovassero nelle situazioni contemplate dalle direttive
nel periodo compreso tra il 1o gennaio 1983 ed il 19 ottobre
2007 avrebbero potuto maturare crediti risarcitori per danni
conseguenti al tardivo/non corretto recepimento delle direttive
in materia.
1.3 Contratto o illecito aquiliano?
Secondo l’orientamento giurisprudenziale più recente, che
fa seguito alla sentenza delle SS. UU. n. 9147/2009, la respon‑
sabilità dello Stato Italiano da mancato/tardivo recepimento
di una direttiva non self‑executing, deve essere qualificata
come contrattuale, da inadempimento di un’obbligazione ex
lege, essendo riconosciuta consequenzialmente l’operatività del
termine decennale di prescrizione.
Si consideri che fino a tale innovativo arresto il diritto vi‑
vente6 qualificava come “aquiliana” la responsabilità dello
Stato inadempiente all’obbligo di recepimento delle direttive
6 Cfr. L. BAIRATI, “La riparazione spettante al soggetto danneggiato a seguito
di mancato recepimento, nel termine prescritto, di direttiva comunitaria. Ques‑
tioni teoriche ed implicazioni pratiche della sua corretta qualificazione”, Giur.
it., 2010, 3, p. 695, nota 9 ss., ad avviso del quale “La prima implicita appli‑
cazione dell'articolo 2043 c.c. a tale fattispecie risale a Cass., Sez. Un., 10 aprile
2002, n. 5125” (per la qual ultima cfr. nota di CIPRIANI, “Sui ricorsi per Cas‑
sazione decisi con due sentenze”. Foro it., 2002, I, pp. 2394 ss.). Quali rilevan‑
ti pronunce favorevoli alla qualificazione della responsabilità in termini aquiliani
cfr. Cass. 16 maggio 2003, n. 7630 in R. CONTI, “Azione di responsabilità
contro lo Stato per violazione del diritto comunitario. Rimedio concorrente o
alternativo all'azione diretta?”. Danno e resp. (2003): 8/9: 836 ss.; Cass., 12
febbraio 2008, n. 3283 (cfr. nota di C. PASQUINELLI “Illecito comunitario
del legislatore e art. 2043 c.c.: la Cassazione interviene ancora”. Responsabilità
civile e previdenza. LXXIII, 2008, 7/8, pp. 1576 ss.); Cass., 11 marzo 2008,
n. 6427 in Mass. Foro It., 2008, pp. 397 ss.
Gazzetta
F O R E N S E
non self‑executing. Tale assunto è testimoniato proprio dalla
stessa sentenza delle SS. UU. del 2009 n. 91477, che, con un
“inatteso revirement”8 ha sposato la teoria della qualificazio‑
ne della responsabilità contrattuale: “la giurisprudenza della
Corte, nelle numerose decisioni rese sulla questione, ricondu‑
ce con assoluta prevalenza 9 il c.d. illecito del legislatore alla
fattispecie di cui all’art. 2043 c.c.” (cfr. sent. n. 9147/2009)10.
1.4 Il dies a quo della prescrizione (esclusione del 1o gen‑
naio 1983).
La Giurisprudenza (da ultimo le citate sentenze nn. 10813,
10814, 10815 della Corte di Cass., Sez. III) si è a lungo inter‑
rogata su quale debba essere il dies a quo del termine prescri‑
zionale dell’azione risarcitoria da inattuazione delle direttive.
Gli orientamenti più recenti escludono che il termine de‑
cennale possa iniziar a decorrere dal 1o gennaio 1983 (giorno
seguente al termine entro il quale lo Stato era obbligato al re‑
cepimento), ciò in quanto solo a seguito della sentenza Fran‑
covich (del 19 novembre 1991, C‑6/90 e C‑9/90) è stato con‑
figurato (per la prima volta), quale fatto fonte di un’obbliga‑
zione risarcitoria di uno Stato, l’omesso o tardivo recepimento
di una direttiva sufficientemente specifica nel riconoscere ai
singoli un diritto: prima di tale data i soggetti danneggiati non
avrebbero potuto avere certezza dell’azionabilità di un credito
risarcitorio nei confronti dello Stato membro per violazione di
una norma comunitaria non self‑executing, ma preordinata
all’attribuzione di diritti nei riguardi dei singoli.
7 Per alcune note a Cass., SS. UU., sent. n. 9147/2009 cfr. E. SCODITTI, “La
violazione comunitaria dello Stato tra responsabilità contrattuale ed extracon‑
trattuale”, Foro It., 2010, I, pp. 168 ss., L. BAIRATI, op.cit., pp. 693 ss., A.
RICCIO, “Responsabilità dello Stato per omessa o tardiva o anomala attua‑
zione di direttive comunitarie”, La responsabilità civile, VII, 2010, 5, pp. 346,
A. GIANNELLI, “La responsabilità del legislatore per tardivo recepimento
della direttiva, modelli a confronto”, Foro amm. Cons. Stato, 2009, 10,
pp. 2280 ss. (analisi che giunge ad inquadrare la pronuncia come una “genera‑
lizzazione” della c.d. “sineddoche dell'obbligazione indennitaria”, mediante un
attento esame della sentenza nella sua “pars destruens” “rifiuto del pardigma
aquiliano” e della successiva “pars costruens” “il debito dello Stato per man‑
cata trasposizione della direttiva come obbligazione indennitaria”), A. DI
MAJO, “Contratto e torto nelle violazioni comunitarie ad opera dello Stato”,
Corriere Giur., 2009, 10, p. 1352 ss., C. PASQUINELLI “Le Sezioni Unite e la
responsabilità dello Stato legislatore per violazione del diritto comunitario. Un
inatteso revirement”. Nuova megiur. civ. Comm., 2009, I, pp. 1018 ss., G.
RAPISARDA, “La responsabilità dello Stato per omessa o tardiva attuazione
di direttiva comunitaria: l'ultimo approdo delle sezioni unite”. Dir. Comm.
Internaz., 2009, pp. 716.
8 C. PASQUINELLI, op.cit.
9 La medesima “assoluta prevalenza” dell'orientamento favorevole alla qualifi‑
cazione “aquiliana” della responsabilità in commento, riconosciuta nella giu‑
risprudenza di legittimità dalle stesse SS. UU. del 2009 (cfr., ex plurimis, D.
SATULLO, “La prescrizione dell'azione di risarcimento nei confronti dello
Stato per tardiva attuazione di una direttiva comunitaria”, La responsabilità
civile, VIII, 2011, 4, p. 254), è evidenziata nelle ricostruzioni dottrinali anche
con riguardo alla giurisprudenza di merito antecedente l'arresto delle SS. UU.
(cfr. L. FALTONI, “Lo Stato che viola gli obblighi comunitari risarcisce i citta‑
dini in via extracontrattuale: ingiustizia comunitariamente qualificata?”, Re‑
sponsabilità civile e previdenza, 2010, 9, pp. 1871 ss.). Si pensi, ex ceteris, a
Trib. Roma, 17 maggio 2010 (in Responsabilità civile e previdenza, 2010, 9,
pp. 1859 ss, cfr. nota L. FALTONI, op. cit., pp. 1864 ss.), Trib. Catanzaro, 20
aprile 2009, Trib. Roma, 14 giugno 2004 e Trib. Catania 28 febbraio 2004,
entrambe annotate da D. DALFINO. Foro It.., 2004, I, p. 2512.
10 Le SS. UU. erano intervenute già in passato, in ordine al presente contenzioso,
con la sent. n. 2203 del 4 febbraio 2005 (cfr. R. CONTI, “Medici specializzan‑
di e vademecum delle S. U. sull'applicazione del diritto comunitario”, Danno
e resp., 2005, 10, pp. 961 ss., con la quale si è affermata la giurisdizione ordi‑
naria al riguardo, sostenuta, ancora precedentemente, con la sent. n. 5125 del
10 aprile 2002, in Giur. it., 2002, 12, nonché con nota di CIPRIANI.
op. cit.).
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
Dunque, il termine prescrizionale per l’azione risarcitoria
esercitabile dai medici specializzandi, secondo tale ragiona‑
mento, non potrebbe iniziare a decorrere da una data antece‑
dente a quella della sentenza Francovich (ad es., non potrebbe
il dies a quo essere costituito dalla data in cui i singoli medici
abbiano conseguito il proprio diploma – come invece sostenu‑
to da Cass. n. 5842 del 2010 ‑, laddove tale data, pur se poste‑
riore al 31 dicembre 1982, sia antecedente alla sentenza
Francovich).
Si è addirittura sostenuto “che, essendosi la giurispruden‑
za comunitaria definitivamente assestata, dopo l’irruzione
della sentenza Francovich, nei suoi esatti termini soltanto con
la sentenza Brasserie du Pécheur, come non manca di rilevare
la dottrina quando deve individuare i caratteri dell’obbligo
risarcitorio, addirittura solo dalla data di quella sentenza
l’obbligo sia insorto nell’ordinamento italiano, con la conse‑
guenza che … Il diritto degli specializzandi … si potrebbe
dire sorto addirittura soltanto dall’ottobre del 1996” (cfr.
Cass., Sez. III, sent 10813 del 17 maggio 2011).
1.5 Esclusione della giurisprudenza anche delle date di
pubblicazione delle sentenze Francovich e Brasserie du Pé‑
cheur quale dies a quo, e qualificazione della condotta ina‑
dempiente dello Stato italiano quale recepimento soggettiva‑
mente parziale delle direttive.
Secondo i giudici di legittimità, tuttavia, il diritto al risar‑
cimento, pur dovendosi ritenere sorto solo dopo la sentenza
Francovich (o dopo la sentenza Brasserie du Pecheur 11), non
iniziò il suo decorso dalla pubblicazione delle sentenze in
questione.
Infatti, secondo la Corte la fattispecie fonte di danno con‑
sisterebbe nel “comportamento omissivo del legislatore italia‑
no” ed “avrebbe potuto essere eliminato attraverso la sponta‑
nea tenuta da parte dello Stato del comportamento omesso,
cioè l’emanazione di una normativa interna che attribuisse il
diritto riconosciuto dalla direttiva”; per cui, per tutto il tempo
di persistenza di detto inadempimento, la situazione di danno
si presenterebbe “non come effetto ormai determinato, ma
come effetto determinato de die in die”.
La III Sezione della Cassazione ha, inoltre, operato una
distinzione tra:
– inadempimento parziale “oggettivo”
– inadempimento parziale “soggettivo”
Il fine di tale distinzione è quello di determinare in modo
diverso, secondo il tipo di inadempimento, il dies a quo del
termine prescrizionale del risarcimento danni da ritardata
attuazione di una direttiva.
Si avrebbe il parziale recepimento sul piano oggettivo
qualora: “la direttiva, dopo un periodo di inadempimento,
viene attuata nei confronti di tutti i soggetti riguardo ai qua‑
li prevede diritti e, tuttavia, tali diritti vengono riconosciuti
solo in parte sul piano oggettivo, cioè o – essendo previsti più
diritti – ne vengono riconosciuti alcuni e non altri, o il diritto
o i diritti vengono riconosciuti in modo insufficiente”.
La Corte ha ritenuto, inoltre, che: “nell’ipotesi in questio‑
ne la successione ad una situazione di inadempimento totale,
11 Corte. Giust. CE, 5 marzo 1996, cause riunite C‑46/ 93 e C‑48/ 93, Brasserie du
Pêcheur e Factortame, in Racc. I 1631, nonché cfr. Foro it., 1996, 4, pp. 185 ss.
2 0 1 2
15
che poneva gli interessati in una condizione di mera attesa,
stante l’assoluta incertezza sul se lo Stato avrebbe adempiuto
tardivamente oppure no, di una nuova situazione di parziale
adempimento e, quindi, di inadempimento parziale, si presta
ad essere intesa come comportamento ragionevolmente (an‑
che se non necessariamente) significativo di una volontà dì
non provvedere per il residuo. Per tale ragione si giustifica
che il soggetto interessato debba agire a tutela del residuo
obbligo risarcitorio e, quindi, che inizi la decorrenza del
termine di prescrizione decennale. Tale residuo obbligo risar‑
citorio si presta, cioè, ad essere considerato come effetto
ormai consolidato e, quindi, da considerarsi alla stregua
degli effetti dannosi istantanei riguardo alla condotta
dell’inadempiente e non più permanentemente determinati
da detta condotta”.
Al contrario, si avrebbe recepimento parziale soggettivo
quando la legge nazionale “riconosca il diritto, naturalmente
sempre per previsioni generali riferite al trovarsi essi in deter‑
minate situazioni comuni, soltanto a taluni di quei soggetti (o
meglio a talune categorie di essi versanti nelle stesse condizio‑
ni fattuali) e non agli altri”.
Nel caso dei medici specializzandi la Corte ha qualificato
la condotta statale quale adempimento soggettivamente par‑
ziale delle direttive comunitarie.
Secondo la Corte di Cass., il d.lgs. n. 257 cit., infatti, “rap‑
presentando un adempimento parziale delle note direttive
soltanto per i soggetti specializzandi a partire dall’anno acca‑
demico 1991‑92, lasciò del tutto immutata la situazione dei
soggetti che, successivamente al 31 dicembre 1982 e fino
all’anno accademico 1990‑1991, si erano venuti a trovare in
una condizione la quale, in presenza di una già avvenuta at‑
tuazione della direttiva, li avrebbe resi destinatari dei diritti
riconosciuti dalle direttive e trasfusi nel provvedimento legi‑
slativo interno attuativo” (cfr. Cass., Sez. III, sent. n. 10813
del 17 maggio 2011).
Ad avviso dei giudici di legittimità, di norma, un recepi‑
mento parziale soggettivo, a differenza di quello parziale og‑
gettivo, lascerebbe immutata la situazione fonte di danno per
i soggetti esclusi, sicché per costoro l’illecito continuerebbe a
protrarsi per tutto il tempo di persistenza dell’inadempimento
(illecito permanente).
1.6 Ipotesi in cui anche l’inadempimento parziale sogget‑
tivo dell’obbligo di recepimento della direttiva si traduce in un
illecito istantaneo: individuazione del dies a quo nel il 27 ot‑
tobre 1999.
Secondo la Cassazione, vi sarebbe un solo ordine di ipote‑
si in cui anche un inadempimento parziale soggettivo dell’ob‑
bligo di recepimento della direttiva si tradurrebbe in un illeci‑
to istantaneo, dal quale inizierebbe, dunque, a decorrere il
termine prescrizionale di risarcimento danni da ritardato re‑
cepimento della direttiva.
Si tratterebbe dell’ipotesi in cui il legislatore nazionale, nel
recepire la direttiva, non si limiti ad escludere in toto una
parte dei soggetti considerati dalla stessa, bensì, in riferimento
a tale parte di soggetti, escluda solo coloro i quali, pur rien‑
tranti nella fattispecie astratta prefigurata dalla direttiva, non
rientrino anche in quella ulteriore situazione fattuale richiesta
dalla legge nazionale non pretesa dalla direttiva.
In tale ipotesi, come in caso d’inadempimento parziale
civile
Gazzetta
16
D i r il
tu
tg
o l ei op• ra o
gc
o es d
tu
o r 2a 0 c
1 2
i v i l e
oggettivo, i soggetti esclusi potrebbero “ragionevolmente”
supporre che la loro estromissione sia definitiva, nel senso che
il legislatore abbia inteso escluderli per sempre dal recepimen‑
to della direttiva.
Secondo la Cassazione, nella vicenda dei medici specializ‑
zandi solo a partire dalla data dell’entrata in vigore della l.
370/1999 sarebbe stata chiara la scelta del legislatore italiano
di escludere per sempre dal recepimento della direttiva i medi‑
ci specializzandi immatricolati dall’a.a. 1983/1984 all’a.a.
1990/1991, con la sola eccezione di quelli destinatari di talune
sentenze passate in giudicato del TAR Lazio.
L’ art. 11 della suddetta l. n. 370/99 ha ammesso, dunque,
parte di tali soggetti al trattamento previsto per gli altri (lad‑
dove fosse ricorsa l’ulteriore condizione fattuale ‑non contem‑
plata dalla direttiva‑ dell’essere destinatari delle suddette
sentenze) configurando, secondo il ragionamento dei giudici
di legittimità, una ipotesi di recepimento parziale soggettivo.
Ragion per cui, essendo la legge de qua entrata in vigore
il 27 ottobre 1999, per tutti gli specializzandi esclusi, il ter‑
mine prescrizionale decennale per chiedere il risarcimento
danni dovrebbe decorrere, secondo la Corte, da tale data, e
costoro avrebbero dovuto agire giudizialmente o compiere
atti stragiudiziali interruttivi della prescrizione entro i1 27
ottobre 2009.
1.7 Sintesi
Riassumendo quanto si è fin qui esposto, la giurispruden‑
za più recente:
– ha qualificato la responsabilità dello Stato da tardivo o
non corretto recepimento di una direttiva quale responsa‑
bilità contrattuale da violazione di un’obbligazione ex
lege, ritenendo consequenzialmente operante un termine
di prescrizione decennale;
– ha riconosciuto che possono considerarsi ammessi a tale
tutela risarcitoria tutti i medici specializzati che, nel pe‑
riodo dal 1o gennaio 1983 al 20 ottobre 2007, avrebbero
potuto trovarsi nelle condizioni previste dalle direttive;
– ha ritenuto che il dies a quo di detto termine di prescrizio‑
ne non potesse essere costituito né dalla data di entrata in
vigore del primo decreto di recepimento (d.lgs. n. 257/1991),
né dalla data di pubblicazione delle sentenze della Corte
di Giustizia Francovich e Brasserie du Pécheur;
– per individuare tale dies a quo ha formulato un principio
secondo il quale nel caso di adempimento parziale di una
direttiva il dies a quo del termine prescrizionale dei credi‑
ti risarcitori sia dato dal giorno in cui i soggetti interessa‑
ti (al corretto e tempestivo recepimento di una direttiva)
possano interpretare tale recepimento parziale come ina‑
dempimento definitivo del legislatore nazionale, vale a
dire quale “comportamento ragionevolmente (anche se
non necessariamente) significativo di una volontà dì non
provvedere per il residuo”;
– ha poi operato una preliminare distinzione tra inadempi‑
mento/adempimento parziale oggettivo e soggettivo, se‑
condo la quale solo l’adempimento parziale oggettivo
costituirebbe un “comportamento ragionevolmente (an‑
che se non necessariamente) significativo di una volontà
di non provvedere per il residuo”, per cui esso solo costi‑
tuirebbe un illecito istantaneo, al verificarsi del quale
inizierebbe immediatamente a decorrere il termine pre‑
Gazzetta
F O R E N S E
scrizionale; mentre l’adempimento parziale soggettivo,
consentendo ai soggetti esclusi di supporre ragionevolmen‑
te che il legislatore intenda completare in futuro l’opera di
recepimento nei loro confronti, non può che qualificarsi
come illecito permanente, che non si esaurisce fino a
quando appunto perduri l’inadempimento, vale a dire fino
a quando il legislatore non completi il recepimento sul
piano soggettivo, con la conseguenza che fino a tale ultimo
momento il termine prescrizionale non inizierebbe a cor‑
rere;
– ha ritenuto che vi è un unico caso in cui anche l’inadem‑
pimento parziale soggettivo integri un illecito istantaneo,
ed è il caso in cui il legislatore nazionale, nel recepire la
direttiva, non si limiti ad escludere in toto una parte dei
soggetti considerati dalla stessa, bensì, in riferimento a
tale parte di soggetti, escluda solo coloro i quali, pur ri‑
entranti nella fattispecie astratta prefigurata dalla diretti‑
va, non rientrino anche in quella ulteriore situazione fat‑
tuale richiesta dalla legge nazionale non pretesa dalla
direttiva;
– ha qualificato il d.lgs. n. 257/1991 quale inadempimento
parziale soggettivo ed ha individuato alla data del 27 ot‑
tobre 1999 (entrata in vigore della legge n. 370/1999) il
momento in cui tale illecito – potendo essere ragionevol‑
mente percepibile dai soggetti interessati come adempi‑
mento parziale definitivo ‑, è divenuto istantaneo, e,
dunque, a tale data ha ancorato il dies a quo del termine
prescrizionale dei crediti risarcitori dei medici specializ‑
zandi esclusi;
– ha, quindi, dedotto che i medici specializzandi possano
azionare crediti maturati in relazione al periodo di frequen‑
tazione di corsi di specializzazione compresi dal 1o genna‑
io 1983 all’a.a. 1990/1991, purché abbiano agito giudizial‑
mente o compiuto atti stragiudiziali interruttivi del termi‑
ne (decennale) di prescrizione entro i1 27 ottobre 2009.
2. Critica dell’orientamento espresso da giudici di legitti‑
mità che ha fissato il dies a quo del termine prescrizionale al
27 ottobre 1999 ed ha qualificato come contrattuale la re‑
sponsabilità dello Stato.
2.1 Illogicità della distinzione tra inadempimento parzia‑
le oggettivo e soggettivo ai fini della qualificazione come
istantaneo o permanente dell’illecito statuale.
In primo luogo, pare opinabile sul piano logico, ancor
prima che giuridico, la distinzione operata dalla citata giuri‑
sprudenza tra ipotesi di mancato/tardivo adempimento delle
direttive secondo che esse riguardino l’oggetto o i soggetti
destinatari delle stesse.
Infatti, come nel caso di un inadempimento parziale sul
piano oggettivo, di fronte ad uno Stato che con un primo atto
di recepimento riconosca solo alcuni dei diritti contemplati
da una direttiva, il soggetto interessato ha ben ragione di
preoccuparsi e di ritenere che il legislatore nemmeno in futu‑
ro estenderà il recepimento a quei diritti che non ha immedia‑
tamente trasposto nell’ordinamento interno; non si vede
perché si debba valutare in modo più “ottimistico” un com‑
portamento d’inadempimento parziale di tipo “soggettivo”.
I giudici di legittimità avendo qualificato il d.lgs.
n. 257/1991 come atto di recepimento parziale delle direttive
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
in commento, hanno ritenuto, in modo illogico, che detto d.
lgs., in quanto operante per i soli immatricolati dall’a.a.
1991/1992 a seguire, potesse interpretarsi come un primo
atto di recepimento, da completare, in un secondo momento,
a favore degli altri immatricolati (quelli dal 1o gennaio 1983
all’a.a. 1990/1991), dapprima esclusi, estendendo loro la
stessa normativa o introducendone una analoga.
Ipotizziamo pure che possa dirsi corretta la qualificazio‑
ne del d.lgs. n. 257/1991 quale atto di recepimento parziale
soggettivo (vale a dire recepimento della direttiva non per
tutti gli immatricolati dal 1o gennaio 1983, ma solo per gli
immatricolati dall’a.a. 1991/1992 a seguire). Ebbene, secon‑
do la Corte di Cassazione, gli immatricolati ante a.a.
1991/1992 avrebbero potuto “ragionevolmente” interpreta‑
re tale decreto come atto normativo significativo di una vo‑
lontà di escludere dal recepimento gli immatricolati ante a.a.
1991/1992 solo nell’immediato e non come volontà di esclu‑
derli definitivamente anche per il futuro: da ciò conseguireb‑
be, si ripete secondo la Corte, che gli immatricolati ante a.a.
1991/1992 avrebbero potuto “ragionevolmente” confidare
in un futuro completamento dell’opera di recepimento nei
loro confronti.
Pare evidente il vizio logico dell’iter argomentativo dei
giudici di legittimità: nella denegata ipotesi in cui il d.lgs. del
1991 fosse da intendersi come recepimento parziale soggetti‑
vo, come si può “ragionevolmente” supporre che il legislato‑
re avrebbe introdotto in futuro una disciplina che lo stesso
avrebbe già deciso di non introdurre nel presente?
L’obiezione appare fondata in quanto i soggetti esclusi
erano quelli immatricolatisi dal 1o gennaio 1983 all’a.a.
1990/1991 e non quelli dall’a.a. 1991/1992 a seguire.
Infatti, premesso che spesso il legislatore, com’è ragione‑
vole e doveroso, è guidato nelle scelte normative anche da
ragioni di bilancio, laddove avesse deciso (come supposto
dalla Corte) di operare un primo recepimento parziale sog‑
gettivo (ossia attuare le direttive prima per una parte della
totalità dei medici specializzandi interessati al recepimento e
poi, ad es., con successivo decreto, per la restante), avrebbe
certamente provveduto ad introdurre una normativa che
avesse avuto riguardo, innanzi tutto, agli immatricolati dal 1o
gennaio 1983 all’a.a. 1990/1991, le cui poste risarcitorie
avrebbero dovuto essere soddisfatte con maggiore urgenza,
proprio perché sorte in tempi più risalenti e dunque accompa‑
gnate da un cospicuo ammontare di interessi sugli stessi ma‑
turatisi negli anni, con aggravio per le finanze dello Stato.
Dunque, anche nell’ipotesi in cui il d.lgs. n. 257/1991 in‑
tegrasse un parziale recepimento delle direttive, si ritiene che
gli immatricolati esclusi dalla normativa di recepimento del
1991 non avrebbero potuto avere alcun ragionevole motivo
per sperare che il legislatore avrebbe loro esteso in futuro un
trattamento economico negato nel presente e che certamente
sarebbe lievitato col passare degli anni (ad es. da computarsi
per i primissimi immatricolati a far data 1o gennaio 1983).
In altre parole, appare ragionevole supporre che già dall’en‑
trata in vigore del d.lgs. n. 257/1991, gli specializzandi esclusi
avrebbero dovuto percepire con certezza la definitività della
scelta di esclusione operata dal legislatore nazionale e, quindi,
facendo buon governo del corretto principio espresso dai giudi‑
ci di legittimità, è dunque dalla data del 31 agosto 1991 (dies a
quo) che dovrebbe decorrere il termine di prescrizione delle
2 0 1 2
17
poste risarcitorie (in tal senso si esprime anche Cass., Sez. Lav.,
3 giugno 2009, n. 1281412). Quindi, contrariamente a quanto
sostenuto dalla recente giurisprudenza di legittimità, non era
necessario attendere l’intervento del 1999 (art. 11 della l. n. 370),
che ha esteso la normativa interna del d.lgs. n. 257/1991 agli
immatricolati dopo il 31 dicembre 1982 e fino all’a.a. 1990/1991
laddove fosse ricorsa l’ulteriore condizione fattuale (non contem‑
plata dalla direttiva) dell’essere destinatari di talune sentenze
passate in giudicato del TAR Lazio: tale norma, non solo non
ha fatto altro che esplicitare l’ovvio (nel 1991 si era scelto, in via
definitiva, di non estendere la nuova normativa agli immatrico‑
lati ante a.a. 1991/1992), ma, per altro verso, si è limitata a
riconoscere la forza propria di un giudicato amministrativo.
2.2 Tutela del legittimo affidamento riposto dallo Stato
nei precedenti della Corte di Cassazione, alla luce dei quali la
responsabilità dello Stato da parziale recepimento di una di‑
rettiva non self‑executing doveva qualificarsi come aquiliana
e quale dies a quo del relativo termine prescrizionale doveva
individuarsi, al massimo, la data dell’entrata in vigore del
D.lgs. n. 257/1991.
Pur ritenendosi che le obiezioni logiche fin qui esposte
siano di per sé sole già sufficienti a contestare il recente orien‑
tamento giurisprudenziale, occorre peraltro ridimensionarne
la persuasività, ai fini dell’individuazione della corretta regula
iuris della vicenda, in quanto, si ritiene che tale orientamento
potrebbe avere rilevanza solo per i giudizi introdotti successi‑
vamente alla sua pronuncia: infatti, in ossequio agli orienta‑
menti di giurisprudenza consolidata, in caso di mutamenti
giurisprudenziali, deve essere tutelato il principio di certezza
del diritto, nonché il diritto di difesa delle posizioni giuridiche
soggettive.
12In senso difforme dalla precedente sent. n. 9147/2009 delle SS. UU., la Cass.,
Sez. Lavoro, con la sent. n. 12814 del 3 giugno 2009, ha affermato la respon‑
sabilità aquiliana dello Stato ed ha individuato come dies a quo del termine
quinquennale di prescrizione la data di entrata in vigore del primo decreto in‑
terno di recepimento: “Trattandosi di azione di risarcimento del danno, la
prescrizione è quinquennale ed inizia a decorrere dal momento in cui il diritto
può essere fatto valere. Tale momento non coincide con l'emanazione della
direttiva, se la stessa non è immediatamente applicabile; né con il termine as‑
segnato agli stati per la trasposizione della fonte comunitaria nel diritto interno,
perché anche a quel momento il soggetto privato non è in condizioni di
conoscere quale sia il contenuto del diritto che gli viene negato e l'ammontare
del relativo risarcimento. Può invece individuarsi nel momento in cui entra in
vigore la normativa di attuazione interna della direttiva Europea: è questo il
momento in cui il soggetto può far valere il diritto al risarcimento del danno,
perché è in quel contesto che egli viene a conoscere il contenuto del diritto at‑
tribuito ed i limiti temporali della corresponsione. In altri termini, posto che
con il d.lgs. n. 257/1991 il soggetto è in grado di conoscere l'ammontare dei
compensi stabiliti, il soggetto tenuto ad erogarli e la non retroattività della
corresponsione, a quel momento è in grado di esercitare il diritto al risarci‑
mento del danno. Si veda al riguardo Corte di Giustizia della Comunità Euro‑
pea 25 luglio 1991 "Emmot": finché una direttiva non è stata correttamente
trasposta, non è ipotizzabile alcuna possibilità per i privati di avere piena
conoscenza dei loro diritti” (sent. n. 12814/2009 in La responsabilità civile.
VII, 2010, 3, pp. 186).
Quanto alla stessa giurisprudenza di merito anch'essa si è ampiamente espres‑
sa, pure di recente, nel senso che, laddove si configuri un illecito statuale da
tardivo/inesatto recepimento della direttiva, si debba ritenere integrato un
mero illecito “istantaneo”. Si segnala, in maniera particolare, Trib. di Milano
sentenza del 22 marzo 2012, Trib. Napoli, sent. n. 1792 del 13 febbraio 2012
secondo cui “il termine prescrizionale deve ritenersi decorrere dalla conclusio‑
ne di ciascun anno di corso”, Trib. Firenze, ord. del 6 luglio 2012 secondo cui
“l'inadempimento dello Stato ha sicuramente natura permanente … la prescri‑
zione decennale può essere al più tardi fatta decorrere dal '91(sentenza Franco‑
vich)”; ed anche Trib. Catanzaro, 2 dicembre 2011 che da continuità ad un
precedente dello stesso Tribunale del 20 aprile 2009. Si veda anche la conforme
recente sent. del Trib. di Nola n. 24284 del 3 novembre 2011.
civile
Gazzetta
18
D i r il
tu
tg
o l ei op• ra o
gc
o es d
tu
o r 2a 0 c
1 2
i v i l e
Sul punto si consideri che prima della formazione dell’orien‑
tamento sottoposto a critica, nella giurisprudenza della Corte di
Cassazione13 e, quindi, nel diritto vivente, il dies a quo della
prescrizione di crediti risarcitori quali quelli azionati nel presen‑
te contenzioso era, in linea generale, individuato in una data non
successiva a quella di entrata in vigore del primo decreto interno
di recepimento, il d.lgs. n. 257/1991 (31 agosto 1991)14.
Ebbene, ove nel caso in esame si ritenesse configurabile un
cd. recepimento soggettivamente parziale, l’evento lesivo sa‑
rebbe rappresentato – non “dall’impossibilità di esercitare il
diritto riconosciuto dal legislatore comunitario, a causa
dell’inadempimento dello Stato membro”15, ma – dal provve‑
dimento di recepimento soggettivamente parziale, che usando
l’ordinaria diligenza, e certamente secondo “ragionevolezza”(per
le ragioni esposte al par. 2.1), non poteva non intendersi quale
chiara ed inequivocabile volontà del legislatore nazionale di
non estendere la normativa ad una parte dei medici specializ‑
zandi (ossia quelli frequentanti nel periodo dal 1o gennaio 1983
all’anno accademico 1990/1991).
Peraltro, questa opzione ermeneutica trova conforto negli
stessi principi generali espressi dalla giurisprudenza consolidata
della Corte di Cassazione16, secondo cui la prescrizione decorre
13 Come si è già evidenziato nella precedente nota n. 12, in senso difforme dalla
sent. n. 9147/2009 delle SS. UU., si è posta la Cass., Sez. Lavoro, con la sent.
n. 12814 del 3 giugno 2009 (individuante come dies a quo del termine quinquen‑
nale di prescrizione la data di entrata in vigore del primo decreto interno di
recepimento) e la piú recente Cass. 10 marzo 2010 n. 5842 (cfr. Foro It., 2011,
3, I, p. 862), la quale, anche se in un obiter dictum, individua il dies a quo del
termine prescrizionale (decennale) e lo fa coincidere con la data del “consegui‑
mento del diploma di specializzazione non conforme alle prescrizioni comuni‑
tarie”.
14 Quanto alla giurisprudenza di merito si segnala, in maniera particolare, Trib.
Catanzaro, 20 aprile 2009 (cfr. nota 12). Secondo tale giudice di merito “la
responsabilità in cui incorre lo Stato per il fatto del Legislatore, che attui in
modo inesatto la direttiva comunitaria scaduta, non configura un illecito per‑
manente e, pertanto, la prescrizione decorre dall’entrata in vigore della norma‑
tiva interna che traspone, in maniera infedele, il comando comunitario. Da quel
momento in poi, il cittadino comunitario può far valere il suo diritto risarcito‑
rio e, conseguentemente, decorre il termine di prescrizione di cui all’art. 2947
c.c. (v. Tribunale Roma, 2 aprile 2005)”.
15 D. Satullo, “La prescrizione dell'azione di risarcimento nei confronti dello
Stato per tardiva attuazione di una direttiva comunitaria”, La Resp. Civ. 8,
2011, 4, pp. 2589.
L'A., reputando che “la conoscenza effettiva o conoscibilità dell'evento lesivo di‑
pende dalla conoscenza effettiva o conoscibilità del diritto e, quindi, della di‑
rettiva, quale fonte del diritto medesimo”, e ritenendo non predicabile una
conoscibilità legale di una direttiva non attuata da parte del privato (“non
tanto e non solo perché non vi è un adeguato sistema pubblicitario, ma perché
il singolo non è destinatario dell'atto normativo”), conclude che “ove l'effetti‑
va conoscenza della direttiva non sia avvenuta anteriormente all'atto di recepi‑
mento ovvero della stessa il convenuto non riesca a darne prova, il termine di
prescrizione decorre dall'attuazione, in quanto solo da tale momento è garan‑
tita la conoscibilità legale del diritto attribuito”.
In realtà, si può osservare, in senso critico, che se, come sostenuto dall'A., un par‑
ziale recepimento delle direttive non sarebbe idoneo a garantire la conoscibilità
legale della fonte (direttiva comunitaria) del diritto, non si vede come tale co‑
noscibilità potrebbe dirsi assicurata in caso di corretto e completo recepimento.
Infatti, anche in questa seconda, auspicata, ipotesi, permarrebbe un rapporto
di alterità tra la fonte dall'obbligo statuale di recepimento (la direttiva) e lo
strumento di adempimento di tale obbligo (l'atto normativo interno), alterità
rafforzata dalla libertà dei modi in cui la direttiva può essere recepita dallo
Stato nazionale, ossia dei modi in cui se ne possono attuare i fini, la qual cosa
non è senza conseguenza nell'enucleazione della fisionomia del riconosciuto
diritto.
Ragion per cui, anche dinanzi ad un recepimento parziale, sul piano oggettivo o
soggettivo, il privato ha la possibilità di operare un raffronto, per così dire, tra
mezzo e fine, apprezzare l'idoneità del provvedimento normativo interno ad
operare un pieno e corretto recepimento e, laddove tale giudizio abbia esito
negativo, percepire l’“ingiustizia” del pregiudizio sofferto a cagione della con‑
dotta statuale.
16In particolare, cfr. Cass., SS. UU. n. 576/2008 in Foro It., 2008, I, pp. 453 ss..
Gazzetta
F O R E N S E
ai sensi dell’art. 2947 c.c. non dal momento in cui il terzo (nel
caso che ci occupa, lo Stato) determina la modificazione che
produce danno all’altrui diritto o dal momento in cui l’evento
dannoso si manifesta all’esterno, bensì da quando il danno viene
percepito (usando l’ordinaria diligenza) quale ingiusta conseguen‑
za di un comportamento doloso o colposo del detto terzo: “solo
da questo momento il danneggiato è nelle condizioni di eserci‑
tare il diritto con conseguente decorso della prescrizione”17
Se è consolidata l’opinione giurisprudenziale per la quale,
in caso di danno rimasto occulto, il termine di prescrizione
inizia a decorrere solo dal momento dell’esteriorizzazione di
esso, del pari non deve omettersi di considerare come, “non di
meno, ex art. 2935 c.c. la prescrizione inizi a decorrere dal
giorno in cui il diritto può esser fatto valere e tale decorrenza
non possa essere ostacolata da un mero impedimento di fatto,
quali sono l’ignoranza del titolare circa l’esistenza del diritto
o l’incuria dello stesso nell’accertarsene”18.
Si deve, quindi, fare salvo l’affidamento riposto dallo Stato
italiano circa la fissazione al 31 agosto 1991 del dies a quo del
termine prescrizionale dei crediti risarcitori vantati nei suoi
confronti, dovendosi tutelare detto affidamento in nome del
rango costituzionale del diritto di difesa e della certezza del
diritto, invocabili tanto dai creditori, quanto dai debitori,
tanto in veste di attori o di convenuti, siano essi soggetti pub‑
blici o privati.
L’orientamento giurisprudenziale che qui si contesta, rifiu‑
tando di fissare il dies a quo al 31 agosto 1991, infatti, preclu‑
derebbe allo Stato di opporre l’eccezione di prescrizione, pre‑
clusione derivante da un mero mutamento della giurispruden‑
za di legittimità, peraltro verificatosi in tempi di gran lunga
successivi a quelli in cui si svolgevano le condotte controverse,
sottoposte allora ad opposte interpretazioni giurisprudenziali
in termini di prescrizione, precisamente individuanti alla data
del 31 agosto 1991 il dies a quo del termine di prescrizione.
Premesso, dunque, che il dies a quo va ancorato saldamente
al 31 agosto 1991, un ragionamento analogo varrà in ordine
alla qualificazione del tipo di responsabilità: si deve, infatti,
sottolineare che, all’epoca dei fatti per cui è causa (ed in gene‑
rale per tutto il periodo dal 1o gennaio 1983 al 20 ottobre 2007),
il diritto vivente (come detto supra par. 1.3) qualificava come
“aquiliana” la responsabilità dello Stato inadempiente all’obbli‑
go di recepimento delle direttive non self‑executing.
2.2.1 (Segue) Il giudizio positivo sulla correttezza della con‑
dotta statuale ai sensi degli artt. 1175 e 1227, comma 2, c.c.
Si è evidenziato come i medici specializzandi immatricola‑
tisi prima dell’a.a. 1991/1992 di certo avessero contezza del
diritto vivente ratione temporis applicabile (vale a dire delle
norme sulla prescrizione – rimaste ad oggi testualmente im‑
mutate – come interpretate ed applicate dalla prevalente giuri‑
sprudenza dell’epoca cui risalgono le condotte controverse):
dunque, avrebbero dovuto compiere atti giudiziali o stragiudi‑
ziali di interruzione della prescrizione entro cinque anni (re‑
sponsabilità aquiliana) dal 31 agosto 1991 (entrata in vigore
del d.lgs. n. 257/1991).
Ebbene, la condotta dei medici specializzati rimasti inerti
per anni risulta non scusabile, in primis, ex art. 1175 c.c., in
17 D. Satullo, op.cit., p. 257.
18 Cass., Sez. II, sent. n. 1547 del 28 gennaio 2004 in Danno e resp., 2004, pp. 389 ss..
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
virtù del quale entrambe le parti di un rapporto obbligatorio
(quindi anche di quello nascente dalla violazione di un’obbli‑
gazione ex lege e che veda come debitore/responsabile lo Stato)
sono obbligate ad un comportamento improntato al canone
della correttezza e buona fede, espressione del principio soli‑
daristico di cui all’art. 2 Cost.
Com’è pacifico la clausola generale impone un comporta‑
mento corretto e improntato al canone della buona fede ed
esige, quanto al creditore, che egli tenga tutte le condotte ido‑
nee ad impedire che il debitore possa protrarre comportamen‑
ti idonei a causare nuovi danni od ad aggravare quelli già in
precedenza arrecati al creditore.
Infine, l’art. 1227 c.c., disciplinante il “concorso del fatto
colposo del creditore”, dispone, al comma 2o, che “il risarci‑
mento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potu‑
to evitare usando l’ordinaria diligenza”.
Se quanto meno i medici esclusi avessero interrotto la pre‑
scrizione entro il 31 agosto 1996, agendo giudizialmente sia
pure in tempi relativamente recenti, in tal caso, sì, sarebbe
stata imputabile solo al comportamento scorretto dello Stato
l’eventuale maturazione di interessi sulla somma capitale do‑
vuta quale risarcimento danni o borsa di studio, giacché sa‑
rebbe stata una scelta dello Stato lasciare in una condizione di
incertezza il rapporto controverso e rischiare, in caso di futu‑
ra sentenza di condanna, di dover ristorare anche gli interessi
medio tempore maturatisi sulla somma originariamente dovu‑
ta a titolo di risarcimento danni.
Quindi, solo laddove i medici esclusi, entro il 31 agosto
1996, avessero interrotto il decorso della prescrizione con atto
stragiudiziale, o agito processualmente contro lo Stato‑debi‑
tore, avrebbero potuto pretendere tutti gli ulteriori danni la‑
mentati per non aver disposto delle somme previste dal decre‑
to del 1991, in altre parole, tutti gli interessi sulla somma ri‑
chiesta a titolo di risarcimento danni o di borsa di studio.
2.2.2 (Segue) Il giudizio positivo sulla correttezza della
condotta statuale e l’inescusabilità delle omissioni difensive
dei medici alla luce del mutamento giurisprudenziale in tema
di prescrizione, in ragione della ratio e della natura di preclu‑
sione processuale di quest’ultima.
Infine, va sottolineato che la prescrizione vale a tutelare la
certezza delle situazioni giuridiche soggettive (che sarebbe
violata laddove si consentisse, dopo un silenzio protrattosi per
anni, se non per decenni, di avanzare antiche pretese ormai
sopite) e/o comunque a sanzionare la negligenza insita nel
comportamento del creditore che non abbia esercitato il pro‑
prio diritto entro il preciso termine previsto dalla legge19:
19 Cfr. G. AZZARITI e G. SCARPELLO, “Della prescrizione e della decadenza”,
in A. SCIALOJA, G. BRANCA (cur.). Commentario del Codice Civile, Bolo‑
gna, 1977, p. 203: “Molteplici sono stati i motivi addotti a fondamento razi‑
onale dell'istituto: una tacita rinunzia del titolare, una sanzione inflitta per il
mancato esercizio del diritto, la difficoltà di ristabilire a notevole distanza di
tempo la verità giuridica, la presunzione di legittimità dello stato di fatto attuale,
la tutela della buona fede, il carattere temporaneo dei rapporti giuridici ed altri
ancora. Ma è da ritenere, in conformità della più accreditata dottrina, che il
fondamento dell'istituto debba ricercarsi nella insopprimibile esigenza sociale
di assicurare la certezza nei rapporti giuridici, motivo questo che assorbe in sé
parecchi degli altri che sono stati invocati”. Detta ratio dell'istituto (certezza
dei rapporti giuridici) esprime una finalità di ordine pubblico (v. Cassazione
civile, Sez. III, 18 gennaio 2005, n. 900, Vita not., 2005, pp. 979 ss.), resa palese
dall'inderogabilità della disciplina legale della prescrizione di cui all'art. 2936
2 0 1 2
19
qualora, pertanto, i medici specializzati non avessero agito nei
tempi suddetti, non può essere impedito allo Stato supposto
debitore di avanzare un’eccezione di prescrizione, in virtù di
un mutato orientamento interpretativo sulla durata del termi‑
ne prescrizionale e sul dies a quo dello stesso, a meno di non
voler tradire le citate molteplici rationes per le quali l’istituto
della prescrizione è previsto e regolato nel nostro ordinamento
giuridico.
Quale “difesa del presente di fronte al passato”20, la pre‑
scrizione, peraltro, opera non sul merito della pretesa eserci‑
tata, da cui prescinde, bensì opera, sia pure ex post, sul piano
meramente processuale, determinando un effetto preclusivo21,
più che estintivo22, della pretesa.
Ebbene, secondo autorevole dottrina23 “non appare corretto
… attribuire alla prescrizione un’efficacia semplicemente estin‑
tiva”, dovendosi piuttosto “attribuire all’istituto un’efficacia
preclusiva”: in qualsiasi ipotesi in cui si eccepisca la prescrizione,
c.c. (che vieta, dunque, non solo le clausole pattizie dirette a prolungare i ter‑
mini di prescrizione, ma anche quelle che siano dirette ad abbreviarli), cfr. G.
AZZARITI e G. SCARPELLO, op. cit., p. 232.
Ai fini della soluzione delle questioni poste dalla vicenda in esame, tutto quan‑
to premesso “vuol dire che l’illecito comunitario va coordinato con le esigenze
di ordine pubblico dello Stato membro e siffatte esigenze legittimano l’applica‑
zione di norme comuni (applicate, cioè, agli altri illeciti interni) che ragionevol‑
mente e razionalmente impongano, ai fini di tutela, da parte del singolo, il ri‑
spetto di specifici e chiari oneri quali quello di ricorrere al Giudice entro cinque
anni dal manifestarsi del nocumento”, così Trib. di Catanzaro (cfr. nota
n. 12).
In conclusione la prescrizione risulta finalizzata a “troncare le incertezze che
rendono sterili o fiacche le energie del lavoro” (Cfr. VIVANTE, Trattato di di‑
ritto commerciale, IV, Milano 1929, p. 644).
20 DENBURG, PANDETTE, trad. it. Cicala, I, 1, Torino, 1906, p. 443.
21 “… la nota caratteristica dell'efficacia preclusiva deve ravvisarsi in ció, che
l'esenzione del debitore dalla pretesa della controparte” trova nella prescrizio‑
ne “la loro causa esclusiva” sia nel caso che la pretesa creditoria sia sorta effi‑
cacemente o meno, che sia intervenuta una causa di estinzione dell'obbligazio‑
ne o meno, così P. Vitucci, “La Prescrizione. Tomo primo. Artt. 2934, 2940”,
in Cur. P. Schlesinger. Il Codice Civile – Commentario. Milano, 1990,
pp. 37.
22Nelle c.d. “prescrizioni presuntive” (artt. 2954, 2596), invece, “il decorso del
tempo agisce sui diritti ivi menzionati con efficacia puramente estintiva, così
che della prescrizione quelle ipotesi “non hanno che il nome””, così P. Vitucci.
op. cit., pp. 267 ss.. L'A. usa le “parole degli antichi commentatori”, Mortara
e Azzariti, L'esercizio delle azioni commerciali e la loro durata, nel Codice di
commercio commentato, a cura di Bolaffio, Rocco e Vivante, Torino 1933,
p. 307. Le norme del codice civile disciplinanti le c.d. prescrizioni presuntive
hanno riguardo a rapporti la cui attuazione sovente non è accompagnata da
quietanza, per cui è la legge a presumere che, decorso un certo lasso temporale,
piuttosto breve, il pagamento sia stato eseguito. Trattandosi, tuttavia, di una
mera presunzione di avvenuto pagamento, chi la eccepisce, vedrà rigettata
detta eccezione, non solo laddove ammettesse in giudizio che l'obbligazione non
si è estinta, ma anche qualora contesti, sempre in giudizio, che il debito sia
sorto o il relativo valore pecuniario. Le stesse circostanze, ove fossero introdot‑
te da chi ha proposto una prescrizione vera e propria, non pregiudicherebbero
minimamente l'accoglimento della relativa eccezione, giacché lo stesso si fonda
sul mero decorso del tempo.
23 Cfr. P. Vitucci. op. cit., pp. 267 ss.. In particolare, l'A. analizza quale effetto
possa avere la prescrizione nelle tre ipotesi in cui la stessa può essere opposta:
“a) se l'attore esercita un diritto che non è mai sorto: b) se l'attore esercita un
diritto che è sorto e non si è estinto, ma lo esercita tardivamente; c) se l'attore
esercita un diritto che è sorto, ma si è già estinto, ad es., per adempimento. Si
vede subito che un'efficacia estintiva potrebbe essere assegnata correttamente
alla prescrizione soltanto nel secondo caso, ove è proprio l'eccezione del conv‑
enuto a rimuovere gli effetti della situazione giuridica fatta valere. Nel primo
caso, infatti, non potrebbe ravvisarsi alcun fenomeno estintivo, non essendo
mai sorta la situazione da estinguere, mentre nel terzo l'estinzione andrebbe
ascritta semmai ad una causa diversa dall'invocata prescrizione”. Tuttavia,
nota l'A. che “nemmeno nel secondo caso, deve però indagarsi … se il diritto
esercitato fosse sorto o se si fosse estinto” la “completa … identità delle tre
ipotesi” sarebbe dimostrata dal fatto che “un'efficacia semplicemente estintiva
… presupporrebbe in ogni caso l'operatività di una precedente situazione,
mentre è proprio il giudizio su tale operatività che perde rilievo davanti
all'eccepita prescrizione”.
civile
Gazzetta
20
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
infatti, scopo di quest’ultima è sempre quello di “troncare con
semplicità le controversie tardivamente instaurate, prescinden‑
do da ogni giudizio sulla fondatezza della pretesa fatta valere”,
ed “il giudice che accoglie l’eccezione di prescrizione non deve
compiere alcun accertamento ulteriore: deve limitarsi a respin‑
gere la domanda”. Ciò non vuol dire che non sia rimasta “teo‑
ricamente aperta” la questione della reale esistenza del diritto
controverso, ma significa solo che tale questione è “praticamen‑
te del tutto sterile”, in quanto, in concreto, “superata”.
Infatti, anche se ex art. 2934 c.c. è disposto che ogni dirit‑
to si “estingue” per la prescrizione quando il titolare non lo
esercita per il tempo determinato dalla legge, il successivo
art. 2940 c.c. non ammette la ripetizione del pagamento spon‑
taneo di un debito prescritto, ripetizione, invece, ammessa per
il pagamento dell’indebito. Ciò dimostra che il diritto prescrit‑
to (più che estinguersi) perde la propria forza, in quanto la
prescrizione consente al debitore di bloccare l’iniziativa pro‑
cessuale del creditore24.
Peraltro, “uniche cause per le quali il potere d’invocare la
prescrizione può consumarsi sono: la rinunzia espressa o ta‑
cita … e la cosa giudicata, quando l’interessato subisce l’ac‑
certamento giudiziale del diritto colpito da prescrizione senza
invocarla”25.
Quindi, il debitore può scegliere di non avvalersi della
prescrizione (il che accade quando non avanza tempestivamen‑
te la relativa eccezione in giudizio o qualora ex art. 2937 c.c.
vi rinunzi), ma non è consentito al giudice sostituirsi al debi‑
tore in questa scelta, di fatto sottraendogli in modo indiretto
la possibilità di avvalersi della (ormai perfezionatasi) prescri‑
zione, mediante un mutamento giurisprudenziale (operante la
detta traslazione del termine finale della prescrizione di ben
tredici anni), per giunta intervenuto a distanza di svariati anni
dal momento in cui risultava già compiutamente esauritasi e
consolidatasi l’intervenuta prescrizione.
Tutto ciò premesso, di certo, non s’ignora il carattere non
vincolante dei precedenti giurisprudenziali, rientrando l’ordi‑
namento giuridico italiano tra quelli c.d. di civil law: i carat‑
teri propri dell’attività giudiziaria, vale a dire la soggezione del
giudice solo alla legge (art. 101 Cost.) e l’obbligo di motivazio‑
ne (art. 111 Cost.), comportano il carattere non vincolante
delle decisioni giudiziali e la conseguente piena discrezionalità
del giudice di mutare la propria giurisprudenza.
Tuttavia, le decisioni giurisprudenziali, pur non annovera‑
te tra le fonti del diritto, sono dotate di una persuasività, che
24 Così F. Gazzoni. Manuale di diritto privato. XIII Ed.. Napoli, 2007.
pp.110‑111. Dunque, mentre i modi di estinzione dell'obbligazione (quali, ad
es., l'adempimento, la compensazione, la confusione) impediscono il verifi‑
carsi di un ulteriore fatto estintivo (uno stesso debito, come non può essere
acquistato due volte, così non può estinguersi due volte), la prescrizione non
estingue il diritto, in quanto ad essa il diritto sopravvive, al punto che può essere
soddisfatto spontaneamente dall'obbligato: ciò che il creditore perde qualora
si sia compiuta la prescrizione è la possibilità di far valere utilmente in giudizio
quel credito. Contra, per un'analisi degli argomenti favorevoli all'effetto estin‑
tivo della prescrizione cfr. P. Vitucci op. cit.. pp. 25 ss.. In particolare, dai
sostenitori della teoria dell'efficacia estintiva si evidenzia che presupposto per
la prescrizione di un diritto sia la stessa esistenza del diritto de quo, senza la
quale non potrebbe apprezzarsi alcuna inerzia del titolare. Gli AA., aderendo
all'orientamento espresso dal Carnelutti (Carnelutti. “Appunti sulla prescriz‑
ione”. Riv. dir. proc. Civ., 1933, I, pp. 3249 e “Tutela civile dei diritti”, Riv. dir.
proc. Civ., 1943, I, pp. 1012), obiettano che la prescrizione, per essere eccepita,
necessita del mero esercizio di una pretesa, a prescindere che detta pretesa
possa dirsi “fondata o non fondata”, cfr. Ibidem, p. 29.
25 Cfr. G. Azzariti e G. Scarpello, op. cit., pag. 240
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
può reputarsi un valore normativamente posto, discendendo
da una serie di disposizioni ordinarie, tese a garantire, a loro
volta, principi e diritti costituzionali (si pensi, ad es., al prin‑
cipio di solidarietà sociale ex art. 2 Cost., a quello di ugua‑
glianza ex art. 3 Cost., al diritto di difesa ex art. 24 Cost, al
principio del giusto processo di cui all’art. 111 Cost.).
In particolare, per quanto è d’interesse nel caso di specie,
la persuasività delle decisioni della Corte di Cassazione, tito‑
lare della funzione nomofilattica, discende dall’essenzialità del
proprio ruolo nella costruzione del c.d. “diritto vivente”: “nel
sistema costituzionale delle fonti la disposizione è considera‑
ta parte di un testo non ancora conformato dal lavorio inter‑
pretativo, mentre la norma, in un’accezione più ristretta di
quella comunemente adoperata, è un testo già sottoposto ad
elaborazione interpretativa rilevante” (cfr. Cass., Sez. Un.,
sent. n. 7194/199426).
Spetta, quindi, al giudice trarre una “norma” da una “di‑
sposizione”, ciò, peraltro, mediante un’attività interpretativa
“adeguatrice” della stessa non solo alla Costituzione, ma an‑
che, in ambito sovranazionale, al diritto comunitario ed alla
disciplina della CEDU.
Non mancano norme che consentono di supportare la te‑
oria sulla persuasività “forte” del precedente, quali:
– l’art. 65 ord. giud. (r.d. 30 gennaio 1941, n. 12), sul quale
si sono raccordati l’art. 363 cod. proc. civ., da cui la possi‑
bilità di una pronuncia della Cassazione “nell’interesse
della legge” al solo fine di rimuovere l’efficacia di prece‑
dente alle sentenze, e l’art. 384 cod. proc. civ., sull’enun‑
ciazione del “punto di diritto”, al quale il giudice del rinvio
deve uniformarsi;
– gli artt. 374 cod. proc. civ. e 618 cod. proc. pen., sulla
pronuncia a Sezioni Unite per l’eliminazione, preventiva o
successiva, di contrasti giurisprudenziali;
– l’art. 393 cod. proc. civ., sull’estinzione del giudizio con
conservazione degli effetti della sentenza della cassazio‑
ne;
– l’art. 118, comma terzo, disp. att. cod. proc. civ., sul divie‑
to di citare la dottrina, ma non già i precedenti.
Tutte queste disposizioni, nel loro complesso, mirano a
garantire una stabilità delle norme giuridiche e una prevedi‑
bilità degli effetti della decisione sulla sfera individuale, la c.d.
certezza del diritto, che si ricollega ai principi di solidarietà
sociale ex art. 2 Cost., ai principi ex art. 3 Cost. di imparzia‑
lità ed eguaglianza (che impongono di trattare situazioni
analoghe in modo analogo), al diritto di difesa ex art. 24 Cost.
(che perderebbe di effettività laddove si esponesse la parte
processuale a mutamenti giurisprudenziali repentini ed im‑
prevedibili, tali da determinare decisioni, per così dire, “a
sorpresa”), allo stesso principio del “giusto processo” ex
art. 111 Cost.
In altre parole, tutte queste norme ed il valore della certez‑
za del diritto di cui sono espressione, lungi dal costituire un
argomento a sostegno della vincolatività del precedente, cer‑
tamente obbligano il giudice quanto meno a prenderlo in
considerazione, anche al fine, che è qui di interesse, della qua‑
lificazione, come corrette o meno, delle condotte delle parti
rispetto alla situazione controversa.
26 Cass., SS. UU., sent. n. 7194 del 2 agosto 1994 in Foro It., 1994, I, pp. 3410.
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
3. Valutazioni conclusive
Anche alla stregua delle suddette disposizioni, oltre che di
quelle sostanziali già richiamate, può dirsi tutelabile
l’affidamento che lo Stato possa aver riposto nella consolidata
interpretazione delle norme sulla prescrizione applicabili al
caso di specie, qual’è stata enucleata nel diritto vivente coevo
alle condotte dibattute? Una giurisprudenza decennale e con‑
solidata nel fissare una certa responsabilità come “aquiliana”
ed un dato giorno come dies a quo del relativo termine pre‑
scrizionale possono condizionare un debitore nel fargli ritenere
prescritto il proprio debito? Può una giurisprudenza consoli‑
data in un certo periodo storico considerarsi uno dei param‑
etri di riferimento cui il giudice debba aver riguardo per ap‑
prezzare se ragionevole e corretto sia stato l’affidamento di un
debitore nella prescrizione del proprio debito?
La risposta positiva a questi quesiti trova conferma nella
giurisprudenza che non esita a ritenere che, in ipotesi di muta‑
menti giurisprudenziali in materia di disposizioni processuali,
non possa darsi seguito retroattivamente ad un precedente che
abbia come effetto di precludere un’attività difensiva, am‑
messa alla stregua del precedente orientamento.
In caso di mutamento giurisprudenziale tra gli strumenti
immediati individuati dalla giurisprudenza di legittimità e di
merito per rendere effettiva la tutela della parte processu‑
ale – suscettibile di essere pregiudicata dal nuovo orientam‑
ento – vi sono quelli della rimessione in termini (ove si tratti
ricompiere o di rinnovare l’attività processuale omessa o viz‑
iata) e quello di ritenere tempestivo e corretto l’originario
comportamento tenuto dalla parte.
Nel caso di specie non può che ritenersi corretto il compor‑
tamento dello Stato italiano, che legittimamente ha confidato
nella prescrizione del proprio debito ed al quale non può pre‑
cludersi la proposizione dell’eccezione di prescrizione, medi‑
ante una, ingiustificabile, rimessione in termini di quei medici
specializzandi che non sono stati diligenti nell’azionare tem‑
pestivamente le proprie pretese.
Pertanto, aderendo all’orientamento giurisprudenziale
proposto dai giudici di legittimità, si darebbe ingresso ad un
vero e proprio abuso dell’azione processuale, consentendo a
coloro i quali non hanno agito diligentemente a tempo debito,
ma abbiano fortunosamente compiuto atti interruttivi della
prescrizione entro il 27 ottobre 2009, di avanzare poste credi‑
torie, rimaste a lungo tempo sopite.
Di conseguenza, si ammetterebbe, inoltre, un ingiustifi‑
cato arricchimento ai danni dello Stato: costoro sarebbero
ammessi a lucrare tutti gli interessi sulla somma capitale do‑
mandata maturatisi nell’ulteriore lasso di tempo concesso loro
quale ingiustificata e immeritata rimessione in termini.
Di questo lungo tempo trascorso dall’immatricolazione al
soddisfo gli unici responsabili sarebbero i medici rimasti si‑
lenti quando avrebbero potuto agire, non certo lo Stato, che
prescindendo dalla eventuale fondatezza delle pretese, ha po‑
tuto in tutti questi anni legittimamente e ragionevolmente
confidare, per dictum giurisprudenziale della Corte di legit‑
timità, sull’intervenuta prescrizione delle stesse.
Il revirement introdurrebbe, in sintesi, una preclusione
difensiva ai danni dello Stato, che quest’ultimo non poteva
prevedere, rispetto alla quale, quindi, non ha potuto orientare
e conformare a tempo debito le proprie condotte, per sottrarle
ad eventuali addebiti.
2 0 1 2
21
Non si comprende, quindi, come l’orientamento giurispru‑
denziale in esame possa essere stato considerato da alcuni dei
primi commentatori quale “un passo in avanti”, addirittura,
“verso la definitiva sistemazione delle problematiche relative
al risarcimento dei medici specializzandi che avevano frequen‑
tato i relativi corsi tra il 1982 ed il 1991 senza ottenere alcuna
forma di remunerazione e, quindi, lamentavano il pregiudizio
conseguente alla mancata trasposizione, da parte dello Stato
italiano, delle disposizioni dettate dalla direttiva 82/76/Cee
che tale beneficio prevedeva”27.
Peraltro, rappresenta un dato di fatto, non una mera opin‑
ione, che l’incertezza sull’applicabilità o sulla portata di regole
giuridiche causi un incremento delle controversie dinanzi ai
giudici e, a valle, inefficienze di funzionamento dei sistemi
giurisdizionali ed allungamento dei tempi di definizione delle
cause28.
Si aggiunga, inoltre, che vicende come quella in esame,
dilatanti di più di un decennio i termini prescrizionali di poste
risarcitorie, quali quelle dei medici specializzatisi ante a.a.
1990/1991, che dovrebbero considerarsi esaurite, hanno, per di
più, l’effetto di alimentare ulteriormente questo contenzioso.
In conclusione, per le ragioni esposte, si crede di poter
fondatamente affermare che con questo orientamento della
Corte di legittimità non solo comporti più di un passo indi‑
etro, ma ha, per giunta, dato nuova linfa ad un contenzioso
che, in ragione delle maturate prescrizioni, sembrava avviarsi
ad un fisiologico esaurimento. Tanto la Cassazione ha fatto in
virtù di ragionamenti che, lungi dal fornire una definitiva
sistemazione alle problematiche sussistenti in subiecta materia,
ne ha generate di nuove, risultando, peraltro, doppiamente
criticabile: da un lato, in quanto ingiustificatamente lesiva del
legittimo affidamento riposto dallo Stato nel precedente di‑
ritto vivente, dall’altro, in quanto tale orientamento si è rive‑
lato come pericoloso e pregiudizievole fonte di diseconomie,
anche per il sistema giudiziario.
27 A. Diana, A. Palmieri, Corte di Cassazione. “Sezione III Civile, sent. 17 mag‑
gio 2011, n. 10813”. Foro It., 2011, 6, I, p. 1676.
28 Cfr. F. Zaccaria (2003). “La perdita della certezza del diritto: riflessi sugli
equilibri dell'economia e della finanza pubblica” in Diritti, regole, mercato
Economia pubblica ed analisi economica del diritto. XV Conferenza SIEP Pavia,
Università, 3‑4 ottobre 2003. http://www3.unipv.it/websiep/wp/211.pdf del 15
novembre 2011 “Una recente indagine in chiave economica delle modalità di
funzionamento della giustizia civile in Italia ha rilevato che il tempo per la
definizione di cause civili è in media di 8 mesi in Germania, di 12 in Francia, 14
in Gran Bretagna e 36 mesi nel nostro paese. Questo avviene, si noti, in una
situazione di sostanziale parità del rapporto numerico fra magistrati in servizio
e cittadini e in una situazione di sostanziale eguaglianza delle spese per la giusti‑
zia. La lunghezza dei processi in Italia è spiegabile, oltre che con motivi “azien‑
dali” ed organizzativi dell’operatore giudiziario, anche con la rilevazione della
persistente incertezza del diritto che rende necessaria la proposizione di un nu‑
mero elevato di azioni anche di difficile e complessa analisi e decisione”.
civile
Gazzetta
22
D i r i t t o
●
Licenziamento
antisindacale: rilevanza
delle dinamiche del caso
per l’esclusione
dell’insubordinazione
e del danno
alla produttività
Nota a Corte di Appello di Potenza,
sez. lav., 23 febbraio 2012, n. 170
● Ida Sorrentino
Dott.ssa in Giurisprudenza
e
p r o c e d u r a
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
Corte di Appello di Potenza, Sez. lav.
sentenza 9 marzo 2012, n. 170
Pres. Ferrone; Est. Marotta
Diritto di sciopero – Limiti di esercizio del diritto di sciopero
La libertà di sciopero, per rimanere nell’ambito corrispon‑
dente al suo oggetto, di libertà di non fare, deve svolgersi in
modo da non ledere altre libertà costituzionalmente garantite,
come quella spettante a quanti non aderiscono allo sciopero
ovvero quella del datore di lavoro di iniziativa economica.
Condotta antisindacale – Limiti di esercizio del diritto di sciope‑
ro – danno alla produzione e danno alla produttività
Non vi è più quel collegamento esonerativo con l’esercizio
del diritto di sciopero quando la lotta sindacale sia trascesa
da una mera astensione collettiva dal lavoro a manifestazioni
di violenza, minaccia ed intimidazione nei confronti di altri
lavoratori o del datore di lavoro ovvero abbia inciso diretta‑
mente sulla integrità degli impianti e sulla incolumità degli
impiegati addettivi ovvero ancora sia consistita in un com‑
portamento materiale positivo di ostacolo al lavoro degli altri
dipendenti, mediante fisica ostruzione alle manovre dei mez‑
zi. In tali casi, la condotta rileva ai fini della violazione degli
obblighi costituenti il contenuto del rapporto di lavoro.
Licenziamento per giusta causa – Accertamento elemento psico‑
logico – Necessità – Lesione grave rapporto di fiducia tra dipen‑
dente e datore di lavoro – Sussistenza
Per stabilire l’esistenza della giusta causa di licenziamen‑
to occorre in concreto accertare se – in relazione alla qualità
del rapporto intercorso fra le parti, alla posizione che in esso
abbia rivestito il lavoratore, alla qualità ed al grado di fiducia
che quel rapporto comportava – la specifica mancanza com‑
messa dal dipendente, considerata non solo nel suo contenu‑
to obiettivo, ma anche nella sua portata soggettiva, specie con
riferimento alle particolari circostanze e condizioni in cui è
posta in essere, ai suoi modi, ai suoi effetti, ed all’intensità
dell’elemento psicologico, risulti idonea a ledere in modo
grave, così da farla venir meno, la fiducia che il datore di la‑
voro ripone nel proprio dipendente, e tale quindi, da esigere
sanzioni non minori di quella (massima) espulsiva.
(Omissis)
Svolgimento del processo
Con sentenza nr. 475/2011, resa in data 14/7/2011, il Tri‑
bunale di Melfi, in composizione monocratica ed in funzione
di giudice del lavoro, accoglieva l’opposizione proposta dalla
S. A.T.A. S. p.A., con ricorso del 19/8/2010, nei confronti
della FIOM‑CGIL, avverso il decreto ex art. 28 della legge
n. 300/1970, reso dal Tribunale di Melfi in data 9/8/2010 e,
per l’effetto, revocava l’opposto decreto ordinando la pubbli‑
cazione del dispositivo sui quotidiani “Il Corriere della Sera”
e “La Repubblica”; le spese processuali restavano compensate
tra le parti.
Con ricorso depositato in data 21/7/2010 la FIOM‑CGIL
di Potenza aveva azionato il procedimento sommario di cui
all’art. 28 della legge n. 300/1970, chiedendo all’adito Tribu‑
nale di Melfi di accertare e dichiarare il carattere antisindaca‑
le della condotta posta in essere da S. A.T.A. S. p.A., in rela‑
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
zione ai licenziamenti intimati ai lavoratori L. A., B. G. e
P. M., e, quindi, di ordinare alla società convenuta la cessa‑
zione del denunciato comportamento e la rimozione degli
effetti dei disposti licenziamenti mediante l’immediata rein‑
tegrazione dei citati lavoratori.
A sostegno di tali richieste, l’O.S. ricorrente aveva dedot‑
to che i licenziamenti de quibus erano, in primo luogo, fon‑
dati su una contestazione inveritiera (e quindi illegittimi,
poiché privi di giusta causa), atteso che – diversamente da
quanto sostenuto dall’azienda e da quest’ultima posto a base
delle contestazioni – la movimentazione dei carrelli AGV
dall’area picking delle UTE n. 3 e n. 4, durante lo sciopero del
7/7/2010, non era stata interrotta dalla presenza dei lavora‑
tori licenziati (che, in tesi, ne avrebbero ostruito la corsa),
bensì sospesa dai responsabili UTE, in ragione dell’adesione
degli operai alla mobilitazione.
La sanzione, inoltre, ad avviso della ricorrente avrebbe
avuto carattere antisindacale, in quanto irrogata a due dele‑
gati (L. e B.) e ad un iscritto (P.) FIOM, a causa del ruolo da
questi esercitato in azienda in occasione delle mobilitazioni
che avevano interessato lo stabilimento di Melfi, e, in parti‑
colare, dell’attività sindacale dai medesimi svolta nel corso
dello sciopero tenutosi in data 7/7/2010.
Si era costituita la S. A.T.A. S. p.A. ed aveva impugnato
quanto ex adverso dedotto, chiedendo il rigetto del ricorso.
Con decreto del 9/8/2010 il Tribunale di Melfi, all’esito
della fase sommaria, aveva dichiarato l’antisindacalità dei
licenziamenti intimati da S. A.T.A. S. p.A., in data
13‑14/7/2010, ai lavoratori L. A., B. G. e P. M., e, per l’effet‑
to, ordinato a S. A.T.A. S. p.A. la immediata reintegra degli
stessi nel proprio posto di lavoro; aveva, altresì, ordinato la
pubblicazione del dispositivo, a cura e spese della società re‑
sistente, sui quotidiani “Il Corriere della Sera” e “La Repub‑
blica”.
Il giudice della fase sommaria aveva, in particolare, rite‑
nuto che contraria alla prospettazione dell’azienda fosse la
circostanza, emersa dall’istruttoria, che per rendere nuova‑
mente operativo il carrello era stato necessario un ripristino
manuale, laddove, se la causa del blocco fosse stata la presen‑
za dei lavoratori licenziati sul percorso del passaggio del
carrello (con rilevamento della stessa da parte del radar del
veicolo), non vi sarebbe stata alcuna necessità di tale opera‑
zione; una volta eliminato l’ostacolo, il veicolo sarebbe, infat‑
ti, ripartito automaticamente. Aveva, così, escluso la sussi‑
stenza, dal punto di vista oggettivo, della condotta come
contestata dall’azienda. In ogni caso, aveva ritenuto che po‑
tesse essere escluso, in capo ai lavoratori licenziati, l’elemento
soggettivo del dolo, nel senso di deliberata volontà di impedi‑
re il transito degli AGV e di arrestare, così, la produzione
aziendale, ed evidenziato che gli stessi, sentendosi minacciati,
attraverso contestazioni all’apparenza incomprensibili,
nell’esercizio di un loro diritto costituzionale (era in atto uno
sciopero) e stante la particolare concitazione del momento,
avevano “trascurato” di considerare che la loro condotta
potesse oggettivamente essere causativa di un blocco della
produzione, pensando prioritariamente a difendersi. Tale ri‑
costruzione, ad avviso del giudicante, era stata corroborata
dal fatto che dall’istruttoria svolta era emerso che, nel corso
della accesa discussione tra gli scioperanti ed i responsabili
aziendali, questi ultimi mai avevano prospettato ai lavoratori
2 0 1 2
23
la tesi che il carrello potesse essere bloccato a causa di un
precedente contatto con un ostacolo, essendosi invece limita‑
ti a contestare direttamente la posizione dei lavoratori. Quan‑
to alla antisindacalità degli irrogati provvedimenti, aveva ri‑
tenuto che gli stessi – in quanto diretti contro attivisti e mili‑
tanti della FIOM, organizzazione notoriamente protagonista,
a seguito di determinate scelte di politica industriale e di or‑
ganizzazione del lavoro operate dal gruppo FIAT (v., in par‑
ticolare il c.d. “accordo di Pomigliano”), di una serrata criti‑
ca sindacale nei confronti di tutte le società facenti capo al
gruppo medesimo – fossero idonei a conculcare il futuro se‑
reno esercizio del diritto – costituzionalmente tutelato – di
sciopero e a limitare l’esercizio dell’attività sindacale.
Avverso tale decreto, con ricorso depositato in data
19/8/2010, S. A.T.A. S. p.A. aveva proposto opposizione,
deducendo che il Giudice diprime cure aveva erroneamente
valutato gli esiti dell’attività istruttoria, seppur sommariamen‑
te svolta. Aveva, in particolare, rilevato la manifesta e radica‑
le incongruità e contraddittorietà della motivazione in ordine
ai fatti controversi e decisivi per il giudizio (fallace interpre‑
tazione della contestazione – addebito dell’impedimento al
transito dell’AGV e non del blocco iniziale dello stesso – in‑
congrua ed erronea valutazione delle condotte dei lavoratori
licenziati – consapevolezza degli stessi in ordine ai motivi
della contestazione – deliberato impedimento al transito
dell’AGV – sussistenza dell’elemento soggettivo). Aveva dedot‑
to la piena legittimità e proporzionalità dei provvedimenti
irrogati.
La FIOM‑CGIL si era costituita in giudizio ed aveva chie‑
sto il rigetto dell’opposizione.
Espletata ulteriore prova testimoniale ed acquisita nuova
documentazione in corso di giudizio, rigettata con ordinanza
del 21/1/2011 la richiesta avanzata dalla FIOM‑CGIL di
autorizzazione al deposito di: 1) copia DVD della registrazio‑
ne della trasmissione televisiva “Annozero” del 2/10/2010, 2)
copia delle trascrizioni giurate delle registrazioni telefoniche,
3) scheda Sim dell’utenza telefonica mobile intestata al B., 4)
telefono cellulare del B., 5) n. 2 fotografie ritraenti il conte‑
nuto di un messaggio sms; 6) copia dell’articolo apparso su
“Il Quotidiano” del 16/1/2011. Erano state, poi, rigettate, con
successiva ordinanza del 7/5/2011, le richieste della
FIOM‑CGIL di accesso sul luogo di lavoro e di acquisizione
di n. 4 fotografie riproducenti i luoghi ove si erano svolti i
fatti. Quindi la causa era stata decisa in senso favorevole alla
società opponente.
Il giudice dell’opposizione aveva ritenuto di escludere ogni
intento persecutorio o antisindacale da parte dell’azienda ed
a carico dei lavoratori licenziati, evidenziando che i provve‑
dimenti di recesso erano stati la logica conseguenza di com‑
portamenti che, travalicando i limiti dello sciopero, erano
sconfinati nell’aperta violazione dei più comuni obblighi di
diligenza, fedeltà, obbedienza, correttezza e buona fede e
nella plateale negazione della gerarchia aziendale. Aveva rile‑
vato, in particolare, che le modalità di protesta poste in atto
da B., L. e P., pur se con alcune differenziazioni iniziali, oltre
ad essere illegittime da un punto di vista strettamente giuri‑
dico, erano state sin da subito percepite come tali sindacal‑
mente anche da tutti gli altri manifestanti, tra cui alcuni
rappresentanti di altre sigle sindacali, i quali si erano disso‑
ciati spostandosi ai bordi del percorso dell’AGV ed invitando
civile
Gazzetta
24
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
i tre a fare altrettanto e, successivamente, avevano preso le
distanze dal documento, sottoscritto la stessa notte in cui si
erano verificati i fatti, contenente la dichiarazione di corretto
svolgimento della protesta. Ritenuta accertata, dunque, l’ille‑
gittimità della condotta dei tre lavoratori e l’estraneità di essa
all’ambito dello sciopero e ritenuta, altresì, la sussistenza di
un danno grave per l’azienda determinato dal blocco della
produzione riconducibile alla condotta esclusiva di B., L. e P.,
aveva reputato che si fosse fuori da ogni ipotesi di discrimi‑
nazione rilevante a norma dell’art. 28 dello statuto dei lavo‑
ratori ed aveva, in conseguenza, revocato il decreto opposto.
Avverso tale pronuncia interponeva appello la FIOM‑CGIL
di Potenza con ricorso depositato in data 19/10/2011, censu‑
rando la sentenza impugnata per: “Errore di diritto in rela‑
zione ai denunciati vizi formali del licenziamento per viola‑
zione della procedura di cui all’art. 14 dell’accordo intercon‑
federale del 18 aprile 1966”; “Errore di diritto in ordine al
mutamento del contenuto della contestazione disciplinare ed
alla valenza del principio di immutabilità della motivazione
del licenziamento”; “Travisamento dei fatti per come emersi
dall’istruttoria e documentati, mancata considerazione di
fatti rilevanti incontestabili”; “Errata valutazione delle risul‑
tanze istruttorie”; “Vizi in procedendo in relazione alla fase
istruttoria del processo relativamente alle decisioni sulla am‑
missione dei mezzi di prova e alla illegittima riduzione della
lista testimoniale della parte opposta oggi appellante”. Insi‑
steva per l’accoglimento delle richieste istruttorie invano
formulate innanzi al primo giudice e concludeva per la rifor‑
ma dell’impugnata sentenza con rivalsa di spese.
Emesso il decreto presidenziale ex art. 435 c.p.c., notifi‑
cato in uno all’atto introduttivo alla controparte, si costituiva
la S. A.T.A. S. p.A. resistendo alle avverse deduzioni e conclu‑
dendo per il rigetto dell’appello e la conferma dell’impugnata
sentenza.
Con ordinanza collegiale del 19/1/2012 veniva disposta
l’acquisizione di documentazione.
Alla odierna udienza comparivano i procuratori delle
parti che riportatisi ai rispettivi scritti difensivi discutevano la
causa che veniva decisa come da dispositivo letto in udienza.
Motivi della decisione
Con il primo motivo di gravame deduce l’appellante la
sussistenza di un errore di diritto in relazione ai denunciati
vizi formali dei licenziamenti, per violazione della procedura
di cui all’art. 14 dell’Accordo interconfederale del
18/4/1966.
Sostiene che il primo giudice ha risposto in modo “troppo
sbrigativo” al contestato rilievo secondo il quale il datore di
lavoro non avrebbe fatto “seguire” la notifica dei licenziamen‑
ti all’associazione sindacale alla comunicazione ai singoli la‑
voratori. Censura l’approccio formalistico risultante dalla
decisione ed evidenzia che detta ultima comunicazione fu
fatta (non prima ma) contestualmente all’altra, “tant’è che i
lavoratori hanno appreso del loro licenziamento dall’associa‑
zione sindacale”.
Il motivo è infondato.
La norma pattizia invocata dall’appellante testualmente
prevede: “1. I membri di commissione interna ed i delegati di
impresa in carica ed uscenti, fino ad un anno dalla cessazione
dalla carica, non possono essere licenziati o trasferiti senza il
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
nulla osta delle organizzazioni sindacali territoriali che rap‑
presentano rispettivamente il lavoratore interessato e l’azien‑
da le quali si pronunceranno in merito, dopo un esame con‑
ciliativo fatto su richiesta dell’organizzazione dei lavoratori,
entro sei giorni dalla notifica fatta dalla associazione dei
datori di lavoro a quella dei lavoratori; quest’ultima notifica
segue la comunicazione fatta dall’azienda al lavoratore inte‑
ressato ed alla propria organizzazione. Il licenziamento o il
trasferimento deve essere comunicato con forma scritta al
lavoratore, il quale ha diritto di chiederne la motivazione. 2.
Se il nulla‑osta viene concesso o comunque decorso il termine
di cui al numero precedente senza che sia stato richiesto l’esa‑
me conciliativo, il provvedimento aziendale diviene operan‑
te…”.
Si osserva, innanzitutto, che l’Accordo Interconfederale
del 18/4/1966, sottoscritto per la costituzione ed il funziona‑
mento delle commissioni interne, rimasto in vigore solo da un
punto di vista formale – visto che la successiva legge
n. 300/1970 non ha sostituito le rappresentanze sindacali
aziendali (di origine legale, art. 19) alle commissioni interne
(di origine contrattuale), prevedendole, separatamente, en‑
trambe (art. 4, 6 e 22), affidando alle seconde solo funzioni
eventuali e sussidiarie (nell’ipotesi di mancata costituzione
delle rappresentanze sindacali aziendali) ed assicurando alcu‑
ne garanzie processuali sia ai dirigenti delle rappresentanze
che ai candidati membri delle commissioni interne (art. 18,
comma 4, e art. 22) – così Cass. n. 7603 del 28/7/1990, id.
n. 6366 del 16/05/2000 ‑, è stato recepito dall’art. 6 del
C.C.N.L. per le lavoratrici ed i lavoratori addetti all’industria
metalmeccanica privata. Con tale ultima disposizione pattizia
le parti si sono impegnate all’osservanza, nei confronti dei
componenti delle Rappresentanze sindacali unitarie di cui
all’art. 5 del medesimo C.C.N.L., limitatamente al periodo di
durata dell’incarico, della tutela prevista dal suddetto art. 14
dell’Accordo Interconfederale del 18/4/1966.
Il dato testuale è, però, nel senso che l’inefficacia del licen‑
ziamento (che è una inefficacia di tipo convenzionale e, dun‑
que, costituisce mero inadempimento contrattuale e non le‑
gale, con la conseguente inapplicabilità – nel caso di diretta
impugnativa da parte del lavoratore – dell’art. 18 dello Statu‑
to dei lavoratori che, disciplinando l’istituto della reintegra‑
zione, è previsione eccezionale, con ambito di operatività ben
delimitato) è posto in relazione alla mancanza del nulla osta
da parte delle organizzazioni sindacali territoriali, non anche
alla posteriorità della notifica a queste ultime dell’atto espul‑
sivo rispetto alla comunicazione al lavoratore interessato.
Tale ultima scansione temporale non è in alcun modo sanzio‑
nata.
Peraltro, la ratio della previsione di cui all’art. 14 dell’A.I.
del 18/4/1966, secondo cui il nulla osta in caso di trasferimen‑
to o di licenziamento di rappresentanti di r.s.a. deve essere
richiesto dopo l’intimazione del licenziamento, è quella di
garantire all’organizzazione del lavoratore una compiuta co‑
noscenza dei motivi addotti per il trasferimento o il licenzia‑
mento, e ciò al fine dell’esame conciliativo (tra le contrapposte
associazioni di categoria) nei termini previsti – si veda, in tal
senso, Cass. n. 7105 del 6/7/1990 che interpreta la disposizio‑
ne suddetta alla luce della previsione di cui al secondo com‑
ma del medesimo art. 14 secondo cui il provvedimento azien‑
dale diviene operante in caso di concessione del nulla‑osta
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
medesimo e quando sia comunque scaduto, sempre che sia
stato richiesto l’esame conciliativo, il termine all’uopo previsto
‑. Pertanto si tratta di una previsione a tutela delle prerogati‑
ve dell’organizzazione ai fini del suddetto esame conciliativo
(che qui non sono in discussione) e non (direttamente) di
quelle del lavoratore.
Con il secondo ed articolato motivo deduce l’appellante la
sussistenza di un errore di diritto in ordine al mutamento del
contenuto della contestazione disciplinare ed alla valenza del
principio di immutabilità della motivazione del licenziamento.
Sostiene che, a fronte di una contestazione chiaramente diret‑
ta a censurare l’intenzionale blocco dei carrelli, il primo giu‑
dice non ha fatto corretta applicazione dei principi giurispru‑
denziali circa l’immutabilità della motivazione del licenzia‑
mento, non avvedendosi del fatto che vi era stato un “muta‑
mento del contenuto della contestazione disciplinare” tale da
pregiudicare lo stesso diritto di difesa. Evidenzia che, nel
corso del processo, vi è stato un aggiustamento e mutamento
progressivo della posizione aziendale così da indurre il primo
giudice a ritenere contestato il fatto di aver ostacolato “la
solerte ripresa della produzione” a fronte dell’iniziale addebi‑
to del “blocco dell’attività produttiva”. Rileva che, a fronte di
una motivazione divenuta “di grave insubordinazione”, il
primo giudice non ha tenuto in debito conto la circostanza
che lo sciopero è una legittima causa di sospensione del rap‑
porto, durante la quale l’obbligo di obbedienza non può che
essere sospeso (al contrario di altri obblighi, quali ad esempio
la fedeltà), ovvero comunque risultare attenuato, ed evidenzia
che tale omissione ha inciso sul giudizio di proporzionalità
come operato. Rileva che erroneamente il primo giudice ha
fatto riferimento ad un “comportamento oltraggioso in con‑
trasto con l’etica comune”, assolutamente estraneo alla con‑
testazione disciplinare, ed ugualmente in modo erroneo ha
valutato fondata ed adeguata, quale causa di licenziamento,
la “pubblica minaccia di B. di estendere tale forma di protesta
a tutto il montaggio”, ignorando, al riguardo, la circostanza,
documentalmente provata, che l’unico atteggiamento provo‑
catorio era stato quello del gestore operativo T. verso gli
scioperanti e non viceversa.
Il motivo, per la parte relativa al dedotto mutamento
della motivazione del licenziamento (e riservato al prosieguo
l’esame della censura afferente il giudizio di proporzionalità
nonché di quelle più specificamente attinenti agli ulteriori
aspetti della ritenuta “graveinsubordinazione”), non è, in sé,
fondato, anche se sollecita alcune precisazioni che si rivele‑
ranno determinanti per la comprensione dell’intera vicenda
oltre che per l’esame delle ulteriori censure mosse alla senten‑
za de qua.
Come correttamente evidenziato da parte appellata, il
principio posto a garanzia dell’effettivo diritto di difesa che
la normativa sul procedimento disciplinare di cui all’art. 7
della legge n. 300/1970 assicura al lavoratore incolpato (ai
fini della verifica della legittimità del successivo licenziamen‑
to) è quello della immutabilità della contestazione che preclu‑
de l’attribuibilità al lavoratore, a sostegno del provvedimento
espulsivo irrogato, di nuovi fatti, salvo che questi configurino
circostanze confermative dell’addebito già contestato, ovvero
integrino circostanze diverse che concorrano a definire man‑
canze addebitabili al lavoratore e siano state contestate nell’os‑
servanza delle norme poste a tutela del diritto di difesa del
2 0 1 2
25
dipendente (si veda, sul punto, Cass. n. 17604 del 10/08/2007:
“L’immutabilità della contestazione preclude al datore di la‑
voro di far valere, a sostegno delle sue determinazioni disci‑
plinari (nella specie, licenziamento), circostanze nuove rispet‑
to a quelle contestate, tali da implicare una diversa valutazio‑
ne dell’infrazione disciplinare anche diversamente tipizzata
dal codice disciplinare apprestato dalla contrattazione collet‑
tiva, dovendosi garantire l’effettivo diritto di difesa che la
normativa sul procedimento disciplinare di cui all’art. 7 della
legge n. 300 del 1970 assicura al lavoratore incolpato” ed in
senso conforme Cass. n. 6499 del 22/03/2011: “In tema di
licenziamento disciplinare, il fatto contestato ben può essere
ricondotto ad una diversa ipotesi disciplinare (dato che, in tal
caso, non si verifica una modifica della contestazione, ma
solo un diverso apprezzamento dello stesso fatto), ma l’immu‑
tabilità della contestazione preclude al datore di lavoro di far
poi valere, a sostegno della legittimità del licenziamento stes‑
so, circostanze nuove rispetto a quelle contestate, tali da im‑
plicare una diversa valutazione dell’infrazione anche diversa‑
mente tipizzata dal codice disciplinare apprestato dalla con‑
trattazione collettiva, dovendosi garantire l’effettivo diritto di
difesa che la normativa sul procedimento disciplinare di cui
all’art. 7 della legge n. 300 del 1970 assicura al lavoratore
incolpato”. Questi principi di elaborazione giurisprudenziale
si ispirano ad un equo contemperamento delle contrapposte
esigenze delle parti del rapporto di lavoro ed a valori di effet‑
tività del diritto di difesa in materia disciplinare, che la Cor‑
te costituzionale ha più volte riconosciuto (v., fra le altre, le
sentenze 30 novembre 1982, n. 204; 25 luglio 1989, n. 427;
23 luglio 1991, n. 364) inalienabile acquisizione del patrimo‑
nio civile del lavoratore, nei cui confronti è esercitato il pote‑
re della controparte, sì da sottrarre le relative norme ordinarie
di previsione a qualsiasi dubbio di dissonanza dal modello
prefigurabile in base al combinato disposto degli artt. 3 e
24 Cost..
Peraltro, sempre in tema di licenziamento disciplinare, il
problema del coordinamento tra l’art. 7 della legge n. 300/1970,
che impone l’obbligo della contestazione dell’addebito, e
l’art. 2 della legge n. 604/1966, che prevede la comunicazione
per iscritto del recesso con onere di specificazione dei motivi
su richiesta del lavoratore, è stato dalla Suprema Corte risol‑
to nel senso che, ferma la distinzione tra contestazione dell’ad‑
debito e motivazione del licenziamento, è sufficiente il mero
richiamo al contenuto della lettera di contestazione, che è fi‑
nalizzata a consentire al lavoratore la proposizione di even‑
tuali discolpe – così Cass. n. 11851 del 16/11/1995, id. n. 4659
del21/04/1993, id. n. 2963 del 20/03/1991 ‑.
La ratio dell’evidenziato inscindibile collegamento tra
contestazione dell’addebito e motivazione del licenziamento è
sempre quella di consentire al lavoratore un compiuta difesa
in relazione alle circostanze così come delineate nella prima,
che preclude al datore di lavoro di licenziare per altre ragioni,
diverse da quelle contestate.
Il principio di corrispondenza fra la contestazione preven‑
tiva dell’addebito e la “causa” del licenziamento comporta,
dunque, senz’altro (e solo) l’irrilevanza dei fatti non contesta‑
ti quali elementi costitutivi della “mancanza” addotta a mo‑
tivazione del licenziamento. Resta, evidentemente, fuori dal
suddetto limite la riconducibilità del fatto contestato ad una
diversa ipotesi disciplinare, dato che in tal caso non si verifica
civile
Gazzetta
26
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
una modifica della contestazione, ma solo un diverso apprez‑
zamento dello stesso fatto (cfr., sul punto, la già citata
Cass. 11851/95 che ha escluso la violazione del principio in
questione in una ipotesi in cui la società datrice di lavoro
aveva addotto, nella lettera di licenziamento, quale giusta
causa del medesimo il blocco dell’attività produttiva e non
anche la grave insubordinazione, indicata nella nota di con‑
testazione).
Con il richiamo alla immutabilità della motivazione del
licenziamento, l’appellante, evidentemente, fa riferimento
alla immutabilità della “causa” del licenziamento, sostenendo
che l’accusa (tanto in sede di lettera di contestazione quanto
in sede di provvedimento di licenziamento) di un comporta‑
mento che, nella sostanza, avrebbe integrato un atto di sabo‑
taggio sarebbe stata del tutto diversa da quella, nel corso del
giudizio, formulata dalla società, a seguito dei primi esiti
istruttori, e, quindi, fatta propria dal giudice dell’opposizione,
di un comportamento di ostacolo alla “solerte ripresa” della
produzione, realizzatosi attraverso l’inottemperanza all’ordi‑
ne del gestore operativo T. F. di spostarsi dalla linea di tran‑
sito dei carrelli. Rileva, altresì, che di una suddivisione tra una
prima e una seconda fase degli accadimenti non vi sarebbe
traccia nella contestazione.
Invero, tale mutamento non si rinviene dagli atti. Dalle
lettere di contestazione si evince che il blocco degli AGV, ri‑
levato, come si legge, dai responsabili delle UTE 3 e 4 (F. n. e
R. V.) intorno alle ore 2.05, costituisce l’antefatto per spiega‑
re le ragioni dell’intervento sul posto dei suddetti responsabi‑
li. Il fulcro della contestazione è incentrato, per quanto attie‑
ne al L., su ciò che è stato rilevato dagli stessi indicati respon‑
sabili, al momento del loro arrivo sul posto (si veda la conte‑
stazione al L.: “Avvicinatisi ai carrelli i suddetti responsabili
La vedevano posizionato all’interno dell’area delimitata da
apposite linee gialle ove vige, per motivi di sicurezza, specifi‑
co divieto di transito e sosta del personale, proprio sulla
banda magnetica su cui scorrono i carrelli, davanti ad un
carrello in maniera da impedirne deliberatamente il transito.
A tal punto La invitavano a spostarsi per consentire il passag‑
gio del carrello ed il regolare corso della produzione ma Ella,
ignorando sfrontatamente l’ordine ricevuto rispondeva “sia‑
mo in assemblea”, ripetendolo più volte …”) e, per quanto
attiene al L., al B. ed al P., su ciò che è stato rilevato dal ge‑
store operativo (si veda la contestazione al L.: “…I responsa‑
bili, allora, si allontanavano chiedendo l’intervento del gesto‑
re operativo dell’Officina 77 turno il quale, portatosi intorno
alle 2.20 nel luogo in cui i carrelli erano bloccati, La trovava,
unitamente ai sig.ri B. G. e P. M., sempre fermo nella suddet‑
ta area davanti ai carrelli AGV tanto da impedirne il transito.
A tal punto il Gestore Operativo La invitava unitamente ai
Suoi colleghi a lasciare libera l’area interdetta al personale ed
a consentire il regolare transito dei carrelli in quanto tale suo
comportamento stava provocando il blocco dell’attività pro‑
duttiva, ma Ella, con i Suoi due colleghi incurante dell’invito,
continuava a rimanere fermo davanti al carrello; non solo…”;
si vedano, altresì, le contestazioni relative al B. ed al P., in
parte qua, assolutamente identiche).
Il giudice dell’opposizione distingue due fasi degli accadi‑
menti, assumendo quale elemento di passaggio dall’una all’al‑
tra “lo stazionamento consapevole dei tre licenziati innanzi al
carrello (il cui funzionamento non poteva essere ripristinato a
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
causa della permanenza irregolare e pericolosa di questi)”.
In realtà, sulla base delle lettere di contestazione, appare
corretto distinguere: una 1a fase durata fino al momen‑
to – successivo al rilevamento del blocco iniziale – dell’inter‑
vento sul posto dei responsabili UTE F. e R. – fase corrispon‑
dente all’antefatto rispetto al quale nessun addebito viene
mosso ai lavoratori – ed una 2a fase iniziata con l’intervento
dei suddetti F. e R. e proseguita con quello del responsabile
del personale del turno (Repo), T. S. , e del gestore operativo,
T. F., protrattasi fino alle 2.30 “allorquando finalmente, Ella
si allontanava dalla suddetta area di transito” – momento
temporale, quest’ultimo, comune a tutte e tre le contestazioni
‑. In questa 2a fase si collocano gli addebiti che, per quanto
attiene al L., iniziano già con il comportamento da questi
assunto al momento dell’intervento dei responsabili UTE
(“Ella, ignorando sfrontatamente l’ordine ricevuto rispondeva
“siamo in assemblea”), e proseguono con i comportamenti
rilevati dal gestore operativo (per tutti e tre i lavoratori), e cioè
con la contestazione del posizionamento davanti ai carrelli
AGV così da impedirne il transito, con l’inottemperanza
all’invito del gestore operativo a lasciare libera l’area interdet‑
ta al personale ed a consentire il regolare transito dei carrelli
nonché con lo specifico fare insubordinato e minaccioso sin‑
golarmente addebitato.
Non ha, in effetti, formato oggetto della contestazione il
blocco iniziale dei carrelli, non risultando addebitata ai lavo‑
ratori la responsabilità del fermo di questi, come rilevato dai
responsabili UTE. Tanto si evince chiaramente anche dalla
posizione assunta da S. A.T.A. S. p.A. in sede di ricorso in
opposizione ove, al riguardo, la stessa ha espressamente evi‑
denziato – pagg. 20‑21 ‑: “le ragioni del blocco primario del
carrello sono irrilevanti ai fini del presente giudizio, nel cui
ambito si ribadisce, unico ed effettivo motivo di contestazio‑
ne è stato l’impedimento del transito del carrellini e la reite‑
razione della condotta, nonostante gli inviti e gli ammonimen‑
ti da parte della gerarchia aziendale”.
I punti centrali della contestazione hanno, in sostanza,
riguardato: 1) la posizione irregolare, e prolungata nel tempo,
dei lavoratori sulla banda magnetica su cui scorrono i carrel‑
li, dinanzi ad un carrello (successiva al rilevamento del fermo),
in maniera da impedirne “deliberatamente” il transito e da
provocare il “blocco” dell’attività produttiva; 2) l’essere stati
gli stessi incuranti dell’invito, rivolto loro dal gestore opera‑
tivo, a spostarsi dall’area interdetta al personale così da
consentire il regolare transito dei carrelli; 3) il “fare insubor‑
dinato” attraverso affermazioni e minacce.
Appare, allora, poco significativo, ai fini che qui interes‑
sano, disquisire sul concetto di “blocco” dell’attività produt‑
tiva per differenziare lo stesso rispetto a quello di “impedi‑
mento” o “rallentamento” della ripresa della stessa, essendo
chiaro che, nella prospettazione di cui alle contestazioni, ciò
che principalmente si addebita ai lavoratori, è un comporta‑
mento volontario (mantenuto per un certo tempo, nonostante
gli inviti dei responsabili) avente il proposito di ostacolare il
regolare svolgimento dell’attività produttiva mediante l’impe‑
dimento del transito del carrello. In altre parole, l’elemento
soggettivo della condotta contestata è il deliberato ostacolo
al transito del carrello, ostacolo costituente non l’effetto di un
agire semplicemente insubordinato, ma l’obiettivo che i lavo‑
ratori, con lo stazionamento nell’area interdetta, avrebbero
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
inteso perseguire. Tanto si evince dal riferimento contenuto
nelle lettere di contestazione ad una condotta “illecita”, inte‑
grante gli estremi del reato (si veda anche la denuncia presen‑
tata dalla società alla Procura della Repubblica presso il
Tribunale di Melfi in data 30/7/2010 per i reati di cui agli
artt. 610 e 513 c.p.). E si evince anche dalla posizione assunta
dalla S. A.T.A. S. p.A. in sede di ricorso in opposizione ove
l’azienda, nel censurare la decisione della fase sommaria pro‑
prio nella parte in cui è stato escluso l’elemento soggettivo del
dolo, si è così espressa – pagg. 27‑31 ‑: “i tre operai licenziati…
hanno posto in essere condotte gravemente illecite e travali‑
canti il legittimo esercizio del diritto di sciopero…hanno di
fatto impedito che la ripresa dell’attività produttiva durante
il periodo di sciopero proclamato ‘resa possibile dalla scarsa
adesione ad esso delle maestranze e dalla pronta riorganizza‑
zione delle attività ad opera dei capi UTÈ potesse tradursi in
una effettiva produzione di vetture…i comportamenti dei tre
licenziati integrano chiare fattispecie di reato in relazione
alle quali la società resistente ha chiesto, nelle forme di legge,
l’intervento della competente Procura della Repubblica”;
nonché dalla memoria di costituzione in appello ove – pag.
36 – la stessa, nel ricostruire le fasi temporali evincibili dalle
lettere di contestazione ed al fine di contrastare l’eccepito
mutamento della causa del licenziamento, colloca l’elemento
centrale dell’addebito nella fase successiva all’intervento del
T. e fa riferimento all’adottato provvedimento “…come legit‑
tima reazione datoriale a fronte di una palese violazione
delle norme civilistiche che regolano il rapporto di lavoro ed
espressione di condotta delittuosa consumata con violenza e
perciò come detto, portata all’attenzione della competente
Procura della Repubblica…”.
A conferma del fatto che l’addebito principale consistesse
nell’intenzionale e deliberato ostacolo all’attività produttiva
vi è quanto affermato dalla stessa S. A.T.A. S. p.A. in ordine
alla circostanza che l’avere i tre operai ignorato gli inviti dei
responsabili aziendali a liberare il percorso dei carrelli AGV
e l’avere i medesimi reagito alle predette esortazioni con tono
sprezzante e provocatorio avrebbe connotato di “ulteriore
gravità” i loro comportamenti – pag. 30 del ricorso in oppo‑
sizione ‑. Ma vi è anche quanto evidenziato dalla società,
all’udienza del 6/10/2010, in ordine alla rilevanza, al fine di
provare i fatti accaduti la notte tra il 6 e 7 luglio, della richie‑
sta di acquisizione dei nn. 37/2010 e 38/2010 del settimanale
“Panorama” (in particolare, il n. 37 aveva quale titolo di co‑
pertina: “La verità sul sabotaggio di Melfi – Gli eroi bugiar‑
di”), della registrazione digitale della trasmissione televisiva
“Matrix”, puntata del 4/10/2010, nonché della richiesta di
escussione, quale teste, di D. M. R., segretario nazionale FI‑
SMIC.
In termini di prospettazione fattuale, dunque, la condotta
addebitata ai tre operai era chiaramente delineata, non inci‑
dendo sul diritto di difesa la eventuale diversa qualificazione
dell’addebito in ragione del differente peso attribuito all’ele‑
mento intenzionale (deliberata intenzione di ostacolare la
produzione, come tale sussistente ab initio, indipendentemen‑
te dall’intervento sul posto dei responsabili e dagli inviti di
questi ultimi, ovvero, come ritenuto dal primo giudice, matu‑
rata solo successivamente, a seguito dei ripetuti richiami a
spostarsi dalla zona interdetta al personale).
Orbene, già il giudice dell’opposizione ha escluso la sud‑
2 0 1 2
27
detta deliberata intenzione in un passaggio motivazionale
(“Nessuna premeditata volontà di sabotaggio aveva mai so‑
stenuto il comportamento di nessuno dei partecipanti al
corteo, difformemente da quanto lasciato intendere da alcune
dichiarazioni pubblicate su due articoli comparsi su un noto
settimanale nazionale ed acquisite agli atti (cfr. sul punto
quanto specificato dal teste D. M.)”‑ pag. 34 ‑) che non ha
formato oggetto di specifica censura da parte della S. A.T.A.
S. p.A. la quale, anzi, con la memoria di costituzione in giu‑
dizio di appello ha così precisato – pag. 7 – : “…non interessa
come e perché sia stato bloccato inizialmente il carrello: ciò
che fu contestato e che permane causa di licenziamento è…
l’impedimento al transito, decorso, passaggio del carrello
stesso che i tre licenziati con la loro condotta (negligente e
oltraggiosa) hanno certamente causato…”.
A fronte, dunque, di un dato fattuale rimasto certamente
immutato, vi è stata già nella sentenza impugnata (ma anche
nella difesa, in questa sede, della società) una diversa qualifi‑
cazione dell’addebito, imputandosi l’ostacolo al “transito,
decorso, passaggio del carrello” non più ad una deliberata
intenzione dei tre operai di impedire o turbare l’esercizio
dell’attività produttiva, bensì ad una loro condotta insubor‑
dinata, connotata dal chiaro dispregio dei poteri del datore
di lavoro e violativa dei doveri di obbedienza.
Ciò consente di superare la sopra indicata censura di
parte appellante ma avrà riflessi sulla complessiva valutazio‑
ne del comportamento dei lavoratori.
Con terzo e quarto motivo di gravame censura l’appellan‑
te la decisione impugnata per il travisamento dei fatti rispetto
a quanto emerso dall’istruttoria e documentato, per la man‑
cata considerazione di circostanze rilevanti incontestabili, per
l’errata valutazione delle risultanze istruttorie. Insiste, in
particolare, nel sostenere che, al momento dello stazionamen‑
to dei lavoratori nella zona vietata (e non, dunque, dei soli tre
operai licenziati, ma di tutti i lavoratori e delegati presenti), i
carrelli erano già fermi, nell’evidenziare che nessun ostacolo
al ripristino degli stessi era stato posto in essere, che la per‑
manenza dei soli tre licenziati si era ridotta ad una manciata
di secondi o al massimo di 1‑2 minuti.
I motivi, da trattarsi congiuntamente ed insieme con le
censure di cui alla riserva formulata nell’esaminare il secondo
motivo, in ragione della intrinseca connessione, sono, nel
complesso, fondati ed impongono, prima ancora della rico‑
struzione dei fatti accaduti la notte tra il 6 ed il 7 luglio, al‑
cune considerazioni introduttive.
Pone l’appellante la questione che lo sciopero è una legit‑
tima causa di sospensione del rapporto, durante la quale
l’obbligo di obbedienza non può che essere sospeso (al con‑
trario di altri obblighi, quali ad esempio la fedeltà) ovvero
comunque risultare attenuato.
Tale questione non può prescindere da un esame delle
problematiche relative ai limiti al diritto di sciopero in quan‑
to, come meglio si vedrà, comportamenti estranei al regolare
esercizio di quest’ultimo possono assumere rilevanza ai fini
del corretto atteggiarsi del rapporto di lavoro.
In linea generale, la libertà di sciopero, per rimanere
nell’ambito corrispondente al suo oggetto, di libertà di non
fare, deve svolgersi in modo da non ledere altre libertà costi‑
tuzionalmente garantite, come quella spettante a quanti non
aderiscono allo sciopero ovvero quella del datore di lavoro di
civile
Gazzetta
28
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
iniziativa economica. La giurisprudenza, infatti, in carenza
di attuazione del dettato dell’art. 40 Cost., che prescriveva
l’emanazione di una normativa di regolazione dello sciopero
(obiettivo realizzato a livello di normazione statuale nel solo
peculiare settore dei servizi pubblici essenziali), nel rapporta‑
re il diritto di sciopero al diritto dei singoli lavoratori all’asten‑
sione collettiva dal lavoro sia per ragioni economiche sia per
il conseguimento di obiettivi di carattere politico generale,
purché comunque incidenti sul rapporto di lavoro, ne ha in‑
dividuato il limite nel rispetto di modalità attuative che non
ledano l’incolumità ed i diritti delle persone, ivi compresa la
proprietà dell’impresa (nel senso di integrità degli impianti
industriali e di capacità produttiva – nei termini di cui meglio
si dirà più avanti ‑).
Come è noto, dal punto di vista oggettivo, in passato si
operava un distinguo tra limiti “interni” e limiti “esterni” al
diritto di sciopero. Limiti “interni” erano quelli connaturati
alla stessa nozione di sciopero, intesa quale astensione con‑
certata e continuativa dal lavoro di tutti i dipendenti: con
l’elaborazione di questa categoria concettuale si argomentava
che l’astensione dal lavoro doveva essere caratterizzata da
alcuni elementi come l’attinenza ad un lavoro subordinato, la
“completezza” dell’astensione, sia nella dimensione tempora‑
le, sia in quella del coinvolgimento dei lavoratori partecipan‑
ti, e la funzionalizzazione dell’azione di sciopero alla contrat‑
tazione collettiva, tendendosi, così, a porre in discussione la
legittimità delle cosiddette forme “anomale” di sciopero (a
scacchiera, a singhiozzo, a sorpresa ecc.), e cioè di quelle
forme attuate con modalità tali da creare all’imprenditore un
danno proporzionalmente superiore alla mera sospensione dal
lavoro (cd. teoria del danno ingiusto).
La nozione di limiti “interni” è stata, poi, del tutto supe‑
rata con la giurisprudenza che ha sancito la liceità degli
scioperi “articolati” e culminata con la storica sentenza della
Cassazione n. 711 del 30/1/1980 secondo cui: “Il diritto di
sciopero, quale che sia la sua forma di esercizio e l’entità del
danno arrecato, non ha altri limiti, attesa la necessaria gene‑
ricità della sua nozione comune presupposta dal precetto
costituzionale (art. 40 Cost.) e la mancanza di una legge at‑
tuativa di questo, se non quelli che si rinvengono in norme che
tutelino posizioni soggettive concorrenti, su un piano priori‑
tario o quanto meno paritario, quali il diritto alla vita e
all’incolumità personale nonché la libertà dell’iniziativa eco‑
nomica, cioè, dell’attività imprenditoriale (art. 41 comma 1
Cost.), che con la produttività delle aziende e concreto stru‑
mento di realizzazione del diritto costituzionale al lavoro per
tutti i cittadini”.
I limiti cd. “esterni” hanno costituito, nella giurispruden‑
za, il punto di riferimento primario per valutare la legittimità
delle forme di astensione dalla prestazione lavorativa.
La Suprema Corte, a partire dalla citata sentenza
n. 711/1980, ha individuato, così, quali limiti “esterni” al
diritto di sciopero: il diritto alla vita, alla salute ed all’inco‑
lumità personale, il diritto all’integrità dei beni del datore di
lavoro e di terzi, e più in genere il diritto dell’imprenditore
alla continuazione dell’attività e dunque all’integrità del pa‑
trimonio aziendale. Dal punto di vista dell’interesse dell’im‑
prenditore, dunque, il limite (esterno) al diritto di sciopero è
costituito non più dalla perdita sproporzionata di produzione,
come nella superata teoria del danno ingiusto, bensì dalla
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
necessità di tutelare il potenziale produttivo dell’azienda.
Si è, così, in sostanza, distinta la produttività di impresa,
intesa quale possibilità di continuare a svolgere l’iniziativa
economica, dal danno alla produzione aziendale.
L’orientamento oggi consolidato vede chiaramente atte‑
stata la linea di demarcazione tra modalità legittime ed ille‑
gittime di sciopero sulla distinzione tra danno alla produzio‑
ne e danno alla produttività dell’organizzazione datoriale. In
termini generali, qualunque danno alla produzione è legitti‑
mo, restando vietato ledere la capacità del datore di riprende‑
re l’attività dopo (o anche di continuarla, a certe condizioni,
durante) lo sciopero. Sono precluse le modalità di astensione
che, per non adattarsi alla natura dell’attività o alle caratte‑
ristiche dei beni impiegati o prodotti, provochino lesioni di
attrezzature, impianti o locali.
Necessario è stato ritenuto, per poter ritenere integrato il
superameno del limite esterno, un pregiudizio alla produtti‑
vità di tipo duraturo, in quanto collegato alla distruzione o
inutilizzabilità degli impianti (si veda la già citata pronuncia
della Cass. n. 711/1980 in altro passaggio secondo cui:
“L’esercizio del diritto di sciopero deve ritenersi illecito se, ove
non effettuato con gli opportuni accorgimenti e cautele, ap‑
pare idoneo a pregiudicare irreparabilmente – in una deter‑
minata ed effettiva situazione economica generale o partico‑
lare – non la produzione, ma la produttività dell’azienda, cioè
la possibilità per l’imprenditore di continuare a svolgere la sua
iniziativa economica, ovvero comporti la distruzione o una
duratura inutilizzabilità degli impianti, con pericolo per l’im‑
presa come organizzazione istituzionale, non come mera or‑
ganizzazione gestionale, con compromissione dell’interesse
generale alla preservazione dei livelli di occupazione. L’accer‑
tamento al riguardo va condotto caso per caso dal giudice, in
relazione alle concrete modalità di esercizio del diritto di
sciopero ed ai parimenti concreti pregiudizi o pericoli cui
vengono esposti il diritto alla vita, all’incolumità delle perso‑
ne e alla integrità degli impianti produttivi”; si veda anche
Cass. n. 23552 del 17/12/2004: “Il diritto di sciopero, che
l’art. 40 cost. attribuisce direttamente ai lavoratori, non in‑
contra – stante la mancata attuazione della disciplina legisla‑
tiva prevista da detta norma – limiti diversi da quelli propri
della “ratio” storico‑sociale che lo giustifica e dell’intangibi‑
lità di altri diritti o interessi costituzionalmente garantiti.
Pertanto, sotto il primo profilo, non si ha sciopero se non in
presenza di un’astensione dal lavoro decisa ed attuata collet‑
tivamente per la tutela di interessi collettivi – anche di natura
non salariale ed anche di carattere politico generale, purché
incidenti sui rapporti di lavoro – e, sotto il secondo profilo,
ne sono vietate le forme di attuazione che assumano modali‑
tà delittuose, in quanto lesive, in particolare, dell’incolumità
e della libertà delle persone, o di diritti di proprietà o della
capacità produttiva delle aziende; sono, invece, privi di rilievo
l’apprezzamento obiettivo che possa farsi della fondatezza,
della ragionevolezza e dell’importanza delle pretese persegui‑
te nonché la mancanza sia di proclamazione formale sia di
preavviso al datore di lavoro sia di tentativi di conciliazione
sia d’interventi dei sindacati, mentre il fatto che lo sciopero
arrechi danno al datore di lavoro, impedendo o riducendo la
produzione dell’azienda, è connaturale alla funzione di auto‑
tutela coattiva propria dello sciopero stesso” nonché
Cass. n. 869 del 28/01/1992 secondo cui: “La legittimità
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
dello sciopero va verificata non in relazione a limiti correlati
alla sua intrinseca natura (c.d. “interni”) ma agli effetti che
possono prodursi, in dipendenza delle particolari modalità
del suo svolgimento, nella sfera giuridica altrui, con la com‑
pressione di posizione tutelate in modo prioritario (come il
diritto alla vita e alla incolumità personale) o comunque pa‑
ritario, come il diritto del datore di lavoro alla libertà di ini‑
ziativa economica, costituzionalmente riconosciuto (art. 41
Cost.). In tale ultimo caso peraltro, trattandosi di interessi
confliggenti che trovano entrambi la loro fonte nella Carta
fondamentale, la tutela dello imprenditore non può estender‑
si all’attività produttiva in quanto diretta ad assicurare solo
un profitto contingente, ma deve essere limitata alla salva‑
guardia dell’organizzazione aziendale intesa come struttura
finalizzata al conseguimento di un risultato economico nel
quadro generale della produzione e del mercato”).
Analogo principio è stato espresso con riferimento alle
manifestazioni collaterali allo sciopero quale, ad esempio, lo
svolgimento di un corteo interno, inteso quale azione dimo‑
strativa effettuata durante l’astensione dal lavoro, all’interno
dei reparti aziendali, avente lo scopo di avvicinare i non scio‑
peranti al fine di convincerli ad aderire all’astensione. Si veda
Cass. n. 945 del 4/2/1983 secondo cui: “L’esercizio del diritto
di sciopero cessa di essere legittimo allorché, per le sue mo‑
dalità di attuazione, la sospensione totale o parziale della
prestazione lavorativa determini o renda possibili e prevedi‑
bili lesioni di altri diritti – personali, di proprietà o di inizia‑
tiva economica – ugualmente assistiti da specifica garanzia
costituzionale, il che si impone anche con riferimento a ma‑
nifestazioni collaterali – quali i cortei interni – a tale sospen‑
sione, le quali, se possono configurarsi come altrettante fa‑
coltà in cui si articola quel diritto o altri utilmente esercitabi‑
li, così da comportare una obbligazione negativa o un pati del
datore di lavoro, devono nondimeno esercitarsi secondo forme
e modalità che non incidono su detta garanzia e non legitti‑
mano, in caso di ostacolo ad esse frapposto dalla controparte,
il ricorso ad arbitrarie forme di autotutela, ma semplicemen‑
te il ricorso alla tutela giurisdizionale, restando demandato
all’accertamento del giudice di merito l’individuazione di
tutte le modalità dei comportamenti osservati da una parte e
dall’altra concretamente, ai fini del giudizio sulla loro legitti‑
mità, senza che possa farsi luogo a valutazioni astratte di
compatibilità, indipendentemente dall’effettiva attuazione dei
comportamenti stessi”.
Ai limiti “esterni” reciproci ha fatto espresso riferimento
il Supremo Collegio nella sentenza n. 10624 del 9/5/2006 in
cui è stato così evidenziato: “Il diritto di iniziativa economica
dell’imprenditore (art. 2082 cod. civ.) è costituzionalmente
garantito (art. 41 Cost.). E sussiste anche in presenza d’uno
sciopero indetto dai lavoratori. In questo (espressione del la‑
voro – quale diritto ed obbligo – ed anch’esso costituzional‑
mente garantito: artt. 4 e 40 Cost.) il primo trova tuttavia il
suo limite. Avendo entrambi eguale dignità e spessore ed es‑
sendo l’uno condizione di esistenza dell’altro (l’impresa con‑
sente il lavoro ed il lavoro consente l’impresa), il limite è reci‑
proco. Lo sciopero (quale sospensione dell’attività aziendale)
e la continuazione dell’attività aziendale esprimono, nella
loro oggettiva funzione, una legittima antitesi. Terreno di
questa antitesi è la continuazione dell’attività dell’impresa. I
lavoratori in sciopero tendono contingentemente a negarla con
2 0 1 2
29
la relativa sospensione; l’imprenditore tende ad affermarla. La
legittima antitesi, in quanto ipotizzata dalla stessa norma
costituzionale, esige che le parti si avvalgano degli strumenti
e delle possibilità offerte dall’ordinamento. E resta pertanto
legittima (normativamente garantita) in quanto si svolga in
questo spazio. Ove l’opposizione si effettui con strumenti non
consentiti, l’attività diventa illegittima. E, per quanto attiene
al datore, l’illegittimità dello strumento pone l’attività azien‑
dale in uno spazio estraneo all’art. 41 Cost.; e poiché è questa
norma che gli consente un’antitesi allo sciopero, con la viola‑
zione l’antitesi diventa illegittima. In tal modo, nella sua og‑
gettiva funzione (ed indipendentemente da soggettive finalità),
la sua attività è diretta a limitare “illegittimamente” il diritto
di sciopero (non è il limitare, in sé, bensì la sua illegittimità,
lo spazio delineato della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 28).
In questo quadro, il lavoratore (come osservato in dottrina ed
in giurisprudenza: Cass. 30 gennaio 1980 n. 711) può contin‑
gentemente limitare od impedire la produzione dell’impren‑
ditore; non può ledere la potenzialità produttiva dell’impresa,
quale attività diretta alla produzione. Ciò esige che la sua
antitesi si attui in uno spazio di legittimità. Egualmente è a
dirsi per il datore. Questi conserva il diritto di continuare a
svolgere la propria attività aziendale; la continuazione resta
tuttavia legittima nella misura in cui si svolga nei limiti nor‑
mativamente previsti”.
Invero gli sforzi della giurisprudenza di dettare indicazio‑
ni per una corretta lettura delle situazioni verificabili in
concreto non hanno sempre portato a soluzioni univoche. Si
pensi, ad esempio, a quanto sia risultato non agevole distin‑
guere il danno alla produzione dal danno alla produttività,
essendo possibile che, in determinate situazioni economiche,
il mancato profitto per un periodo di tempo anche breve,
impedisca all’imprenditore di far fronte ai propri debiti e lo
escluda dunque dal mercato, impedendogli così di continuare
a svolgere la sua iniziativa economica.
Si è, peraltro, anche registrato un orientamento giurispru‑
denziale che ha ampliato il concetto di lesione alla produtti‑
vità, sganciandolo da quello della integrità degli impianti
(come pregiudizio duraturo alla ripresa dell’attività produtti‑
va) fino a ricomprendere nello stesso l’impedimento (anche
temporaneo) al funzionamento dell’organizzazione aziendale,
sul presupposto della legittimità, entro certi limiti, della rior‑
ganizzazione da parte del datore di lavoro dell’attività azien‑
dale durante lo sciopero. Così, nella pronuncia n. 8401 del
16/11/1987, la Suprema Corte ha precisato: “Il diritto di
sciopero non conosce limitazioni per quanto concerne le mo‑
dalità del suo esercizio (assenza, cioè, di limiti “interni”),
laddove il solo limite “esterno” è costituito dalla non possibi‑
lità dell’effettuazione di atti diretti contro l’organizzazione
aziendale in modo da impedirne il funzionamento o da com‑
prometterne gravemente la stessa produttività, così come di
atti che provochino pregiudizio a fondamentali diritti del
pari costituzionalmente garantiti in modo assoluto”. In tale
pronuncia, nella quale, come si rileva dalla motivazione, non
veniva in rilievo la questione della proporzionalità dell’adot‑
tato licenziamento, si è sottolineato che un comportamento
materiale positivo (ancorché, non improntato a forme di vio‑
lenza o di minaccia) consistente nell’ostacolo al lavoro degli
altri dipendenti (nella fattispecie esaminata dal supremo Col‑
legio, nel corso di uno sciopero due dipendenti avevano im‑
civile
Gazzetta
30
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
pedito ad un altro dipendente – conduttore di un carrello
trasportatore ‑, non aderente allo sciopero, mediante fisica
ostruzione, la manovra del mezzo ed il rifornimento della li‑
nea dei prezzi occorrenti) viene essenzialmente ad incidere
sulla prosecuzione dell’attività aziendale che il datore di lavo‑
ro (al quale non può essere negato, ai sensi dell’art. 41, co. 1,
della Cost., il diritto, entro certi limiti, di continuare lo svol‑
gimento dell’attività aziendale mediante il personale dipen‑
dente che ancora resti a sua disposizione in quanto non par‑
tecipante allo sciopero e che venga temporaneamente adibito
alle mansioni proprie degli scioperanti – diverso sarebbe sta‑
to se il datore di lavoro avesse assunto altri lavoratori in
luogo di quelli scioperanti ‑) è legittimato a riorganizzare
durante lo sciopero, con ciò risultando integrato un compor‑
tamento volto “contro” il datore di lavoro ed esulante dall’am‑
bito di legittimità dello sciopero.
Comunque, comune agli orientamenti sopra ricordati è
che rientra nel limite di uno sciopero legittimo un danno alla
produzione avente causa immediata e diretta nell’astensione
collettiva. Fuori del suddetto limite sono le forme di attuazio‑
ne che assumano modalità delittuose, in quanto lesive della
libertà ed incolumità delle persone o di diritti di proprietà o
della capacità produttiva delle aziende (per quanto sopra
detto ricomprendente l’impedimento – anche temporaneo – al
funzionamento dell’organizzazione aziendale laddove lo stes‑
so risulti idoneo ad integrare un tale gap produttivo da inci‑
dere sulla stessa competitività aziendale). Ma fuori dal sud‑
detto limite sono tutti quei comportamenti, anche non stret‑
tamente attuativi dello sciopero, estranei alla sospensione
dell’attività lavorativa (causativi o meno di danno alla produ‑
zione). Va, infatti, ricordato che: “Durante lo sciopero, men‑
tre restano sospese le obbligazioni relative alla prestazione di
lavoro e al pagamento delle retribuzioni, non restano sospesi
gli altri diritti od obblighi costituenti il contenuto del rappor‑
to di lavoro, i quali siano estranei alla sospensione della pre‑
stazione lavorativa, che costituisce l’essenza del diritto di
sciopero; onde rimane inalterato, anche durante lo sciopero,
il vincolo della subordinazione e non attengono alla sospen‑
sione dell’attività lavorativa quei comportamenti degli sciope‑
ranti che si traducono in violazioni dei diritti degli altri lavo‑
ratori non scioperanti o del datore di lavoro, tutelati da pre‑
cetti della Costituzione o dell’ordinamento generale” – così
Cass. n. 43 del 5/1/1980 e, nel medesimo senso, Cass. n. 11352
del 30/10/1995 ‑.
Il medesimo concetto è stato espresso dal Supremo Colle‑
gio nella sentenza n. 3508 del 24/5/1986: “Le attività delit‑
tuose compiute in occasione di uno sciopero all’interno di uno
stabilimento e nei confronti di un dipendente non scioperante
non possono non ritenersi connesse col rapporto di lavoro.
“Durante lo sciopero restano infatti sospese le obbligazioni
relative alle corrispettive prestazioni di lavoro e di pagamen‑
to delle retribuzioni, mentre non lo sono gli altri diritti ed
obblighi pur integranti il contenuto del rapporto, i quali sono
estranei alla sospensione della prestazione lavorativa, che
costituisce l’essenza del diritto di sciopero” (Cass. 29/10/74
n. 3289). Ne consegue che “rimane inalterato, anche durante
lo sciopero, il vincolo della subordinazione e non attengono
alla sospensione dell’attività lavorativa quei comportamenti
degli scioperanti che si traducono in violazione dei diritti
degli altri lavoratori non scioperanti o del datore di lavoro”.
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
(Cass. 5/1/1980 n. 43). Sicché se è vero che non integra giusta
causa di licenziamento in tronco il comportamento del pre‑
statore d’opera consistente nel persuadere altri a scioperare o
nel muovere delle critiche a chi abbia rifiutato di aderire
all’agitazione (Cass. 10/1/73 n. 63), è pur vero che esula in‑
dubbiamente dai limiti propri del diritto di sciopero quella
condotta che sia volta contro l’organizzazione aziendale in
modo da impedirne il funzionamento o mediante concreti
atti positivi (minacce, intimidazioni, ingiurie ecc.) nei con‑
fronti di altri lavoratori, i quali intendano continuare a svol‑
gere le loro mansioni, ovvero si sia estrinsecata in danneggia‑
menti degli impianti o, comunque in interventi materiali su
impianti aziendali azionati da altri lavoratori non aderenti
allo sciopero (vedi Cass. 30/3/81 n. 1833)”. In tale pronuncia,
in sostanza, il superamento del limite esterno al diritto di
sciopero viene a coincidere con il comportamento estraneo
alla sospensione dell’attività lavorativa che, come tale, non
può non assumere rilevanza sull’atteggiarsi del rapporto di
lavoro.
Si è così ritenuto che: “Non è configurabile come antisin‑
dacale, ai sensi dell’art. 28 della legge n. 300 del 1970, la
condotta del datore di lavoro che si contrapponga ad un ille‑
gittimo comportamento di singoli lavoratori o del sindacato;
pertanto, non può attribuirsi carattere di antisindacabilità al
licenziamento di dipendenti, che abbiano partecipato ad una
manifestazione sindacale, ove il recesso del datore di lavoro
abbia costituito giustificata reazione causale ad uno scorretto
e riprovevole comportamento dei lavoratori, comportante
violazione degli obblighi legali e contrattuali” – Cass. n. 11905
del 3/11/1992. Dalla motivazione di tale decisione si evince
che lo “scorretto e riprovevole” comportamento era consisti‑
to in una “invasione di massa” di determinati uffici definita
“violenta ed intimidatoria” ed attuata da un “gruppo” di
dipendenti della società, in violazione di “accordi sindacali”
nel frattempo intervenuti, e senza alcuna giustificazione reat‑
tiva contro il comportamento del datore di lavoro, rivelatosi
al contrario corretto e legittimo.
In definitiva, come si ricava dai passaggi motivazionali
delle decisioni citate, secondo la Suprema Corte, non vi è più
quel collegamento esonerativo con l’esercizio del diritto di
sciopero quando la lotta sindacale sia trascesa da una mera
astensione collettiva dal lavoro a manifestazioni di violenza,
minaccia ed intimidazione nei confronti di altri lavoratori o
del datore di lavoro ovvero abbia inciso direttamente sulla
integrità degli impianti e sulla incolumità degli impiegati
addettivi ovvero ancora sia consistita in un comportamento
materiale positivo diostacolo al lavoro degli altri dipendenti,
mediante fisica ostruzione alle manovre dei mezzi. In tali
casi, la condotta rileva ai fini della violazione degli obblighi
costituenti il contenuto del rapporto di lavoro. Si veda il pas‑
saggio motivazionale della sentenza della Cass. n. 5815
del23/03/2004, diffusamente citata dal giudice dell’opposi‑
zione, nel quale viene ritenuto, alla stregua della ricostruzio‑
ne operata dal Tribunale in sede di appello, correttamente
escluso il valore giustificativo della sussistenza di un conflitto
sindacale in atto e della qualità di sindacalisti dei dipendenti
licenziati rispetto ad una “aggressione” compiuta in danno di
altro lavoratore, così come accertata in fatto, e quello in cui
viene ritenuta coerente la valutazione secondo cui il recesso
dell’azienda non era riconducibile ad una limitazione dell’azio‑
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
ne sindacale ma costituiva una giustificata reazione causale
ad uno scorretto e riprovevole comportamento dei singoli
lavoratori, comportante violazione degli obblighi legali e
contrattuali, soggiacendo l’esercizio dell’azione sindacale
comunque al limite “esterno” costituito dall’impossibilità di
tradursi in atti pregiudizievoli di fondamentali diritti del pari
costituzionalmente garantiti in modo assoluto, come quello
alla vita e all’incolumità personale (nella specie vi era stata
una aggressione fisica ai danni di altro lavoratore) e l’ulterio‑
re passaggio in cui, con riguardo alla proporzionalità della
sanzione viene osservato che: “se pure è vero, come rileva il
sindacato ricorrente, che il carattere, antisindacale di un li‑
cenziamento può essere avvalorato, in generale, dalla spro‑
porzione disciplinare di esso rispetto al fatto commesso da un
lavoratore sindacalista, nondimeno tale ipotesi è stata speci‑
ficamente esclusa dai giudici d’appello, con una motivazione
che si sottrae senz’altro alle censure di inadeguatezza mosse
in ricorso. In particolare, nella sentenza impugnata la estrema
gravità del comportamento dei lavoratori, integrante la giusta
causa di licenziamento per cessazione del vincolo di fiducia
insito nel rapporto lavorativo, è stata riferita al suo oggettivo
contenuto di violenza, alle modalità con le quali esso è stato
attuato ed all’intensità dell’elemento intimidatorio: tutti ele‑
menti valutativi che rendono l’apprezzamento del giudice di
merito coerente con la conclusione di impossibilità della pro‑
secuzione del rapporto e che, pertanto, bastano – nella pre‑
sente sede di legittimità – per ritenere tale giudizio di fatto
giuridicamente corretto”.
Proprio applicando i suddetti principi si perviene, nel caso
che ci occupa, ad un giudizio diverso rispetto a quello del
primo giudice.
Per stabilire l’esistenza della giusta causa di licenziamento
occorre infatti in concreto accertare se – in relazione alla
qualità del rapporto intercorso fra le parti, alla posizione che
in esso abbia rivestito il lavoratore, alla qualità ed al grado di
fiducia che quel rapporto comportava – la specifica mancan‑
za commessa dal dipendente, considerata non solo nel suo
contenuto obiettivo, ma anche nella sua portata soggettiva,
specie con riferimento alle particolari circostanze e condizio‑
ni in cui è posta in essere, ai suoi modi, ai suoi effetti, ed
all’intensità dell’elemento psicologico, risulti idonea a ledere
in modo grave, così da farla venir meno, la fiducia che il da‑
tore di lavoro ripone nel proprio dipendente, e tale quindi, da
esigere sanzioni non minori di quella (massima) espulsiva.
Orbene, nello specifico, con riguardo all’elemento inten‑
zionale si è già detto.
Nessun volontà diretta deliberatamente ad impedire l’at‑
tività produttiva vi è stata e ciò rende la situazione de qua
decisamente differente rispetto a quelle sottoposte all’atten‑
zione del giudice di legittimità nelle pronunce sopra citate.
Quanto alla valutazione delle mancanze attribuite ai la‑
voratori nella loro portata oggettiva, occorre innanzi tutto
procedere ad una precisa ricostruzione dei fatti.
Può considerarsi dato ormai incontroverso che, dopo la
proclamazione dello sciopero (dalle ore 1.45 alle 3.00) non
potendosi prevedere il numero dei lavoratori che vi avrebbero
aderito (quello indetto era proprio uno sciopero del persona‑
le delle UTE 1, 2, 3 e 4), le linee della produzione erano state
prudenzialmente bloccate; quindi, verificato il numero degli
operai rimasti regolarmente in servizio, si era provveduto a
2 0 1 2
31
riorganizzare la produzione. Tale riorganizzazione era durata
circa 15 minuti (cfr. quanto dichiarato da R. V., responsabile
UTE: “…quando è stata riorganizzata la produzione (per la
riorganizzazione abbiamo impiegato circa 15 minuti) sulla
mia linea vi erano 2 carrellini carichi per il cui esaurimento
sulla linea sono necessari 2 minuti. Per carrellino intendo 2
dei 5 vagoncini trainati dalla motrice …quando è stato pro‑
clamato lo sciopero ho provveduto a bloccare la linea, agendo
sull’apposito pulsante, ed ho poi riorganizzato la produzio‑
ne…”; da T. F., gestore operativo: “…ho provveduto a reim‑
postare la produzione spostando tutti coloro che non sciope‑
ravano su una sola delle due linee…”; da L. M., componente
direttivo della FIOM, partecipante allo sciopero: “…quando
lo sciopero ha un’adesione parziale le linee di produzione
vengono fermate al fine di poter spostare la produzione ed i
lavoratori da una linea all’altra…”).
Non è chiaro se con il blocco delle linee sia stato anche
disposto un blocco ovvero solo un fermo momentaneo dei
carrelli (si precisa che con le espressioni “carrello/i” o
“carrellino/i”, usate indifferentemente nel processo, si fa rife‑
rimento al convoglio formato da una motrice e più vagoncini;
il convoglio del quale si discute era costituito dalla motrice e
da n. 5 vagoncini, di cui 2 carichi di materiale; si precisa, al‑
tresì, che tale convoglio si muove autonomamente, a prescin‑
dere dal funzionamento della linea di produzione, ed utilizza,
come si rileva dal manuale d’uso in atti, gli stessi corridoi di
passaggio del personale – con una velocità da 4 a 30 metri al
minuto – essendo, per ragioni di sicurezza, dotato di un siste‑
ma bumper – paraurti con annesso dispositivo tattile di pro‑
tezione personale – e di uno scanner ad infrarossi per la
protezione di persone, oggetti, infrastrutture, nonché per
mantenere le distanze di sicurezza nonché dotato di un sound
system – avviso musicale ‑).
È nel senso di un fermo momentaneo del convoglio quan‑
to dichiarato da F. n. , responsabile UTE: “…in caso di scio‑
pero, in particolare quando aderisce allo stesso solo una
parte dei lavoratori addetti alla linea, si fermano i carrellini
AGV per qualche minuto onde consentire di riorganizzare i
lavoratori e disporre la prosecuzione della produzione. Preci‑
so in particolare che i carrelli vengono fermati all’interno
dell’area picking deputata al loro carico da parte di alcuni
operai che, in caso di sciopero, evidentemente non essendoci
non possono riempirli; pertanto detti carrelli non vengono
lasciati transitare vuoti all’esterno dell’area. …la notte che
sono successi i fatti per cui è causa nessuno dei responsabili
delle UTE 1, 2, 3, 4 ha mai bloccato i suddetti carrellini; come
sempre accade i carrellini furono momentaneamente fermati
per far riprendere la produzione solo all’interno dell’area pi‑
cking… quella notte, a seguito dello sciopero, i responsabili
aziendali bloccarono solamente le linee di montaggio ma non
il funzionamento del tutto autonomo dei carrellini…”. Ma la
possibilità di un fermo momentaneo del convoglio non trova
riscontro nello stesso manuale d’uso sopra citato, non rilevan‑
dosi dalla descrizione della motrice la presenza di un tasto
“pausa” tale da far pensare alla possibilità che un comando
di tale tipo potesse essere dato dalla postazione di controllo.
Propende, invece, per un blocco (oltre che della linea)
anche del convoglio, non fosse altro che per una analogia con
quanto successo in altre occasioni, il teste S. M., operaio,
iscritto FIOM, partecipante allo sciopero, il quale ha così
civile
Gazzetta
32
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
dichiarato: “…preciso che quando ci siamo diretti in direzio‑
ne dei carrelli per l’assemblea, i carrelli erano già fermi con le
luci spente, mentre in genere quando sono spenti la spia emet‑
te luce gialla fissa oppure luce rossa fissa in caso di anomalia,
in quella occasione la spia era completamente spenta. Presumo
che i carrelli siano stati bloccati dal CPI per evitare che, sic‑
come la linea era stata bloccata, i carrelli finissero per accu‑
mularsi…attualmente svolgo le mansioni di CPI nella UTE 2,
in passato ho svolto tale mansione nell’are picking per circa
7/8 mesi nel 2008…in virtù della mia mansione di CPI mi è
capitato di bloccare i carrelli, azionando il tasto di emergenza,
nella ipotesi in cui la linea era ferma (ad esempi per mancan‑
za di scocche o comunque in caso di anomalia sulla linea)
onde evitare che gli stessi si accumulassero. Preciso infatti che
ciascun convoglio è abbastanza lungo e l’accumularsi di con‑
vogli potrebbe generare delle disfunzioni, in articolare vi sono
anche degli attraversamenti pedonali che potrebbero rimane‑
re preclusi dall’accumulo dei convogli…ciò non è mai capita‑
to…”. Ugualmente nel senso del blocco, anche se non per ef‑
fetto di una diretta manovra di fermo, bensì in conseguenza
dell’accumulo dei convogli determinato dal blocco delle linee,
è la deposizione del teste L. R., delegato UILM, partecipante
allo sciopero, il quale ha così dichiarato: “non è vero che la
S. A.T.A. per prassi è solita bloccare i carrellini in caso di
sciopero in quanto se la linea di produzione è attiva il carrel‑
lino deve necessariamente fornire il materiale necessario alla
produzione; diverso è il caso se la linea a della produzione è
ferma; anzi preciso che anche in tale circostanza per quello
che ho visto i carrellini possono comunque camminare per
poi bloccarsi “in accumulo” ciò almeno avviene nella mia
UTE…”. Sempre nel senso di un fermo del convoglio, come
situazione rilevata de visu anche in altre occasioni, è la depo‑
sizione resa dalla già citata teste L. M.: “…mi risulta di una
prassi aziendale che in occasione di precedenti cortei interni
porta all’arresto dei carrelli AGV da parte dell’azienda, neces‑
sità dovuta all’esigenza di riorganizzare le linee di produzione
tenendo conto di quelle ferme per lo sciopero…ciè è avvenuto,
ad esempio, circa un mese prima in occasione dello sciopero
dell’integrativo…preciso che in quella occasione ho visto i
carrelli fermi ma non ho visto i responsabili dell’azienda fer‑
marli …quando lo sciopero ha un’adesione parziale le linee di
produzione vengono fermate al fine di poter spostare la pro‑
duzione ed i lavoratori da una linea all’altra…”.
Di segno contrario è, invece, la deposizione del teste E. G.,
delegato FIMCISL, partecipante allo sciopero: “… non mi
risulta che l’azienda abbia mai proceduto ad arrestare il fun‑
zionamento dei carrellini in caso di sciopero, essendo suo
interesse invece cercare di continuare la produzione…” e così
quella del teste F. M., delegato UGL, aderente allo sciopero:
“…sono delegato RSU da circa 9/10 anni e non mi è mai ca‑
pitato che la S. A.T.A. durante gli scioperi per motivi di sicu‑
rezza abbia bloccato il passaggio dei carrelli; infatti durante
gli scioperi vi sono lavoratori che non aderiscono e che voglio‑
no lavorare per cui è interesse dell’azienda continuare la
produzione…”.
Certo è che, quando gli scioperanti sono arrivati sul luogo
ove si sono verificati i fatti per cui è causa (da collocarsi tem‑
poralmente un po’ prima dell’intervento sul posto del F. e del
R., già in loco), il convoglio presente sulla pista era fermo
(vuoi per un azionamento del tasto di stop da parte dei re‑
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
sponsabili sin dal momento del blocco della linea, vuoi per
uno spegnimento successivo al rilevamento da parte degli
stessi dell’impedimento al transito), senza che risultasse acce‑
sa la luce gialla ovvero quella rossa significative di un arresto
per anomalie di marcia ovvero di un livello di batteria troppo
basso. Si vedano le conformi dichiarazioni rese da M. G.,
operaia area picking UTE 4, iscritta FISMIC, partecipante
allo sciopero: “…non stavamo bloccando il carrello perché lo
stesso era già fermo quando noi siamo arrivati…”; da P. A.,
operaio, non iscritto ad alcun sindacato, partecipante allo
sciopero: “…a seguito della proclamazione dello sciopero e
dopo il corteo interno tra i corridoi ci siamo fermati per tene‑
re un’assemblea nel corridoio tra la UTE 3 e la UTE 4. Il
nostro assembramento interessava la pista di transito degli
AVG e il corridoio ad essa attiguo. Tuttavia quando siamo
arrivati ivi vi era un carrello già fermo e noi ci siamo fermati
in assemblea circa 2‑3 metri davanti al carrello…il B. è stato
il primo ad intervenire in difesa del P. anche se io stesso ho
avvertito che il gestore stesse contestando una circostanza non
vera in quanto non stavamo bloccando i carrelli perché i car‑
relli erano già fermi e le linee erano ferme perché una parte
dei lavoratori era in sciopero…”; dal già citato teste S. M.: “…
abbiamo svolto l’assemblea nel corridoio tra la UTE 3 e la
UTE 4. Presumo che qualcuno tra gli scioperanti occupasse
anche la zona sulla quale insiste la banda magnetica ma in
ogni caso eravamo ad una distanza di circa 2/3 metri dai
carrelli che in quel momento erano fermi…non so perché il
carrello era fermo ed a luci spente quando siamo arrivati nel
corridoio …”; da L. M.: “…proclamato lo sciopero si forma‑
rono due cortei: un primo corte partiva dalle UTE 3 e 4,
l’altro dalle UTE 1 e 2 capeggiati rispettivamente l’uno da L.;
B., M. e L., l’altro da E., F. e L.; i cortei so fermarono per
discutere sui carichi di lavoro; mentre arrivavamo presso il
suddetto percorso pedonale mi trovavo vicino al L. e ad altri
delegati in particolare E. ed un altro delegato della UILM che
fa il C.P., in una posizione che mi consentiva di scorgere
quello che avveniva innanzi al nostro cammino; nell’occasio‑
ne avevo, pertanto, modo di notare la presenza di un carrello
AGV già fermo e con il lampeggiante spento oltre al segnala‑
tore acustico spento anch’esso. Il corteo di conseguenza si
fermava e stazionava ad una distanza di circa due, tre metri
dal suddetto carrello…”.
Ciò precisato, la successiva cronologia della vicenda va
così ricostruita.
È emerso dall’istruttoria che F. n. e R. V. sono intervenu‑
ti sul posto dopo aver rilevato che “non arrivavano più car‑
rellini”. Si veda, sul punto, quanto dichiarato da F. n. : “…
veniva riattivata la linea di montaggio UTE 3, ma dopo pochi
minuti, constatato che non sopraggiungevano più carrellini,
fu necessario fermare nuovamente la linea di produzione…fu
R. ad accorgersi che dopo due minuti dalla riattivazione della
linea (verso le 2.00) non arrivavano più carrellini e si erano
esauriti i rifornimenti della linea; quindi nell’occasione prov‑
vide a rendermi edotto di quello che stava succedendo…a quel
punto io e R. abbiamo percorso a ritroso il tragitto del carrel‑
lo rinvenendone uno fermo vicino al varco tecnico della UTE
3 in entrata e ad alcuni metri dalla stazione dove si sarebbe
dovuto fermare; innanzi al carrello, ad alcuni cm. dallo stes‑
so vi era un gruppo di persone, circa 40…”; da R. V.: “…dopo
due minuti dal momento in cui ho provveduto a riattivare la
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
linea io e il collega F. abbiamo notato che non arrivavano più
carrellini dall’area picking; abbiamo così provveduto a bloc‑
care nuovamente la linea ed a risalire la stessa per verificare
il motivo del mancato arrivo dei carrelli…abbiamo così tro‑
vato sul percorso un convoglio AGV fermo con un gruppo di
lavoratori davanti allo stesso…”.
Se, dunque, la riattivazione della linea è avvenuta alle
2.00, considerato un minimo tempo tecnico per rilevare il
problema a base del mancato transito del convoglio e per
“risalire la linea” fino a giungere sul posto ove erano gli scio‑
peranti, è verosimile ritenere che l’arrivo del F. e del R. sia da
collocarsi dopo le 2.05 (dalle stesse lettere di contestazione di
evince che: “…i responsabili UTE, impostata la linea con il
personale non aderente allo sciopero, intorno alle ore 2.05 si
rendevano conto che la linea non poteva partire in quanto non
arrivavano i carrelli sequenziali AGV dall’area picking…”).
All’intervento dei predetti (che non può non essersi pro‑
tratto per alcuni minuti, considerato che sia il F. sia il R.
hanno avuto con gli scioperanti uno scambio verbale – si veda
quanto dichiarato da F. n. : “…innanzi al carrello ad alcuni
cm dallo stesso vi era un gruppo di persone, circa 40; io ri‑
volgendomi indistintamente a tutti i presenti li invitavo a
spostarsi al fine di consentire il ripristino del funzionamento
dell’AGV. Mi rispondeva il L. che si trovavano lì perché erano
riuniti in assemblea. Preciso che il L. stava leggendo un’agen‑
da e mi rispose senza guardarmi in faccia. Anche il R. prov‑
vide a fare tale richiesta ma ebbe la medesima risposta sempre
da parte del L., a quel punto avvertivamo telefonicamente il
T. ed il T…”) hanno fatto, quindi, seguito, quello di T. S. ,
responsabile del personale dell’unità montaggio presente nel
turno, e quello del gestore operativo T. (questi ultimi due
sono sopraggiunti sul posto pressoché contemporaneamente
o, comunque, il T. immediatamente dopo il T. – si veda quan‑
to dichiarato da L. G. delegato RSU FISMIC, partecipante
allo sciopero: “…in un primo momento sopraggiunto il T.,
insieme al T. (subito dopo) e due sorveglianti…”; da R. V.: “…
subito dopo arrivavano T. e T. insieme a tre capi UTE…”; da
F. n. : “…a quel punto T. e T., unitamente a M., M. e M. ci
raggiunsero sul posto..”; da T. S. : “…ad un certo punto, dopo
l’intervento del T…”; da B. S. , delegato FIOM, partecipante
allo sciopero: “…dopo pochi minuti sopraggiungevano il B.,
fino ad allora non presente, nonché il gestore operativo ed il
responsabile del personale del turno, T…”; da T. F.: “…insie‑
me al T. mi sono recato nei pressi dell’assembramento…”; da
M. F., responsabile UTE 7: “…T. e T. decidevano di raggiun‑
gere R.. Di conseguenza anche io, M. e M. abbiamo seguito
T. e T. e ci siamo recati sui luoghi per cui è causa…”).
È importante chiarire, ai fini che qui interessano, quando
sia giunto sul posto T. F., atteso che i principali addebiti di cui
alle contestazioni si collocano temporalmente nel periodo
compreso tra l’intervento di detto gestore operativo e le
2.30.
Ed allora va rilevato che, secondo quanto risulta dalla
lettera di contestazione, l’intervento del T. è collocabile alle
ore 2.20 (il che rende poco credibile la deposizione resa sul
punto dallo stesso T., il quale tende ad anticipare il suo inter‑
vento sul luogo ove si sono svolti i fatti: “…sono arrivato sul
luogo dell’assembramento tra le 2.08 e 2.10 circa…” ed a
collocare intorno alle ore 2.20 il momento in cui i tre licen‑
ziati solo rimasti soli sul percorso destinato al transito del
2 0 1 2
33
convoglio: “…erano rimasti da soli sulla pista di transito
degli AGV, fino al momento in cui gli stessi, insieme al P. si
sono allontanati dalla pista, è passato circa un quarto d’ora
in particolare tra le 2.20 circa e le 2.35 circa, quando è ripre‑
sa la produzione…a seguito dell’allontanamento dei tre…,” e
così anche quella resa dal R.: “…subito dopo arrivavano T. e
T. insieme a tre capi UTE. I medesimi sono arrivati intorno
alle 2.05/2.10…).
L’indicato orario delle 2.20, perè, è ragionevolmente tra‑
slabile di alcuni minuti in avanti alla luce di quanto dichiara‑
to dallo stesso F. n. (teste di parte aziendale) con riguardo
alla circostanza che il T. intervenne sul posto dopo la telefo‑
nata di R. V.: “…a quel punto avvertivamo telefonicamente il
T. ed il T. che erano in riunione con il M., il M. ed il M…non
ricordo l’ora esatta in cui il R. fece la telefonata ma grosso
modo potevano essere forse le 2,20…”. Si veda anche quanto
riferito dal teste M. F., responsabile UTE 7 montaggio (altro
teste di parte aziendale): “…io e M. raggiungevamo intorno
alle 2.15 circa l’ufficio del sig. T. per consegnare documenti
riguardanti alcuni dipendenti. Qui trovavamo i sigg. M., T. e
T.. Ad un certo punto T. riceveva una telefonata durata qual‑
che minuto; a seguito di ciò ci riferiva poi che era stato con‑
tattato dal sig. R. che si trovava presso la UTE 3 e 4 e chiede‑
va l’intervento perché c’erano problemi con i manifestanti; a
quel punto T. e T. decidevano di raggiungere R…”; dalla teste
L. M.: “…è vero che verso le 2.20 circa il R. e il F. si avvici‑
narono al L., il quale era insieme agli altri delegati sindacali
(E., l’altro delegato della UILM di cui non ricordo il nome,
B.) intimandogli di riprendere la produzione…nell’occasione
R. e F. non fecero riferimento ai carrello AGV ma espressa‑
mente palesarono l’esigenza aziendale di riprendere la produ‑
zione…successivamente sopraggiungevano sul posto anche il
T., T., F. e R…”.
In sostanza, le suddette dichiarazioni testimoniali rendo‑
no verosimile che sia stata la telefonata del R. ad avvenire
intorno alle 2.20 e che solo dopo qualche minuto (consideran‑
do il tempo strettamente necessario per uscire dall’ufficio, ove
era in corso una riunione, e recarsi sul posto; si veda quanto
riferito da M. F.: “…dal ricevimento della telefonata siamo
arrivati sul posto nel giro di qualche minuto poiché l’ufficio
del T. dista circa 30 metri…”; da F. M., delegato UGL, par‑
tecipante allo sciopero: “..è vero che tra l’ufficio del persona‑
le ed il luogo dove si sono svolti i fatti vi è una distanza di
circa 100 mt…”; da L. R., delegato UILM, partecipante allo
sciopero: “…tra l’ufficio del personale ed il luogo ove si sono
svolti i fatti intercorrono alcune decine di metri ma non sono
in grado di specificare la distanza..”) il T. sia arrivato nella
zona ove si trovavano gli scioperanti. Tale ricostruzione tem‑
porale appare coerente con la collocazione oraria della tele‑
fonata effettuata dal L. al B. (telefonata che è logico ritenere
sia avvenuta pressoché in contemporanea con quella del R. al
T. – in una situazione in cui si richiedeva da parte del respon‑
sabile UTE l’intervento del gestore operativo è comprensibile
che un delegato abbia, a sua volta, chiesto di essere raggiunto
sul posto dall’altro delegato – ed alla quale hanno fatto rife‑
rimento nelle loro deposizioni P. A.: “…quando il B. ci ha
richiamato dentro, durante la nostra pausa‑sigaretta, egli ci
ha riferito di essere stato contattato telefonicamente qualche
minuto prima da L. il quale sollecitava il rientro di coloro che
erano fuori (totalmente circa 6‑7 persone: B. e gli altri dele‑
civile
Gazzetta
34
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
gati, P. e M., nonché io ed altri 2‑3 colleghi) onde discutere
sull’opportunità di protrarre lo sciopero. B. ci disse che il L.
sollecitava tale rientro poiché intanto si era arrivati alle
2.25…”; L. M.: “…nell’occasione R. e F. non fecero riferimen‑
to ai carrello AGV ma espressamente palesarono l’esigenza
aziendale di riprendere la produzione…e’ vero che a seguito
di ciò il L. chiamava a telefono il B., che si trovava fuori dello
stabilimento, invitandolo a raggiungere gli scioperanti perché
c’erano dei problemi…”; M. C.: “…non ricordo che il B.,
quando siamo usciti a fumare, mi abbia riferito di aver rice‑
vuto una telefonata da L.; ricordo se non erro, però, di averlo
visto a telefono…”; nonché, in sede di libero interrogatorio,
lo stesso B.: “…sono rimasto fuori per circa venti minuti, poi
alle 2.24, dopo aver ricevuto una telefonata dal L., il qual mi
riferiva che c’erano in atto delle provocazioni da parte dei
capi dell’azienda, rientravo anch’io per sincerarmi dell’acca‑
duto…”.
Vi è anche in atti un tabulato telefonico relativo all’uten‑
za del L. (cui pure ha fatto riferimento il primo giudice) che
costituisce altro elemento per ritenere che effettivamente la
telefonata di quest’ultimo al B. vi sia stata, così come da
quest’ultimo e dagli altri testi riferito. Tale documento – ri‑
conducibile con certezza al numero di telefono del L., come
chiaramente si rileva dal contenuto del modulo di identifica‑
zione ed attivazione per ricaricabile pure prodotto ‑, regolar‑
mente acquisito agli atti già nel corso della fase cautelare
(verbale di udienza del 4/8/2010) e rispetto al quale la
S. A.T.A. S. p.A. si è limitata, nell’immediatezza della produ‑
zione, ad una generica contestazione di ammissibilità e rile‑
vanza, appare sicuramente deponente nel senso che la telefo‑
nata è stata effettuata all’indicata ora delle 2.24 (orario
corrispondente all’unica chiamata in uscita dall’utenza del L.
in quella notte).
Se, dunque, come riferito dal teste B. S. (“…ad un certo
punto sono arrivati due capi UTE, i sigg. F. e R. i quali inti‑
mavano la ripresa dell’attività produttiva, a tale intimazione
il L. faceva presente che era in atto uno sciopero ed i capi UTE
si allontanavano mentre effettuavano delle comunicazioni
telefoniche. Dopo pochi minuti sopraggiungevano il B., fino
ad allora non presente, nonché il gestore operativo ed il re‑
sponsabile del personale del turno, T…”) e da R. V.(“…ivi
sopraggiungeva il B., il quale si posizionava a fianco al L.,
subito dopo arrivavano T. e T. insieme a tre capi UTE…”), il
B. ed il T. sono giunti sul posto pressoché contemporanea‑
mente, anzi, il B. poco prima del T. (si veda anche quanto
riferito da F. n. : “…il B. in una prima fase non era stato pre‑
sente, ossia quando siamo arrivati io e R., ma è sopraggiunto
sul posto pochi istanti prima che ci raggiungessero il T., il T.
e gli altri…”), può ritenersi che l’arrivo del gestore operativo
sul luogo ove si sono svolti i fatti è avvenuto prima delle
2.24‑2.25.
È pur vero che il teste R. V. ha fatto riferimento ad una
discussione tra il T. e gli operai rimasti soli dinanzi al carrel‑
lo durata circa un quarto d’ora (“…il T. è rimasto a discutere
con gli operai rimasti soli davanti al carrello per circa un
quarto d’ora durante il quale il T. continuava a contestare che
stavano bloccando gli AGV lavoratori continuavano a ripete‑
re che dovevano tenere l’assemblea…”) e che un periodo
temporale anche più lungo è stato indicato dal T. (“…dopo il
mio invito, comunque, gli scioperanti si sono spostati dalla
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
linea di transito degli AGV sono rimasti in loco solo B. e L. a
discutere con me, a circa un metro davanti ai carrelli…in
particolare sono rimasto insieme a loro per circa un quarto
d’ora…”) e da M. F. (“…tutta la discussione è durata 15‑20
minuti…”), ma tale ricostruzione è contraddetta sia da quan‑
to contenuto nelle stesse lettere di contestazione, sia dalla
altre emergenze istruttorie come sopra riportate. Si aggiunga
ancora che anche i delegati di altre sigle sindacali hanno con‑
cordemente fatto riferimento ad un tempo più limitato rispet‑
to a quello indicato dai suddetti R., T. e M. (così, E. G., dele‑
gato FIMCISL: “…questa discussione intervenuta tra il T., il
T., il L., il B. ed il P. è durata circa tra i 7 e 10 minuti, in par‑
ticolare dalle 2‑15‑2,20 circa sino alle 2.35 …”; M. C., dele‑
gato FISMIC: “…dall’intervento del T. a quando i tre si sono
effettivamente spostati sono passati circa 7 minuti…”; L. G.
delegato RSU FISMIC: “…preciso che dal momento che va
dall’intervento del T. alla decisione dei tre di spostarsi sono
passati una decina di minuti…”). In senso analogo si sono
espressi S. M. (“…Il T. è rimasto tra gli scioperanti per le sue
contestazioni circa 5/10 minuti…”) e L. M. (“…la discussione
è durata poco più di due o tre minuti…”).
L’ambito cronologico dei fatti (considerato che nella lette‑
ra di contestazione si indica quale momento finale del com‑
portamento addebitato ai tre operai le ore 2.30 “allorquando
finalmente, Ella si allontanava dalla suddetta area di transi‑
to”) si riduce, di conseguenza, a cinque‑sei minuti ed in sif‑
fatto breve arco temporale va collocata la sequenza di quanto,
in modo concitato, è avvenuto, con il particolare, assoluta‑
mente non trascurabile, che, quando il T. è giunto sul posto
(circostanza, questa, che temporalmente coincide, più o meno,
con il rientro del B.), nella zona riservata al transito degli AGV
non vi erano solo il L., il B. ed il P., ma anche altri operai (e
tra questi altri delegati sindacali), come è stato riferito dallo
stesso T.: “…insieme al T. mi sono recato nei pressi dell’as‑
sembramento… non posso precisare quale fosse la distanza
tra i carrelli ed il gruppo dei lavoratori poiché l’elevato nume‑
ro degli stessi impediva di valutare detta distanza. Una volta
giunti sul posto il T. si è rivolto espressamente a L. e B. invi‑
tandoli a voler predisporre l’allontanamento degli scioperan‑
ti dalla pista magnetica dove transitavano i carrelli AGV…
preciso che il T. si è rivolto ai due delegati proprio in virtù
della loro funzione istituzionale poiché siamo soliti interagire
esclusivamente con i rappresentanti sindacali …oltre a B. e L.
c’erano altri sei rappresentanti sindacali di sigle diverse dalla
FIOM…”; nonché da T. S. (teste aziendale): “…quando sono
arrivato nei pressi dell’assemblea non riuscivo a vedere il car‑
rello anzi lo intravedevo perché i lavoratori erano davanti ed
intorno allo stesso…Ho espressamente detto a tutti di spo‑
starsi per consentire il transito degli AGV …”; da M. Patrizio,
responsabile della UTE 8 (teste aziendale): “…ad un certo
punto tutti e cinque (M., M., T., T. e M.) ci recavamo imme‑
diatamente in quella zona dove rinvenivamo i manifestanti
che sostavano sul corridoio, anche nella zona riservata al
passaggio dell’AGV…il T., allora, rivolgendosi indistintamen‑
te a tutti, li invitava a spostarsi dal percorso del carrello
perché ciò impediva lo svolgimento dell’attività produttiva…
poiché i manifestanti non si spostavano interveniva anche il
T. che sottolineava anch’egli le medesime contestazioni for‑
mulando nuovi inviti…a quel punto i manifestanti rimaneva‑
no ai lati del corridoio riservato all’AGV, innanzi al quale
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
rimaneva il sig. L. ed il B., a circa un metro di distanza da
questo…”; da M. F. (teste aziendale): “…anche io, M. e M.
abbiamo seguito T. e T. e ci siamo recati sui luoghi per cui è
causa. Preciso che su tali luoghi siamo arrivati tutti e 5 con‑
testualmente. Avevo modo di notare circa una cinquantina di
persone manifestanti che stazionavano in maniera irregolare,
più precisamente sparpagliati, nel corridoio tra la UTE 3 e 4,
e notavo, pur se con una certa difficoltà a causa del numero
delle persone, la presenza di alcuni AGV fermi alle spalle
degli scioperanti…preciso che i suddetti manifestanti occupa‑
vano anche la parte del percorso riservata al transito degli
AGV…a quel punto il T. si è rivolto ai manifestanti ed ha
chiesto loro di lasciare libero il percorso degli AGV…a quel
punto prendeva la parola il L. il quale rispondeva che i pre‑
senti erano in assemblea e che non stavano facendo nulla di
male; anche il B. successivamente interveniva ribadendo lo
stesso concetto; pertanto il T. faceva notare a questi che, oltre
ad ostacolare il transito degli AGV e quindi l’approvvigiona‑
mento dei materiali, stavano altresì violando le norma in
materia di sicurezza…poiché a tali richiami nessuno si spo‑
stava, interveniva anche il T. che formalmente chiedeva ai
manifestanti di spostarsi e di lasciare libero il passaggio degli
AGV…preciso che prima del suddetto intervento del T., il T.
diceva al B., con riferimento alle norme in materia di sicurez‑
za: “tu, tra l’altro, queste cose dovresti saperle perché sei
RLS”…dopo anche l’intervento del T. i manifestanti comin‑
ciarono a spostarsi sui lati destro e sinistro del percorso riser‑
vato agli AGV, mentre il B. continuava a ribadire che si trat‑
tava di un’assemblea di lavoratori in sciopero”; da R. V. (teste
aziendale): “…il gruppo era composto da circa una cinquan‑
tina di persone …dopo aver avvertito i responsabili aziendali
(in particolare io ho chiamato T. sul cellulare aziendale) sono
rimasto sul posto ed ho potuto constatare che ivi sopraggiun‑
geva il B., il quale si posizionava a fianco al L., subito dopo
arrivavano T. e T. insieme a tre capi UTE. I medesimi sono
arrivati intorno alle 2.05/2.10 e sono andati via alle 2.35…
prima il T. e poi il T. hanno fatto presente a tutti i lavoratori
presenti che la loro posizione era di ostacolo al transito degli
AGV, L. e B., in un primo momento hanno risposto al T. che
era in corso un’assemblea. Quando, poi, è intervenuto il T. per
contestare le stesse cose, il B. ha reagito chiedendo di indicar‑
gli un posto dove poter tenere l’assemblea. Intanto gli altri
lavoratori si erano allontanati ed erano rimasti i soli B. e L.
…”; da F. n. (teste aziendale): “…anche il T. ed il T., poi,
contestarono al gruppo di lavoratori che erano posizionati sul
corridoio ed anche sul percorso riservato al transito degli
AGV. Il T., in particolare, chiedeva loro di mettersi al lato di
tale passaggio per consentire il percorso dell’AGV, ma il L. gli
rispondeva che erano in assemblea, allora il T. ricordava in
particolare al L. ed al B. che anche per motivi di sicurezza la
normativa non consentiva la sosta in tale area…”; da B. S. :
“…in quel frangente il gestore operativo puntava il dito contro
il L. il quale era insieme a tutti gli altri e gli diceva più volte
che era passibile di contestazione…”; da P. A.: “…a seguito
della proclamazione dello sciopero e dopo il corteo interno
tra i corridoi ci siamo fermati per tenere un’assemblea nel
corridoio tra la UTE 3 e la UTE 4. Il nostro assembramento
interessava il camminamento pedonale, la pista di transito
degli AVG e il corridoio ad essa attiguo. Tuttavia quando
siamo arrivati ivi vi era un carrello già fermo e noi ci siamo
2 0 1 2
35
fermati in assemblea circa 2‑3 metri davanti al carrello …nel
corso dell’assemblea mi sono allontanato con 3‑4 colleghi per
circa 10‑minuti onde fumare una sigaretta. Il B. nell’occasio‑
ne ci ha richiamato all’interno perché bisognava discutere
sulla eventuale protrazione dello sciopero oltre l’orario in
precedenza determinato. Al rientro io insieme agli altri colle‑
ghi ed al B. ci siamo fermati a discutere dietro al carrello
mentre l’assemblea continuava ad occupare gli spazi che ho
già indicato…ad un certo punto è arrivato il G.O. accompa‑
gnato dal REPO e da due capi UTE il quale ha iniziato a
contestare al L. il fatto che lo stesso bloccasse il carrello e
quindi la produzione… era a circa 10‑15 metri di distanza dal
luogo in cui il G.O. discuteva con il L… in quel frangente il
delegato sindacale UILM, sig. P. …si avvicinava ai due con‑
tendenti facendo notare che il L. non era l’unico che stava
scioperando, in quanto lo sciopero aveva registrato l’adesione
di circa 60 persone..a questa osservazione non vi è stata alcu‑
na risposta da parte del G.O., anzi preciso che dopo poco, il
Gestore medesimo, dopo aver chiesto ed ottenuto le generali‑
tà da M. Pigantelli, ha effettuato la medesima contestazione
nei confronti di costui…preciso che al momento delle conte‑
stazioni il L. ed il P. erano comunque insieme ad altri lavora‑
tori all’esterno della pista di transito degli AGV e più precisa‑
mente nell’area di camminamento pedonale…”; da S. M.: “…
durante la nostra assemblea nessuno dei responsabili azien‑
dali ci ha mai contestato specificamente che stessimo impe‑
dendo il transito degli AGV. Io personalmente non capivo i
motivi della contestazione soprattutto perché eravamo a 2/3
metri dai carrelli. Infatti quando ci siamo spostati il carrello
non è ripartito…Non ho capito il motivo per il quale i respon‑
sabili si rivolgevano per lo più al sig. L. il quale era vicino agli
altri lavoratori. Non ho altresì compreso il motivo delle con‑
testazioni a P., il quale in quel momento era alle mie spalle e
si è mosso di qualche passo per ascoltare ciò che diceva il
G.O…di fronte alle contestazioni dei responsabili, il L. ha
chiesto il perché stessimo ostacolando la produzione. La sua
domanda non ha trovato risposta. Solo successivamente ab‑
biamo autonomamente inteso che probabilmente volevano
significare che stessimo bloccando i carrelli…”; da L. G.: “…
ad un certo punto sopraggiungono il M. C. ed il B. il quale
ultimo ci invitava a rientrare per parlare sul da farsi…quando
io sono rientrato ho trovato un gruppo di persone che sostava
sia all’esterno che all’interno dell’area delimitata dalle linee
gialle, riservata al passaggio dei carrelli… preciso che quando
mi sono allontanato dal corteo, per andare a fumare all’ester‑
no, eravamo già arrivati tutti quanti davanti l’area posti in‑
nanzi al carrello e dove poi li ho ritrovati quando sono rien‑
trato nello stabilimento. In tale prima fase, ossia quando
siamo rientrati nell’area picking, prima che io andassi a fu‑
mare, non so se ci fosse o meno un carrello e se questo fosse
o meno fermo, perché io non ero in testa al corteo…quando
sono rientrato dalla pausa sigaretta davanti al carrello vi
erano, in particolare nelle immediate vicinanze del suddetto
carrello, il L. ed il B. oltre ad altri lavoratori …”; da M. C.:
“…ricordo che si era fermato un gruppo di persone che sta‑
zionava sul posto dove sarebbero poi avvenuti gli eventi per
cui è causa ma non ricordo, anzi ricordo che le persone sta‑
zionavano sia all’esterno sia all’interno dell’area destinata al
passaggio dei carrellini… il B. è uscito contestualmente a me…
dopo aver fumato siamo rientrati in stabilimento per raggiun‑
civile
Gazzetta
36
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
gere gli altri…rientrato ho nuovamente trovato o stesso grup‑
po di persone nella stessa zona dove li avevo lasciati prima…”;
da F. M.: “…preciso che molte altre persone si trovavano
all’interno della stessa zona dove sostava il P.; il L. ed il B.,
invece, erano vicino al P. ma più all’interno del corridoio ri‑
servato al passaggio dei carrellini. Io in particolare ero posto
sulla fascia rossa sapendo che oltre non mi era consentito
sostare…”; da L. M.: “…alla discussione intercorsa tra il T.
ed il L. assisteva anche il P. il quale faceva notare a T. che lo
sciopero si era svolto nel rispetto delle regole del contratto…
la discussione è durata poco più di due o tre minuti…al mo‑
mento della discussione tra il T. ed il L., quest’ultimo era
come noi posto a circa un paio di metri dal carrellino già
fermo…”, da F. M., iscritto FIOM, partecipante allo sciopero:
“…preciso che i responsabili SATA non rivolsero al L. un
preciso invito a spostarsi, contestando solo il fermo della
produzione…finché L., B. e P. non si sono spostati, anche
tutti noi altri siamo rimasti sulla banda magnetica perché non
avevamo ancora capito che il problema era l’ostacolo al pas‑
saggio dell’AGV…ce ne siamo resi conto quando il gestore
operativo ha mosso formale contestazione di tale ostacolo
alla produzione dapprima anche al P. (che aveva una busta
paga in mano) chiedendogli le generalità e, poi, quando è
stato richiamato anche il B., intervenuto a difesa del P., facen‑
do notare al gestore che non era quello il modo di rivolgersi
ad un lavoratore…”.
Orbene, così essendosi svolti i fatti, è certo che, al momen‑
to dell’intervento del T. nella zona riservata al transito degli
AGV vi erano, oltre i dipendenti licenziati, altri manifestanti,
i quali, solo con il progressivo degenerare della discussione
del gestore operativo con il L. ed il B., si sono man mano
spostati restando peraltro nelle immediate vicinanze, ai lati
del corridoio, così da rimanere esposti al pericolo di investi‑
mento e da impedire le verifiche di sicurezza preliminari al
riavvio dell’AGV. A tale proposito deve sottolinearsi che la
raffigurazione fotografica del veicolo evidenzia che il suo
bumper, e cioè il paraurti esterno, fuoriesce rispetto all’unità
motrice che cammina guidata dal nastro magnetico, con la
conseguenza che, essendo verosimile ipotizzare un ingombro
del convoglio anche oltre la delimitazione di cui alla banda
magnetica (non a caso, proprio sul bumper sono collocati,
come si evince dal manuale d’uso, i dispositivi tattili di pro‑
tezione), ne risulta pericolosa la circolazione in caso di pre‑
senza di persone nella parte del corridoio più prossima alla
banda magnetica. Vi è, infatti, da chiedersi se, pur libera la
zona sulla quale insiste la banda magnetica, ma posizionato
un certo numero di operai sui corridoi immediatamente limi‑
trofi, prudente sarebbe stato il riavvio dell’AGV, e ciò proprio
per l’esigenza del rispetto di quelle norme di cautela che se‑
condo il giudice dell’opposizione ha indotto i responsabili ad
attendere che i tre operai licenziati si spostassero prima di
ripristinare il funzionamento dei carrelli – “infatti se non si
spostavano, pur essendo l’AGV già fermo per i più svariati
motivi, i tecnici S. A.T.A. non potevano manualmente reset‑
tarlo e riavviarlo, se non accettando il rischio di poter inve‑
stire qualcuno in caso di un guasto paventato proprio dal
sindacato”‑. Sul punto è significativa la deposizione di P. A.:
“…preciso che al momento delle contestazioni il L. ed il P. era‑
no comunque insieme ad altri lavoratori all’esterno della pista
di transito degli AGV e più precisamente nell’area di cammi‑
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
namento pedonale..la distanza dai carrelli era sempre nell’or‑
dine di 2‑3 metri…preciso comunque che i carrelli sono dota‑
ti anche di fotocellule laterali per cui vanno soggetti a fermo
momentaneo nel caso in cui si incrociano con un pedone in‑
tento a camminare nel corridoio pedonale. Il mezzo riparte
non appena l’ostacolo è superato…”.
Certo è che, per quanto detto, risulta ulteriormente ridot‑
to il tempo in cui gli operai licenziati sono rimasti soli nella
zona di transito degli AGV (intesa, questa, come di “sicuro”
transito), come ha riferito il T.: “…a discutere con me, a circa
un metro davanti ai carrelli…” ed analogamente il T.: “…ad
un certo punto, dopo l’intervento del T., la maggioranza dei
lavoratori si è spostata. Sono rimasti a circa 80cm./1 metro,
B. e L. (L. a circa 80 cm./ 1 metro, B. era spostato in avanti
verso di me) mentre discutevano con il T.. P. quando è stato
contestato si era frapposto tra il L. e il carrello AGV…”.
Dunque, alla luce delle risultanze acquisite, l’addebito
contestato deve subire un sicuro ridimensionamento, tanto
con riferimento all’asserito deliberato intento di ostacolare la
produzione, quanto con riferimento alla sua componente
oggettiva, identificata dalla società in un “impedimento al
transito, decorso, passaggio del carrello stesso che i tre licen‑
ziati con la loro condotta (negligente e oltraggiosa) hanno
certamente causato”, impedimento che, a tutto voler conce‑
dere, è risultato temporalmente più circoscritto di quello la‑
mentato, con ovvie conseguenze sul danno asseritamente
derivatone, relativamente al quale giova, in ogni caso, preci‑
sare che mancano elementi che consentano di ravvisarlo sotto
forma di pregiudizio per la competitività aziendale. Il che
induce a formulare ampie riserve sulla rispondenza ad un
criterio di proporzionalità dei licenziamenti sub iudice.
Tutto ciò posto, si impongono le seguenti ulteriori consi‑
derazioni.
Non è indifferente, ai fini della complessiva valutazione
di quanto accaduto, che prima il T. e poi il T. si siano rivolti,
tra tutti i lavoratori in quel momento presenti nella zona in‑
terdetta (e tra questi, come ha dichiarato lo stesso T., “c’erano
altri sei rappresentanti sindacali di sigle diverse dalla FIOM”),
proprio al L. (che, secondo quanto riferito dalla teste M. G.:
“…non era in una posizione particolare rispetto agli altri la‑
voratori ma era insieme agli stessi … appena il T. è arrivato
nei pressi dell’assemblea ha immediatamente contestato L., il
quale era fra gli altri lavoratori”) ed al B. (sopraggiunto solo
in quel momento). Ciè è dipeso, come precisato proprio dal
T., dallo loro “funzione istituzionale” grazie alla quale si
pensava di ottenere “l’allontanamento degli scioperanti dalla
pista magnetica dove transitavano i carrelli AGV”.
Ma la scelta dei predetti, ed in un secondo momento,
quasi “a ruota”, del P. (avvicinatosi ai delegati della propria
organizzazione sindacale già impegnati nella discussione)
quali interlocutori dei responsabili aziendali ed in particolare
del gestore operativo (che pure in qualcuno dei presenti ha
destato perplessità: si veda quanto dichiarato da B. S. : “…in
quel frangente il gestore operativo puntava il dito contro il L.
il quale era insieme a tutti gli altri e gli diceva più volte che
era passibile di contestazione…io personalmente non ho ca‑
pito né il motivo della contestazione né perché il gestore
prendesse di mira il solo L… In quel frangente, poi, senza che
nemmeno per tale lavoratore ho ben compreso il motivo della
contestazione, il gestore si è rivolto al P. richiedendogli le
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
generalità perché a suo dire lo stesso avrebbe dovuto proce‑
dere al licenziamento del P…non ho compreso il motivo di
tale accanimento, poiché il P. era uno qualunque degli astan‑
ti e non aveva posto in essere alcuna condotta particolare…”;
da S. M.: “…non ho capito il motivo per il quale i responsa‑
bili si rivolgevano per lo più al sig. L. il quale era vicino agli
altri lavoratori. Non ho altresì compreso il motivo delle con‑
testazioni a P., il quale in quel momento era alle mie spalle e
si è mosso di qualche passo per ascoltare ciò che diceva il
G.O…”; da M. G.: “…nel frangente il P. era a fianco a me,
mentre consultava la sua busta paga; lì vicino c’era anche M.;
in quel frangente il G.O. ha contestato anche al P., che era con
me nell’area rossa, il blocco dell’attività produttiva. Più pre‑
cisamente, prima ha provveduto ad identificare il P. dopo di
che ha profferito le seguenti parole: “L. e P. siete contestati”…
io ho avvertito l’ingiustizia subita da L. e P. ed ho sollecitato
il mio delegato ad intervenire facendogli notare che al posto
dei due avrei potuto esserci anche io…”; da L. M.: “…il R. e
il F. si avvicinarono al L., il quale era insieme agli altri dele‑
gati sindacali…intimandogli di riprendere la produzione…
detta circostanza, ossia l’essersi riferiti ad un delegato in
particolare apparve a noi strana. A mio avviso i responsabili
SATA si sarebbero dovuti rivolgere a tutti i delegati conside‑
rato anche che, ad esempio, E. aveva una maggiore anzianità
di mandato rispetto al L…successivamente sopraggiunsero
sul luogo anche il T., T., R. e F. che rivolgendosi solamente al
L. gli contestavano il fermo della produzione …senza null’al‑
tro specificare …il L. rispondeva “noi siamo in sciopero”. A
quel punto il T. richiamava anche il Pigantelli che era vicino
a noi altri (a me, E. ed altri) con la busta paga in mano, chie‑
dendogli le proprie generalità…”) è stata la sola ed esclusiva
ragione che, in un arco temporale come sopra delimitato, ha
indotto a non allontanarsi i lavoratori poi licenziati, trattenu‑
tisi appunto sul posto per rispondere alle contestazioni che
(solo) a loro venivano rivolte e che percepivano come ingiuste.
Si richiama, con riferimento ad analoga condivisa percezione,
quanto dichiarato dal teste F. M. – già sopra riportato – e
dalla teste L. M.: “…inizialmente non ci eravamo resi conto
del perché fosse stato loro contestato il fermo della produzio‑
ne, ce ne siamo resi conto successivamente, quando, allonta‑
natisi tutti dal carrello, il R. provvedeva ad avviare la mano‑
vra di ripristino del funzionamento del carrello…dopo aver
fatto le necessarie manovre, il carrello non ripartiva ed il T.
rivolgendosi al R. con un tono un po’ alto gli diceva: come
mai non riparte questo carrello?”; alla discussione intercorso
tra il T. ed il L. assisteva anche il P. il quale faceva notare a T.
che lo sciopero si era svolto nel rispetto delle regole del con‑
tratto..”.
Del resto, anche valutando la condotta da un punto di
vista oggettivo, non può ritenersi che lo stazionamento dei
lavoratori sulla banda magnetica su cui si muove il carrello
AGV abbia integrato un comportamento materiale diretto ad
ostacolare il transito del convoglio (risultando, al più, lo stes‑
so impeditivo di un pronto ripristino – condizione, però, come
già detto, comune anche ai lavoratori che si trovavano nelle
immediate vicinanze della banda magnetica ‑), tale da poter
essere in qualche modo assimilato alle condotte sottoposte
all’esame del Supremo Collegio e di cui sopra si è detto (v.
retro, pag. 30, Cass. n. 3508 del 24/5/1986). Al riguardo ri‑
leva la circostanza, pressocché unanimemente riferita, che,
2 0 1 2
37
anche quando tutti i lavoratori si sono spostati (compresi il
L., il B., il P.), i carrelli non sono ripartiti, essendosi resa ne‑
cessaria una attività di riavviamento manuale dell’AGV. Si‑
gnificativo è quanto riferito (per citare solo i testi dell’azienda)
da R. V.: “… il T. continuava a contestare che stavano bloc‑
cando gli AGV, i lavoratori continuavano a ripetere che dove‑
vano tenere l’assemblea. Si sono allontanati dal carrello alle
2.35 circa…Dopo l’allontanamento ho provveduto a ripristi‑
nare il carrello schiacciando il tasto reset…”; da F. n. : “…È
vero che verso le 2.30 L., B. e P. si spostavano e constatavo
che l’AGV non ripartiva; il R. interveniva sull’avviamento
dello stesso premendo il pulsante “reset”…”; da M. F.: “…
spostatisi i manifestanti, poiché il carrello AGV non ripartiva
automaticamente, il R. interveniva manualmente sul pulsante
reset per consentire la ripresa del movimento..”. Ciò, invero,
non esclude l’anomalia del permanere per un certo tempo in
una zona comunque interdetta ai pedoni (e tale era indubbia‑
mente la zona su cui insisteva la banda magnetica per il
transito degli AGV). Tuttavia, in un contesto in cui era in
corso uno sciopero, le linee erano state bloccate ed i carrelli
risultavano fermi (senza le luci di emergenza accese che po‑
tessero lasciare intendere la sussistenza di una anomalia nel
transito), è verosimile che la contestazione (sia stata essa for‑
mulata come del blocco della produzione ovvero come del
blocco dei carrelli) possa essere stata percepita come qualco‑
sa di ingiusto (come emerso da risultanze già richiamate – ve‑
di pagg. da 53 a 55 ‑).
Se, allora, va ritenuto che i responsabili aziendali, pur
essendo in corso di svolgimento uno sciopero, fossero legitti‑
mati, in base ai principi sopra richiamati in tema di limiti
esterni al diritto di sciopero, a dare le disposizioni volte a
garantire la conservazione dell’assetto organizzativo e la ri‑
presa della produzione, non può trascurarsi il fatto che, per
le modalità con cui le stesse sono state impartite, per la con‑
citazione del momento e lo scontro sindacale dichiaratamen‑
te in atto (già il solo fatto che giungono sul posto, oltre al F.
ed al R., altri 5 responsabili aziendali, tutti insieme, è indica‑
tivo dell’impatto anche emotivo che tale intervento può aver
avuto sul gruppo degli scioperanti) nonché per la situazione
oggettiva del fermo dei carrelli, siano state intese come diret‑
te a censurare qualcosa (e cioè, appunto, il blocco dei carrelli)
che i lavoratori assumevano di non aver provocato. Del resto,
la stessa circostanza che il T. abbia dovuto più volte ripetere
tanto l’invito a spostarsi quanto la contestazione, è significa‑
tiva, contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, del
fatto che non era stato immediatamente compreso che non
veniva addebitato il blocco dei carrelli bensì il posizionamen‑
to atto ad impedirne il transito (o meglio, per quanto sopra
detto, la ripresa del transito).
D’altronde, una valutazione compiuta della vicenda non
può trascurare che il modo del T. di rapportarsi con il L., il
B. ed il P. non è stato così tranquillo e pacato come la società
sostiene.
Intanto si osserva che ad un “atteggiamento provocatorio”
del gestore operativo si fa riferimento nel documento sotto‑
scritto in modo unitario da tutta la RSU nell’immediatezza
dello svolgimento dei fatti. È vero che alcuni sottoscrittori di
tale documento (ed in particolare i delegati FISMIC a UILM,
cioè i rappresentanti sindacali delle organizzazioni che, come
è notorio, hanno espresso forti criticità nei confronti della
civile
Gazzetta
38
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
FIOM in relazione alla posizione da quest’ultima assunta con
riguardo ai c.d. “accordi di Pomigliano”, sostanzialmente
addebitando alla stessa la responsabilità della rottura della
unità sindacale tra le organizzazioni maggiormente rappre‑
sentative del paese) ne hanno, successivamente, in un certo
qual modo preso le distanze, parlando delle riserve che esso
aveva suscitato o comunque di perplessità avute al momento
della richiesta della relativa sottoscrizione (si veda quanto
dichiarato da L. G.: “…io non ero d’accordo sull’iniziativa di
redigere tale documento ed invitavo il M. ed il F. a non sotto‑
scriverlo; ma poiché nell’occasione venivo fatto oggetto di
ilarità da parte di P. (in quanto mi diceva che dovevo farmi
prima autorizzare dal mio segretario R.) alla fine mi convin‑
si anch’io a sottoscrivere una dichiarazione circa la regolarità
delle modalità dell’avvenuto sciopero…”; da M. C.: “..il do‑
cumento sottoscritto da noi delegati quella sera è stato fatto
con la finalità particolare di tutelare il lavoratore P. da even‑
tuali sanzioni disciplinari…ricordo le perplessità mie e del L.
nel sottoscrivere tale documento. Almeno inizialmente. …il
L. mi aveva manifestato la propria perplessità circa le conse‑
guenze che nel caso particolare avrebbe potuto comportare
tale documento circa lo “scontro” avvenuto in precedenza con
i preposti alla produzione…”, da P. D.: “…se non ricordo
male, almeno inizialmente, il L. si mostrò perplesso a firma‑
re tale documento, tant’è che io lo invitai a chiamare il proprio
segretario provinciale…se avessi saputo all’epoca che il con‑
tenuto di tale documento non sarebbe rimasto in ambito
aziendale forse non lo avrei sottoscritto…”).
Tuttavia va considerato che il documento in questione era
stato ritenuto “inusuale” dal segretario generale della FI‑
SMIC, D. M. A., il quale, come dallo stesso dichiarato, ne
aveva chiesto conto al segretario provinciale R. M. e, su indi‑
cazione di questi, a L. G.. In effetti, un documento sottoscrit‑
to congiuntamente ai delegati FIOM era certo inusuale in un
momento di contrapposizione tra le stesse sigle sindacali (il
c.d “accordo di Pomigliano” – che mirava al rilancio della
produttività con l’introduzione di regole innovative sull’orario
di lavoro, lo straordinario, la distribuzione delle mansioni tra
operai diretti ed indiretti, l’organizzazione del lavoro ed altro,
fino alla previsione di una clausola di responsabilità per la
mancata osservanza degli impegni assunti dalle OO.SS. e
dalle R.S. U. anche a livello dei suoi componenti – era stato
stipulato tra la FIAT Group Automobili e la FILM, UILM,
FISMC e le R.S. U. dello stabilimento di Pomigliano in data
8/6/2010 e cioè prima dello svolgimento dei fatti per cui è
causa e non era stato siglato dalla FIOM‑CGIL; analogamen‑
te era accaduto con l’accordo per lo stabilimento di Mirafiori
firmato in data 23/2/2010 dalla FIAT e dai sindacati metal‑
meccanici, esclusa la FIOM‑CGIL). Proprio per questo, però,
tale documento assume, con riguardo alla completa ricostru‑
zione dei fatti, una valenza particolarmente significativa che,
solo attribuendo ai delegati FILMIC e UILM sottoscrittori
dello stesso una sorta di “sudditanza” funzionale rispetto a
quelli della FIOM, potrebbe escludersi.
Si aggiunga che nessuno dei predetti testi ha affermato che,
quanto nel documento riportato in ordine all’atteggiamento
del T., non corrispondesse al vero. Anzi il teste P. D. ha così
dichiarato: “…ricordo che al mio rientro vidi il gestore opera‑
tivo già sul posto dove si stavano svolgendo gli eventi, che
stava già contestando al B. ed al L. più volte, con tono elevato,
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
il fermo della produzione, perché stavano ostacolando l’atti‑
vità produttiva, non ho sentito però invitare loro a spostarsi..
…ribadisco che il tono del gestore operativo era alto, io per‑
sonalmente mi sarei limitato semplicemente a dire: “guardate
che dovete spostarvi perché siete sul posto dei carrelli…”…
non ricordo che nell’occasione io mi sia rivolto al T. dicendo‑
gli “guarda che mò stai esagerando”; per me l’atteggiamento
del T. è stato percepito come provocatorio …preciso che le
provocazioni ci sono state da una parte e dall’altra…”.
Ha fatto riferimento ad un crescendo di tono del T. anche
M. C.: “…preciso che inizialmente il T., nel contestare il bloc‑
co della produzione, ha usato dapprima un tono normale e
successivamente un tono più deciso…”. Non si dimentichi che
il M. è il delegato FISMIC che, come si evince dagli atti tra‑
smetti alla Corte dalla Procura della Repubblica di Melfi,
messo di fronte alla trascrizione di un colloquio intercorso tra
lui ed il B. e da quest’ultimo registrato – colloquio il cui testo
non è nella disponibilità del Collegio, non essendone stata
autorizzata la produzione in giudizio da parte del giudice
dell’opposizione, ma che, per quanto si evince dai verbali di
sommarie informazioni dei Carabinieri del Nucleo Operativo
e Radiomobile di Melfi, regolarmente acquisiti, dovrebbe ve‑
rosimilmente avuto ad oggetto una ricostruzione dei fatti
avvenuta la notte tra il 6 e 7 luglio in senso conforme a quella,
nel presente giudizio, prospettata dall’appellante – ha dichia‑
rato alla P.G. che le parole dette al B. erano “bugie e discorsi
inventati a scopo solidale, giusto per confortare B. G., dato
che in quei giorni era giù di morale”. Tale comportamento del
M. – e, nel complesso, quello degli altri delegati che hanno
preso le distanze dal documento sopra citato – la dice lunga
su quanto una posizione assunta in un ambito valutato come
riservato e soprattutto come destinato a rimare tale, possa aver
risentito, nel momento della ufficiale e pubblica conferma,
della necessità di apparire fedeli alla linea di contrapposizione
sindacale, risultandone, così, influenzata. Ugualmente il teste
P. A. ha dichiarato che proprio il B. aveva avuto quale prima
reazione quella di contestare i toni usati dal T.: “…il gestore
ha proseguito diverse volte a contestare la presunta infrazione
al P., finché non è intervenuto il B. il quale ha contestato i
toni utilizzati dal g.o. facendo al contempo presente che non
era giusto che egli si rivolgesse direttamente al lavoratore es‑
sendo più opportuno che interloquisse invece con i delegati…
il B. è stato il primo ad intervenire in difesa del P. anche se io
stesso ho avvertito che il gestore stesse contestando una circo‑
stanza non vera in quanto non stavamo bloccando i carrelli
perché i carrelli erano già fermi e le linee erano ferme perché
una parte dei lavoratori era in sciopero. Nessun altro è inter‑
venuto a difendere P…”. Non diversamente si è espressa la
teste L. M.: “…a quel punto il T. richiamava anche il P. che
era vicino a noi altri (a me, E. ed altri) con la busta paga in
mano, chiedendogli le proprie generalità, il P. gliele forniva e
il T. a lui rivolgendosi gli diceva più volte: “lo sai che anche tu
sei passibile di licenziamento?”; nel frattempo interveniva
anche il B. (che stava parlando con un altro lavoratore) che,
rimanendo sul posto e girandosi verso il T., gli faceva notare
che non erano questi i modi di rivolgersi ad un lavoratore; il
T. rispondeva: “allora sei contestato anche tu”; a questo pun‑
to il T., rivolgendosi a tutti i soggetti coinvolti nella discussio‑
ne, li invitava ad andare a discutere nel suo ufficio; il T. gli
rispondeva che nella sua officina comandava lui…”.
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
Ma questa fase della vicenda assume importanza anche
sotto altro profilo.
Risulta dalle deposizioni testimoniali or ora riportate che
la discussione tra il L. ed il B., da una parte, ed il T., dall’altra,
si è fatta decisamente più animata dopo le contestazioni rivol‑
te da quest’ultimo al P., avvertite da più di un lavoratore
presente ai fatti come un incomprensibile accanimento nei
confronti di chi non aveva avuto un comportamento tale da
giustificare un richiamo così perentorio e grave. In tale pro‑
spettiva rileva anche il primario ruolo sindacale rivestito dal
L. e dal B. i quali, a fronte del diretto coinvolgimento di un
iscritto FIOM nelle stesse accuse a loro rivolte (e per quanto
sopra detto percepite come ingiuste), hanno ritenuto di inter‑
venire in difesa del lavoratore. Emblematico è che, nella situa‑
zione come determinatasi, la teste M. G., iscritta ad un sin‑
dacato diverso da quello del L. e del B., e cioè alla FISMIC,
abbia avvertito l’esigenza di chiedere l’intervento del proprio
delegato (“…in quel frangente il G.O. ha contestato anche al
P., che era con me nell’area rossa, il blocco dell’attività pro‑
duttiva. Più precisamente, prima ha provveduto ad identifica‑
re il P. dopo di che ha profferito le seguenti parole: “L. e
P. siete contestati”…io ho avvertito l’ingiustizia subita da L.
e P. ed ho sollecitato il mio delegato ad intervenire facendogli
notare che al posto dei due avrei potuto esserci anche io…”).
Di certo, allora, vi è stata la permanenza dei tre lavorato‑
ri licenziati in una zona interdetta al personale per alcuni
minuti (5‑6 secondo la ricostruzione temporale sopra effet‑
tuata, avendo come limite finale quello delle 2.30 di cui alle
lettere di contestazione), successivi all’intervento in loco del
T. (dei quali, almeno i momenti iniziali in condivisione con
altri lavoratori e delegati sindacali), in un contesto di anima‑
ta discussione con il gestore operativo, caratterizzata da toni
non propriamente pacati e dalla già sopra riferita percezione
dell’ingiustizia della contestazione rivolta ai tre lavoratori in
quel frangente in ragione dell’accertato fermo del carrello.
Così come è innegabile che il trascendere della discussio‑
ne, con un sicuro malgoverno delle espressioni verbali da
parte del L. e del B., era anche dipeso dal fatto che il T. aveva
minacciato di licenziamento (“contestato”) il P. (dicendo al
suo indirizzo che era passibile di licenziamento e, come rife‑
risce il teste E. G., “scandendo bene le parole”) laddove, tale
lavoratore, a detta dei testi sopra citati, era stato in una po‑
sizione defilata e solo a discussione già iniziata si era avvici‑
nato ai due delegati, ponendosi vicino a loro a braccia con‑
serte. Il P., peraltro, era stato visto con una busta paga in
mano (si veda quanto riferito da M. G.: “…nel frangente il
P. era a fianco a me, mentre consultava la sua busta paga…”
e da L. M.: “..a quel punto il T. richiama anche il P. che era
vicino a noi altri (a me, E. ed altri) con la busta paga in mano,
chiedendogli le proprie generalità; il P. gliele forniva e il T. a
lui rivolgendosi gli diceva più volte “lo sai che anche tu sei
passibile di licenziamento?”; nel frattempo interveniva anche
il B. (che stava parlando con un altro lavoratore) che, rima‑
nendo sul posto e girandosi verso il T., gli faceva notare che
non erano questi i modi di rivolgersi ad un lavoratore; il T.
rispondeva: allora sei contestato anche tu…”), segno tangibi‑
le di un interesse in quel momento circoscritto solo a verifiche
di tipo retributivo. D’altra parte, se in difesa di tale lavorato‑
re sono scesi tutti i delegati sindacali con la sottoscrizione del
documento sopra menzionato, la cui motivazione è stata una
2 0 1 2
39
sorta di “debolezza” dell’operaio (il teste P. ha riferito che,
dopo la contestazione del T., il P. era rimasto “imbambolato”;
il teste B. S. ha dichiarato: “…P. ha declinato con timore le
proprie generalità ed in quel momento è intervenuto il B. …”),
è veramente arduo sostenere, come fa il primo giudice, che
dietro quelle braccia conserte vi potesse essere un atteggia‑
mento di sfida. Del resto, si tratta di un gesto talmente comu‑
ne da non poter assumere un qualche univoco significato ben
potendo, ad esempio, lo stesso essere inteso, secondo i più
studiati e conosciuti canoni interpretativi del linguaggio del
corpo, come espressivo di una chiusura verso l’esterno, di una
scarsa disponibilità alla comunicazione, di una forte vulne‑
rabilità (braccia incrociate come forma di difesa, per creare
una barriera fra la persona ed il soggetto che incute preoccu‑
pazione).
A ciò deve aggiungersi che:
a) le frasi rivolte dal L. e dal B. al gestore operativo per
contestarne l’autorità, lungi dal porre in discussione una ge‑
rarchia aziendale, sembrano in quel contesto più che altro
dirette a reagire, da delegati sindacali, ad un ammonimento
(al P.) valutato come improprio tanto nei toni quanto nella
sostanza. Né va sottaciuto che l’essere in quel momento i la‑
voratori in sciopero può aver indotto il L. ed il B. a non rico‑
noscere il ruolo gerarchico del T.;
b) nessuna valenza intimidatoria o anche gravemente of‑
fensiva può essere attribuita, considerato il contesto e l’aspro
diverbio che si stava consumando, alle frasi pronunciate dal
B. all’indirizzo del T. “mi devi dare del lei” o “ti si è incanta‑
to il disco?”. Riguardo alla prima frase, non è condivisibile
l’assunto del primo giudice che, in modo alquanto singolare,
ha dedotto la valenza irriguardosa e provocatoria “volta al
pubblico ludibrio” dal fatto che detto lavoratore “…è il primo
a non dare (del lei) al giudice dell’opposizione durante tutto il
suo interrogatorio, così come del resto gli altri due suoi colle‑
ghi!”. Riguardo alla seconda, va escluso che la stessa, al di là
dell’espressione sconveniente, possa aver avuto una portata
oggettivamente offensiva ovvero di pubblico scherno;
c) lo scambio verbale, scaturito in un contesto ambientale
di forte contrapposizione, nel quale i toni esasperati hanno
reciprocamente valicato il confine di una discussione pacata
e misurata, è, in effetti, solo significativo di una poco control‑
lata gestione da parte degli operai licenziati dei propri mezzi
espressivi, non anche di una intenzione di offendere ovvero
intimidire l’interlocutore (al contrario, va registrato che, se un
effetto la discussione ha avuto nell’immediato, è stato quello
di disorientare alcuni fra quelli che vi avevano assistito; si
richiama, al riguardo, quanto riferito tal teste E. G.: “…già
alle 3 meno venti alcuni lavoratori si allontanavano timbran‑
do la ripresa dell’attività nonostante lo sciopero ufficialmente
terminasse alle 3 …”);
d) analogamente la “minaccia” di estendere lo sciopero a
tutto il montaggio (si veda quanto dichiarato da L. G.: “…il
B. riferendosi al T. minacciava di estendere lo sciopero a
tutto il montaggio (non solo dalla 1 alla 4 ma a tutte e 20)
trasformando la protesta in uno sciopero contro il Gesto‑
re…”), lungi dall’integrare una condotta illegittima, altro non
è se non la rivendicazione di un diritto costituzionalmente
garantito.
Discende dai rilievi sinora svolti – avuto riguardo soprat‑
tutto alle modalità, anche di tempo, della vicenda, che non
civile
Gazzetta
40
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
evidenziano specifici e, quanto a gravità, significativi addebiti
a carico del B., del L. e del P., rispetto ad altri manifestanti,
nonché al fatto che non risulta che questi ultimi siano stati
raggiunti da alcun provvedimento disciplinare, a differenza dei
suddetti B., L. e P., malgrado la Dunque, alla luce delle risul‑
tanze acquisite, l’addebito contestato deve subire un sicuro
ridimensionamento, tanto con riferimento all’asserito delibe‑
rato intento di ostacolare la produzione, quanto con riferimen‑
to alla sua componente oggettiva, identificata dalla società in
un “impedimento al transito, decorso, passaggio del carrello
stesso che i tre licenziati con la loro condotta (negligente e
oltraggiosa) hanno certamente causato”, impedimento che, a
tutto voler concedere, è risultato temporalmente più circoscrit‑
to di quello lamentato, con ovvie conseguenze sul danno asse‑
ritamente derivatone, relativamente al quale giova, in ogni
caso, precisare che mancano elementi che consentano di rav‑
visarlo sotto forma di pregiudizio per la competitività azien‑
dale. Il che induce a formulare ampie riserve sulla rispondenza
ad un criterio di proporzionalità dei licenziamenti sub iudice.
cui trattasi rappresentano nulla più che misure adottate
per liberarsi di sindacalisti che Dunque, alla luce delle risul‑
tanze acquisite, l’addebito contestato deve subire un sicuro
ridimensionamento, tanto con riferimento all’asserito delibe‑
rato intento di ostacolare la produzione, quanto con riferi‑
mento alla sua componente oggettiva, identificata dalla socie‑
tà in un “impedimento al transito, decorso, passaggio del
carrello stesso che i tre licenziati con la loro condotta (negli‑
gente e oltraggiosa) hanno certamente causato”, impedimen‑
to che, a tutto voler concedere, è risultato temporalmente più
circoscritto di quello lamentato, con ovvie conseguenze sul
danno asseritamente derivatone, relativamente al quale giova,
in ogni caso, precisare che mancano elementi che consentano
di ravvisarlo sotto forma di pregiudizio per la competitività
aziendale. Il che induce a formulare ampie riserve sulla rispon‑
denza ad un criterio di proporzionalità dei licenziamenti sub
iudice.
Dunque, alla luce delle risultanze acquisite, l’addebito
contestato deve subire un sicuro ridimensionamento, tanto
con riferimento all’asserito deliberato intento di ostacolare la
produzione, quanto con riferimento alla sua componente
oggettiva, identificata dalla società in un “impedimento al
transito, decorso, passaggio del carrello stesso che i tre licen‑
ziati con la loro condotta (negligente e oltraggiosa) hanno
certamente causato”, impedimento che, a tutto voler conce‑
dere, è risultato temporalmente più circoscritto di quello la‑
mentato, con ovvie conseguenze sul danno asseritamente
derivatone, relativamente al quale giova, in ogni caso, preci‑
sare che mancano elementi che consentano di ravvisarlo sotto
forma di pregiudizio per la competitività aziendale. Il che
induce a formulare ampie riserve sulla rispondenza ad un
criterio di proporzionalità dei licenziamenti sub iudice.
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
propri della condotta antisindacale sanzionata dall’art. 28
della legge n. 300/1970, da rapportare pacificamente ad ogni
comportamento datoriale oggettivamente lesivo della libertà
e dell’attività sindacale, anche se non avente quella finalità
(finalità invece ricorrente nella specie, come si è appena sot‑
tolineato) – si veda Cass. n. 1684 del 5/2/2003, Cass. n. 9250
del 18/4/2007; Cass. n. 29257 del 12/12/2008 ‑.
L’appello va, dunque, accolto senza necessità dell’ulterio‑
re attività istruttoria sollecitata con il quinto motivo di gra‑
vame e, per l’effetto, deve essere rigettata l’opposizione di
parte appellata avverso il decreto del Tribunale di Melfi – giu‑
dice del lavoro – n. 2451/2010 del 9/8/2010, quindi da con‑
fermare.
È, peraltro, da rilevare che tanto il giudice della fase som‑
maria quanto quello dell’opposizione hanno disposto la
pubblicazione del dispositivo, a cura e spese, nel primo caso,
della società e, nel secondo caso, della O.S. opposta, sui quo‑
tidiani “Il Corriere della Sera” e “La Repubblica”.
Di tale pubblicazione (chiesta in sede di ricorso ex art. 28
dalla FIOM‑CGIL ed in sede di opposizione dalla S. A.T.A.
S. p.A.) non è stato indicato il fondamento normativo, cioè se
essa è stata disposta ai sensi dell’art. 28 (norma che, pur pre‑
vedendo solo – e come obbligatoria – la pubblicazione ex
art. 36 c.p. della sentenza penale resa ai sensi dell’art. 650 c.p.,
nel caso in cui il datore di lavoro non ottemperi al decreto o
alla sentenza pronunciata nel giudizio di opposizione, non
escluderebbe, in virtù della previsione generale di cui all’art. 28
cit., comma 1, intesa a garantire non solo la cessazione del
comportamento antisindacale ma anche la rimozione degli
effetti lesivi già realizzati, la possibilità della pubblicazione
dello stesso decreto o della sentenza resa nel giudizio di op‑
posizione), ovvero ai sensi dell’art. 120 c.p.c. che nella formu‑
lazione attuale prevede che: “Nei casi in cui la pubblicità
della decisione di merito può contribuire a riparare il danno,
compreso quello derivante per effetto di quanto previsto
all’articolo 96, il giudice, su istanza di parte, può ordinarla a
cura e spese del soccombente, mediante inserzione per estrat‑
to, ovvero mediante comunicazione, nelle forme specificamen‑
te indicate, in una o più testate giornalistiche, radiofoniche o
televisive e in siti internet da lui designati”.
Resta il fatto che la riforma nei termini precisati della
pronunzia gravata fa venire meno il titolo a base dell’onere
delle spese di pubblicazione con essa poste a carico della
FIOM‑CGIL, la quale, pertanto, a ragione ne invoca il rim‑
borso.
L’obiettiva complessità e controvertibilità della ricostru‑
zione in fatto della vicenda costituisce giusto motivo per una
integrale compensazione tra le parti delle spese processuali
del doppio grado di giudizio.
(Omissis)
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
***Nota a sentenza
Sommario: 1. Il caso di specie e la scarsità di precedenti
giurisprudenziali; 2. Il procedimento di repressione della
condotta antisindacale ex art 28 L. 300/1970 come garanzia
dell’effettività dei diritti di libertà sindacale e di sciopero; 2.1.
Considerazioni preliminari; 2.2. Il comportamento; 2.3. I
beni protetti; 2.4. Soggetto attivo della condotta vietata; 2.5.
Irrilevanza dell’elemento soggettivo; 2.6. Legittimazione ad
agire; 2.7. Interesse ad agire; 2.8. Il procedimento; 2.9. Le
sanzioni; 3. Eccezioni all’antisindacalità del comportamento
del datore di lavoro reattivo allo sciopero; 3.1. Il diritto di
sciopero: fondamento, natura e titolarità; 3.2. Limiti interni
ed esterni del diritto di sciopero; 3.3. Licenziamento per giu‑
sta causa: danno alla produzione o danno alla produttività?;
4. La decisione della Corte di Appello; 5. Conclusioni
1. Il caso di specie e la scarsità di precedenti giurisprudenziali
La sentenza della Corte di Appello di Potenza, Sez. lav.,
23 febbraio 2012, n. 170 rappresenta un utile spunto giuri‑
sprudenziale dal quale muovere per soffermarsi su uno dei
temi più controversi del dibattito moderno in ordine all’am‑
bito di applicazione dell’art.28 St.lav., ossia il delicato rappor‑
to tra esercizio del diritto di sciopero e esercizio dei poteri
datoriali a tutela dell’attività di impresa.
Uno degli aspetti più problematici relativi all’applicazione
dell’art.28, difatti, riguarda l’individuazione del confine tra i
comportamenti del datore di lavoro rientranti nella logica del
conflitto industriale, pertanto leciti, e comportamenti lesivi
dei beni protetti dalla norma e pertanto illeciti.
Nel caso di specie, nel corso di uno sciopero programma‑
to, alcuni operai, coordinati dai delegati sindacali, avevano
sostato sulle linee di scorrimento dei carrelli AVG, già fermi.
A seguito di invito a spostarsi al di fuori delle linee di transi‑
to, rimanevano sulle stesse due delegati e un lavoratore, im‑
pegnati a controbattere le contestazioni mosse dai rappresen‑
tanti datoriali, contestazioni dalle quali successivamente
scaturiva il licenziamento.
Avverso il licenziamento proponevano ricorso ex art.28
St.lav i sindacati rappresentativi dei lavoratori i quali, ottenu‑
ta una pronuncia di antisindacalità nella fase sommaria, su‑
bivano l’accoglimento dell’opposizione proposta dal datore di
lavoro. Pertanto i sindacati proponevano appello. Con la
sentenza in commento il giudice della Corte di Appello, nel
confermare il decreto dichiarativo dell’antisindacalità della
condotta, afferma che “avuto riguardo soprattutto alle mo‑
dalità, anche di tempo, della vicenda, che non evidenziano
specifici e, quanto a gravità, significativi addebiti a carico del
dei sindacalisti, rispetto ad altri manifestanti, nonché al
fatto che non risulta che questi ultimi siano stati raggiunti da
alcun provvedimento disciplinare, a differenza dei suddetti
sindacalisti, malgrado la sostanziale equivalenza dei rispet‑
tivi comportamenti sopra illustrata – che i licenziamenti di
cui trattasi rappresentano nulla più che misure adottate per
liberarsi di sindacalisti che avevano assunto posizioni di
forte antagonismo, con conseguente immediato pregiudizio
per l’azione e la libertà sindacale: nel che è dato ravvisare un
quid pluris degli estremi propri della condotta antisindacale
sanzionata dall’art. 28 della legge n. 300/1970, da rapporta‑
re pacificamente ad ogni comportamento datoriale oggetti‑
2 0 1 2
41
vamente lesivo della libertà e dell’attività sindacale, anche se
non avente quella finalità”.
La pronuncia si inserisce in un contesto di precedenti
giurisprudenziali davvero scarni.
Unica decisione su un caso analogo si registra nel lontano
1987 e coinvolgeva la Fiat S. p.a. Nel corso di uno sciopero
programmato alcuni operai avevano personalmente e a più
riprese impedito al conduttore del carrello di rifornire la linea
dei prezzi occorrenti, in tal modo determinando il progressivo
rallentamento dell’attività fino al blocco totale e ciò per circa
due ore, la Corte richiamando un precedente giurisprudenzia‑
le1 aveva sostenuto che “il solo limite “esterno” è costituito
dalla non possibilità dell’effettuazione di atti diretti contro
l’organizzazione aziendale in modo da impedirne il funzio‑
namento o da comprometterne gravemente la stessa produt‑
tività così come di atti che provochino pregiudizio a fonda‑
mentali diritti del pari costituzionalmente garantiti in modo
assoluto quale quello alla vita e all’incolumità personale al‑
trui.” Secondo siffatto orientamento non rientra nell’esercizio
di tale diritto un comportamento che sia rivolto, in partico‑
lare, ad impedire il funzionamento dell’organizzazione azien‑
dale mediante concreti atti posti in essere nei confronti di
altri lavoratori i quali continuino a svolgere le loro mansioni,
ovvero che si risolvano interventi materiali sugli impianti. I
dipendenti nel caso di specie avevano, per l’appunto, posto in
essere un tal tipo di comportamento impedendo mediante
fisica ostruzione il procedere del carrello di rifornimento del
materiale, il che all’evidenza era andato al di là di una sem‑
plice pressione psicologica, e tanto bastava per qualificare il
comportamento stesso come illegittimo.
Prima di scendere nel merito della sentenza in commento,
una corretta analisi della stessa, data la complessità dei pro‑
blemi sottesi alla soluzione del caso, impone una analisi pre‑
liminare della disciplina della condotta antisindacale conte‑
nuta nello Statuto dei lavoratori.
2. Il procedimento di repressione della condotta antisindacale ex
art 28 L. 300/1970 come garanzia dell’effettività dei diritti di li‑
bertà sindacale e di sciopero
Come è noto, l’art. 28 dello Statuto, intitolato alla repres‑
sione della condotta antisindacale, disciplinando uno specia‑
le procedimento giurisdizionale repressivo della condotta
antisindacale del datore di lavoro, costituisce uno degli stru‑
menti più efficaci introdotti dal Legislatore per rendere effet‑
tivi il principio di libertà sindacale e tutte le posizioni giuri‑
diche attive dei prestatori di lavoro nelle relazioni industriali
a livello aziendale. Alcuni commentatori 2 , basandosi sulla
struttura della norma e su ragioni di politica del diritto, so‑
stennero la natura meramente secondaria della norma in
questione che, priva della parte sostanziale, forniva l’appara‑
to sanzionatorio di posizioni giuridiche tutelate altrove, pre‑
cisamente nei titoli II e III dello Statuto. L’art. 28, divenendo
così la norma di chiusura dello statuto, assumeva portata più
circoscritta e quindi più rassicurante. Un’altra parte della
1 Cass. 30 gennaio 1980 n. 711.
2 Aranguren, A proposito di una particolare interpretazione dell’art. 28 dello
statuto dei lavoratori, in Mass. giur. lav., 1970, 538; S. Riva, Parere “pro
ventate” sull’art. 28 dello statuto dei lavoratori, L. 20‑5‑1970 n. 300, in Orient.
giur. lav., 1970, 371 ss. cit in A. Colonna, op.cit., p. 29‑30.
civile
Gazzetta
42
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
dottrina3, invece, favorevole all’interpretazione della norma
come norma primaria osservava che la lettura dell’art. 28
come norma secondaria “unicamente creativa di un’azione e
di una sanzione a tutela di interessi riconosciuti e tutelati in
altre parti dell’ordinamento”, si esponeva al rischio di svuo‑
tare gli elementi di novità apportati all’intero ordinamento
dalla norma stessa. L’interpretazione prevalsa valorizzò la
portata primaria e indeterminata della norma, attribuendo
l’indeterminatezza non ad un errore di formulazione del legi‑
slatore ma ad una precisa scelta imposta dall’ampiezza dei
beni tutelati, quali la libertà e attività sindacale ed il diritto
di sciopero, di cui era impossibile prevedere contorni e speci‑
ficazioni. In questo modo, proprio perché finalizzato a presi‑
diare le regole di corretto svolgimento del conflitto, l’art. 28
deve essere richiamato dall’interprete per determinare caso
per caso la ricorrenza in concreto della antisindacalità, tenen‑
do conto del contesto legislativo o contrattuale collettivo in
cui essa viene posta in essere.
2.1. Considerazioni preliminari
L’art. 28 ha un rilievo notevole in quanto consente al
sindacato di agire in giudizio con un mezzo processuale rapi‑
do e dotato di particolare efficacia sanzionatoria a tutela di
interessi del sindacato e dei singoli lavoratori, nell’ipotesi di
lesione contemporanea dei loro diritti.
Il lavoratore che sia stato licenziato per motivi attinenti
all’attività sindacale potrà, per mezzo del sindacato di appar‑
tenenza, agire ex art. 28 per la rimozione della condotta an‑
tisindacale o, ai soli fini della reintegra, anche singolarmente
in via d’urgenza ex art. 700 c.p.c. oppure in via ordinaria ex
art. 18 Statuto dei lavoratori e art. 414. c.p.c. In particolare
il lavoratore potrà essere reintegrato nel posto di lavoro attra‑
verso la pronuncia di antisindacalità ma per ottenere il risar‑
cimento del danno dovrà ricorrere singolarmente ex art 18,
norma a tutela degli interessi dei singoli lavoratori4. Il rimedio
di cui all’art. 28 non può essere utilizzato allorché la condot‑
ta datoriale appaia lesiva unicamente dell’interesse individua‑
le del lavoratore: in queste ipotesi, infatti, se la tutela del di‑
ritto del lavoratore ex art. 28 dovesse venire impropriamente
azionata ad opera del sindacato, il giudice dovrà emettere
necessariamente un decreto di rigetto per insussistenza dei
presupposti sottesi alla norma azionata5; se, di converso, ex
art. 28 dovesse agire direttamente il solo lavoratore il giudice
dovrebbe dichiarare nei suoi confronti il difetto di legittima‑
zione ad agire.
La norma così come formulata pone una serie di problemi
esegetici relativi all’identificazione della fattispecie del com‑
portamento antisindacale, alla specialità della procedura,
all’apparato sanzionatorio, sui cui aspetti occorrerà soffer‑
marsi per l’analisi della sentenza in commento.
2.2. Il comportamento
Come è noto, l’art. 28 definisce la condotta antisindacale
del datore di lavoro come qualsiasi comportamento diretto
3 Lanfranchi, Il diritto processuale e la repressione della condotta antisindaca‑
le, cit.in M.G. Garofalo, op.cit., p.30.
4 Cass., Sez. un., 06 maggio 1972, n. 1380.
5 Cass. 09 ottobre 2000, n. 13456.
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
ad impedire o limitare l’esercizio della libertà e della attività
sindacale nonché del diritto di sciopero. La dottrina maggio‑
ritaria6, ha definito il comma dell’art. 28 come fattispecie a
“struttura aperta”, suscettibile di comprendere qualsiasi
comportamento idoneo a ledere i beni protetti. In più, essen‑
do il comportamento individuato dalla norma come “diretto
ad impedire o limitare l’esercizio dei diritti sindacali” la
condotta avrebbe “carattere teleologico”7. La definizione è
volutamente indeterminata e quindi ampia perché il legisla‑
tore era consapevole del fatto che nella realtà del conflitto
industriale a livello aziendale si può arrecare offesa ai beni
suddetti in una varietà di modi non suscettibili di preventiva
tipizzazione8.
La condotta antisindacale non può esaurirsi nell’eventua‑
le violazione di meri interessi patrimoniali e morali del singo‑
lo lavoratore, dovendosi invece concretare in atti diretti a
frustrare o limitare l’esercizio della libertà e dell’attività sin‑
dacale nonché l’esercizio del diritto di sciopero; provvedimen‑
ti aziendali lesivi della posizione del singolo lavoratore posso‑
no essere impugnati in via collettiva solo qualora la condotta
del datore sia offensiva, contemporaneamente, sia degli inte‑
ressi di cui è titolare l’associazione sindacale, sia, eventual‑
mente, dell’interesse specifico del lavoratore9. Si è parlato, a
tale proposito, di plurioffensività del comportamento, nel
senso che questo è idoneo ad incidere, nello stesso momento,
sull’interesse individuale e sull’interesse collettivo, ambedue
protetti, ancorché da norme differenti10.
Presupposto necessario per l’esperibilità dell’azione ex
art. 28 Statuto dei Lavoratori è che i comportamenti del da‑
tore di lavoro siano connotati dall’attualità della condotta
antisindacale lamentata. Come è noto, nel silenzio del legisla‑
tore, l’individuazione di detto requisito è avvenuto in via in‑
terpretativa. La giurisprudenza consolidata, a partire dalla
nota sentenza delle Sezioni Unite del 13 giugno 1977, n. 2443
11
, ha sostenuto che il requisito in questione può ravvisarsi
quando la lesione della libertà sindacale appaia idonea a de‑
terminare, anche in base ad un giudizio presuntivo, effetti
intimidatori permanenti, nonostante la cessazione del com‑
portamento che li ha causati, e anche a prescindere dalla
sussistenza di uno specifico intento lesivo nei confronti
dell’iniziativa del sindacato. L’attualità della condotta sussi‑
sterebbe ogni qualvolta il comportamento illegittimo della
parte datoriale, alla stregua di una valutazione globale, risul‑
ti tuttora persistente e idoneo a produrre effetti durevoli nel
tempo, sia per la sua portata intimidatoria, sia per la conse‑
guente situazione di incertezza, tale da determinare una re‑
strizione o un ostacolo al libero svolgimento dell’attività
sindacale. L’attualità della condotta, deve esser distinta dalla
tempestività della reazione, requisito non richiesto dalla nor‑
6M.G. Garofalo, Repressione della condotta antisindacale, in Lo Statuto dei
Lavoratori, Commentario G. Giugni (diretto da), Milano, 1979, pag. 496; F.
Carinci., R. De Luca Tamajo., P. Tosi., T. Treu., Diritto del lavoro, il diritto
sindacale, Torino, 2011, p. 130.
7T. Treu, Condotta antisindacale e atti discriminatori, Milano, 1974, pag. 49.
8 Ghezzi, cit. in F. Frediani, Libertà e attività sindacale: il comportamento
antisindacale nello Statuto dei lavoratori, Roma, 2002.
9G. Camilli, Condotta antisindacale e lesione di diritti individuali, in Giur. It.,
2003, 7.
10G. Giugni, Diritto sindacale, Bari, 2010.
11 Conforme Cass. civ., Sez. lav., 06 giugno 2005, n. 11741.
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
ma, dovendo i tempi di quest’ultima essere ricondotti all’am‑
bito delle libere valutazioni del sindacato circa le modalità
dell’esercizio dei propri tempi di autotutela12. L’accertamento
circa l’attualità della condotta antisindacale e l’eventuale
permanenza dei suoi effetti costituisce un accertamento di
fatto, demandato al giudice di merito ed incensurabile in sede
di legittimità, ove sorretto da adeguata motivazione. A tal
fine incomberà sul ricorrente provare l’attualità della condot‑
ta e dunque le circostanze effettivamente sintomatiche del
fatto che gli episodi in questione siano inseriti in un quadro
di più generale compressione delle libertà sindacali e, parti‑
colarmente, che gli episodi incidano, per aspetti ancora sus‑
sistenti all’epoca della proposizione del ricorso all’art. 28, sul
prestigio del sindacato e sulla possibilità del primo di eserci‑
tare le sue funzioni.
2.3. I beni protetti
La definizione “teleologica” di condotta antisindacale
consente di ritenere vietate tutte quelle condotte che si riveli‑
no idonee ad arrecare offesa ai beni protetti. Sul punto, la
dottrina più remota13 aveva addotto una interpretazione re‑
strittiva, secondo cui la norma tutelerebbe solo i diritti collet‑
tivi esplicitamente riconosciuti dalla stessa L. n. 300/1970: ad
es. assemblea (art. 20), permessi (art. 23), locali (art. 27), non
comprendendo, per contro, atti lesivi di interessi individuali,
che sarebbero protetti da altre norme della medesima legge,
quali ad es. i licenziamenti, ancorché antisindacali, tutelati
dall’art. 18; gli atti discriminatori in genere, protetti
dall’art. 15. Una simile interpretazione era ingiustificatamen‑
te restrittiva, e difatti è oggi ampiamente superata, sia dalla
dottrina che dalla giurisprudenza predominante, secondo cui
perché possa usufruirsi della tutela apprestata dall’art. 28
Stat. Lav. è sufficiente che siano violati non solo i diritti sin‑
dacali espressamente contenuti nello Statuto, ma, altresì,
quelli dei lavoratori individuali nell’esercizio dell’attività sin‑
dacale di cui sono titolari, intendendosi, con ciò, ricompren‑
dere tutte le situazioni intermedie sottese all’aggettivo
“sindacale”14. È dunque l’aggettivo “sindacale” che qualifica
la libertà e l’attività tutelata dalla norma. La libertà sindaca‑
le consiste nella possibilità concessa, da un lato ai sindacati
di organizzarsi e, dall’altro al singolo lavoratore di aderire o
meno ad una organizzazione sindacale. Potranno considerar‑
si illecite le condotte del datore ostative di attività sindacale e
di scioperi svolti nel rispetto delle regole, o quelle che si so‑
stanzino in una lesione della libertà sindacale nella sua sfera
generica, protetta in quanto tale. Saranno invece da conside‑
rarsi lecite le condotte poste in essere quale reazione ad un
comportamento dei lavoratori contrario alla legge o alla con‑
12Sul punto Cass. n. 1600/1998, conforme Cass. civ., Sez. lav., 06 giugno 2005,
n. 11741; contra Cass. 10339/1997.
13In tal senso: S. Riva, Parere pro veritate sull’art. 28 dello Statuto dei lavorato‑
ri. Legge 20 maggio 1970 n. 300, in Orient. giur. lav., 1970, 372; Zangari,
Legittimazione processuale del sindacato e repressione della condotta antisin‑
dacale nella Legge 20 maggio 1970 n. 300, in Mass. giur. lav., 1970, 451;
Corrado, La repressione dell’attività sindacale, in Diritto del lavoro, 1971, 3;
Aranguren, A proposito di.., op.cit,p. 358.
14M. Persiani, Condotta antisindacale, interesse del sindacato, interesse collet‑
tivo ed interesse individuale del lavoratore, in Pol. Dir., 1971, pag. 548 e ss.
2 0 1 2
43
trattazione collettiva15 : ciò si verifica16, ad esempio, in caso di
licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta
causa o di irrogazione di una sanzione disciplinare per viola‑
zione del codice disciplinare. Il datore di lavoro non commet‑
terà un comportamento antisindacale nelle ipotesi in cui rea‑
gisce a comportamenti illeciti dei lavoratori, ad esempio rea‑
gendo ad uno sciopero illegittimo, nell’esercizio della sua
contrapposta libertà, rientrando nei limiti fisiologici della
dialettica conflittuale che caratterizza il sistema dei rapporti
sindacali, e ciò si verifica se il datore di lavoro lede solo l’in‑
teresse dei singoli lavoratori e non già l’interesse sindacale17.
2.4. Soggetto attivo della condotta vietata
Il soggetto attivo della condotta vietata, diversamente dal
comportamento da questo posto in essere, è definito in modo
tipico dalla norma, essendo individuato nel datore di lavoro.
È ormai orientamento consolidato che la nozione di “datore
di lavoro” debba intendersi in senso ampio e quindi a prescin‑
dere dal fatto che sia imprenditore o non imprenditore, priva‑
to o pubblico e indipendentemente dal numero di lavoratori
alle sue dipendenze18. Mentre originariamente si sosteneva che
l’azione disciplinata dall’art. 28 fosse riferita esclusivamente
al datore di lavoro, unico destinatario dell’ordine di cessare il
comportamento illegittimo e di rimuovere gli effetti19, secon‑
do l’orientamento ormai consolidato la condotta antisindaca‑
le è rilevante ex art. 28 anche se posta in essere non personal‑
mente dal datore, ma dai soggetti che secondo l’organizzazio‑
ne dell’azienda svolgono attività ad esso imputabile. Si deve
peraltro ritenere che l’illecito in ogni caso sia imputabile solo
e direttamente al datore di lavoro, seppur posto in essere da
un suo rappresentante20.
2.5. Irrilevanza dell’elemento soggettivo
Ai fini della configurazione della condotta antisindacale è
sufficiente altresì che tale comportamento leda oggettivamen‑
te gli interessi collettivi coinvolti, non essendo necessario né
sufficiente uno specifico intento lesivo del datore di lavoro.
Sul punto, occorre prendere atto di un contrasto dottrina‑
rio e giurisprudenziale molto vasto e ormai risalente nel
tempo. Alcuni avevano ritenuto che ai fini della configurabi‑
lità di una condotta antisindacale del datore di lavoro fosse
necessaria anche l’intenzionalità di ostacolare o limitare l’at‑
tività sindacale21. La condotta cioè doveva essere intenzional‑
mente diretta allo scopo antisindacale, finalizzata cosciente‑
mente e volontariamente all’obiettivo Si escludevano pertanto
15In dottrina A. Colonna, op. cit, p. 34, 35 che distingue tra condotte antisin‑
dacali tipiche o atipiche.
16 Cass. 10 febbraio 1992, n. 1504; Cass. 14 febbraio 2004, n. 2857; M.G. Ga‑
rofalo, Repressione della condotta antisindacale, in Lo Statuto dei Lavorato‑
ri, Commentario G. Giugni (diretto da), Milano, 1979.
17 Cass. 07 gennaio 1990 n. 207 cit. in Galantino L., Diritto Sindacale, Torino,
2008, p. 127.
18In dottrina F. Carinci, R. De Luca Tamajo, P. Tosi, T. Treu., op.cit, p. 133;
in giurisprudenza, Cass., Sez. un., 17 febbraio 1992, n. 1916.
19 Cass. 25 luglio 1984, n. 4381.
20F. Carinci, R. De Luca Tamajo, P. Tosi, T. Treu., op.cit., p. 134.
21 Cass. 06 maggio 1977 n. 1739; Cass. 22 settembre 1978 n. 4270; Cass. 05
giugno 1981 n. 3635; Cass. 20 luglio 1982 n. 4281; Cass. 08 febbraio 1985
n. 1005; Cass. 17 febbraio 1987 n. 1713; Cass. 27 luglio 1990 n. 7589; Cass. 08
maggio 1992 n. 5454; Cass. 30 luglio 1993 n. 8518; Cass. 12 agosto 1993
n. 8673.
civile
Gazzetta
44
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
le condotte che, pur ponendosi in contrasto con pretese sin‑
dacali, non si concretassero in atti volutamente diretti alla
limitazione dell’esercizio della libertà sindacale22. Altri, per
contro, hanno affermato che per la configurabilità di una
condotta antisindacale sia sufficiente il solo requisito dell’og‑
gettiva idoneità del comportamento a ledere la libertà e l’atti‑
vità sindacale e il diritto di sciopero e che, pertanto, non rile‑
vi l’intento dell’ imprenditore di perseguire o meno uno scopo
antisindacale23.
Tra i due opposti orientamenti l’orientamento dottrinario
e giurisprudenziale prevalso (cd. nozione oggettiva della con‑
dotta) ritiene l’elemento psicologico dell’intenzionalità irrile‑
vante24. La ricerca di una finalità “prava” del datore è total‑
mente estranea allo scopo della norma di proteggere beni
giuridici e non sanzionare cattive intenzioni 25. Richiedere la
ricerca del fattore psicologico può funzionare come una sorta
di scriminante a favore dell’imprenditore: il datore di lavoro
potrebbe riuscire a giustificare, in questa prospettiva, qual‑
siasi comportamento, motivandolo ad esempio con “esigenze
aziendali” o richiamando l’esimente della forza maggiore26.
L’elemento soggettivo sarebbe quindi, secondo questa prospet‑
tiva, un temibile strumento che il giudice potrebbe usare per
riuscire ad escludere, arbitrariamente, l’applicazione
dell’art. 28.
La soluzione definitiva è stata fornita dalla Cassazione,
Sezioni Unite, 12 giugno 1997, n. 529527 che, a tacitazione di
ogni ulteriore perplessità, ha stabilito che per integrare gli
estremi della condotta antisindacale di cui all’art. 28 St. lav.
è sufficiente che tale comportamento leda oggettivamente gli
interessi collettivi coinvolti, non essendo necessario e neppu‑
re sufficiente uno specifico intento lesivo del datore di lavoro,
in quanto, per un verso, un errore di valutazione del datore di
lavoro, che non abbia avuto coscienza della rilevanza del
proprio comportamento, non farebbe venir meno l’esigenza
primaria di tutela della libertà sindacale e, per un altro, la
condotta datoriale non obiettivamente diretta a limitare l’at‑
tività sindacale, non può essere considerata antisindacale.
2.6. Legittimazione ad agire
Come è noto il comma 1 dell’art. 28 L. n. 300, cit. attri‑
buisce tassativamente la legittimazione ad agire agli “organi‑
smi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbia‑
no interesse”. La restrizione della legittimazione attiva di cui
all’art. 28 Stat. lav. non ha mancato inizialmente di suscitare
reazioni circa la legittimità costituzionale di tale scelta, sotto
22In dottrina: Siimi, Art. 28. Repressione della condotta antisindacale, in Comm.
dello statuto dei lavoratori diretto da Prosperetti, Milano, 1975, p. 944;
Mazzoni, Manuale di diritto del lavoro, V Ediz., Milano, 1977, H, 1265 SS. ;
Papaleoni, La condotta antisindacale nella giurisprudenza, in Mazzoni e
Altri, La repressione della condotta antisindacale e i suoi limiti, Milano, 1971,
p.140 ss., Cipressi, I comportamenti antisindacali del datore di lavoro, Milano,
1983 In giurisprudenza: Cass., Sez. lav., 05 giugno 1981, n. 3635, in Giur. It.,
1982, I, 1, pag. 33.
23 Cass. 06 giugno 1984 n. 3409; Cass. 03 giugno 1987 n. 4871; Cass. 19 genna‑
io 1990 n. 295; Cass. 16 luglio 1992 n. 8610.
24 Cass. 13 febbraio 1987 n. 1598; Cass. 07 luglio 1987 n. 5922; Cass. 03 luglio
1992 n. 8143; Cass. 22 luglio 1992 n. 8815; Cass. 19 luglio 1995 n. 7833;
Cass. 13 gennaio 1996 n. 232.
25 Giugni G., Diritto sindacale, Bari, 1991, p. 120.
26 A. Colonna, op.cit. p. 10.
27In senso conforme, ex plurimis, Cass. n. 1600/1998, Cass. n. 706/2004,
Cass. civ., Sez. lav., 18 aprile 2007, n. 9250.
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
il profilo della duplice esclusione in capo ai singoli lavoratori
e alle organizzazioni che non abbiano una rappresentatività
nazionale (ad es. i comitati di base, i consigli di fabbrica, le
commissioni interne, RSU, RSA). La Corte Costituzionale,
investita della questione, si è, però, espressa a favore della
costituzionalità dell’art. 28 con la nota sentenza del 6 marzo
1974 affermando la stretta connessione fra l’individuazione
della dimensione organizzativa nazionale come indice di ade‑
guato livello di rappresentatività e l’esigenza di garantire la
selezione, tra i tanti possibili, dell’interesse collettivo rilevan‑
te da porre alla base del conflitto con la controparte impren‑
ditoriale. Nel respingere le censure di illegittimità il Giudice
delle Leggi ha chiarito, quanto all’esclusione della legittima‑
zione dei singoli lavoratori, che l’art. 28 Stat. lav. “non ha in
alcun modo soppresso o limitato i mezzi di tutela assicurati
al singolo … ma ha solo introdotto in aggiunta ai mezzi in‑
dividuali uno speciale procedimento sommario di competen‑
za del pretore, diretto in via d’urgenza a reprimere compor‑
tamenti lesivi dell’attività e della libertà sindacale, a tutela
di interessi che trascendono quelli del singolo lavoratore”;
quanto all’esclusione dei gruppi che non hanno una organiz‑
zazione nazionale, ha chiarito che “tale speciale procedimen‑
to non modifica né restringe né limita in alcun modo le tute‑
le assicurate dalle leggi e dallo stesso Statuto dei Lavoratori
a beneficio delle associazioni sindacali, né ha inteso soppri‑
mere o limitare i mezzi di tutela assicurati ad altre associa‑
zioni sindacali, diverse da quelle contemplate nell’art. 28
Stat. Lav., per la difesa dei propri diritti ed interessi legitti‑
mi.” Dunque, anche sotto tale profilo, la norma sarebbe co‑
stituzionale perché non impedisce ai sindacati non legittima‑
ti di esperire azioni [ordinarie] per ottenere una tutela proces‑
suale e sostanziale dei loro diritti, ma appresta per le associa‑
zioni sindacali dotate di una certa qualificazione, un ulterio‑
re strumento di tutela, da considerarsi, quindi, di carattere
privilegiato”28.
In tal senso si è del resto successivamente espressa sia la
Corte Costituzionale con sentenze 24 marzo 1988, n. 334 e
17 marzo 1995, n. 89, in casi in cui ad essere ritenuto man‑
cante era il requisito della nazionalità dell’associazione, sia
la Corte di Cassazione, con sentenza 24 gennaio 2006,
n. 1307, in un’ipotesi riguardante la legittimazione della RSA:
“l’’art. 28 introduce un nuovo e diverso mezzo processuale
riservato a soggetti collettivi particolarmente qualificati,
individuati attraverso … una dimensione organizzativa
(quella nazionale) assunta come indice e garanzia di un ade‑
guato livello di rappresentatività” 29 ; “Il procedimento di
repressione della condotta antisindacale si aggiunge alle
tutele già assicurate alle associazioni sindacali, e rappresen‑
ta un mezzo ulteriore per garantire in modo particolarmente
rapido ed efficace i diritti del sindacato… Essendo, dunque,
il procedimento di repressione del comportamento antisin‑
dacale un mezzo ulteriore, ma non l’unico, a disposizione del
sindacato per la difesa dei propri diritti è giustificata la se‑
lezione dei soggetti legittimati sulla base della maggior
rappresentatività, misurata col criterio‑guida della diffusio‑
28 P. Cipressi, op.cit., pp. 47‑48.; si veda anche M.G. Garofalo, Interessi…,
op.cit. p. 200.
29 Corte cost. 24 marzo 1988, n. 334, in Foro it., I, 1774.
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
ne a livello nazionale ”30. L’art. 28 Stat. lav., nel non ricono‑
scere a tutte le organizzazioni sindacali la legittimazione ad
agire, detta, sì, una disciplina differenziata, ma ciò si giusti‑
fica sulla base degli interessi da tutelare, quelli di un’associa‑
zione sindacale che si propone di operare ed opera a livello
nazionale per tutelare gli interessi di una o più categorie di
lavoratori a quel livello. Ogni altra offesa alla libertà sinda‑
cale, ove coinvolga soggetti diversi da quelli citati, ad es. le
organizzazioni territoriali che non hanno accesso all’art. 28
Stat. lav., in quanto mancanti dei requisiti ivi previsti, sarà
tutelabile per le vie ordinarie, così da rendere configurabile
un procedimento ex art. 28 Stat. lav., inteso come denuncia
di condotta antisindacale31.
2.7. Interesse ad agire
In ordine all’interesse richiesto dalla norma, l’art. 28 pre‑
vede che possano proporre il ricorso le associazioni “che vi
abbiano interesse”. Il riferimento espresso della disposizione
all’interesse del sindacato ricorrente serve, secondo il principio
generale dell’art. 100 c.p.c., ad escludere azioni da parte di
soggetti completamente disinteressati alla vicenda. L’ipotesi
della carenza di interesse appare tuttavia un caso limite, stan‑
te l’ampia accezione di interesse sindacale, ritenuto esistente
anche con riferimento a lesioni della posizione di altri sinda‑
cati o della libertà sindacale di lavoratori non sindacalizzati.
L’interesse protetto è sempre quello del sindacato nazionale
complessivamente inteso, al quale per definizione partecipa
l’organismo locale abilitato a ricorrere. La carenza di interes‑
se risulterà, pertanto, di rara ricorrenza. L’esempio più tipico
è rappresentato in dottrina dall’ipotesi di azione contro com‑
portamenti lesivi della libertà o attività sindacale nei confron‑
ti di soggetti estranei al gruppo professionale proprio del
sindacato ricorrente (ad esempio, nel caso che il sindacato dei
metalmeccanici voglia proporre ricorso contro un imprendi‑
tore chimico a tutela dell’attività sindacale nell’azienda di
quest’ultimo). La carenza di interesse può essere valutata an‑
che con riferimento all’attualità della condotta e sul punto,
richiamando quanto già detto in ordine al requisito dell’attua‑
lità della condotta, ci si limita a richiamare la giurisprudenza
che ha affermato, infine, che non vi è carenza di interesse
quando l’azione sia promossa con notevole ritardo rispetto ai
fatti, sempre che siano ancora attuali i loro effetti lesivi32.
2.8. Il procedimento
L’azione di repressione della condotta antisindacale si
propone con ricorso al Tribunale del luogo ove è posto in
essere il comportamento denunciato33. Il procedimento di cui
30 Corte cost. 08 maggio 1995, n. 89, in Dir. lav. 1995, I, 55.
31Sul punto interessante è Trib. Torino, Sez. lav., 14 settembre 2011, n. 2583.
32 Ex multis, Cass. 06 giugno 2005, n. 11741.
33Nel testo originario la competenza era del Pretore, ufficio soppresso con il D.
Lgs. 19 febbraio 1998 n. 51. Trib. Torino, Sez. lav., 14 settembre 2011, n. 2583:
“la competenza inderogabile di cui all’art 28 St.lav. ha valore solo nell’ipotesi
in cui l’azione sia proposta da organismo locale dei sindacato e non nell’ipote‑
si in cui venga invece intrapresa con giudizio ordinario da organizzazione sin‑
dacale che non ha accesso al procedimento delineato dall’art. 28 dello Statuto
dei Lavoratori. In tal caso la competenza va definita sulla base delle regole
ordinarie e, in particolare, sulla base della previsione di cui all’art. 413, com‑
ma 7, c.p.c. Tale norma stabilisce che, ove non possano trovare applicazione le
regole definite nei commi precedenti, si debba fare riferimento alle regole ordi‑
narie di competenza per territorio.”.
2 0 1 2
45
all’art. 28 si caratterizza per essere un procedimento d’urgen‑
za e quindi è fondato su una istruttoria minima. Il giudice non
può provvedere sul ricorso del sindacato inaudita altera par‑
te, come invece è possibile nei procedimenti cautelari (art. 669
sexies, comma 2, c.p.c.), ma deve consentire il contraddittorio
convocando le parti in un termine breve che la legge individua
in «due giorni» anche se, salvo casi eccezionali, essendo il
termine dei due giorni ordinatorio, di fatto è largamente su‑
perato, sia per le esigenze dell’ufficio, sia per i tempi di noti‑
fica, sia per consentire al datore di lavoro di rivolgersi ad un
legale e di predisporre un’adeguata difesa scritta. La somma‑
rietà del procedimento, tesa ad assicurare una tutela imme‑
diata dell’interesse sindacale, si concretizza in un’istruttoria
sommaria sui fatti che non viene svolta approfonditamente
con l’espletamento degli ordinari mezzi di prova, ma solo
mediante l’assunzione di «sommarie informazioni». Il sinda‑
cato ricorrente non è tenuto a comprovare la sussistenza in
concreto di un periculum in mora, come invece è necessario
nei procedimenti cautelari (artt. 671, 692, 700 c.p.c.)34. Giova
sul punto richiamare una recente giurisprudenza35 che ha
osservato che nulla impedisce comunque che, per situazioni
o contingenze particolari, il soggetto legittimato possa salta‑
re la fase sommaria, prospettando la propria denuncia diret‑
tamente con il procedimento a cognizione piena. Questo tipo
di soluzione segnala già di per sé una particolarità della nor‑
ma, la cui funzione non è certamente quella di descrivere una
forma procedimentale vincolata ed esclusiva, bensì di rendere
disponibile uno strumento particolare, onde ottenere la rimo‑
zione in via di urgenza e con una cognizione sommaria delle
situazioni di antisindacalità ritenute dal legislatore più gravi
e, come tali, richiedenti un intervento immediato, così da
sanzionare l’illegittima condotta datoriale e, in pari tempo,
porvi adeguato rimedio, elidendo gli effetti di essa.
La decisione della fase sommaria avviene “con decreto
motivato ed immediatamente esecutivo”, sicché se la doman‑
da del sindacato trova accoglimento il datore di lavoro è ob‑
bligato a conformarsi subito all’ordine del giudice. Il conte‑
nuto del decreto avrà ad oggetto l’ordine di cessare il compor‑
tamento illegittimo lesivo dei beni protetti e disporrà la rimo‑
zione degli effetti lesivi già realizzati, ripristinando il libero
godimento degli stessi beni. Si tratta di una tipica tutela ini‑
bitoria, quanto alla cessazione della condotta, e ripristinato‑
ria, quanto alla rimozione degli eventuali effetti di essa.
Contro il decreto immediatamente esecutivo che decide il
ricorso, accogliendolo o rigettandolo, è ammessa, entro 15
giorni dalla sua comunicazione l’opposizione avanti al Tribu‑
nale che ha emanato il provvedimento impugnato il quale
provvede con sentenza, anch’essa immediatamente esecutiva.
Solo l’eventuale accoglimento dell’opposizione può travolgere
l’efficacia esecutiva del decreto fino a quel momento irrevo‑
civile
Gazzetta
34 A. Vallebona,op.cit. p. 283
35Trib. Torino, Sez. lav., 14 settembre 2011, n. 2583, è possibile attuare la tutela
di cui all’art. 28 Stat. lav. anche attraverso lo strumento del ricorso ex art. 414
c.p.c. In caso di proposizione della domanda tesa ad accertare una condotta
antisindacale potrà azionare il procedimento ordinario ex art. 28 Stat. Lav. il
soggetto che non si trova nelle condizioni per utilizzare il procedimento specia‑
le previsto dall’art. 28 Stat. Lav., come ad es. può avvenire ove faccia difetto
l’attualità della condotta, la nazionalità dell’associazione, la natura di organismo
locate del denunciante o altro.
46
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
cabile36. Se non opposto, il decreto acquista l’incontrovertibi‑
lità del giudicato. La mera proposizione dell’opposizione non
sospende l’efficacia esecutiva del decreto, che, munita di una
particolare stabilità, non può essere revocata o sospesa se non
con la sentenza con cui il giudice definisce il giudizio. La
sentenza che decide sull’opposizione è appellabile avanti la
Corte d’Appello, sempre secondo il rito del lavoro.
2.9. Le sanzioni
Al fine di rendere effettiva la tutela dell’interesse sindaca‑
le, è previsto che gli ordini contenuti nella sentenza debbano
essere eseguiti dal datore di lavoro a pena di incorrere nelle
sanzioni previste dall’art. 28, ossia l’arresto fino a 3 mesi o
l’ammenda fino a € 206 ex art. 650 c.p.
In tal caso, il giudice penale deve limitarsi a controllare la
conformità del provvedimento ex art. 28 alle regole che pre‑
siedono alla sua formazione, ad esempio, la costituzione del
contraddittorio, l’eventuale costituzione di parte civile del
sindacato per ottenere il risarcimento del danno provocato
dall’inottemperanza dell’ordine del giudice.
La particolare efficacia dell’ordine di repressione della
condotta antisindacale emerge nei casi di plurioffensività, nel
confronto con il provvedimento che definisce il giudizio indi‑
viduale: nel caso di licenziamento antisindacale l’ordine di
reintegrazione nel posto di lavoro pronunziato ex art. 18 Stat.
lav. a tutela del diritto del singolo lavoratore potrebbe restare
incoercibile e non eseguito, preferendo il datore di lavoro
sopportare, nelle more delle impugnazioni, il costo di una
prestazione non utilizzata piuttosto che riammettere il lavo‑
ratore in azienda; invece il medesimo ordine pronunziato ex
art. 28 Stat. lav. deve essere sempre immediatamente ottem‑
perato, con la concreta reintegrazione in servizio del presta‑
tore licenziato, per evitare la sanzione penale prevista appun‑
to quale misura compulsoria dell’osservanza del provvedimen‑
to giurisdizionale.
3. Eccezioni all’antisindacalità del comportamento del datore di
lavoro reattivo allo sciopero
L’ambito di applicazione dell’art. 28 Stat. Lav. segna il
confine, che non può che essere piuttosto mobile, fra la liber‑
tà sindacale e la libertà d’iniziativa economica37.
Il problema più delicato è di individuare i limiti entro cui
l’esercizio dei diritti indicati dall’art. 28 rientrino nella nor‑
male logica del conflitto di interessi tra datore e lavoratore.
L’art. 28 viene utilizzato anche per reprimere comportamen‑
ti in cui non esiste una prevalutazione legislativa o pattizia,
ma che possono sostanzialmente essere lesivi della libertà e
dell’attività sindacale. Tali comportamenti sono ben più insi‑
diosi di quelli tipici, in quanto è più difficile e controversa la
loro individuazione e repressione e più urgente la ricerca di
una soluzione riguardo alle modalità di valutazione dell’an‑
36 A. Vallebona, op.cit., pagg. 283 ss: La competenza per l’opposizione, origi‑
nariamente attribuita al giudice di secondo grado, è stata affidata allo stesso
giudice della fase sommaria (art. 28, comma 3), che però non può essere la
stessa persona fisica che ha emanato il decreto, ricorrendo il motivo di asten‑
sione obbligatoria o di ricusazione dell’art. 51, c. 4, cod. proc. civ., secondo
l’interpretazione costituzionalmente necessitata (Corte Cost. 15 ottobre 1999
n. 387) che equipara la fase sommaria ad un «altro grado del processo» in cui
il giudice abbia conosciuto la causa.
37G. Camilli, op.cit., p. 7.
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
tisindacalità. Che esistano comportamenti imprenditoriali,
sicuramente rilevanti ex art. 28, ma che, sfuggendo alla tipiz‑
zazione positiva, non sono facilmente individuabili e reprimi‑
bili, ne sono prova le decisioni di merito e legittimità sul tema
oggetto della sentenza in commento in cui, di fronte ad un
analogo comportamento datoriale, a brevissima distanza di
tempo, ci si è espressi una volta a favore del sindacato ed
un’altra a favore del datore di lavoro e poi infine a favore del
sindacato. La domanda a cui rispondere sarà pertanto entro
quali limiti l’esercizio dei poteri disciplinari nei confronti del
lavoratore in sciopero sia lecita e quale sia la soglia oltre la
quale diventi illecita, o viceversa oltre quale soglia l’esercizio
del diritto di sciopero diventi illecito e legittimi una reazione
datoriale. Bisogna giudicare nel caso concreto, considerando
sia il comportamento del lavoratore sia la reazione datoriale.
È vero, che la partecipazione del lavoratore allo sciopero
nell’esercizio dei suoi diritti sindacali non può risolversi in
una garanzia di impunità assoluta per quei lavoratori che
tengono comportamenti scorretti nell’ambito di un preteso
svolgimento di attività sindacale, ma allo stesso tempo il
datore di lavoro deve usare il potere disciplinare come stru‑
mento destinato ad assicurare il corretto svolgimento dei
rapporti di lavoro, e non può servirsene per reprimere o af‑
fievolire l’efficacia dell’azione sindacale da parte del lavora‑
tore38. In sostanza, bisogna indagare se il datore di lavoro
abbia utilizzato la vicenda accaduta, a fini antisindacali.
Questo, a prescindere da qualsiasi valutazione astratta, circa
la problematica della legittimità dell’azione sindacale. La
circostanza che il legislatore nel sanzionare le condotte anti‑
sindacali abbia sentito la necessità di richiamare espressamen‑
te il diritto di sciopero, che in astratto avrebbe potuto essere
ricompreso nella più generale tutela dell’attività sindacale,
evidenzia invece la volontà legislativa di elevare questo ele‑
mento a momento centrale dell’attività di autotutela. Una
corretta valutazione del caso impone, pertanto, di soffermar‑
si sul diritto di sciopero e sulla vexata quaestio dei suoi limi‑
ti onde bilanciare gli opposti interessi venuti in conflitto e
valutare l’applicabilità dell’art. 28 al caso di specie. Difatti,
per poter reprimere un comportamento dell’imprenditore di
reazione ad uno sciopero, il giudice non può esimersi dal
valutare preliminarmente la legittimità dello stesso, e ciò
verificando la sua estensione.
3.1. Il diritto di sciopero: fondamento, natura e titolarità
Come è noto, il diritto di sciopero trova il suo fondamen‑
to costituzionale all’art. 40 che sancisce il diritto di sciopero
“nell’ambito delle leggi che lo regolano”. Essendo mancata
l’emanazione, pur esplicitamente prevista dall’art. 40 Cost.,
delle leggi che avrebbero dovuto regolare l’esercizio del dirit‑
to di sciopero, l’individuazione in via interpretativa della
fattispecie protetta è stato compito della giurisprudenza che
ha dovuto svolgere una macroscopica funzione di supplenza,
elaborando la nozione di sciopero, le condotte qualificabili
come sciopero e, anche i limiti di tale diritto.
Il diritto di sciopero, riguardato dal punto di vista del
contratto di lavoro, è definito “come diritto potestativo del
lavoratore di sospendere l’esecuzione della prestazione, al
38Sul punto M.G. Garofalo, op.cit, p. 84 e 85.
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
quale corrisponde la posizione dell’imprenditore, soggetto
passivo che deve subire tale sospensione”39 . La diretta conse‑
guenza dell’esercizio di questo diritto è l’astensione dal lavoro
che non può tuttavia essere considerato un inadempimento
dell’obbligazione lavorativa, essendo pertanto preclusa ogni
forma di sanzione 40, e al contempo determinando il venir
meno della obbligazione del datore di erogare la retribuzione
e il diritto del lavoratore a riceverla, per i periodi in cui lo
sciopero è stato esercitato. Rimane inalterato il vincolo della
subordinazione e non attengono alla sospensione dell’attività
lavorativa quei comportamenti degli scioperanti che si tradu‑
cono in violazioni dei diritti degli altri lavoratori non sciope‑
ranti o del datore di lavoro, tutelati da precetti della Costitu‑
zione o dell’ordinamento generale41.
In una prospettiva funzionale dello sciopero all’interno
del sistema costituzionale, questa è la più diffusa risposta
all’inquadramento del diritto di sciopero, il diritto di sciope‑
ro può essere compreso tra i diritti assoluti di libertà per la
difesa dei fondamentali interessi della persona, evidenziando‑
si di talché il collegamento della disposizione di cui all’art. 40
Cost. con gli artt. 3, e. 2, Cost., ed intendendo l’esercizio del
diritto di sciopero come uno dei principali strumenti per la
rimozione delle diseguaglianze di fatto, che impediscono lo
sviluppo della persona e la partecipazione sociale dei lavora‑
tori. La titolarità del diritto di sciopero è riconosciuta ai
singoli lavoratori, poiché a ciascuno di essi spetta, di volta in
volta, la decisione sul concreto esercizio del diritto. È stato,
altresì, rilevato che lo sciopero può essere attuato solo per la
difesa di un interesse collettivo42 , la cui valutazione è rimessa
al gruppo. Occorrerebbe in tal senso un’azione concertata,
che coinvolga un gruppo portatore di un interesse omogeneo,
collettivo, “qualificato tale dalla coalizione che si muove in
vista della sua tutela e del suo perseguimento”43. Si ritiene
maggiormente che non sia necessaria una previa formale de‑
libera di proclamazione, costruita come negozio di autorizza‑
zione allo sciopero, non potendosi ricavare in alcun punto in
via interpretativa un obbligo del genere.
3.2. Limiti interni ed esterni del diritto di sciopero
La tematica dei limiti di esercizio del diritto di sciopero
ha rappresentato, anche alla luce della formulazione della
previsione costituzionale, un’ulteriore occasione di contrasto
tra gli interpreti dell’art. 40 Cost. Si è sostenuto che lo scio‑
pero per sua natura non poteva essere considerato un diritto
senza limiti: questi ultimi, anche in assenza di disposizioni
legislative, dovevano essere estrapolati dall’interprete al fine
39 A. Vallebona, op.cit., pag. 220. La qualificazione del diritto di sciopero come
diritto soggettivo potestativo si deve a F. Santoro‑Passarelli, Autonomia
collettiva, giurisdizione, diritto di sciopero, in Riv. it. scienze sociali, 1949,
p. 156, tra gli Altri, L. Mengoni, Limiti giuridici del diritto di sciopero, in Riv.
dir. lav., 1949, I, p. 252; U. Natoli, Legittimità dello sciopero e danno del
datore di lavoro, in Riv. giur. lav., 1952, II, p. 89; G. Mazzoni, I rapporti
collettivi di lavoro, Ed., Milano, 1967, p. 314.
40Si veda Alaimo A‑, Caruso B., Le relazioni sindacali, Torino, 2010, p. 199.
41 Conformi Cass. 05 gennaio 1980, n. 43; Cass. 24 maggio 1986, n. 3508;
Cass. 30 ottobre 1995 n. 11352.
42 Corte Cost. 28 dicembre 1962 n. 123, MGL, 1962, 416; Corte Cost. 14 gen‑
naio 1974 n. 1, MGL, 1974, 11; Cass. 3 giugno 1982 n. 3419, DL, 1982, II,
395; Cass. 23 luglio 1991 n. 8234, MGL, 1991, 500. cit. in A. Vallebona,
Istituzioni di diritto del lavoro, il diritto sindacale, Padova, 2002, pag. 221.
43 A. Alaimo, B. Caruso, op.cit. p. 197‑198.
2 0 1 2
47
di colpire le forme non ritenute socialmente adeguate di con‑
flitto. Venne così elaborata la cd. teoria del danno ingiusto e
della corrispettività dei sacrifici, attraverso un richiamo alla
responsabilità civile per fatto illecito, ex art. 2043 c.c. Secon‑
do questa tesi, lo sciopero, per essere legittimo, avrebbe do‑
vuto limitare i propri effetti dannosi per il datore di lavoro al
solo lucro cessante, individuato nel guadagno da questi per‑
duto nel corso dello sciopero, e non avrebbe potuto estender‑
si anche al danno emergente, cioè alla disorganizzazione
produttiva, alla perdita di materie prime, di energia, ecc. Lo
sciopero non poteva infliggere al datore di lavoro un danno
superiore al sacrificio affrontato dagli scioperanti con la per‑
dita della retribuzione, altrimenti causando al datore di lavo‑
ro un danno non proporzionato e, pertanto, ingiusto. Solo in
tal modo si sarebbe verificata l’equivalenza del costo dello
sciopero sopportato dal datore di lavoro e dai lavoratori: per
il primo, appunto, l’utile estraibile dal lavoro non prestato
durante lo sciopero; per i secondi, la perdita della retribuzio‑
ne per la durata dello sciopero.
Al concetto di limite interno si è contrapposto quello di
limite esterno del diritto di sciopero. Si è sostenuto che lo
sciopero non soffre di limiti interni ma è legittima una rego‑
lazione delle modalità dell’esercizio, in vista del suo contem‑
peramento con altri interessi e diritti di pari o superiore rilie‑
vo costituzionale. Così limiti “esterni” al diritto di sciopero
con riferimento alle sue finalità si rinvennero nei diritti costi‑
tuzionalmente garantiti alla libertà di iniziativa economica
privata (art. 41 Cost.) e al lavoro (art. 4 Cost.).
Il contributo maggiore alla definizione dei limiti esterni
del diritto di sciopero è provenuto dalla nota sentenza della
Corte di Cassazione n. 711 del 1980. La sentenza, prendendo
atto della realtà delle dinamiche sociali del conflitto indu‑
striale, affermò che lo sciopero non poteva soffrire di alcun
limite interno edificato sulla base di astratte definizioni del‑
la fattispecie. “Il diritto di sciopero, quale che sia la sua
forma di esercizio e l’entità del danno arrecato, non ha altri
limiti… se non quelli che si rinvengono in norme che tuteli‑
no posizioni soggettive concorrenti, su un piano prioritario
o quanto meno paritario, quali il diritto alla vita e all’inco‑
lumità personale nonché la libertà dell’iniziativa economica,
cioè, dell’attività imprenditoriale (art. 41 comma 1 Cost.),
che con la produttività delle aziende e concreto strumento
di realizzazione del diritto costituzionale al lavoro per tutti
i cittadini”.
3.3. Licenziamento per giusta causa: danno alla produzione
o danno alla produttività?
In quest’ottica la legittimità del licenziamento e dunque
l’esistenza di una giusta causa di licenziamento che escluda
l’antisindacalità della condotta, discenderebbe dal superamen‑
to del limite esterno del diritto di sciopero e dalla lesione
della libertà di inziativa economica del datore di lavoro. Sul
punto originariamente si discuteva se il limite esterno del
diritto di sciopero fosse rinvenibile nel danno alla produzione
o nel danno alla produttività.
Dottrina e giurisprudenza consolidate hanno ritenuto che
qualunque danno alla produzione è legittimo, restando vie‑
tato ledere la capacità del datore di riprendere l’attività dopo
(o anche di continuarla, a certe condizioni, durante) lo scio‑
pero. Sono precluse le modalità di astensione che, per non
civile
Gazzetta
48
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
adattarsi alla natura dell’attività o alle caratteristiche dei
beni impiegati o prodotti, provochino lesioni di attrezzature,
impianti o locali.
Sul concetto di danno alla produttività, si rinvengono due
orientamenti, richiamati anche dal giudice di appello, l’uno
che individua il danno alla produttività come danno di tipo
duraturo, in quanto collegato alla distruzione o inutilizzabi‑
lità degli impianti, l’altro che ha ampliato il concetto di lesio‑
ne alla produttività estendendola all’impedimento anche
temporaneo al funzionamento dell’organizzazione aziendale.
Secondo il primo orientamento giurisprudenziale 44 l’esercizio
del diritto di sciopero diverrebbe illecito se, in una determi‑
nata ed effettiva situazione economica, comporti la distruzio‑
ne o una duratura inutilizzabilità degli impianti con compro‑
missione dell’interesse generale alla preservazione dei livelli
di occupazione. Secondo il secondo orientamento 45, il limite
esterno non sarebbe la sola lesione all’integrità degli impian‑
ti inteso come pregiudizio duraturo alla ripresa dell’attività
produttiva ma l’impedimento anche temporaneo al funziona‑
mento dell’organizzazione aziendale, sul presupposto della
legittimità, entro certi limiti, della riorganizzazione da parte
del datore di lavoro dell’attività aziendale durante lo sciopero.
Non sono, dunque, posti limiti alla possibilità di incidere,
mediante una azione di sciopero, sulla produzione, ovverosia
sulla quantità di merci e manufatti prodotti o di servizi ero‑
gati, allo scopo di recare un danno economico al titolare
dell’attività. Rientra, infatti, nella normale dialettica del con‑
flitto la possibilità che gli scioperanti pongano in essere forme
particolarmente incisive di sciopero. Il solo limite esterno
allo sciopero che si deve ritenere configurabile è il danno alla
produttività che permea il particolare dato organizzativo
dell’azienda, dunque inteso come pregiudizio alla competiti‑
vità aziendale e non il danno alla produzione, inteso come
mancata conservazione del livello di produzione. Lo sciopero,
dunque, in sé legittimo quale che sia la sua forma, e indipen‑
dentemente dalla entità del danno arrecato alla produzione,
è illecito ove travalichi i visti limiti e, ledendo o mettendo in
pericolo l’impresa come organizzazione istituzionale, non
come mera organizzazione gestionale, sia così lesivo di inte‑
ressi primari costituzionalmente protetti.
L’essersi inequivocabilmente sancito tale principio non fa
venire meno comunque problematiche peculiari, ove si consi‑
derino le difficoltà di approccio ad un valore “produttività”
di non facile identificazione, ma che comunque funge da vero
e proprio spartiacque tra sciopero legittimo ed illegittimo, tra
liceità dei comportamenti reattivi datoriali ed eventuale ille‑
gittimità e antisindacalità dei medesimi. Di tale difficoltà è
espressione, per l’appunto, il caso oggetto della sentenza in
commento.
4. L’accertamento istruttorio e la decisione della Corte di Appello
Giungendo all’analisi della sentenza, giova evidenziare che
il licenziamento di cui si è discussa l’antisindacalità aveva
come motivazione la posizione irregolare, e prolungata nel
44Sul punto Cass. n. 711/1980; conf. Cass. 04 febbraio 1983, n. 945; Cass. 28
gennaio 1992. n. 869; Cass. 17 dicembre 2004 n. 23552; Cass. 09 maggio 2006
n. 10624.
45 Cass. 16 novembre 1987 n. 8401.
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
tempo dei lavoratori innanzi ad un carrello, sulla banda ma‑
gnetica di scorrimento, tale da impedirne “deliberatamente”
il transito e da provocare il “blocco” dell’attività produttiva
oltre l’incuranza all’invito, rivolto loro dal gestore operativo,
a spostarsi dall’area interdetta al personale, così da consenti‑
re il regolare transito dei carrelli, tenendo un atteggiamento
di insubordinazione.
Dunque le contestazioni mosse ai lavoratori erano due: il
blocco della produzione e l’insubordinazione.
Avverso il licenziamento irrompevano gli organismi loca‑
li delle associazioni sindacali rappresentative dei lavoratori
licenziati, FIOM e CGL, con ricorso ex art 28 Stat. lav., i
quali contestavano la fondatezza e la veridicità delle ragioni
poste dall’azienda a sostegno dei licenziamenti irrogati, asse‑
rendo che la mancata movimentazione dei predetti carrelli era
dipesa da altre cause, nella fattispecie era stata sospesa dai
responsabili in ragione dell’adesione degli operai alla mobili‑
tazione; conseguentemente la sanzione irrogata aveva carat‑
tere antisindacale in quanto irrogata a due delegati e ad un
iscritto all’organizzazione sindacale a causa del ruolo da que‑
sti esercitato in azienda in occasione delle mobilitazioni che
avevano interessato lo stabilimento di Melfi.
Il Giudice adito, riscontrata preliminarmente l’attualità
della condotta per essere i provvedimenti adottati dal datore di
lavoro idonei ad incidere sul futuro sereno esercizio del diritto
di sciopero e a limitare l’esercizio dell’attività sindacale, ritene‑
va sussistente l’antisindacalità della condotta. In particolare,
distinguendo tra una condotta commissiva, verosimilmente
dovuta ad un contatto con l’AGV, ed una omissiva, priva del
necessario elemento soggettivo del dolo, caratterizzata dallo
stazionamento illegittimo, ma frutto di incomprensione, sul
percorso riservato ai carrelli, sosteneva la mancata integrazio‑
ne del comportamento contestato e, comunque, l’assenza di
qualsivoglia intenzionalità in capo ai tre lavoratori. Pertanto
accoglieva il ricorso promosso dalle associazioni sindacali,
ordinando la immediata reintegra degli stessi nel proprio posto
di lavoro; ordinava, altresì, la pubblicazione del dispositivo.
Avverso tale decreto, la S. A.T.A. S. p.a. proponeva oppo‑
sizione, contestando l’errata interpretazione delle risultanze
istruttorie e l’errata e incongrua motivazione. Esaminata
nuovamente l’attualità della condotta, essa persistente sia per
la sua portata intimidatoria, sia per la capacità di restringere
o ostacolare il libero esercizio dell’attività sindacale, oltre che
per la circostanza che i tre licenziati, seppur formalmente
reintegrati nel proprio posto di lavoro, di fatto non avevano
la possibilità di espletare in concreto alcuna mansione, il
giudice dell’opposizione aveva escluso l’antisindacalità dei
licenziamenti irrogati. Riteneva che i provvedimenti di licen‑
ziamento fossero stati la logica conseguenza di comportamen‑
ti che, travalicando i limiti dello sciopero, erano sconfinati
nell’aperta violazione dei più comuni obblighi di diligenza,
fedeltà, obbedienza, correttezza e buona fede e nella plateale
negazione della gerarchia aziendale. Sussistendo un danno
grave per l’azienda determinato dal blocco della produzione,
riconducibile alla condotta esclusiva dei lavoratori licenziati,
revocava pertanto il decreto.
Avverso la pronuncia del giudice dell’opposizione propo‑
nevano appello i sindacati deducendo l’illegittimità della
sentenza per travisamento dei fatti rispetto a quanto emerso
dall’istruttoria e documentato, per la non volontarietà della
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
condotta, la mancanza di insubordinazione e l’assenza del
danno oltre all’obiettiva antisindacalità del comportamento.
Le associazioni sostenevano innanzitutto che lo sciopero
è una legittima causa di sospensione del rapporto, durante la
quale l’obbligo di obbedienza non può che essere sospeso (al
contrario di altri obblighi, quali ad esempio la fedeltà) ovvero
comunque risultare attenuato.
La Corte di Appello nel delimitare l’ambito di operatività
del diritto di sciopero esclude la sospensione dell’obbligo di
obbedienza evidenziando che, per contro,“durante lo sciopero
restano sospese le obbligazioni relative alle corrispettive pre‑
stazioni di lavoro e di pagamento delle retribuzioni, mentre
non lo sono gli altri diritti ed obblighi pur integranti il conte‑
nuto del rapporto, i quali sono estranei alla sospensione
della prestazione lavorativa, che costituisce l’essenza del di‑
ritto di sciopero.” Per stabilire se vi sia stata la disobbedienza
dei lavoratori, occorre verificare se “in relazione alla qualità
del rapporto intercorso fra le parti, alla posizione che in esso
abbia rivestito il lavoratore, alla qualità ed al grado di fiducia
che quel rapporto comportava, la specifica mancanza com‑
messa dal dipendente, considerata non solo nel suo contenu‑
to obiettivo, ma anche nella sua portata soggettiva, specie con
riferimento alle particolari circostanze e condizioni in cui è
posta in essere, ai suoi modi, ai suoi effetti, ed all’intensità
dell’elemento psicologico, risulti idonea a ledere in modo
grave, così da farla venir meno, la fiducia che il datore di la‑
voro ripone nel proprio dipendente, e tale quindi, da esigere
sanzioni non minori di quella (massima) espulsiva.”
La Corte ritiene, che in base alle risultanze istruttorie, la
dinamica dei fatti porti ad escludere sul piano soggettivo la
disobbedienza dei lavoratori, i quali avrebbero solo reagito
alle aggressioni dei responsabili.
Sul piano oggettivo prosegue nell’analisi, verificando nel
caso concreto se vi sia stato un danno all’impresa giustifica‑
tivo del licenziamento, muovendo dalla nota distinzione tra
limiti interni ed esterni di esercizio del diritto di sciopero.
In ordine al danno alla produzione riconosciuto dal giu‑
dice dell’opposizione, la Corte di Appello, ha evidenziato che
“il limite (esterno) al diritto di sciopero è costituito non più
dalla perdita sproporzionata di produzione, come nella su‑
perata teoria del danno ingiusto, bensì dalla necessità di tu‑
telare il potenziale produttivo dell’azienda.”.
Il giudice della Corte di Appello di Potenza chiarisce che
non vi è più quel collegamento esonerativo con l’esercizio del
diritto di sciopero quando la lotta sindacale sia trascesa da
una mera astensione collettiva dal lavoro a manifestazioni di
violenza, minaccia ed intimidazione nei confronti di altri la‑
voratori o del datore di lavoro ovvero abbia inciso direttamen‑
te sulla integrità degli impianti e sulla incolumità degli impie‑
gati addettivi ovvero ancora sia consistita in un comporta‑
mento materiale positivo di ostacolo al lavoro degli altri di‑
pendenti, mediante fisica ostruzione alle manovre dei mezzi.
In tali casi, la condotta rileva ai fini della violazione degli
obblighi costituenti il contenuto del rapporto di lavoro. Nel
caso di specie ritiene che, nella prospettazione di cui alle
contestazioni, ciò che principalmente si addebita ai lavorato‑
ri, è un comportamento volontario, perciò insubordianato,
mantenuto per un certo tempo, nonostante gli inviti dei re‑
sponsabili, avente il proposito di ostacolare il regolare svolgi‑
mento dell’attività produttiva mediante l’impedimento del
2 0 1 2
49
transito del carrello. In altre parole, rileva, in base alla con‑
testazione, l’elemento soggettivo della condotta contestata
consistente nel deliberato ostacolo al transito del carrello,
ostacolo costituente non l’effetto di un agire semplicemente
insubordinato, ma l’obiettivo che i lavoratori, con lo stazio‑
namento nell’area interdetta, avrebbero inteso perseguire.
Dagli accertamenti svolti sia dal giudice della fase somma‑
ria che dal giudice dell’opposizione, riesaminati dal giudice di
appello, appariva che fosse uso aziendale che, a fronte della
proclamazione dello sciopero, i responsabili UTE provvedes‑
sero a bloccare temporaneamente le linee agendo sull’apposi‑
to pulsante e a riorganizzare la produzione spostando tutti gli
astenuti dallo sciopero su una sola linea produttiva. Gli scio‑
peranti quel giorno erano nel corridoio tra due UTE e il loro
assembramento interessava la pista di transito degli AVG e il
corridoio attiguo, ove vi era un carrello già fermo. Si ferma‑
rono in assemblea circa 2‑ 3 metri davanti a un carrello fermo.
Riattivata una delle due linee di montaggio, uno dei respon‑
sabili della UTE si avvedeva del fatto che non arrivassero i
carrelli e, percorso a ritroso il tragitto del carrello, ritrovava,
a pochi metri da un carrello gli scioperanti. Il responsabile,
raggiunto da altri colleghi avvertiti telefonicamente, intimava
la ripresa dell’attività produttiva e a tale intimazione un dele‑
gato faceva presente che era in atto uno sciopero. Sopraggiun‑
ti altri allora non presenti, nonché il gestore operativo ed il
responsabile del personale del turno, uno di loro contestava
l’ostacolo alla produzione e i lavoratori continuavano a ripe‑
tere che dovevano tenere l’assemblea. Contestato a un lavora‑
tore il licenziamento per siffatta condotta, mentre gli altri
lavoratori intimoriti si spostarono dalla linea di transito degli
AGV, posizionandosi sul corridoio, intervenivano due delega‑
ti sindacali in difesa del lavoratore, il quale aveva subito un
richiamo perentorio e grave senza una giustificazione chiara.
Appariva pertanto che la discussione con il responsabile
sul diritto all’assemblea fosse la “sola ed esclusiva ragione che,
in un arco temporale come sopra delimitato” aveva “indotto
a non allontanarsi i lavoratori poi licenziati, trattenutisi
appunto sul posto per rispondere alle contestazioni che (solo)
a loro venivano rivolte e che percepivano come ingiuste”.
La Corte di appello, pertanto, alla luce delle risultanze
acquisite, ritiene che l’addebito contestato debba subire un
sicuro ridimensionamento, tanto con riferimento all’asserito
deliberato intento di ostacolare la produzione, quanto con
riferimento alla sua componente oggettiva, identificata dalla
società in un “impedimento al transito, decorso, passaggio
del carrello stesso che i tre licenziati con la loro condotta
(negligente e oltraggiosa) hanno certamente causato”, impe‑
dimento che, era risultato temporalmente più circoscritto di
quello lamentato, con ovvie conseguenze sul danno asserita‑
mente derivatone, relativamente al quale giova, in ogni caso,
precisare che mancano elementi che consentano di ravvisarlo
sotto forma di pregiudizio per la competitività aziendale.
La Corte ritiene inesistente il danno alla produttività sia
sotto il profilo oggettivo, in quanto tenuto conto dei tempi
ristretti degli eventi non si può ravvisare un pregiudizio alla
competitività aziendale, sia sotto il profilo soggettivo, in
quanto avuto riguardo alle modalità con cui gli ordini alla
ripresa della produzione erano stati dati, della concitazione
del momento, dell’equivoco sullo stato di fermo dei carrelli, i
lavoratori effettivamente non avevano compreso che gli fosse
civile
Gazzetta
50
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
contestato il blocco della produzione ma solo il blocco dei
carrelli.
Si legge nella sentenza “Se, allora, va ritenuto che i re‑
sponsabili aziendali, pur essendo in corso di svolgimento uno
sciopero, fossero legittimati, in base ai principi sopra richia‑
mati in tema di limiti esterni al diritto di sciopero, a dare le
disposizioni volte a garantire la conservazione dell’assetto
organizzativo e la ripresa della produzione, non può trascu‑
rarsi il fatto che, per le modalità con cui le stesse sono state
impartite, per la concitazione del momento e lo scontro sin‑
dacale dichiaratamente in atto (già il solo fatto che giungono
sul posto, oltre al …ed al …, altri 5 responsabili aziendali,
tutti insieme, è indicativo dell’impatto anche emotivo che
tale intervento può aver avuto sul gruppo degli scioperanti)
nonché per la situazione oggettiva del fermo dei carrelli,
siano state intese come dirette a censurare qualcosa (e cioè,
appunto, il blocco dei carrelli) che i lavoratori assumevano
di non aver provocato. Del resto, la stessa circostanza che il
… abbia dovuto più volte ripetere tanto l’invito a spostarsi
quanto la contestazione, è significativa, contrariamente a
quanto ritenuto dal primo giudice, del fatto che non era
stato immediatamente compreso che non veniva addebitato
il blocco dei carrelli bensì il posizionamento atto ad impedir‑
ne il transito (o meglio, per quanto sopra detto, la ripresa del
transito). D’altronde, una valutazione compiuta della vicen‑
da non può trascurare che il modo del … di rapportarsi con
il …il … ed il … non è stato così tranquillo e pacato come la
società sostiene”.
L’accoglimento dell’appello discende dalla ritenuta esisten‑
za di un licenziamento non solo illegittimo per i motivi sue‑
sposti ma anche antisindacale in quanto strumentale ad inde‑
bolire le forze antagostiche dei sindacati, con conseguente
immediato pregiudizio per l’azione e la libertà sindacale.
L’ eventuale mancanza del carattere di antisindacalità
avrebbe indotto a confermare la statuizione del giudice
dell’opposizione che aveva escluso l’antisindacalità chiarendo
nel corpo della sentenza che l’illegittimità dei tre licenziamen‑
ti irrogati nell’occasione dei fatti avrebbero dovuto essere
piuttosto oggetto di altro giudizio, di merito o cautelare.
In effetti i due concetti giuridici di «condotta antisinda‑
cale» e « licenziamento illegittimo» non coincidono ma sono
distinti tra loro, sicché la equiparazione illegittimità‑antisin‑
dacalità non è automatica, con la logica conseguenza che se
vi è condotta antisindacale i licenziamenti irrogati in occasio‑
ne di questa sono illegittimi, ma non viceversa.
Nel caso di specie, esclusa la illegittimità della condotta
dei lavoratori per mancanza di dolo e per la ristrettezza tem‑
porale della condotta, per contro appare provata l’antisinda‑
calità della condotta del datore di lavoro in quanto incisiva
sulla libertà dei sindacati di scioperare liberamente e di difen‑
dere i propri diritti nei confronti dei rappresentanti del potere
datoriale.
La sentenza appare interessante nella parte in cui eviden‑
zia l’esistenza nel caso di specie di una intenzionalità antisin‑
dacale della condotta quale quid pluris degli estremi della
condotta antisindacale, ritenendo i licenziamenti “nulla più
che misure adottate per liberarsi di sindacalisti che avevano
assunto posizioni di forte antagonismo, con conseguente
immediato pregiudizio per l’azione e la libertà sindacale”. Da
una parte il Giudice evidenzia il carattere discriminatorio
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
della condotta in senso oggettivo, posto che i tre lavoratori
sarebbero stati licenziati unicamente in quanto appartenenti
alla FIOM discriminandoli da tutti gli altri partecipanti, tra
cui sindacalisti di altre sigle, che pure avevano sostato sul
percorso degli Agv, dall’altra definisce il licenziamento come
un strumentale a indebolire le forze antagostiche dei sindaca‑
ti, il che lascerebbe trasparire una valutazione del licenzia‑
mento come intenzionalmente irrogato “al fine di”.
Ciò permette di ritenere che, pur non essendo l’intenzio‑
nalità della condotta datoriale un requisito necessario e suf‑
ficiente per qualificare la condotta come antisindacale, essa
ben può essere valutata dal giudice come elemento aggrava‑
tore del dato obbiettivo dell’antisindacalità della stessa.
Da ultimo la Corte nell’accogliere l’appello, rigettando
l’opposizione di parte appellata avverso il decreto del Tribu‑
nale di Melfi, osserva che tanto il giudice della fase sommaria
quanto quello dell’opposizione avevano disposto la pubblica‑
zione del dispositivo sui quotidiani, a cura e spese, delle parti
soccombenti. La Corte rileva che in effetti l’art. 28 non preve‑
de un tale obbligo in capo al giudice ma solo quello inerente
la pubblicazione ex art. 36 c.p. della sentenza penale resa ai
sensi dell’art. 650 c.p. Tuttavia non esclude che in virtù della
previsione generale di cui all’art. 28 cit., comma 1, intesa a
garantire non solo la cessazione del comportamento antisin‑
dacale ma anche la rimozione degli effetti lesivi già realizzati,
si possa ritenere opportuna la pubblicazione dello stesso de‑
creto o della sentenza resa nel giudizio di opposizione, ovvero
ai sensi dell’art. 120 c.p.c. che nella formulazione attuale
prevede che il giudice, su istanza di parte, può ordinare la
pubblicazione della sentenza a cura e spese del soccombente
nei casi in cui la pubblicità della decisione di merito può con‑
tribuire a riparare il danno, compreso quello derivante per
effetto di quanto previsto all’articolo 96. L’osservazione viene
svolta ai soli fini della rivalutazione dell’onere delle spese di
pubblicazione, mentre non viene disposta la pubblicazione
della sentenza per rimuovere gli effetti lesivi della sentenza del
giudizio di opposizione, il che fa intendere che il giudicante
abbia ritenuto che tale tipo di condanna possa essere disposta
solo ove richiesta dalle parti in base ad un’interpretazione
estensiva dell’art. 28, comma 1, e non iussu iudicis.
5. Conclusioni
Dalla lettura della sentenza della Corte di Appello di
Potenza emerge una maggiore elasticità interpretativa da
parte del giudicante non soltanto dei principi giuridici sotte‑
si al procedimento di repressione della condotta antisindaca‑
le e dei limiti esterni del diritto di sciopero ma anche dei
fatti di causa. Il giudicante, difatti, dopo una ricostruzione
attenta e minuziosa della delimitazione dottrinaria e giuri‑
sprudenziale dei limiti del diritto di sciopero, prima di pro‑
cedere a valutare l’antisindacalità della condotta datoriale,
ha proceduto a verificare nel caso concreto, attraverso lo
studio di tutte le dichiarazioni rese in sede istruttoria del
giudizio di opposizione, se la condotta tenuta dai lavoratori
oltrepassasse i limiti della legittimità dello sciopero e pertan‑
to giustificasse effettivamente la reazione datoriale del licen‑
ziamento. Tenuto conto dei fatti, del contesto in cui si sono
svolti gli scontri, del tempo particolarmente esiguo nel quale
si sarebbero svolti i fatti contestati e considerato lo stato
emotivo delle parti, il giudicante ha escluso l’esistenza di un
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
danno all’impresa e di una disobbedienza dei dipendenti tali
da giustificare il licenziamento, posto che la sosta dei dipen‑
denti licenziati sulla zona off limits trovava giustificazione
solo nella necessità di controbattere ai responsabili, spiegan‑
do le proprie ragioni.
La sentenza appare pertanto particolarmente innovativa
nella parte in cui, esclusa l’esistenza di una danno alla pro‑
duttività ma anche, per ciò che rileva, di un danno alla pro‑
duzione e di una voluta disobbedienza agli ordini datoriali,
giustifica la condotta potenzialmente offensiva dei lavoratori
tenendo conto delle circostanze del caso concreto e della non
intenzionalità dei dipendenti di interrompere la produzione,
apparendo così del tutto immotivato il licenziamento degli
stessi.
In questo modo la Corte ha dato esempio della necessità
che il giudice valuti tutti gli elementi di fatto, oltre che di
2 0 1 2
51
diritto, necessari a verificare l’effettivo superamento dei limi‑
ti del diritto di sciopero. In questo modo il giudizio sulla
estensione dei limiti del diritto di sciopero diventa più com‑
pleto e riguardoso dei diritti dei lavoratori che si trovano in
una posizione di subordinazione al datore di lavoro, molto
spesso subendo sanzioni sproporzionate, espressione di un
uso strumentale e distorto del potere disciplinare.
La sentenza per i rilievi in essa contenuti apre un nuovo
scenario sull’individuazione del campo di operatività dei li‑
miti del diritto di sciopero nella parte in cui individua dei
temperamenti nella valutazione dell’illiceità dello sciopero
tenuto conto del contesto in cui esso si svolge e della perce‑
zione dei fatti da parte dei lavoratori oltre che della inconsa‑
pevolezza della condotta illecita.
Un aspetto innovativo nella giurisprudenza in materia su
cui si attende di verificarne l’esito nelle successive pronunce.
civile
Gazzetta
52
D i r i t t o
●
Rassegna di legittimità
●
A cura di
Corrado d’Ambrosio
Magistrato presso il Tribunale di Napoli
e
p r o c e d u r a
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
Comunione – Locazione della cosa comune da parte di uno dei
comproprietari gestione d’affari – Configurabilità – Diritto del
comproprietario non locatore di esigere i canoni locativi dal con‑
duttore – Necessità del contraddittorio con il comproprietario
locatore
Le Sezioni Unite civili hanno affermato che la locazione
della cosa oggetto di comunione da parte di uno dei compro‑
prietari rientra nell’ambito della gestione di affari ed è sog‑
getta alle regole di tale istituto, sicché, nel caso di gestione
non rappresentativa, il comproprietario non locatore può
ratificare l’operato del gestore ed esigere dal conduttore, nel
contraddittorio con il comproprietario locatore, la quota dei
canoni proporzionata alla rispettiva quota di proprietà in‑
divisa.
Cass. civ., Sez. un., sent. 04 luglio 2012, n. 11135
Pres. Vittoria, Est. Petitti
Comunione e condominio – Trasformazione di una parte del tetto
comune in terrazza ad uso esclusivo del condomino proprietario
del piano sottostante – Ammissibilità – Condizioni e limiti
Il condomino, proprietario del piano sottostante al tetto
comune, può effettuare la trasformazione di una parte del
tetto dell’edificio in terrazza ad uso esclusivo proprio, a con‑
dizione che sia salvaguardata, mediante opere adeguate, la
funzione di copertura e protezione delle sottostanti strutture
svolta dal tetto preesistente, restando così complessivamente
mantenuta, per la non significativa portata della modifica, la
destinazione principale del bene.
Cass. civ., Sez. II, sent. 03 agosto 2012, n. 14107
Pres. Triola, Est. D’Ascola
Contratto preliminare – Esecuzione in forma specifica di prelimi‑
nare di vendita immobiliare – Sottoscrizione del contratto da
parte di entrambi i coniugi in comunione legale – Necessità – Esclu‑
sione – Sussistenza del consenso – Sufficienza – Conseguenze in
caso di mancanza del consenso
Ai fini dell’esecuzione in forma specifica di un prelimina‑
re di vendita immobiliare non è necessaria la sottoscrizione
del contratto da parte di entrambi i coniugi in comunione
legale ma è sufficiente il consenso dell’altro coniuge e la man‑
canza del suo consenso si traduce in un vizio da far valere ai
sensi dell’art. 184 c.c., nel rispetto del principio generale di
buona fede e dell’affidamento, nel termine di un anno decor‑
rente dalla conoscenza dell’atto o dalla data di trascrizione.
Cass. civ., Sez. II, sent. 24 luglio 2012, n. 12923
Pres. Schettino, Est. Proto
Diritti reali – Vincolo di indivisibilità trentennale dei fondi agrico‑
li ex art. 11 della legge n. 817 del 1971 – Estensione all’ipotesi di
usucapione – Esclusione – Fondamento
Il vincolo di indivisibilità trentennale dei fondi agricoli
acquistati con le agevolazioni creditizie concesse dallo Stato
per la formazione o l’ampliamento della proprietà coltivatri‑
ce, di cui all’art. 11 della legge 14 agosto 1971, n. 817, non si
estende all’usucapione, la quale, in quanto acquisto a titolo
originario, prescinde da un atto dispositivo e non è un “atto”
suscettibile di essere sanzionato con la nullità.
Cass. civ., Sez. II, sent. 17 luglio 2012, n. 12289
Pres. Triola, Est. Proto
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
Filiazione – Inseminazione eterologa – Azione di disconoscimen‑
to di paternità – Ammissibilità – Limiti
La norma di cui all’art. 235 c.c., la quale regola l’azione
di disconoscimento di paternità, si applica anche alla filia‑
zione derivante da inseminazione artificiale eterologa, con
riguardo alla domanda proposta dal figlio, nonché, per quan‑
to attiene all’azione del coniuge, nelle ipotesi in cui questi non
abbia prestato, neppure implicitamente, il proprio consenso
alla fecondazione.
Cass. civ., Sez. I, sent. 11 luglio 2012, n. 11644
Pres. Luccioli, Est. Campanile
Lavoro – Lavoro subordinato – Donne – Diritto alla conservazione
del posto – Gravidanza – Licenziamento – Diritto alle retribuzioni
successive all’effettiva cessazione del rapporto – Condizioni – Co‑
noscenza effettiva dello stato di gravidanza da parte del datore
di lavoro – Sufficienza
In tema di rapporto di lavoro irregolare, la lavoratrice in
stato di gravidanza o puerperio licenziata nonostante il di‑
vieto di licenziamento ha diritto alle retribuzioni successive
alla data di effettiva cessazione del rapporto, indipendente‑
mente dall’invio della relativa certificazione medica ove il
datore di lavoro abbia avuto comunque conoscenza effettiva
dello stato di gravidanza.
Cass. civ., Sez. lav., sent. 20 luglio 2012, n. 12693
Pres. Vidiri, Est. Mancino
Procedimento civile – Procedimento cautelare – Sequestro – Sen‑
tenza che dichiara l’estinzione del giudizio di merito – Inefficacia
del sequestro – Passaggio in giudicato della sentenza – Necessi‑
tà – Esclusione – Conseguenze
La misura cautelare del sequestro perde efficacia per ef‑
fetto della dichiarazione di estinzione del correlato giudizio
di merito, senza che a tale effetto sia necessario che la pro‑
nuncia sia divenuta inoppugnabile, sì che la stessa va assun‑
ta a presupposto dei provvedimenti ripristinatori previsti
dall’art. 669 novies, secondo comma, c.p.c..
2 0 1 2
53
Cass. civ., Sez. un., sent. 16 luglio 2012, n. 12103
Pres. ed Est. Vittoria
Ragionevole durata del processo – Violazione – Liquidazione del
danno non patrimoniale – Applicazione dei parametri tabellari
individuati dalla giurisprudenza di legittimità – Possibilità di
scendere al di sotto di detti parametri – Sussistenza – Fondamen‑
to e limiti
Nel sistema nazionale dell’equa riparazione per la viola‑
zione del termine di ragionevole durata di cui all’art. 6 CEDU
(Legge n. 89 del 2001), l’inesistenza di un pregiudizio impor‑
tante, dovuto all’irrisorietà o alla modestia del valore effet‑
tivo della controversia sottoposta a giudice nel giudizio
presupposto, consente di ragionevolmente ridurre la compen‑
sazione del danno non patrimoniale subito per la lentezza del
processo in relazione alla particolarità del caso concreto e di
scendere, al fine di cogliere l’effettiva consistenza economica
e sociale della vicenda presupposta, al di sotto dei parametri
tabellari plasmati dalla giurisprudenza della Corte di Cassa‑
zione (da € 750 e poi da € 1.000 in su), da riservare ai casi
in cui il pregiudizio è serio e tale da comportare conseguenze
significative sulla situazione personale della parte.
Cass. civ., Sez. II, sent. 24 luglio 2012, n. 12937
Pres. Rovelli, Est. Giusti
Risarcimento danni – Occupazione illegittima di immobile – Dan‑
no in re ipsa subito dal proprietario – Sussistenza – Limiti
In tema di illegittima occupazione di un immobile, la
presunzione di danno in re ipsa, che poggia sul presupposto
dell’utilità normalmente conseguibile dal proprietario
nell’esercizio delle facoltà di godimento e di disponibilità del
bene insite nel diritto dominicale, non può operare allorché
risulti provato che il proprietario stesso si sia intenzional‑
mente disinteressato dell’immobile ed abbia omesso di eser‑
citare su di esso ogni forma di utilizzazione.
Cass. civ., Sez. II, sent. 07 agosto 2012, n. 14222
Pres. Triola, Est. Matera
civile
Gazzetta
54
D i r i t t o
●
Rassegna di merito
●
A cura di
Mario De Bellis e Daniela Iossa
Avvocati
e
p r o c e d u r a
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
Prestazione d’opera – Obbligo accessorio di custodire – Inadem‑
pimento – Risarcimento del danno – Debito di valore
1. Il prestatore d’opera, se conviene con il committente di
prendere in consegna il bene per l’esecuzione della prestazio‑
ne principale su di esso, assume, ai sensi degli art. 2222 e 1177
c.c., anche l’obbligo accessorio di custodirlo fino alla ricon‑
segna, pure in caso di deposito a titolo gratuito o di cortesia
(cfr. Cass. civ., Sez. III, 18 settembre 2008, n. 23845).
2. Le norme che disciplinano nel contratto di deposito la
responsabilità del depositario sono applicabili solo nel caso
in cui l’obbligo di custodia rappresenti l’unica prestazione
qualificatrice del contratto; qualora, invece, l’obbligo di cu‑
stodire abbia natura meramente accessoria rispetto a quella
dedotta in obbligazione, per il suo adempimento trovano
applicazione, a termini dell’art. 1177 c.c. le regole stabilite
per l’adempimento delle obbligazioni in generale; pertanto nel
caso in cui il deposito è connesso con un contratto di lavoro
autonomo, l’obbligo di custodia, per il cui adempimento si
richiede la diligenza del buon padre di famiglia, resta limitato
al tempo necessario per l’esecuzione del lavoro, con la conse‑
guenza che il depositante, una volta che gli sia stato comuni‑
cato che il lavoro stesso è stato ultimato, deve riprendersi la
cosa, senza che, ove il depositario abbia fatto presente di non
potere continuare la custodia in modo pieno, possa configu‑
rarsi una sua responsabilità per la perdita della cosa, salva
l’ipotesi che tale perdita sia derivata da una particolare negli‑
genza.
3. L’obbligazione di risarcimento del danno, ancorché
derivante da inadempimento contrattuale, configura un de‑
bito di valore, in quanto diretta a reintegrare completamente
il patrimonio del danneggiato, sicché non trova applicazione
il principio nominalistico, e deve, pertanto, essere quantifi‑
cata dal giudice, anche d’ufficio, tenendo conto della svalu‑
tazione monetaria sopravvenuta fino alla data della liquida‑
zione (cfr. Cass. civ., Sez. un., 30 ottobre 2008, n. 26008).
Trib. Nola, Sez. II, sent. 04 giugno 2012
Giud. Costabile
Separazione dei coniugi – Onere della prova e potere di disporre
le indagini di polizia tributaria – Domanda di addebito della sepa‑
razione – Onere della prova – Assegnazione parziale della casa
familiare – Presupposti e limiti
1. Il potere di disporre indagini sui redditi e sui beni dei
coniugi presuppone essenzialmente due condizioni: la prima,
consistente nell’insufficienza della documentazione deposi‑
tata, in base alle quale non sarebbe possibile stabilire le con‑
dizioni reddituali del coniuge; la seconda, nella contestazione
dei redditi indicati. Pertanto, per giustificare i richiesti accer‑
tamenti tributari, è imposto al coniuge istante un puntuale
onere di contestazione ed allegazione che non può esaurirsi
nella semplice negazione delle risultanze in atti, ma deve es‑
sere supportata da sufficienti elementi di ragionevolezza
nonché dalla formulazione di istanze articolate su elementi
di fatto specifici, non del tutto sforniti di riscontro.
2. L’accoglimento della domanda di addebito della sepa‑
razione presuppone che sia raggiunta la prova di due circo‑
stanze: uno o più comportamenti, posti in essere da parte di
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
2 0 1 2
55
uno o di entrambi i coniugi, volontariamente e consapevol‑
mente, contrari ai doveri nascenti dal matrimonio (sui quali
si fonda la cd. comunione materiale e spirituale cui lo stesso
dà vita), ed il nesso di causalità tra le dette violazioni e l’in‑
tollerabilità della prosecuzione della convivenza, nel senso
che deve essere raggiunta la prova che proprio il o i compor‑
tamenti posti in essere da parte di uno dei coniugi in viola‑
zione dei citati doveri “sia o siano stati la causa efficiente del
fallimento della convivenza.
violazione del dettato di cui all’art. 2423 c.c.. norma,
quest’ultima, applicabile anche al bilancio di società a respon‑
sabilità limitata per effetto del richiamo ad essa operato
dall’art. 2478 bis c.c.. deve ritenersi che, ove tali doglianze
siano fondate, ci si trovi in presenza di una delibera avente
oggetto illecito od impossibile, come tale impugnabile da
chiunque vi abbia interesse entro il termine di tre anni dalla
trascrizione della deliberazione nel libro delle decisioni dei
soci.
3. Il potere del giudice della separazione di assegnare
l’abitazione della casa familiare, in deroga al normale regime
privatistico, al coniuge affidatario dei figli minori […] inclu‑
de la facoltà di attribuire alcuni soltanto dei locali di detta
casa […]; trattandosi del conferimento dell’uso di alloggio
per sopperire ai bisogni abitativi di un nucleo familiare, deve
ritenersi consentita l’attribuzione di alcuni locali soltanto di
un più ampio fabbricato, purché rispondenti allo sco‑
po – Detta rispondenza allo scopo esige che i vani assegnati
non solo abbiano ampiezza sufficiente per ospitare il coniuge
affidatario ed i figli di cui deve occuparsi, ma presentino
anche caratteristiche strutturali e funzionali tali da renderne
possibile l’aggregazione in un ‘unità abitativa, autonoma e
distaccabile dal resto dell’edifìcio; esige altresì che questa
distaccabilità sia insita nella conformazione dell’intero im‑
mobile, oppure non richieda altro che modesti accorgimenti
o piccoli lavori, tenendo conto che nessuna disposizione
autorizza ad imporre all’uno o all’altro dei coniugi separati
l’esecuzione di opere edili di trasformazione, e che, inoltre,
tali opere, subordinate ai prescritti permessi dell’autorità
amministrativa, priverebbero il provvedimento del giudice di
sicura ed immediata eseguibilità.
Pertanto in tema di separazione personale dei coniugi,
può disporsi l’assegnazione della casa familiare ad entrambi
i coniugi, sempre che sia agevolmente divisibile in due distin‑
te unità immobiliari, ciò al fine di consentire ai figli mino‑
ri – titolari del diritto alla bi‑ genitorialità – la conservazione
di paritari e significativi rapporti con i genitori, cui sono
affidati ‑
Trib. Napoli, Sez. I, sent. 04 giugno 2012
Pres. Casoria, Rel. Di Clemente
3. La delibera di approvazione di un bilancio redatto in
violazione dei principi di verità, chiarezza e correttezza con‑
figura un’ipotesi di nullità e non di mera annullabilità (cfr.
Cass. 7.3.2006, n. 4874; Cass. 24.12.2004, n. 23976), la
ratio sottesa all’applicazione del regime più restrittivo è lega‑
ta alla funzione stessa del bilancio che deve rappresentare in
modo non solo veritiero, ma altresì corretto e chiaro, la si‑
tuazione patrimoniale e finanziaria della società ponendo il
socio ed i terzi in condizione di assumere le necessarie infor‑
mazioni relative alla sua situazione patrimoniale e finanzia‑
ria. La sanzione della nullità quale conseguenza della caren‑
za assoluta di informazione (ipotesi nella quale deve logica‑
mente ritenersi rientrare quella della mancata convocazione
del socio all’assemblea) è sancita direttamente dal terzo com‑
ma dell’art. 2479 ter c.c..
Trib. Napoli, Sez. VII, sent. 19 giugno 2012.
Pres. Rel. E. Campese
Società di capitali – Delibere assembleari – Carenza assoluta
d’informazione – Oggetto illecito o impossibile – Legittimazione
attive e termini di impugnazione
1. Nelle s.r.l., i soci possono decidere o deliberare sulle
materie riservate alla loro competenza per legge o dall’atto
costitutivo, nonché sugli argomenti che uno o più ammini‑
stratori o tanti soci che rappresentano almeno un terzo del
capitale sociale sottopongono alla loro approvazione, non
solo in assemblea, ma anche fuori della stessa, ovvero per
iscritto [tramite consultazione scritta o consenso espresso per
iscritto] e, quindi, non necessariamente tramite riunione, ai
sensi degli artt. 2479 e 2479 bis. Tuttavia, in taluni casi è
obbligatorio per legge che le decisioni dei soci debbano esse‑
re adottate mediante deliberazione assembleare [ex art. 2479,
comma 4, del codice civile].
Urbanistica ed edilizia – Responsabilità civile P.A. – Giurisdizione
del Giudice Ordinario – Legittimazione attiva del conduttore nei
confronti dei terzi – Sussistenza
1. L’inosservanza da parte della P.A. (o di un soggetto
concessionario o appaltatore di lavori pubblici), nella gestio‑
ne e manutenzione dei beni che ad essa appartengono, delle
regole tecniche, ovvero dei canoni di diligenza e prudenza,
può essere denunciata dal privato dinanzi al giudice ordina‑
rio, sia qualora la domanda sia volta a conseguire la condan‑
na della P.A. al risarcimento del danno patrimoniale, sia
qualora sia volta a conseguire la condanna della stessa ad un
“facere”, giacché la domanda non investe scelte ed atti auto‑
ritativi dell’amministrazione, ma attività soggetta al rispetto
del principio del “neminem laedere”. Né è di ostacolo il di‑
sposto dell’art, 34 dei d.lgs. n. 80 del 1998, come sostituito
dall’art. 7 della L. n. 205 del 2000, là dove devolve al giudice
amministrativo le controversie in materia di urbanistica ed
edilizia giacché, a seguito dell’intervento parzialmente cadu‑
catorio recato dalla sentenza n. 204 del 2004 della Corte
costituzionale, nell’attuale assetto ordinamentale, la giuri‑
sdizione esclusiva, nella predetta materia, non è estensibile
alle controversie nelle quali la P.A. non eserciti alcun potere
autoritativo finalizzato al perseguimento degli interessi pub‑
blici alla cui tutela sia preposta (Cass., Sez. un., n. 5926/11
e 12792/10). Pertanto in tema di risarcimento dei danni de‑
rivanti dalla violazione del principio del neminem ledere per
la cattiva esecuzione di lavori, sia pure aventi finalità pub‑
blicistica e sia pure attinenti al trasporto pubblico, deve af‑
fermarsi la giurisdizione del Giudice Ordinario.
2. Laddove vengano prospettate una carenza assoluta di
informazione per mancata convocazione del socio, ed una
2.Sussiste la legittimazione del conduttore ad agire per il
risarcimento dei danni, oltre che per quelli da lucro cessante,
civile
Gazzetta
56
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
anche per il danno emergente derivato ai locali condotti in
locazione; in quanto, l’art. 1585 c.c., comma 2, da un lato
esclude che il locatore sia tenuto a garantire il conduttore
dalle molestie di fatto di terzi, dall’altro fa salva al condutto‑
re la facoltà di agire contro i terzi in nome proprio. Conse‑
guentemente se è vero che la suddetta norma non impedisce
al proprietario locatore di agire in proprio per ottenere il
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
risarcimento dei danni eventualmente subiti a causa delle
molestie di fatto (Cass., 7.2.2006, n. 2530) è anche vero che
anche il locatore gode di un’autonoma legittimazione per
proporre l’azione di responsabilità nei confronti dell’autore
del danno (cfr. Cass. 1693/10).
Trib. Napoli, Sez. X, sent. 01 giugno 2012
Giud. Gargia
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
In evidenza
Tribunale di Napoli,
sez. VIII civile, sentenza 07 giugno 2012, n. 6891
Giud. Graziano
Danni da emotrasfusione di sangue infetto – Legittimazione
passiva del Ministero della Salute – Titolarità e responsabilità del
dicastero – Compensatio lucri cum damno – Profili di incongruità
Il Ministero della Salute ha un obbligo di controllo, di‑
rettive e vigilanza in materia di sangue umano, strumentale
alla funzione di programmazione e coordinamento in mate‑
ria sanitaria, al quale corrisponde un dovere aggravato di
diligenza nell’impiego delle cure ed attenzioni necessarie
Nota redazionale a cura di Raffaele Micillo
La sentenza in commento pone diversi spunti di riflessione. In primo luogo la
legittimazione passiva, nonché la titolarità giuridica del Ministero della Salute che
assorbe in sé anche la responsabilità dello stesso nelle ipotesi di trasfusione di sangue
infetto.
Il Giudice – correttamente – ripercorre le tappe e gli interventi normativi che
hanno portato la giurisprudenza di legittimità e di merito a ritenere il Ministero
della Salute responsabile per la somministrazione di sangue infetto (in argomento,
Tribunale di Napoli, sex. XI, sentenza 25 luglio 2011. n. 9314 in Gazzetta Forense,
n. 1/2012 (gennaio febbraio), con nota redazionale a cura di Gaetano Scuotto).
La responsabilità del Ministero è risalente al 1970, ovvero da quando si poteva
conoscere della virus B. Con la sentenza 581/08 la Suprema Corte a Sezioni Unite
ritenendo che “in base alla normativa vigente quando si sono verificati i fatti, sull’am‑
ministrazione sanitaria gravavano obblighi di vigilanza in materia di sangue umano
e che all’epoca risultava oggettivamente nota ai più alti livelli scientifici la possibile
veicolazione di virus attraverso sangue infetto, può ritenersi, in assenza di fattori
alternativi, che l’omissione delle attività doverose sia stata causa dell’insorgenza
della patologia da Hbv, Hcv o Hiv nei soggetti emotrasfusi o assuntori di emoderi‑
vati, già a partire dalla data di conoscenza dell’Hbv, in quanto relativamente agli
altri due virus non si configurano eventi autonomi e diversi, bensì solo forme di
manifestazione patogene del medesimo evento lesivo dell’integrità fisica” ha di fatto
collocato alla data del 1970 la possibilità di “evitare” la trasmissione del virus.
L’individuazione del virus B (HBV), infatti, iniziò nel 1963 ad opera di Baruch
S. Blumberg (institute for Cancer Research di Filadelfia) i cui studi portarono all’in‑
dividuazione del cosiddetto “Antigene Australia” in seguito identificato con l’anti‑
gene virale di superficie HBsAB. Nel 1970 D.S. Dane (Middlesex Hospital Medical
School di Londra) individuò un’ulteriore componente virale presente nel siero dei
soggetti affetti da epatite B. Nel 1971 gli studi di June D. Almeida e dei suoi colla‑
boratori (Wellcome Research Laboratories, Inghilterra) portarono alla scoperta di
antigeni presenti all’interno delle cellule epatiche di soggetti affetti da epatiti B; tali
antigeni, denominati in seguito HBCAG (antigene del “core” virale), reagivano con
anticorpi presenti nel sangue degli stessi soggetti. Tali antigeni, ed i relativi comples‑
si antigene‑anticorpo, vennero descritti negli anni successivi da altri autori in nume‑
rosi studi antecedenti al 1978. Va infine rilevato che già negli anni sessanta ed
all’inizio degli anni settanta era noto che alle due forme classiche di epatite A e B
andava affiancata una entità indicata come “Epatite non A – non B”. Tale forma è
attualmente riconosciuta come Epatite C (HCV) e presenta caratteristiche comuni
con la epatite B: modalità di trasmissione, possibile tendenza alla cronicizzazione,
possibile evoluzione in cirrosi epatica, correlabilità con il carcinoma epatocellulare
(HCC). Nel tentativo di arginare la diffusione dell’epatite virale a mezzo emotra‑
sfusioni e/o somministrazione di emoderivati, il Ministro della Salute (all’epoca
Sanità) emanò una Circolare diretta ai medici Provinciali (n. 50 del 28/03/1966) con
la quale si consigliava il dosaggio delle transaminasi sul sangue dei donatori. Già
nel 1971 la comunità scientifica disponeva di test di individuazione degli antigeni
correlati al virus HBV. In particolare, la Abbot Diagnostics introdusse sul mercato
internazionale (1971) un primo test commerciale denominato Aus‑tect, basato su
metodo di diffusione in gel di agar; seguirono, nel 1972, un secondo kit diagnostico
denominato Ausria‑125, test radioimmunologico di prima generazione rivolto al
riconoscimento dell’antigene di superficie HBsAG, ed un ulteriore test radioimmu‑
nologico di seconda generazione, nel 1974, denominato Ausria II, ai quali furono
affiancati un test non radioimmunologico denominato Auscell e, nel 1979, l’Auszy‑
me, un test EIA (immunoenzimatico).
L’art. 46 del D.P.R. n. 1256 del 1971 testualmente recita: “Non può essere
accettato come donatore o datore chi, sottoposti a visita medica generale, risulti che:
a) sia o sia stato affetto da: epatite virale, lues, coronopatie, neoplasie maligne,
malattie allergiche, tendenza alle emorragie, episodi epilettici e convulsivi; b) sia
affetto dal malattie croniche: cardiovascolari, renali, epatiche, del sangue; c) sia o
2 0 1 2
57
alla verifica della sua sicurezza. Ciò espone, pertanto, il
predetto Ministero a responsabilità extracontrattuale, qua‑
lora dall’omissione di tale dovere di vigilanza derivino vio‑
lazioni dei diritti soggettivi di terzi.
Trib. Napoli, sez. VIII, sent. 07 giugno 2012, n. 6891
Giud. Graziano
(Omissis)
Motivi della decisione
Come evidenziato nel verbale di udienza che precede, la
presente decisione viene adottata ai sensi dell’art. 281‑sexies
del Codice di Procedura Civile e, dunque, prescindendo dal‑
le indicazioni contenute nell’art. 132 stesso Codice (cfr., in
tal senso, Cass. 19 ottobre 2006, n. 22409, la quale, al ri‑
sia stato affetto da: malattie tubercolari, reumatiche, alcolismo, intossicazione da
droghe, ulcera gastroduodenale o altre malattie che, a giudizio del medico, controin‑
dichino la donazione di sangue (ad esempio empatie congenite, esposizione ad
agenti chimici o fisici che possono essere causa di anemia)”. L’art. 47 del richiama‑
to D.P.R. afferma che “non possono essere temporaneamente accettati come dona‑
tori o datori: a) gli affetti di brucellosi se non clinicamente guariti da almeno due
anni; b) gli affetti da malaria se non clinicamente guariti da almeno sei mesi; c) le
donne in stato di gravidanza e per un anno dopo il parto; d) gli affetti da malattie
acute, comprese le malattie veneree; e) i convalescenti; f) coloro che abbiano subito
interventi chirurgici negli ultimi sei mesi, a meno che non si tratti di interventi di
lieve entità; g) coloro che negli ultimi sei mesi abbiano ricevuto una trasfusione di
sangue, plasma, fibrogeno o altri derivati che possono trasmettere l’epatite; h) co‑
loro che negli ultimi sei mesi abbiano avuto contatti con epatici; i) coloro che de‑
nuncino foci infettivi attivi o che presentino piaghe, lesioni non cicatrizzate da
estrazioni dentarie o processi suppurativi in atto; l) coloro che siano stati vaccinati
da meno di un anno contro la rabbia, da meno di due mesi contro il vaiolo o la
febbre gialla, da meno di due settimane contro la poliomielite, l’influenza, il mor‑
billo, il tifo, il colera, il tetano, la difterite; m) coloro che abbiano ricevuto sieri
animali terapeutici da meno di un mese; n) coloro che siano diminuiti di peso
nell’ultimo anno senza giustificato motivo”. Tanto basta a delineare, incontrover‑
tibilmente, che il Ministero della Salute sin dal 1971, se solo si fosse comportato
diligentemente, era in grado di evitare il diffondersi ed il dilagare del virus C. Tutte
le successive leggi e regolamenti in materia non possono che rafforzare quanto con
il D.P.R. 1256 del 1971 affermato e ricondotto, in tema di responsabilità, a carico
del Ministero, con particolare riferimento alla lettera b) art. 46 e lettera g) art. 47.
L’unico mezzo per prevenire la trasmissione delle infezioni virali conosciute sin
dal 1966, era rappresentato dall’esclusione dei soggetti a rischio nelle donazioni
(accurata anamnesi, individuazione dei comportamenti a rischio, infezioni recenti,
come previsto dal D.P.R. 1256 del 1971, art. 46, comma b ed art. 47, comma g ed
h) dal dosaggio delle transaminasi del donatore (Circolare del Ministero della Sanità
n. 50 del 28/03/1966), dalla ricerca sierologia degli antigeni e dei relativi anticorpi.
Non condivisibile appare l’operata compensatio lucri cum damno tra le som‑
me ricevute dalla danneggiata a titolo di indennizzo ex L. 210/92 e quelle a titolo
di risarcimento.
Il criterio secondo cui, accertato l’evento, il danno può essere risarcito una sola
volta, non è adattabile alla fattispecie concreta in ragione della diversa natura dei
pagamenti: l’uno di carattere assistenziale (indennizzo 210/92), l’altro risarcitorio, a
maggior ragione se l’accertato nesso causale che ha portato alla concessione dell’in‑
dennizzo non è ritenuto valido per il risarcimento del danno. Di converso saremmo
tenuti a ritenere che il presupposto giuridico e fattuale per la concessione dell’inden‑
nizzo non sia utile ai fini risarcitori, differentemente da quello economico che appa‑
re come una sorta di anticipazione della più consistente somma risarcitoria.
“Dall’importo del risarcimento spettante alla persona danneggiata per aver
contratto un’epatite C, a seguito dell’assunzione di emoderivati infetti, non vanno
scomputate le somme che la stessa percepisce a titolo di indennizzo, qualora tali
somme siano irrisorie in relazione alle prevedibili cure farmacologiche (e verosimil‑
mente anche chirurgiche) imposte dalla gravissima patologia”. (App. Catania,
04/11/2008‑Foro It., 2009, 1, 1, 250)”.
L’indennizzo di cui alla legge 210 del 1992, costituendo una misura economi‑
ca di sostegno aggiuntiva a carico della collettività a favore di coloro che, in adem‑
pimento di un obbligo di legge o spinti al trattamento nell’ambito di una politica
sanitaria pubblica incentivante, abbiano risentito di un danno alla propria salute,
non può essere considerato una duplicazione del danno risarcibile al medesimo
beneficiario a seguito di un giudizio fondato sull’accertamento della colpa, da
scomputarsi dall’importo dei danni liquidabili in esito a tale giudizio. (Trib. Roma,
26/09/2003‑Foro It., 2004, 2900‑Ragiusan, 2005, 253‑254, 399).
civile
Gazzetta
58
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
guardo, ha avuto modo di chiarire come, essendo l’art. 281‑se‑
xies cod. proc. civ. norma di accelerazione ai fini della pro‑
duzione della sentenza, esso consenta al giudice di pronun‑
ciare quest’ultima in udienza, al termine della discussione,
dando lettura del dispositivo e delle ragioni di fatto e di di‑
ritto della decisione, senza dover premettere le indicazioni
richieste dal comma secondo dell’art. 132 cod. proc. civ.
perché esse si ricavano dal verbale dell’udienza di discussione
sottoscritto dal giudice stesso, sottolineando altresì come non
sia, pertanto, affetta da nullità la sentenza, resa nella forma
predetta, che non contenga le indicazioni riguardanti il giu‑
dice e le parti, le eventuali conclusioni del Pubblico Ministe‑
ro e dei difensori, nonché la concisa esposizione dei fatti e,
dunque, dello svolgimento del processo).
L’attrice sig.ra*** ha convenuto in giudizio il MINISTE‑
RO DELLA SALUTE chiedendo che ne venisse accertata la
responsabilità ex art. 2043 cod. civ., in combinato disposto
con gli artt. 28 e 32 Cost., per avere cagionato la contrazione
del virus HCV e le ulteriori conseguenze dannose (in parti‑
colare, epatite cronica HCV correlata) derivate dalla sua
sottoposizione ad una trasfusione di sangue a cui era stata
sottoposta nel corso del ricovero presso il Presidio Ospeda‑
liero “Loreto Crispi” in Napoli, e che la predetta Pubblica
Amministrazione statale venisse condannata al risarcimento
di tutti i danni subiti (biologico, da compromissione della
vita di relazione ed esistenziale, morale), nella misura da
accertarsi in corso di causa.
Il convenuto MINISTERO DELLA SALUTE ha eccepito
il proprio difetto di legittimazione passiva e di titolarità del
rapporto controverso ed ha contestato, nel merito, la fonda‑
tezza della pretesa attorea, deducendo che, al momento del
fatto lesivo, l’esistenza della malattia non era ancora nota alla
comunità scientifica, e la carenza del nesso causale e del pre‑
giudizio fatto valere. Ha anche sostenuto la non cumulabilità
dell’indennizzo previsto dalla legge 25 febbraio 1992, n. 210,
riconosciuto all’attrice, con il risarcimento del danno.
In merito alle eccezioni di carenza di legittimazione pas‑
siva e di titolarità del rapporto controverso, sollevata dal
Ministero convenuto, si osserva quanto segue.
In particolare, con riguardo alla legittimazione ad agire
o a contraddire in giudizio (legittimazione attiva o passiva),
giova evidenziare che essa si ricollega al principio dettato
dall’art. 81 cod. proc. civ. (secondo cui nessuno può far vale‑
re nel processo un diritto altrui in nome proprio fuori dei
casi espressamente previsti dalla legge) e deve intendersi qua‑
le diritto potestativo di ottenere una pronunzia sul merito
della domanda giudiziale.
La legittimazione attiva e passiva integra, com’è noto, una
condizione dell’azione e, pertanto, la verifica della sua sussi‑
stenza deve essere effettuata sulla base dei soli fatti esposti
dall’attore nell’atto introduttivo. Il giudice, cioè, deve accer‑
tare se, secondo la soia prospettazione fatta nella domanda
giudiziale, l’attore e il convenuto possano, in relazione alla
disciplina prevista per il rapporto giuridico controverso, ri‑
spettivamente assumere la veste di soggetto dotato del potere
di chiedere la pronunzia e di quello che deve subirla. Al ri‑
guardo, la giurisprudenza di legittimità ha precisato che, in
materia di procedimento civile, il giudizio sulla legittimazio‑
ne passiva (che attiene alla coincidenza tra il soggetto contro
cui un diritto è fatto valere ed il soggetto che tale diritto è
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
tenuto ad osservare, secondo la prospettazione dei fatti offer‑
ta dall’attore e la norma di legge cui gli stessi vanno sussulti)
è condotto sulla base della stessa norma di diritto che va
applicata per la decisione del merito della causa, assumendo
come veri i fatti esposti dall’attore (cfr., in tal senso, Cass. civ.,
sez. III, 17 luglio 2002, n. 10388).
Di conseguenza, non attiene alla “legitimatio ad causam”,
ma al merito della lite, la questione relativa alla titolarità,
attiva e passiva, del rapporto sostanziale dedotto in giudizio,
risolvendosi nell’accertamento di una situazione di fatto fa‑
vorevole all’accoglimento o al rigetto della pretesa azionata.
[cfr., all’uopo, Cass. civ., sez. III, 28 ottobre 2002, n. 15177
secondo cui “È configurarle una questione relativa alfa legit‑
timazione attiva (il cui riscontro costituisce una condizione
dell’azione e va fatto sulla base della sola prospettazione
attorea) quante volte l’attore faccia valere in nome proprio
un diritto altrui, ovvero pretenda una pronuncia nei con‑
fronti di una parte estranea al rapporto sostanziale contro‑
verso. Quando, invece, le parti controvertano sulla effettiva
titolarità in capo all’attore della situazione dedotta in giudi‑
zio, la relativa questione attiene non alla legitimatio ad
causam, ma al merito della controversia”].
Ciò posto, nel caso in esame, l’attrice sig.ra *** sostiene
di agire in giudizio, esercitando in nome proprio un proprio
diritto e pretendendo una pronuncia nei confronti della con‑
venuta Pubblica Amministrazione statale che viene ritenuta
il soggetto passivo del rapporto giuridico dedotto in lite, per
aver violato il principio del “neminem laedere”, omettendo
di osservare i propri doveri istituzionali di sorveglianza e
vigilanza in materia sanitaria.
Appare, dunque, necessario esaminare la normativa che
regolava l’attività del Ministero all’epoca dei fatti in tema di
emotrasfusione e di emoderivati, al fine di verificare se la
Pubblica Amministrazione convenuta, in relazione alla disci‑
plina prevista per il rapporto controverso, possa assumere la
veste di soggetto passivo della pronunzia giurisdizionale ri‑
chiesta.
In primo luogo, deve osservarsi che l’art. 1 della legge
n. 296 del 1958 attribuisce al MINISTERO DELLA SALUTE
“il compito di provvedere alla tutela della salute pubblica”,
di “sovrintendere ai servizi sanitari svolti dalle amministra‑
zioni autonome dello Stato e dagli enti pubblici, provveden‑
do anche al coordinamento‑; emanare, per la tutela della
salute pubblica, istruzioni obbligatorie per tutte le ammini‑
strazioni pubbliche che provvedono a servizi sanitari…”.
Tali doveri sono confermati da altre fonti normative.
In particolare, la legge n. 592 del 1967 attribuisce al
Ministero il compito di emanare le direttive tecniche per la
organizzazione, il funzionamento ed il coordinamento dei
servizi inerenti alla raccolta, preparazione, conservazione e
distribuzione del sangue umano per uso trasfusionale nonché
alla preparazione dei suoi derivati e ne esercita fa vigilanza
(art. 1), di nominare la commissione provinciale per la disci‑
plina dei servizi di trasfusione (art. 3), di autorizzare il fun‑
zionamento dei centri (regionali o infraregionali) di produ‑
zione degli emoderivati e fa stessa produzione e distribuzione
degli emoderivati (artt. 4‑7), di autorizzare le “officine far‑
maceutiche” (cfr. l’art. 13 che richiama il r.d. 27 luglio 1933,
n. 1265, il cui art. 161 significativamente attribuiva al Mini‑
stero dell’interno penetranti poteri ispettivi nelle officine; cfr.,
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
ancora, l’art. 24 del r.d. 3 marzo 1927, n. 478; l’art. 22, com‑
ma 2, l. n. 592/1967 autorizza l’autorità sanitaria a disporre
la chiusura del centro, del laboratorio o dell’officina autoriz‑
zati), di approvare la nomina del dirigente medico‑chirurgo
dei centri trasfusionali e di produzione di emoderivati
(art. 11), di proporre al Presidente della Repubblica l’emana‑
zione di norme relative all’organizzazione, al funzionamento
dei servizi trasfusionali, alla raccolta, conservazione ed
all’impiego dei derivati, alla determinazione dei requisiti e dei
controlli cui debbono essere sottoposti (art. 20), di autoriz‑
zare l’importazione e l’esportazione del sangue umano e dei
suoi derivati per uso terapeutico (art. 21).
Il D.P.R. n. 1256 del 1971 (regolamento di attuazione
della legge n. 592/1967) contiene norme di dettaglio che
confermano nel Ministero la funzione di controllo e vigilan‑
za in materia (cfr. artt. 2, 3, 103,112).
Il D.M. sanità del 17 febbraio 1972 contiene norme che
regolano l’attività del Centro nazionale per la trasfusione del
sangue, prevedendo tra l’altro che il Ministero della Sanità
sia costantemente informato delle attività del Centro. Il suc‑
cessivo D. M. sanità del 15 settembre 1972 disciplina, poi,
l’importazione ed esportazione dei sangue e suoi derivati.
La legge n. 519 del 1973 attribuisce all’Istituto superiore
di sanità compiti attivi a tutela della salute pubblica.
La legge n. 833 del 1978, istitutiva del Servizio Sanitario
Nazionale, pur dopo l’inizio del passaggio alle regioni di al‑
cune funzioni statali in materia sanitaria ai sensi dell’art. 117
Cost., conserva al Ministero della sanità (ora MINISTERO
DELLA SALUTE) un ruolo primario nella programmazione
del piano sanitario nazionale (art. 53 ss.), con compiti di in‑
dirizzo e coordinamento delle attività amministrative regio‑
nali delegate in materia sanitaria, nonché con importanti
funzioni in materia di produzione, sperimentazione e com‑
mercio dei prodotti farmaceutici e degli emoderivati [cfr.
l’art. 6, lett. b) ed e); cfr., altresì l’art. 4, n. 6), che conferma
che la raccolta, il frazionamento e la distribuzione del sangue
umano costituiscono materia di interesse nazionale].
Il D.L. n. 443 del 1987 (convertito nella L. n. 531 del
1987), stabilisce la sottoposizione dei medicinali alla cd.
“farmacovigilanza” da parte del Ministero della sanità, il
quale si avvale dell’Istituto superiore di sanità e delle stesse
unità sanitarie locali (art. 9, commi 1 e 6), che hanno un
obbligo dì informazione nei confronti del Ministero che, a
sua volta, può stabilire le modalità di esecuzione dei monito‑
raggi sui farmaci a rischio ed emettere provvedimenti caute‑
lativi riguardanti i prodotti in commercio (commi 2, 7 e 8).
La legge n. 107 del 1990 (contenente la disciplina per le
attività trasfusionali e la produzione di emoderivati) stabilisce
che il prezzo dì cessione delle unità di sangue è fissato annual‑
mente dal Ministero della sanità (art. 1, comma 6), il quale
(sentita la Commissione nazionale per il servizio trasfusiona‑
le che è nominata dallo stesso Ministero: cfr. l’art. 12) emet‑
te protocolli riguardanti le modalità delle donazioni, l’accer‑
tamento dell’idoneità dei donatori, l’organizzazione delle
attività [mediante strutture sia nazionali che regionali coor‑
dinate dal Ministero: cfr. l’art. 8, comma 2, lett. e) ed h) e
comma 4]; all’Istituto superiore, inoltre, è attribuito il com‑
pito di provvedere alla prevenzione delle malattie trasmissi‑
bili, di ispezionare e controllare le aziende di produzione di
emoderivati e le specialità farmaceutiche emoderivate [cfr.
2 0 1 2
59
l’art. 9, lett. a), d), e); l’art. 10, chiarisce che le frazioni pla‑
smatiche che non possono essere prodotte con mezzi fisici
semplici sono specialità farmaceutiche di produzione indu‑
striale soggette ai controlli dell’autorità sanitaria “da esple‑
tarsi sugli impiantì produttivi delle aziende previamente
autorizzate, sul plasma di origine e sulla produzione finale”],
di vigilare sulla qualità dei plasmaderivati prodotti in centri
individuati ed autorizzati dal Ministero (art. 10, comma 2);
l’art. 15 stabilisce che l’importazione del sangue umano con‑
servato e quella dei suoi derivati sono autorizzate dal Mini‑
stero della sanità; che l’importazione di emoderivati pronti
per l’impiego è consentita a condizione che (fatta eccezione
per quelli di provenienza da paesi europei) risultino autoriz‑
zati anche da parte dell’autorità sanitaria italiana e, comun‑
que, “a condizione che su tutti i lotti e sui relativi donatori
sia possibile documentare la negatività dei controlli per la
ricerca di antigeni ed anticorpi di agenti infettivi lesivi della
salute del paziente ricevente”; l’art. 17 prevede sanzioni pe‑
nali nei confronti delle persone e delle strutture trasfusionali
che violino le norme in materia (cfr. art. 11 D. Lgs. 18 feb‑
braio 1997, n. 44); il Ministero della sanità deve presentare
annualmente al Parlamento una relazione sullo stato di at‑
tuazione della legge (art. 22).
Il d.lgs. n. 178 del 1991 disciplina, tra l’altro, le modalità
di rilascio e revoca dell’autorizzazione ministeriale alla pro‑
duzione, importazione ed immissione in commercio delle
specialità medicinali, con incisivi poteri ispettivi e di vigilan‑
za del Ministero (cfr. gli artt. 3, 7, 14).
In tempi recenti, poi, il d.lgs. n. 266 del 1993 ha conser‑
vato al Ministero della sanità (ora MINISTERO DELLA
SALUTE) compiti in materia di sanità pubblica e “vigilanza”
sulle specialità medicinali [art. 1, lettera e)]. L’art. 4 del rego‑
lamento di attuazione approvato con D.P.R. 2 febbraio 1994,
n. 196, modificato dal D. P. R. 1o agosto 1996, n. 518, indi‑
vidua nel dipartimento del Ministero per la valutazione dei
medicinali e la farmacovigilanza quello al quale è attribuito
il compito attinente ai farmaci con particolare riguardo alla
vigilanza sulla conformità delle specialità medicinali alle
norme nazionali e comunitarie; prevede che il suddetto dipar‑
timento si avvale per questo compito delle regioni, unità sa‑
nitarie locali, aziende ospedaliere ecc., oltre che di un servizio
dì vigilanza sugli enti, tra cui la Croce rossa italiana; in base
al nuovo ordinamento delineato dal D.Lgs. 30 giugno 1993,
n. 267, l’Istituto superiore di sanità svolge funzioni di con‑
trollo (ad esempio, sui farmaci e vaccini, provvede all’accer‑
tamento dell’innocuità dei prodotti farmaceutici ecc. e si è
detto che gli emoderivati sono specialità medicinali), oltre che
di ricerca e sperimentazione per quanto concerne la salute
pubblica; il d.lgs. n. 44 del 1997 già menzionato stabilisce,
tra l’altro, che il sistema nazionale della farmacovigilanza fa
capo al Ministero della sanità (art. 2); il D.Lgs. 27 dicembre
1997, n. 449, ribadisce il compito di vigilanza del Ministero
sull’attuazione del Piano sanitario nazionale e sull’attività
gestionale delle aziende unità sanitarie locali ed ospedaliere
(art. 32, comma 11); il D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 112, che ha
operato il conferimento alle Regioni della generalità delle
attribuzioni statali in materia di salute umana, ha lasciato
invariato il riparto di competenze in materia dì sangue uma‑
no e suoi componenti, di produzione di plasmaderivati e
farmacovigilanza (artt. 115 e 116).
civile
Gazzetta
60
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
Ne risulta, in conclusione, un quadro normativo, piuttosto
articolato e composito, secondo cui è ben possibile affermare
che, anche dopo il trasferimento di competenze in materia
sanitaria alle Regioni e dopo l’istituzione del Servizio Sani‑
tario Nazionale, il Ministero della Sanità (oggi MINISTERO
DELLA SALUTE) ha mantenuto una posizione preminente
nell’organizzazione del sistema della raccolta, conservazione
e distribuzione del sangue e nella produzione e commercia‑
lizzazione degli emoderivati, essendo tenuto ‑ in ragione
delle competenze normative ed amministrative espressamen‑
te attribuite dalla legge ‑ ad emanare tutte le prescrizioni
tecniche necessarie ad impedire la diffusione o trasmissione
di patologie (nella specie virali) collegate all’utilizzo, in me‑
dicina, del sangue umano e dei suoi derivati e specificamente
al servizio trasfusionale effettuato in sede ospedaliera, nonché
ad organizzare ed eseguire la vigilanza (anche periodica o a
campione) ed i necessari controlli sulla corretta e regolare
applicazione delle metodiche da parte degli operatori sanita‑
ri e dei Centri trasfusionali.
È, a questo punto, da ritenere, pertanto, che sussistano,
nella materia, obblighi comportamentali connessi alle fun‑
zioni pubbliche assegnate al solo convenuto MINISTERO
DELLA SALUTE.
Ed invero, come sottolineato dalla giurisprudenza di le‑
gittimità, anche prima dell’entrata in vigore della L. n. 107
del 1990, la legislazione vigente prevedeva in capo al Mini‑
stero della Sanità un obbligo di controllo, direttive e vigilan‑
za in materia di sangue umano, strumentale alla funzione di
programmazione e coordinamento in materia sanitaria, al
quale corrisponde un dovere aggravato di diligenza nell’im‑
piego delle cure ed attenzioni necessarie alla verifica della sua
sicurezza (cfr., all’uopo, Cass. civ., sez. un., 11 gennaio 2008,
n. 581).
Ciò espone, pertanto, il predetto Ministero a responsabi‑
lità extracontrattuale, qualora dall’omissione di tale dovere
di vigilanza derivino violazioni dei diritti soggettivi di terzi.
Ebbene, in tale situazione non appaiono sussistenti que‑
stioni relative alla “legitimatio ad causam”. Infatti, l’attrice
ed il convenuto MINISTERO DELLA SALUTE, sulla base
della prospettazione attorea ed in relazione alla disciplina
prevista per il rapporto controverso, possono assumere rispet‑
tivamente la veste di soggetto dotato del potere di chiedere la
pronunzia e di quello che deve subirla.
Riconosciuta, dunque, la legittimazione passiva del con‑
venuto MINISTERO DELLA SALUTE, deve altresì ritenersi
infondata, alla stregua di tutte le considerazioni sopra svilup‑
pate, anche la seconda eccezione preliminare sollevata dal
predetto, con riguardo alla titolarità passiva del rapporto
giuridico controverso.
Piene e incontestabili sono, pertanto, la legittimazione
passiva e la titolarità del rapporto controverso, dal lato pas‑
sivo (valutata in astratto), del convenuto MINISTERO DEL‑
LA SALUTE nel presente giudizio.
Prima di procedere alla valutazione della fondatezza del‑
la domanda giudiziale, è opportuno richiamare quanto recen‑
temente affermato dalle Sezioni Unite Civili della Suprema
Corte di Cassazione in riferimento agli ulteriori aspetti della
dibattuta questione relativa alla risarcibilità dei danni provo‑
cati dalle trasfusioni di sangue o dalle somministrazioni di
emoderivati.
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
La Corte di Cassazione ha affermato – in particolare
nella sentenza 581 del 2008 già sopra citata – che anche prima
dell’entrata in vigore della legge 4 maggio 1990, n. 107, con‑
cernente la disciplina per le attività trasfusionali e la produ‑
zione di emoderivati, sussisteva in materia, sulla base della
legislazione vigente (si richiama al riguardo quanto già sopra
chiarito), un obbligo di controllo, direttive e vigilanza in
materia del sangue umano da parte del Ministero della Sani‑
tà (ora MINISTERO DELLA SALUTE), anche strumentale
alla funzione di programmazione e coordinamento in materia
sanitaria. Ha, quindi, sostenuto che l’omissione da parte del
Ministero di attività funzionali allo scopo per il quale l’ordi‑
namento attribuisce il potere, lo espone a responsabilità ex‑
tracontrattuale quando dalla violazione del vincolo interno,
costituito dal dovere di vigilanza nell’interesse pubblico, siano
derivate violazioni dei diritti soggettivi dei terzi.
La menomazione della salute derivate da trattamenti sa‑
nitari può determinare sia il diritto al risarcimento pieno del
danno, ex art. 2043 cod. civ., in caso di comportamenti col‑
pevoli; sia il diritto ad un equo indennizzo (ex art. 32 Cost.,
in collegamento con l’art. 2), ove il danno, non derivante da
un fatto illecito sia conseguenza dell’adempimento di un
obbligo legale; sia, ancora, il diritto, ex artt. 38 e 2 Cost., a
misure di sostegno assistenziale disposte dal legislatore.
La disciplina apprestata dalla legge 25 febbraio 1992,
n. 210 opera, secondo la Suprema Corte, su un piano diverso
da quello in cui si colloca la tutela civilistica in tema di risar‑
cimento del danno, compreso quello biologico, sicché il dirit‑
to all’equo indennizzo di cui alla legge predetta e il diritto al
risarcimento del danno ex art. 2043 cod. civ. possono rite‑
nersi senz’altro concorrenti.
Con la coeva sentenza n. 584 dell’11 gennaio 2008, le
Sezioni Unite hanno quindi chiarito che l’indennizzo even‑
tualmente già corrisposto al danneggiato deve essere “inte‑
gralmente scomputato dalle somme liquidabili a titolo di
risarcimento del danno, posto che in caso contrario la vitti‑
ma si avvantaggerebbe di un ingiustificato arricchimento,
godendo, in relazione al fatto lesivo del medesimo interesse
tutelato di due diverse attribuzioni patrimoniali dovute
dallo stesso soggetto (il Ministero della Salute) ed aventi
causa dal medesimo fatto (trasfusione di sangue o sommini‑
strazione di emoderivati) cui direttamente si riferisce la re‑
sponsabilità del soggetto tenuto al pagamento.”.
L’eventuale e probabile percezione di una somma di de‑
naro a titolo di indennizzo ai sensi della legge 25 febbraio
1992, n. 210, pertanto, non incide sul diritto al risarcimento
di cui all’art. 2043 cod. civ., ma la somma percepita al primo
titolo dovrà essere scomputata da quella ritenuta dovuta per
il secondo titolo, anche nell’ipotesi in cui il pagamento sia
stato eseguito dalla Regione, tenuta a tale incombente in
ragione del trasferimento della relativa competenza dallo
Stato (MINISTERO DELLA SALUTE) alle Regioni. Il titolo
giustificativo dell’erogazione è infatti il medesimo.
In tema di individuazione delle regole alla stregua delle
quali deve valutarsi la sussistenza del nesso di causalità, le
Sezioni Unite (sempre con la sentenza 11 gennaio 2008,
n. 581), dopo avere ribadito che mentre nel processo penale
vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio” e nel
processo civile vige la regola della preponderanza dell’eviden‑
za o “del più probabile che non”, hanno enunciato il seguen‑
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
te principio, riferibile anche alla presente controversia:
“Premesso che sul Ministero gravava un obbligo di controllo,
direttiva e vigilanza in materia di impiego di sangue umano
per uso terapeutico (emotrasfusioni o preparazioni di emo‑
derivati) anche strumentale alle funzioni di programmazione
e coordinamento in materia sanitaria, affinché fosse utiliz‑
zato sangue non infetto e proveniente da donatori conformi
agli standards di esclusioni di rischi, il giudice, accertata
l’omissione di tali attività, accertata, altresì, con riferimento
all’epoca di produzione del preparato, la conoscenza ogget‑
tiva ai più alti livelli scientifici della possibile veicolazione di
virus attraverso sangue infetto ed accertata ‑ infine ‑ l’esi‑
stenza di una patologia da virus HIV o HBV o HCV in
soggetto emotrasfuso o assuntore di emoderivati, può rite‑
nere, in assenza di altri fattori alternativi, che tale omissione
sia stata causa dell’insorgenza della malattia, e che, per
converso, la condotta doverosa del Ministero, se fosse stata
tenuta, avrebbe impedito la verificazione dell’evento.”.
Con la medesima pronuncia, le Sezioni Unite Civili hanno
affermato che la responsabilità del Ministero sussiste dalla
data di conoscenza dell’epatite B ‑ da accertarsi da parte del
giudice del merito ‑ anche per il contagio dei virus HIV e
HCV, i quali non costituiscono eventi autonomi e diversi, ma
solo forme di manifestazioni patogene dello stesso evento
lesivo dell’integrità fisica da virus veicolati dal sangue infetto,
che il Ministero non aveva controllato, come pure era obbli‑
gato per legge.
Quanto, poi, all’accertamento dell’elemento psicologico
colposo, la sentenza già sopra menzionata ha affermato che,
ove sia accertato l’omesso controllo che il sangue utilizzato
per le trasfusioni o per gli emoderivati fosse esente da virus e
che i donatori non presentassero alterazioni delle transami‑
nasi, è integrato l’elemento della colpa, poiché si è in presen‑
za di un’ipotesi di violazione di un obbligo specifico.
La medesima sentenza ha poi affermato, in riferimento
all’obbligo di risarcimento del cd. danno morale, che: a) il
Ministero, quale soggetto tenuto a rispondere dell’operato
dell’autore del fatto che integri un’ipotesi di reato, può essere
destinatario dell’azione civile anche se l’autore rimanga igno‑
to, sempre che sia certa l’appartenenza di quest’ultimo ad una
cerchia di persone legate da un rapporto organico o di dipen‑
denza con il soggetto che deve rispondere di quel comporta‑
mento e che l’omissione dell’attività di farmacosorveglianza,
una volta accertata, non poteva essere addebitata che ad uno
o più funzionari preposti a tale attività, risultando indiffe‑
rente che quelli fossero rimasti ignoti; b) in base all’orienta‑
mento interpretativo dell’art. 2059 cod. civ., adottato con le
sentenze 31 maggio 2003, n. 8827 e 8828, ed oramai conso‑
lidato (anche a seguito di Cass. civ., sez. un., 11 novembre
2008, n. 26972, 26973, 26974 e 26975) ‑ il danno non patri‑
moniale conseguente all’ingiusta lesione di un interesse ine‑
rente alla persona, costituzionalmente garantito, non è sog‑
getto, ai fini della risarcibilità, al limite derivante dalla riser‑
va di legge correlata all’art. 185 cod. pen. e non presuppone,
pertanto, la qualificabilità del fatto illecito come reato, giac‑
ché il rinvio ai casi in cui la legge consente la riparazione del
danno non patrimoniale ben può essere riferito anche alle
previsioni della Costituzione in riferimento ai diritti inviola‑
bili inerenti alla persona non aventi natura economica, il cui
riconoscimento ne esige la tutela.
2 0 1 2
61
Passando alla valutazione della fondatezza nel merito
della domanda risarcitoria proposta dall’attrice sig.ra *****,
si osserva quanto segue.
Deve ritenersi accertato, in base a quanto emerge dai
documenti prodotti in giudizio e da quanto accertato a segui‑
to dell’espletata Consulenza Tecnica d’Ufficio: 1) che, in oc‑
casione del ricovero presso il Presidio Ospedaliero “Loreto
Crispi” in Napoli, in data 2 dicembre dell’anno 1987, l’attri‑
ce sig.ra ***** venne sottoposta a somministrazione di sacche
di sangue; 2) che, in data 5 novembre 1998, a carico della
predetta attrice, venne riscontrata la positività al virus
HCV.
Come evidenziato dal Consulente Tecnico d’Ufficio, nel
1987 non era stato ancora scoperto il virus HCV, sicché a quel
tempo le uniche prescrizioni da assolvere nella raccolta del
sangue trasfusionale erano costituite dalla ricerca delle tran‑
saminasi. Sulla base di tale riflessione, può trarsi la conclu‑
sione che ‑ se il convenuto MINISTERO DELLA SALUTE
non avesse ritardato l’adozione di provvedimenti che avreb‑
bero potuto limitare il contagio trasfusionale ‑ si sarebbe ot‑
tenuta una significativa riduzione del rischio dell’epatite C.
Come affermato da precedenti pronunce della giurispru‑
denza di merito (cfr., in tal senso, Tribunale di Roma, sez. II
civile, 19 gennaio 2010, n. 1195), benché già nel 1974 fosse
stata proposta l’introduzione della determinazione sui dona‑
tori della transaminasi ALT ‑ alanina transaminasi, enzima
noto per essere al di sopra della media e, quindi, alterato nei
soggetti con patologie epatiche, che poteva rivelare la presen‑
za di virus non ancora conosciuti e cioè non ancora noti dal
punto di vista della caratterizzazione molecolare (come l’HIV
e l’HCV) ‑ al fine di escludere dalla donazione coloro i cui
valori erano alterati, il metodo fu introdotto solo nel 1990.
Del resto, il convenuto MINISTERO DELLA SALUTE
‑ su cui gravava il relativo onere anche in ragione del principio
della cd. “vicinanza della prova” ‑ non ha allegato né, “a
fortiori”, ha dimostrato l’avvenuta esecuzione, sui donatori
della sacche di sangue che furono somministrate all’attrice
sig.ra ***, degli esami valevoli a determinare il livello della
suddetta transaminasi e, dunque, nemmeno ha fornito alcuna
dimostrazione circa il fatto che il predetto livello non presen‑
tasse alterazioni quali quelle sopra indicate.
Da quanto sopra esposto e dagli ulteriori rilievi formula‑
ti al riguardo dal Consulente Tecnico d’Ufficio nella relazio‑
ne depositata in Cancelleria in data 24 gennaio 2012, discen‑
de che ‑ alla stregua dei criteri formulati dalle Sezioni Unite
Civili della Suprema Corte di Cassazione (nelle pronunce già
sopra ampiamente richiamate) e, in particolare, della regola
probatoria della preponderanza dell’evidenza o “del più pro‑
babile che non” ‑ deve ritenersi provata la sussistenza del
nesso di causalità tra le trasfusioni a cui era stata sottoposta
l’attrice sig.ra *** e l’insorgenza dell’epatite da HCV.
A tale conclusione deve giungersi in considerazione dei
seguenti elementi: 1) la documentata sottoposizione dell’at‑
trice a trasfusioni di sangue intero nel corso del ricovero del
1987; 2) la probabilità che il virus sia stato contratto a causa
di tale fattore rispetto alla possibilità che la contrazione sia
dipesa da altri fattori di rischio generico legati alla perma‑
nenza presso la struttura ospedaliera (ospedalizzazione,
medicazioni, siringhe e materiale non monouso), non emer‑
gendo elementi da cui desumere l’inadeguatezza in concreto
civile
Gazzetta
62
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
dei processi di sterilizzazione o il mancato ricorso a materia‑
li monouso; a tale riguardo si evidenzia che la Pubblica Am‑
ministrazione statale convenuta – su cui gravava il relativo
onere – non ha fornito alcuna prova dell’inadeguatezza di
tali pratiche; 3) l’assenza di ulteriori fattori di rischio tra la
data della trasfusione e quella della diagnosi della patologia;
4) gli esiti della valutazione della Commissione Medica Ospe‑
daliera di Caserta.
Inoltre, le negligenze ascrivibili all’amministrazione con‑
venuta sono state evidenziate anche dalla giurisprudenza di
merito in tale materia (cfr. ancora, da ultima, Tribunale di
Roma, sez. II civ., 19 gennaio 2010, n. 1195), con cui è stata
imputata all’amministrazione l’omissione di controlli sui
pool plasmatici e, in particolare, sull’attuazione delle racco‑
mandazioni per la preparazione dei prodotti antiemofiliaci,
sull’idoneità dei donatori del sangue secondo le tecniche nel
tempo note (v., tra le altre, le prescrizioni contenute negli
artt. 65 ss. del D.M. 18 giugno 1971 e 44 ss. del D.P.R.
n. 1256/1971) al fine di evitare i rischi di trasmissione di virus
conosciuti (come l’epatite). Tali omissioni espongono il Mini‑
stero convenuto a responsabilità rispetto alla diffusione di
virus diversi e solo successivamente conosciuti nella loro ca‑
ratterizzazione molecolare, poiché il rischio della loro con‑
trazione avrebbe potuto essere, quantomeno, ridotto.
In tale contesto, peraltro, assume rilievo anche la tardiva
attuazione del “piano sangue” che, previsto già dalla legge
n. 592 del 1967 ed attuato solo nel 1994, avrebbe potuto
contribuire a realizzare l’obiettivo tendenziale dell’autosuffi‑
cienza nazionale del sangue intero e plasmaderivati di cui era
ed è nota l’importanza al fine di prevenire o ridurre i rischi
cagionati da incontrollate importazioni dall’estero, nonché la
tardiva emanazione di disposizioni legislative per la sicurezza
del sangue trasfuso, prevedendo l’obbligo di procedere alla
ricerca degli anticorpi HCV e ‑ per quanto rileva nel caso in
esame ‑ alla determinazione del livello delle ALT solo con
decreto del 21 luglio 1990.
In sostanza, anche prima dell’individuazione del metodo
di rilevazione del virus dell’epatite C o dell’introduzione di
efficaci sistemi per il suo annientamento, le conoscenze scien‑
tifiche raggiunte erano tali da imporre l’adozione di specifiche
cautele, sulla scelta dei donatori e sul sangue prelevato, capa‑
ci quantomeno di ridurre, in misura senz’altro apprezzabile,
il rischio di contagio da trasfusione (cfr., all’uopo, anche
Tribunale di Roma, 29 maggio 2002, n. 21835, nonché Tri‑
bunale di Roma, sez. II civ., 14 febbraio 2011, n. 2998).
Alla luce di tutte le considerazioni finora sviluppate, deve
concludersi nel senso di ritenere che, oltre al nesso di causa‑
lità, sia ravvisabile anche l’elemento psicologico della colpa
(nella specie della negligenza), nei termini chiariti dalla men‑
zionata giurisprudenza delle Sezioni Unite Civili della Supre‑
ma Corte di Cassazione. Pertanto, deve affermarsi la respon‑
sabilità del Ministero convenuto in riferimento al danno
sofferto dall’attrice sig.ra *** in conseguenza dell’insorgenza
della descritta patologia.
Nel procedere alla liquidazione del danno non patrimo‑
niale, deve aversi riguardo a quanto affermato dalle Sezioni
Unite della Corte di Cassazione con le recenti sentenze
n. 26972, 26973, 26974 e 26975 dell’11 novembre 2008 in
ordine all’unitarietà di tale categoria di danno, nella quale
devono comprendersi sia la sofferenza soggettiva morale in
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
sé considerata (il turbamento dell’animo, il dolore intimo
sofferti), sia il danno biologico, nel quale rientrano le dege‑
nerazioni patologiche della sofferenza. I pregiudizi di tipo
esistenziale, afferenti agli aspetti relazionali della vita, con‑
seguenti a lesioni dell’integrità psicofisica, possono costituire
soltanto “voci” del danno biologico nel suo aspetto dinamico,
altrimenti dandosi luogo a duplicazioni.
Le Sezioni unite hanno anche affermato che per liquidare
il danno biologico – “del quale ogni sofferenza, fisica o psi‑
chica, per sua natura intrinseca costituisce componente” ‑ il
giudice che si avvalga delle note tabelle dovrà “procedere ad
adeguata personalizzazione” della liquidazione, valutando
nella loro effettiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche
patite dal soggetto leso, e non dovrà invece attribuire con‑
giuntamente il danno biologico e il danno morale, liquidando
il secondo in percentuale del primo.
Hanno ancora affermato le Sezioni Unite che il danno non
patrimoniale costituisce danno conseguenza, che deve essere
allegato e provato.
Orbene, il Consulente Tecnico d’Ufficio ha descritto i
postumi permanenti residuati a carico dell’attrice sig.ra ***
in termini di “epatite cronica HCV correlata con viremia
presente, transaminasemia quasi nella norma, modica epa‑
tomegalia e splenomegalia”, quantificandoli nella misura del
20% (venti percento), ed indicando in trenta (30) giorni il
periodo di invalidità temporanea totale ed in ulteriori trenta
(30) giorni quello di invalidità temporanea parziale, al 50%
(cinquanta percento), connessi alle predette lesioni.
Ciò posto, trattandosi di lesioni non suscettibili di rien‑
trare nelle cosiddette micropermanenti, questo giudicante
ritiene applicabili, in via equitativa, i parametri di liquidazio‑
ne attualmente adottati dal Tribunale di Napoli, i quali, pe‑
raltro, com’è noto, sono mutuati dalle tabelle elaborate
presso il Tribunale di Milano con riguardo all’anno 2011.
Del resto, anche la giurisprudenza di legittimità ha recen‑
temente avuto modo di chiarire che “La liquidazione equita‑
tiva del danno non patrimoniale conseguente alla lesione
dell’integrità psico‑fisica deve essere effettuata da tutti i
giudici di merito, in base a parametri uniformi, che vanno
individuati (fatta eccezione per le lesioni di lieve entità cau‑
sate dalla circolazione di veicoli e natanti, per le quali vige
un’apposita normativa) nelle tabelle elaborate dal Tribunale
di Milano, da modularsi secondo le circostanze del caso
concreto.” (cfr., all’uopo, Cass. civ., sez. III, 7 giugno 2011,
n. 12408). E ciò in quanto “Nella liquidazione del danno
biologico, quando manchino criteri stabiliti dalla legge,
l’adozione della regola equitativa di cui all’art. 1226 c.c.
deve garantire non solo una adeguata valutazione delle cir‑
costanze del caso concreto, ma anche l’uniformità di giudizio
a fronte di casi analoghi, essendo intollerabile e non rispon‑
dente ad equità che danni identici possano essere liquidati in
misura diversa sol perché esaminati da differenti Uffici giu‑
diziari. Garantisce tale uniformità di trattamento il riferi‑
mento al criterio di liquidazione predisposto dal tribunale di
Milano, essendo esso già ampiamente diffuso sul territorio
nazionale – e al quale la S. C., in applicazione dell’art. 3 cost.,
riconosce la valenza, in linea generale, di parametro di con‑
formità della valutazione equitativa del danno biologico
alle disposizioni di cui agli art. 1226 e 2056 c.c. – salvo che
non sussistano in concreto circostanze idonee a giustificarne
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
l’abbandono.” (cfr., in tal senso, sempre Cass. civ., sez. III, 7
giugno 2011, n. 12408).
Pertanto, valutati i postumi permanenti nella misura del
20% (venti percento), questo giudicante, in applicazione dei
parametri sopra menzionati ed in considerazione dell’età
dell’infortunata al momento dell’evento dannoso (46 anni
circa), ritiene di determinare il quantum debeatur, all’attua‑
lità, per il danno biologico residuato all’istante, sig.ra ***,
nella somma di €. 63.385,00 (euro sessantatremilatrecentot‑
tantacinque/00) per i suddetti postumi permanenti, nonché
in quella di €. 3.405,00 (euro tremilaquattrocentocinque/00)
per Invalidità Temporanea Totale ed, infine, in quella di
€. 1.702,50 (euro millesettecentodue/50) per Invalidità Tem‑
poranea Parziale al 50% (cinquanta percento). Il tutto, per
un importo pari ad €. 68.492,50 (euro sessantottomilaquat‑
trocentonovantadue/50) a titolo di danno biologico comples‑
sivo, così composto:
Invalidità Temporanea Totale: €. 113,50 (euro centotre‑
dici/50) x 30 (trenta) giorni = €. 3.405,00 (euro tremilaquat‑
trocentocinque/00): si è proceduto dunque a moltiplicare il
valore giornaliero come stabilito con riguardo all’Invalidità
Temporanea Totale ‑ riconosciuta dal Consulente Tecnico
d’Ufficio ‑ per il numero di giorni attribuiti dall’ausiliario del
giudice, pari a trenta (30), ottenendo in tal modo l’importo
di €. 3.405,00 (euro tremilaquattrocentocinque/00);
Invalidità Temporanea Parziale al 50%: €. 56,75 (euro
cinquantasei/75) x 30 (trenta) giorni = €. 1.702,50 (euro
millesettecentodue/50): si è proceduto, ancora, a moltiplicare
il valore giornaliero come stabilito con riguardo all’Invalidi‑
tà Temporanea Parziale al 50% ‑ riconosciuta dal Consulen‑
te Tecnico d’Ufficio ‑ per il numero di giorni attribuiti
dall’ausiliario del giudice, pari a trenta (30), ottenendo in tal
modo l’importo di €. 1.702,50 (euro millesettecento‑
due/50);
Invalidità Permanente pari al 20% (venti percento) in
soggetto di anni 46 (quarantasei) al momento del sinistro:
€. 4.089,35 (euro quattromilaottantanove/35) x 20 (venti) x
coefficiente demoltiplicatore (di riduzione per età) pari a
0,775 = €. 63.385,00 (euro sessantatremilatrecentottantacin‑
que/00): si è proceduto a moltiplicare il valore del punto come
stabilito dalla tabella prescelta, con riguardo all’invalidità del
20% (venti percento) ‑ riconosciuta dal Consulente Tecnico
d’Ufficio ‑ per il numero di punti di invalidità attribuiti dal
consulente, pari a venti (20), ottenendo in tal modo l’impor‑
to di €. 81.787,00 (euro ottantunomilasettecentottantaset‑
te/00). La predetta somma è stata, infine, moltiplicata per il
coefficiente di riduzione per l’età ‑ così come stabilito dalle
richiamate tabelle ‑ pari a 0,775 in considerazione dell’età
dell’attrice al momento del sinistro (ventisei anni circa), otte‑
nendosi la cifra tonda di €. 63.385,00 (euro sessantatremila‑
trecentottantacinque/00) da riconoscersi alla parte attrice a
titolo di risarcimento del danno biologico da invalidità per‑
manente nella misura del 20% (venti percento).
Inoltre, rivestendo la fattispecie, almeno in astratto, i
caratteri di illecito penale (lesioni colpose: art. 590 c.p.),
compete, in astratto ed ai sensi dell’art. 2059 c.c. in relazione
all’art. 185 c. p., il risarcimento del danno morale la cui li‑
quidazione, tuttavia, risulta già ricompresa in quella del co‑
siddetto danno biologico, poiché effettuata sulla base di ta‑
belle (quelle predisposte dall’Osservatorio per la Giustizia
2 0 1 2
63
Civile di Milano) che, sulla scorta di quanto affermato dal
Supremo Organo di nomofilachia (cfr., in tal senso, Cass., SS.
UU. 11 novembre 2008, n. 26972; Cass., SS. UU. 11 novem‑
bre 2008, n. 26973; Cass., SS. UU. 11 novembre 2008,
n. 26074; Cass., SS. UU. 11 novembre 2008, n. 26975), risul‑
tano elaborate proprio allo scopo di realizzare una liquida‑
zione complessiva del danno non patrimoniale conseguente a
“lesione permanente dell’integrità psicofisica della persona
suscettibile di accertamento medico‑legale”, nei suoi risvolti
anatomo ‑ funzionali e relazionali medi ovvero peculiari, e
del danno non patrimoniale conseguente alle medesime lesio‑
ni in termini di “dolore”, “sofferenza soggettiva”, in via di
presunzione, con riguardo ad una determinata tipologia di
lesione e, dunque, una liquidazione congiunta dei pregiudizi
in passato liquidati a titolo: 1) di cosiddetto danno biologico
“standard”; 2) cosiddetto danno morale. Naturalmente, le
tabelle di cui si tratta, fondate su una sapiente applicazione
del cosiddetto appesantimento del valore suscettibile di esse‑
re attribuito al punto tabellare di invalidità, lasciano salva
(ed, anzi, addirittura espressamente contemplano) la possibi‑
lità di riconoscere percentuali di aumento dei valori medi da
esse previste, da utilizzarsi ‑ onde consentire una adeguata
“personalizzazione” complessiva della liquidazione ‑ laddove
il caso concreto presenti peculiarità che vengano allegate e
provate (anche in via presuntiva) dal danneggiato, in partico‑
lare, sia quanto agli aspetti anatomo ‑ funzionali e relaziona‑
li sia quanto agli aspetti di sofferenza soggettiva.
Il suddetto criterio di liquidazione del cosiddetto danno
morale, utilizzato dalle tabelle di liquidazione applicate nella
presente sede, in quanto valevole a prendere in considerazio‑
ne le sofferenze che, in senso stretto, risultano suscettibili di
essere, anche in via presuntiva, correlate con le lesioni patite
dall’attrice, risulta, del resto, perfettamente in linea con i
recenti approdi della giurisprudenza di legittimità, in tema di
danno non patrimoniale.
Giova, infatti, rammentare come le Sezioni Unite della
Suprema Corte di Cassazione, nelle recenti, ma ormai ampia‑
mente note sentenze dell’11 novembre 2008, n. 26972, 26973,
26974 e 26975 abbiano affermato, al riguardo, principi che
non possono essere elusi in questa sede. In particolare, per
quanto qui interessa, si legge nella motivazione delle suddet‑
te decisioni: “Viene in primo luogo in considerazione
nell’ipotesi in cui illecito configuri reato, la sofferenza mo‑
rale. Definitivamente accantonata la figura del c.d. danno
morale soggettivo, la sofferenza morale, senza ulteriori con‑
notazioni in termini di durata, integra pregiudizio non patri‑
moniale. Deve tuttavia trattarsi di sofferenza soggettiva in
sé considerata, non come componente di un più complesso
pregiudizio non patrimoniale. Ricorre il primo caso ove sia
allegato il turbamento dell’animo, il dolore intimo sofferti,
ad esempio, dalla persona diffamata o lesa nella identità
personale, senza lamentare degenerazioni patologiche della
sofferenza. Ove siano dedotte siffatte conseguenze, si rientra
nel danno biologico, del quale ogni sofferenza, fisica o psi‑
chica, per sua natura intrinseca costituisce componente.
Determina quindi duplicazione di risarcimento la congiunta
attribuzione del danno biologico e del danno morale nei
suindicati termini inteso, sovente liquidato in percentuale
(da un terzo alla metà) del primo. Esclusa l’applicabilità di
tale operazione, dovrà il giudice, qualora si avvalga delle
civile
Gazzetta
64
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
note tabelle, procedere ad adeguata personalizzazione della
liquidazione del danno biologico, valutando nella loro effet‑
tiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche patite dal
soggetto leso, onde pervenire al ristoro del danno nella sua
interezza”.
Orbene, in relazione alla componente del danno non pa‑
trimoniale subito dall’attrice sig.ra *****, costituita dalla
sofferenza soggettiva morale, si osserva che quest’ultima, già
nell’atto di citazione, ha allegato di avere patito tale danno
ed ha altresì indicato gli aspetti in cui esso si sarebbe concre‑
tizzato (rinunzie e sacrifici nei rapporti familiari e sociali e
forzato mantenimento di uno stile di vita che impedisse o
limitasse la possibile degenerazione clinica della patologia).
Dell’incidenza di tali vicende sulla vita di relazione si è
tenuto conto nel procedere alla liquidazione personalizzata
del danno biologico. Ciò premesso, non potendosi procedere
alla liquidazione, per così dire, “automatica” del danno da
sofferenza morale soggettiva, in misura percentuale alla
somma liquidata a titolo di danno biologico, poiché il danno
deve essere allegato e provato dalla parte, come affermato
dalle Sezioni Unite Civili con la citate sentenze n. 26972,
26973, 26974 e 26975 dell’11 novembre 2008, la relativa
domanda può essere accolta nei limiti di seguito indicati.
Pur in difetto di attività istruttoria sul punto, infatti,
questo Giudicante ritiene di procedere all’accertamento in via
presuntiva anche della sussistenza della sofferenza soggettiva
morale. Pertanto, in considerazione delle note limitazioni
pratiche poste all’agire quotidiano dalla contrazione di pato‑
logie epatiche da virus e alla conseguente sensazione di sof‑
ferenza provata, può fondarsi il riconoscimento di tale com‑
ponente del danno non patrimoniale sul solo presupposto
della consapevolezza di essere afflitti da una tale malattia e
sulla sussistenza di una (quantomeno) minima consapevolez‑
za delle limitazioni che da essa derivano. Valutando, quindi,
anche tale “voce” di danno e tenendo conto del grado assun‑
to dalla malattia, il danno non patrimoniale (nelle compo‑
nenti del danno biologico, comprensivo del danno alla vita di
relazione, e del danno da sofferenza morale soggettiva) può
essere liquidato, in via equitativa, riconoscendo un appesan‑
timento delle somme già sopra indicate a titolo di danno
biologico complessivo, nella misura del 20% (venti percento)
delle stesse.
Il danno subito, della cui verificazione è stata fornita la
prova, deve quindi essere liquidato complessivamente in
€. 82.191,00 (euro ottantaduemilacentonovantuno/00), alla
data del 1o gennaio 2011 (di entrata in vigore della tabella di
liquidazione applicata) e, dunque, pari all’importo di
€. 85.850,00 (euro ottantacinquemilaottocentocinquan‑
ta/00) in cifra tonda, all’attualità.
Nulla compete a titolo di spese mediche eventualmente
sostenute, non essendo stata prodotta in giudizio documen‑
tazione valevole a comprovarne il relativo ammontare.
Quanto alla perdita da capacità di lavoro specifica, ritie‑
ne questo Giudice, sulla scorta della sentenza 14 luglio 1986,
n. 184 della Corte Costituzionale, che il danno alla salute (o
danno biologico), in quanto consistente nell’alterazione peg‑
giorativa dell’integrità psicofisica del soggetto, costituisca la
componente prioritaria del danno alla persona.
Lo stesso assorbe le voci elaborate in giurisprudenza ‑
riflettenti la capacità lavorativa generica, il danno alla vita di
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
relazione ed il danno estetico ‑ e va liquidato tenendo conto
di una uniformità pecuniaria di base, senza trascurare l’inci‑
denza che la menomazione ha dispiegato sulle attività della
vita quotidiana del danneggiato. Il danno alla salute va, per‑
tanto, valutato e risarcito con criteri identici per tutti coloro
che si trovano in identiche condizioni, prescindendo quindi
da posizioni sociali, professionali, economiche e simili, salva,
tuttavia, l’applicazione di correttivi in relazione ad accertate
peculiarità del caso concreto. Se è dimostrato che il soggetto
ha subito, altresì, ripercussioni sul piano patrimoniale (spese,
perdite, mancati utili) anche tale danno va risarcito; ove,
infine, il fatto sia inquadrabile in una ipotesi di reato ovvero,
più in generale, si sia verificata la lesione di un diritto invio‑
labile della persona costituzionalmente garantito, andrà ri‑
sarcito anche il danno non patrimoniale.
In tal modo resta esclusa ogni duplicazione risarcitoria in
quanto il danno alla capacità di reddito è risarcibile solo se
vi sia una specifica incidenza della lesione sulla capacità di
guadagno del soggetto. Non viene, cioè, in considerazione il
concetto di invalidità incidente sulla capacità lavorativa ge‑
nerica; solo alla dimostrazione dell’incidenza dell’invalidità
sulla capacità lavorativa specifica, consegue il risarcimento
del danno patrimoniale lamentato.
Del resto, al riguardo la giurisprudenza di legittimità ha
più volte avuto modo di chiarire come il danno patrimoniale
inteso quale conseguenza della riduzione della capacità di
guadagno, e, a sua volta, della capacità lavorativa specifica
(e non, dunque, della sola inabilità temporanea o dell’invali‑
dità permanente) è risarcibile autonomamente dal danno
biologico soltanto se vi sia la prova che il soggetto leso svol‑
geva ‑ o presumibilmente in futuro avrebbe svolto (trattan‑
dosi di un soggetto non percettore di reddito all’attualità,
come ad esempio: un minore, un disoccupato, una casalinga,
ovvero uno studente) ‑ un’attività lavorativa produttiva di
reddito, e che tale reddito (o parte di esso) non sia stato in
concreto conseguito (cfr., in tal senso ed ex multis, Cass. 25
agosto 2006, n. 18489; Cass. 23 gennaio 2006, n. 1230).
Con ciò, questo giudice non intende minimamente negare
il rilievo attribuito nella società moderna al lavoro domestico,
che trova peraltro esplicito riconoscimento normativo negli
artt. 143, comma terzo e 230‑bis cod. civ., oltre che nella
legge 3 dicembre 1999, n. 493, in materia di assicurazione
contro gli infortuni in ambito domestico, il cui art. 6 espres‑
samente dispone: “lo Stato riconosce e tutela il lavoro svolto
in ambito domestico, affermandone il valore sociale e eco‑
nomico connesso agli indiscutibili vantaggi che da tale atti‑
vità trae l’intera collettività”. Si è consapevoli che, sulla
scorta di questi rilievi, oltre che dagli artt. 4 e 37 della Co‑
stituzione, un consistente indirizzo giurisprudenziale di legit‑
timità riconosce il risarcimento di questo tipo di danno,
ipotizzando un reddito figurativo della casalinga, di volta in
volta parametrato al triplo della pensione sociale ovvero al
reddito di una collaboratrice domestica con gli opportuni
adattamenti conseguenti al fatto che l’attività della casalinga
non si esaurisce nel disbrigo delle incombenze domestiche ma
si estende al coordinamento della vita familiare (cfr. in tal
senso, Cass. 11 dicembre 2000, n. 15580; Cass. 03 marzo
2005, n. 4657 e Cass. 20 ottobre 2005, n. 20324).
Sennonché, ritiene questo giudice che il riconoscimento
normativo del lavoro domestico non possa risolversi nel ri‑
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
sarcimento di un danno patrimoniale indipendentemente
dall’effettiva ricorrenza di una riduzione del patrimonio del‑
la persona, nella sua duplice articolazione di danno emergen‑
te o di lucro cessante, venendosi altrimenti a creare, da un
lato, un’indebita duplicazione risarcitoria e, dall’altro, un
ingiustificato trattamento di favore del lavoro domestico ri‑
spetto ad ogni altro tipo di attività lavorativa. Sotto quest’ul‑
timo profilo, è noto, infatti, che ai fini del riconoscimento del
danno da lucro cessante da lesione alla capacità lavorativa
specifica, relativo all’inabilità temporanea, si richiede non
solo che il lavoratore non abbia potuto svolgere l’attività la‑
vorativa nel periodo di malattia, ma anche che, in conseguen‑
za di questo fatto, abbia subito un’effettiva contrazione di
reddito, giungendo ad escludere qualsiasi risarcimento nel
caso in cui abbia continuato nel periodo di malattia a perce‑
pire, alla stregua delle norme giuslavoristiche che regolano il
rapporto di lavoro, la relativa retribuzione. Ora, non si vede
perché il danno patrimoniale da lesione alla capacità lavora‑
tiva specifica subito dalla casalinga debba sottostare a meno
rigorosi criteri di riconoscimento, potendo prescindere dall’al‑
legazione e dalla prova di un’effettiva contrazione di reddito
grazie al generalizzato ricorso a redditi figurativi e ricollegan‑
dosi alla semplice mancata esecuzione della relativa attività.
Aggiungasi che, dopo quell’autentico intervento raziona‑
lizzatore e di sistemazione delle categorie, in materia di
danno alla persona, operato dalla Corte di Cassazione e
dalla Corte Costituzionale nel maggio ‑ luglio 2003 (cfr.,
all’uopo, Cass. 31 maggio 2003, n. 8827 e Cass. 31 maggio
2003, n. 8828, nonché Corte Cost. 30 giugno ‑ 11 luglio
2003, n. 233), si è assistito al definitivo abbandono del siste‑
ma “tripolare” (patrimoniale, biologico e morale) e l’adesio‑
ne ad un sistema “bipolare” (patrimoniale e non patrimonia‑
le) di risarcimento del danno, come confermato dalla succes‑
siva evoluzione della giurisprudenza della Cassazione, anche
a Sezioni Unite (cfr., in tal senso, Cass. 15 luglio 2005,
n. 15022; Cass., SS. UU., 24 marzo 2006, n. 6572; Cass. 19
maggio 2006, n. 11761; Cass. 12 giugno 2006, n. 13546;
Cass. 09 novembre 2006, n. 23918; Cass., SS. UU., 11 no‑
vembre 2008, n. 26972, 26973, 26974 e 26975).
Il nuovo danno non patrimoniale, inteso in senso ampio,
ossia come qualsiasi conseguenza pregiudizievole non suscet‑
tibile di immediata valutazione economica, risulta ora com‑
prensivo: a) del cosiddetto danno morale soggettivo, inteso
quale sofferenza interna ovvero transeunte turbamento dello
stato d’animo in conseguenza dell’illecito; b) del danno bio‑
logico, inteso quale “incidenza negativa sulle attività quoti‑
diane e sugli aspetti dinamico‑relazionali della vita del
danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni
sulla sua capacità di produrre reddito”, conseguente alla
lesione temporanea o permanente all’integrità psico‑fisica
suscettibile di accertamento medico legale, secondo la defi‑
nizione offerta dall’art. 138, comma 2, lettera a) del Decreto
Legislativo 7 settembre 2005, n. 209; c) di qualsiasi altra
conseguenza pregiudizievole conseguente alla lesione di ul‑
teriori interessi inerenti alla persona, con la precisazione,
però, che quando detto interesse ha rilievo costituzionale il
limite della espressa previsione di legge di cui all’art. 2059
cod. civ. non opera o, meglio, l’espressa previsione di legge
può essere ravvisata nella stessa rilevanza costituzionale
dell’interesse leso.
2 0 1 2
65
Questa interpretazione, segna il definitivo tramonto del‑
la categoria, di ascendenza penalistica, del cosiddetto danno
‑ evento, accolta dalla storica sentenza della Corte Costitu‑
zionale n. 184 del 1986 in riferimento al danno biologico, con
importanti conseguenze in punto di allegazione e prova del
danno. Invero, la giurisprudenza di legittimità ha avuto cura
di precisare che il danno non patrimoniale risarcibile non si
identifica mai nella pura lesione dell’interesse protetto, ma
sempre nelle conseguenze pregiudizievoli che ne sono deriva‑
te, come del resto già anticipato da un’altra sentenza della
stessa Corte costituzionale (cfr. in particolare sentenza n. 372
del 27 ottobre 1994).
Se ciò vale per il danno non patrimoniale, vale a maggior
ragione per il danno patrimoniale. Non solo, ma il nuovo
danno patrimoniale può essere finalmente liberato da quelle
incombenze di tutela vicaria che le limitazioni del danno non
patrimoniale, prima dell’interpretazione costituzionalmente
orientata dell’art. 2059 cod. civ., spesso imponevano per ra‑
gioni di giustizia sostanziale. Insomma allo stadio attuale
dell’evoluzione del diritto, il pieno riconoscimento di ogni
tipo di danno non patrimoniale consente di riservare al dan‑
no patrimoniale la sfera che gli è propria, ossia di danno di‑
retto a risarcire la differenza che il patrimonio della persona
presenta prima e dopo l’illecito, ovviamente anche con rife‑
rimento alle poste attive future.
Ne deriva che appare non giustificato sia il riferimento al
danno‑evento contenuto in alcune delle sentenze della Corte
di legittimità che riconoscono, in via generale, il danno da
lesione alla capacità lavorativa della casalinga, sia soprattut‑
to il riconoscimento del danno a prescindere dalle conseguen‑
ze pregiudizievoli sul patrimonio della persona. In particola‑
re, l’assunto secondo il quale il danno in questione sarebbe
un danno patrimoniale perché la casalinga svolge un’attività
suscettibile di valutazione economica, rischia di rendere eva‑
nescenti i confini tra danni patrimoniali e non patrimoniali,
posto che ogni tipo di danno, all’esito della liquidazione,
appare suscettibile di valutazione economica. Si deve allora
in contrario ribadire che, affinché possa essere riconosciuto
un danno patrimoniale da lesione della capacità lavorativa
specifica, occorre prima allegare e poi provare che, in conse‑
guenza della lesione subita, sia diminuita la capacità di pro‑
durre reddito, in via temporanea o permanente.
Nel caso di lavori, come quello della casalinga, usualmen‑
te prestati a titolo gratuito, spesso in favore di terzi, si deve
pertanto escludere che si possa riconoscere il risarcimento del
danno patrimoniale, come preteso dall’attrice, sulla sola
base dell’allegazione e della prova di non aver potuto provve‑
dere alle relative attività per un determinato periodo di tem‑
po, perché così facendo si verrebbe e risarcire, sub specie di
danno patrimoniale un semplice non poter fare, che costitu‑
isce invece il tipico contenuto del danno non patrimoniale.
Occorre, invece, allegare e dimostrare, che da tale inatti‑
vità (o ridotta attività) sia in concreto conseguita una ridu‑
zione del patrimonio del soggetto. Nel caso di lavoro casalin‑
go ciò si verificherà più agevolmente sotto il profilo del
danno emergente, con riferimento alle spese rese necessarie
per procurarsi prestazioni sostitutive da parte di terzi dietro
corrispettivo. Non può però escludersi anche la possibilità di
una ricorrenza di un lucro cessante, nel caso si deduca che
qualche familiare sia stato costretto a distogliersi dalla pro‑
civile
Gazzetta
66
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
pria attività lavorativa, con correlativa contrazione del red‑
dito, per far fronte alle incombenze domestiche alle quali
provvedeva normalmente il familiare danneggiato.
Né può tanto meno escludersi un lucro cessante a carico
diretto del danneggiato nel caso di ricorrenza di impresa fa‑
miliare ai sensi dell’art. 230‑bis cod. civ.
Nel caso poi di gravi invalidità permanenti, il rilievo che,
specie nella società moderna, l’attività di casalinga assai ra‑
ramente integra una situazione lavorativa stabile, può con‑
sentire il riconoscimento di un danno patrimoniale da lesione
alla capacità di lavoro in riferimento all’attività lavorativa
remunerata che presumibilmente la persona avrebbe in futu‑
ro intrapreso in assenza dell’illecito, con possibilità di far
riferimento a redditi figurativi, non diversamente da quanto
accade in caso di danno alla persona dedita ancora allo studio
o non ancora stabilmente occupata. Con ciò non si intende
recuperare il concetto di capacità di lavoro generica, ormai
obsoleto, ma solo consentire la liquidazione di un danno da
lesione della capacità lavorativa specifica, sulla base della
presumibile attività lavorativa futura.
Nella specie, alcuna dimostrazione (da offrirsi in maniera
eminentemente documentale) circa la concreta sussistenza di
spese necessarie per procurarsi prestazioni di lavoro dome‑
stico sostitutive da parte di terzi, né tampoco di future pos‑
sibilità di percezione di redditi, ad opera dell’attrice sig.ra
***** è stata fornita da parte di quest’ultima, con la conse‑
guenza che l’accoglimento della pretesa risarcitoria dalla
medesima avanzata non potrà estendersi fino a ricomprende‑
re il danno patrimoniale per la perdita di capacità di lavoro
specifica.
Nella liquidazione del danno cagionato da illecito aqui‑
liano, in caso di ritardo nell’adempimento, tuttavia, deve al‑
tresì tenersi conto del nocumento finanziario (lucro cessante)
subito dal soggetto danneggiato a causa della mancata tem‑
pestiva disponibilità della somma di denaro dovuta a titolo
di risarcimento, la quale, se tempestivamente corrisposta,
avrebbe potuto essere investita per ricavarne un lucro finan‑
ziario; tale danno, invero, ben può essere liquidato con la
tecnica degli interessi, con la precisazione, tuttavia, che detti
interessi non debbono essere calcolati né sulla somma origi‑
naria, né su quella rivalutata al momento della liquidazione,
dovendo gli stessi computarsi, piuttosto, o sulla somma ori‑
ginaria progressivamente rivalutata, anno per anno, ovvero
in base ad un indice di rivalutazione medio (cfr., in tal senso
ed ex multis, Cass. civ., sez. un., 17 febbraio 1995, n. 1712,
nonché Cass. 10 marzo 2000, n. 2796).
Orbene, per ottenere l’effetto pratico del riconoscimento
degli interessi calcolati sulla somma rivalutata in base ad un
indice di rivalutazione medio questo Giudicante reputa op‑
portuno condannare i convenuti al pagamento, in solido tra
loro ed in favore dell’attrice sig.ra *****, degli interessi al
tasso legale previsto dall’art. 1284 cod. civ., dalla data
dell’evento dannoso (2 dicembre 1987) sull’importo di
€. 39.811,95 (euro trentanovemilaottocentoundici/95), pari
alla devalutazione, in base all’indice ISTAT delle variazioni
dei prezzi al consumo per le famiglie di impiegati ed operai
(cosiddetto indice FOI), alla data del 2 dicembre 1987 ‑ qua‑
le momento in cui l’illecito si è prodotto – di quella sopra
riconosciuta a titolo risarcitorio e, quindi, anno per anno, ed
a partire dal 2 dicembre 1988, fino al momento della pubbli‑
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
cazione della presente decisione (mediante deposito in Can‑
celleria), sulla somma di volta in volta risultante dalla riva‑
lutazione di quella sopra appena indicata, sempre in base
all’indice ISTAT menzionato (FOI), con divieto di anatoci‑
smo.
Pertanto, in favore dell’attrice sig.ra ***, deve essere rico‑
nosciuta, in astratto (cioè salvo quanto si dirà in seguito con
riguardo alla necessità di scomputo dell’indennizzo di cui
alla legge 25 febbraio 1992, n. 210) la somma complessiva di
€. 158.373,93 (euro centocinquantottomilatrecentosettanta‑
tre/93), a titolo risarcitorio, atteso che, alla stregua dei crite‑
ri di calcolo già sopra indicati [interessi al tasso legale previ‑
sto dall’art. 1284 cod. civ., dalla data del 2 dicembre 1987
sull’importo di €. 39.811,95 (euro trentanovemilaottocento‑
undici/95) e, quindi, anno per anno, ed a partire dal 2 dicem‑
bre 1988 fino al momento della pubblicazione della presente
decisione (mediante deposito in Cancelleria), sulla somma di
volta in volta risultante dalla rivalutazione di quella sopra
appena indicata, sempre in base all’indice ISTAT menzionato
(FOI), con divieto di anatocismo], la rivalutazione monetaria
risulta pari (come, del resto, già implicitamente sopra chiari‑
to) ad €. 46.038,57 (euro quarantaseimilatrentotto/57), e gli
interessi suddetti risultano di ammontare pari ad €. 72.523,41
(euro settantaduemilacinquecentoventitre/41).
Come precedentemente chiarito, qualora il danneggiato
abbia percepito l’indennizzo ai sensi della legge 25 febbraio
1992, n. 210, il relativo importo deve essere detratto dalla
somma liquidata a titolo risarcitorio, altrimenti dandosi
luogo ad un ingiustificato arricchimento.
Nella specie, è la stessa attrice sig.ra *** ad aver ammes‑
so, nell’atto di citazione introduttivo del presente giudizio,
l’avvenuto riconoscimento, in proprio favore, dell’indennizzo
di cui alla legge 25 febbraio 1992, n. 210.
Pertanto ‑ allo scopo di evitare ingiustificate duplicazioni
risarcitorie ‑ il convenuto MINISTERO DELLA SALUTE, in
ragione dell’avvenuto riconoscimento del diritto all’indenniz‑
zo ai sensi della legge 25 febbraio 1992, n. 210, deve essere
condannato al pagamento, in favore dell’attrice sig.ra ***,
dell’importo ottenuto detraendo dalla somma riconosciuta a
titolo di risarcimento danni, quella versata a titolo di inden‑
nizzo in base alla legge suddetta.
Scelta, dunque, la linea dello scomputo dell’indennizzo di
cui alla legge 25 febbraio 1992, n. 210 dal risarcimento com‑
plessivamente dovuto, per rendere omogenea la rendita attri‑
buita all’attrice sig.ra *** con le somme sopra liquidate a ti‑
tolo di risarcimento, occorre capitalizzare la rendita.
Per farlo si utilizzerà la tabella con i coefficienti di capi‑
talizzazione delle rendite allegata al Regio Decreto 9 ottobre
1922, n. 1403.
Nell’utilizzare quella tabella si terrà conto delle statuizio‑
ni contenute in Cass. civ., sez. III, 2 marzo 2004, n. 4186,
nella cui motivazione si afferma, fra l’altro: “Dette tabelle di
capitalizzazione si fondano su due elementi: la durata pro‑
babile futura della vita, calcolata anche sulle c.d. tavole di
mortalità, ed il tasso di redditività, ancorato al tasso legale.
Da ciò consegue che maggiore è la durata della vita media e
maggiore è il coefficiente di capitalizzazione della rendita se
essa è vitalizia; mentre maggiore è il tasso legale di interesse
e minore è il coefficiente di capitalizzazione, poiché la stessa
rendita è realizzata da una minore somma corrisposta, dato
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
il maggior tasso e quindi il maggior rendimento sul mercato
della somma stessa. Nella grande maggioranza dei casi, per
questa operazione di capitalizzazione, vengono adottati i
coefficienti di capitalizzazione per la costituzione delle ren‑
dite vitalizie immediate, di cui alla tabella allegata al R.D.
9.10.1922, n. 1403, che ha approvato le tariffe della cassa
nazionale per le assicurazioni. Sennonché detta tabella fu
calcolata sulla base delle tavole di sopravvivenza della po‑
polazione italiana desunte dai censimenti del 1901 e del 1911
e sulle statistiche mortuarie degli anni 1910‑1912. Rispetto
a quella data, la vita media degli italiani si è allungata di
circa 25 anni. Inoltre la tabella dei coefficienti per la costi‑
tuzione delle rendite vitalizie in questione fu realizzata sulla
base di un tasso di interesse del 4,5%. Finché il tasso di in‑
teresse legale era in Italia del 5% (e a maggior ragione nei
periodi in cui esso fu del 10%), la maggiore durata della vita
media veniva agevolmente compensata dalla maggiore red‑
ditività effettiva del denaro rispetto a quella sulla base della
quale era stata calcolata la tabella dei coefficienti di capita‑
lizzazione del 1922. Sennonché a partire dall’1.1.1999 il
tasso legale è oscillato tra il 2,5 % ed il 3,5%, con la conse‑
guenza che entrambi i fattori di calcolo delle tabelle di capi‑
talizzazione del 1922 (durata della vita media e tasso di in‑
teresse) convergono per un allontanamento delle stesse ri‑
spetto ad una corretta e realistica capitalizzazione della
rendita, con applicazione dei due predetti elementi, valutati
con riferimento all’attualità. Da ciò consegue che, se il giu‑
dice di merito utilizza il criterio della capitalizzazione del
danno patrimoniale futuro, adottando i coefficienti di capi‑
talizzazione della rendita fissati dalle tabelle del 1922, non
sussiste più una logica interna a dette tabelle conforme alla
realtà, cui implicitamente il giudice può riportarsi nell’am‑
bito della liquidazione equitativa del danno. Si rende quindi
necessario che egli adegui detto risultato, per così dire tabel‑
lare, ai mutati valori reali dei due fattori posti a base delle
tabelle adottate. Il giudice, quindi, prima ancora di “perso‑
nalizzare” il criterio adottato al caso concreto, deve “attua‑
lizzare” lo stesso: solo allorché egli avrà eliminato gli elemen‑
ti distortivi da obsolescenza presenti già in astratto nello
strumento adottato, potrà utilizzare all’attualità detto stru‑
mento, adeguandolo alle peculiarità del caso concreto. Ov‑
viamente, poiché si rimane pur sempre nell’ambito di una
liquidazione equitativa di danno futuro, il giudice può com‑
piere cumulativamente e intuitivamente dette due operazio‑
ni, purché egli dia atto di aver tenuto conto della predetta
necessità di aggiornamento delle tabelle in questione”.
Nel caso di specie, la rendita vitalizia dell’attrice sig.ra ***
ammonta a complessivi €. 7.235,43 (euro settemiladuecento‑
trentacinque/43) annui e le è stata riconosciuta con decorren‑
za dalla data del 23 aprile 1997, nella quale l’attrice aveva
poco meno di cinquantacinque (55) anni e sei (6) mesi.
Dunque, utilizzando la tabella di cui si è detto sopra, alla
data del 23 aprile 1997, il valore capitalizzato della rendita
in questione era di €. 87.172,46 (euro ottantasettemilacento‑
settantadue/46) [€. 7.235,43 (euro settemiladuecentotrenta‑
cinque/43) x 12,048].
Per tenere conto (in ossequio alle statuizioni di Cass. civ.,
sez. III, 2 marzo 2004, n. 4186, sopra citata) del duplice
criterio di adeguamento necessario (che nel caso di specie va
nella stessa direzione) della tabella utilizzata (maggiore du‑
2 0 1 2
67
rata della vita e minore tasso di interesse legale), la somma di
cui sopra va aumentata, secondo una stima equitativa e sin‑
tetica, del 5% (cinque percento), così da divenire complessi‑
vamente pari alla somma di €. 91.531,00 (euro novantuno‑
milacinquecentotrentuno/00), in cifra tonda.
La somma corrispondente alla rendita capitalizzata va
considerata come pagata alla data in cui è stato pagato il
primo rateo della rendita vitalizia e, dunque, in data 21 feb‑
braio 2006.
Dunque, essa va decurtata dalla somma che oggi si deve
liquidare, secondo le medesime regole con le quali si decur‑
terebbe un acconto.
Come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità (cfr.,
all’uopo, Cass. civ., sez. III, 10 marzo 1999, n. 2074), quando
si deve tener conto degli acconti versati anteriormente dal
danneggiante o dal responsabile civile, il calcolo dev’essere
eseguito sottraendo questi importi in maniera che i termini
del calcolo siano omogenei. Ciò si può conseguire sottraendo
gli acconti dal valore del danno al momento del versamento
degli stessi acconti oppure rivalutando l’importo degli accon‑
ti alla data della liquidazione finale del danno.
Nel caso di specie, si scomputerà l’acconto al momento in
cui è stato corrisposto detraendolo dall’importo della liqui‑
dazione del danno calcolata al momento del versamento
dell’acconto medesimo.
L’acconto viene imputato al capitale, in considerazione del
principio affermato dalla giurisprudenza di legittimità secon‑
do cui, poiché l’art. 1194 cod. civ. (il quale prescrive di impu‑
tare i pagamenti parziali prima agli interessi e quindi al ca‑
pitale) è stato dettato con riferimento alle obbligazioni pecu‑
niarie, esso non trova applicazione in materia di risarcimen‑
to del danno derivante da atto illecito (Cass. civ., sez. III, 14
marzo 1996, n. 2115).
I conteggi sono eseguiti, quindi, in modo da considerare
la riduzione del capitale liquidato di pari importo all’acconto
versato, così che per il periodo successivo al versamento
dell’acconto medesimo per tale importo non maturano più
rivalutazione e interessi.
In definitiva, quindi, la liquidazione del risarcimento
dovuto in favore dell’attrice sig.ra *** scaturisce dalla seguen‑
te somma algebrica: a) Danno liquidato alla data del 21
febbraio 2006 (c.d. “aestimatio”): €. 75.068,25 (euro settan‑
tacinquemilasessantotto/25); b) Acconto da dedurre:
€. 91.531,00 (euro novantunomilacinquecentotrentuno/00);
c) rivalutazione all’attualità da aggiungere: €. 10.781,82
(euro diecimilasettecentottantuno/82); d) interessi al tasso
legale previsto dall’art. 1284 cod. civ., dalla data del 2 dicem‑
bre 1987 sull’importo di €. 39.811,95 (euro trentanovemila‑
ottocentoundici/95), pari alla devalutazione, in base all’indi‑
ce ISTAT delle variazioni dei prezzi al consumo per le famiglie
di impiegati ed operai (cosiddetto indice FOI), alla data del 2
dicembre 1987 ‑ quale momento in cui l’illecito si è prodot‑
to – di quella riconosciuta a titolo risarcitorio e, quindi, anno
per anno, ed a partire dal 2 dicembre 1988 fino al momento
della pubblicazione della presente decisione (mediante depo‑
sito in Cancelleria), sulla somma di volta in volta risultante
dalla rivalutazione di quella sopra appena indicata, sempre
in base all’indice ISTAT menzionato (FOI), con divieto di
anatocismo (da aggiungere): complessivi €. 72.523,41 (euro
settantaduemilacinquecentoventitre/41).
civile
Gazzetta
68
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
Sottraendo dall’importo indicato nel capoverso contras‑
segnato dalla lettera “a)” l’acconto indicato nel capoverso
contrassegnato dalla lettera “b)” ed aggiungendo al risultato
ottenuto gli importi indicati nei capoversi contrassegnati
dalle lettere “c)” e “d)” si perviene al risultato finale costitu‑
ito dalla somma di €. 66.842,48 (euro sessantaseimilaotto‑
centoquarantadue/48) che rappresenta l’importo dovuto
all’attrice a titolo di risarcimento danni.
Dal momento della pubblicazione della presente sentenza
e fino all’effettiva corresponsione, infine, dovranno essere
corrisposti, sulla somma totale sopra liquidata a titolo risar‑
citorio, gli ulteriori interessi al tasso legale suddetto, ai sensi
dell’art. 1282 cod. civ., posto che, al momento della pubbli‑
cazione della sentenza, l’obbligazione risarcitoria, che ha
natura di debito di valore, si trasforma in debito di valuta,
con conseguente applicabilità degli istituti tipici delle obbli‑
gazioni pecuniarie in senso stretto, sulla somma globale
composta da capitale, rivalutazione e coacervo degli interes‑
si maturati fino alla data predetta (pubblicazione della sen‑
tenza: cfr., in tal senso, Cass. 3 dicembre 1999, n. 13470;
Cass. 21 aprile 1998, n. 4030).
In applicazione del principio di causalità (art. 91 cod.
proc. civ.), le spese di lite seguono la soccombenza del conve‑
nuto MINISTERO DELLA SALUTE e si liquidano come da
dispositivo.
Va osservato, al riguardo, che il Decreto‑Legge 24 gen‑
naio 2012, n. 1 (in G.U. 24 gennaio 2012, n. 19), recante
disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle
infrastrutture e la competitività, ha previsto, all’art. 9, com‑
ma 1, l’abrogazione delle tariffe delle professioni regolamen‑
tate nel sistema ordinistico.
L’art. 9 citato, al comma 2, prevede che ‑ ferma restando
l’abrogazione delle tariffe – “nel caso di liquidazione da
parte di un organo giurisdizionale, il compenso del profes‑
sionista è determinato con riferimento a parametri stabiliti
con decreto del ministro vigilante”.
Orbene, un primo precedente giurisprudenziale interve‑
nuto in materia (Tribunale di Cosenza, ordinanza 26 genna‑
io 2012) ha ritenuto che lo ius superveniens (ritenuto imme‑
diatamente applicabile alle controversie pendenti) abbia di
fatto comportato la caducazione del criterio liquidatorio ta‑
riffario, da parte del giudice, a prescindere dalla presenza di
una controversia tra avvocato e cliente ma in ogni caso in cui
il magistrato debba procedere alla determinazione del com‑
penso spettante al difensore per l’attività professionale pro‑
fusa nell’esercizio del mandato.
Sulla base di tale presupposto, lo stesso Ufficio giudiziario
(Tribunale di Cosenza, ordinanza, 1o febbraio 2012), con
ricchezza di argomentazioni, ha rimesso gli atti alla Corte
Costituzionale reputando censurabile, sotto diversi profili di
costituzionalità, l’art. 9 del d.l. 1/2012, nella parte in cui non
prevede una disciplina transitoria fino alla entrata in vigore
del Decreto Ministeriale preannunciato dall’art. 9, comma 2,
decreto cit.
Nonostante il pregio delle ragioni da cui trae origine
l’ordinanza calabrese di remissione, reputa questo giudice
che, per la liquidazione del compenso dell’avvocato, in difet‑
to di normativa ministeriale, non si registri un “vacuum legis”
sospettabile di illegittimità costituzionale.
Ed invero, giova ricordare che, in assenza di tariffe pro‑
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
fessionali, il sistema normativo contiene una difesa immuni‑
taria “ad hoc”, posto che l’art. 2225 cod. civ., quale norma
generale, statuisce che, in loro assenza, il giudice può liqui‑
dare il compenso in relazione al risultato ottenuto dal profes‑
sionista e al lavoro normalmente necessario per ottenerlo.
Trattasi, con tutta evidenza, di disposizione normativa
che non consegna al giudicante una “delega in bianco”, a
rischio di arbitraria discrezionalità, in quanto non è equita‑
tiva in senso tecnico (cfr., in tal senso, Tribunale di Bologna,
sez. II, 28 giugno 2010), tenuto conto dei parametri oggetti‑
vi cui si ancora la liquidazione e del costume pretorio forma‑
tosi con riguardo all’art. 2225 cod. civ., che consente anche
il riferimento a prestazioni analoghe (cfr., ad esempio, Tribu‑
nale di Milano, 31 luglio 2001). Ebbene, in assenza di un
riferimento tariffario, dovendo stabilire il giusto compenso
(e, quindi, non meramente “equo”), il giudice ben può fare
riferimento anche ai parametri che precedentemente venivano
applicati, per orientarsi nella statuizione finale, dovendosi
precisare che l’abrogazione delle tariffe non è intervenuta
perché queste non fossero corrette o adeguate, ma per una
finalità diversa, collocata nell’ottica di una implementazione
della concorrenza dei mercati.
Ciò vuol dire che, ricorrendo all’art. 2225 cod. civ., il
giudice, guardando agli “standards” liquidativi in preceden‑
za applicati, e tenendo conto dell’attività processuale in
concreto svolta dal difensore, può procedere alla liquidazione
del compenso del difensore in modo adeguato e nel rispetto
della finalità proprie delle Tariffe, che debbono compensare,
in un’ottica retributiva (e non indennitaria), il rappresentante
legale per la prestazione intellettuale svolta.
In tale opera di liquidazione del compenso, peraltro, il
magistrato non può considerare il professionista legale come
un mero professionista intellettuale, in quanto, come è noto,
il soggetto che esercita la professione forense, indipendente‑
mente dagli atti specifici compiuti, svolge un servizio di
pubblica necessità (Cass. pen., sez. V, 28 aprile 2005,
n. 22496) e, quindi, contribuisce alla realizzazione delle fi‑
nalità di Giustizia nel processo, aspetto che impone di rispet‑
tare la professione dell’Avvocato non frustrandone la funzio‑
ne mediante un compenso inadeguato o insufficiente.
In tale giudizio, restano vitali e sempre attuali gli inse‑
gnamenti nomofilattici delle Sezioni Unite le quali, in merito
all’ammontare della liquidazione delle spese del processo,
hanno affermato che “le spese di lite vanno liquidate (…) in
linea con il principio di adeguatezza e proporzionalità” che
impongono “una costante ed effettiva relazione tra la mate‑
ria del dibattito processuale e l’entità degli onorari per l’at‑
tività professionale svolta” (Cass. civ., sez. un., 11 settembre
2007, n. 19014).
Infine, vi è certamente un abrogazione sopravvenuta del
rimborso forfetario spese generali che, pertanto, non può
essere considerato nella presente sentenza.
Deve, peraltro, disporsi, ai sensi dell’art. 93 cod. proc.
civ., la distrazione delle spese di lite in favore degli *** e ***,
difensori dell’attrice sig.ra *** e dichiaratisi anticipatari
delle stesse, già a far tempo dalla notificazione dell’atto di
citazione introduttivo del presente giudizio.
In applicazione del medesimo principio (soccombenza)
sono definitivamente poste a carico del convenuto MINISTE‑
RO DELLA SALUTE le spese relative alla disposta Consu‑
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
lenza Tecnica d’Ufficio, liquidate come da provvedimento in
atti in misura pari ad €. 708,53 (euro settecentootto/53),
oltre I.V.A. e contributo assistenziale e previdenziale come
per legge e provvisoriamente fatte gravare sull’attrice sig.ra
***, non essendo stata, del resto, prodotta da quest’ultima
alcuna documentazione valevole a comprovare l’avvenuta
corresponsione di tale importo in favore dell’ausiliario del
2 0 1 2
69
giudice, con l’unica eccezione dell’acconto di €. 500,00 (euro
cinquecento/00), il cui versamento risulta dal verbale relativo
all’inizio delle operazioni di C.T.U. e che, pertanto, dovrà
essere incluso nel computo delle cosiddette spese vive da
rimborsarsi in favore dell’attrice medesima.
(Omissis)
civile
Gazzetta
70
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
In evidenza
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE II CIVILE
sentenza 10 aprile 2012, n. 5692
Pres. Oddo, Rel. Matera
Obbligazioni e contratti – Condizione del contratto – Condizione
unilaterale – Definizione – Condizione sospensiva o risolutiva
nell’interesse esclusivo di uno solo dei contraenti – Ammissibilità
–Requisiti – Effetti – Rinunzia
Le parti, nella loro autonomia contrattuale, possono
pattuire una condizione sospensiva o risolutiva nell’interesse
esclusivo di uno soltanto dei contraenti, occorrendo al riguar‑
do un’espressa clausola o, quanto meno, una serie di elemen‑
ti, idonei ad indurre il convincimento che si tratti di una
condizione alla quale l’altra parte non abbia alcun interesse.
Ne consegue che la parte contraente, nel cui interesse è posta
la condizione, ha la facoltà di rinunziarvi sia prima, sia dopo
l’avveramento o il non avveramento di essa, senza che la
controparte possa comunque ostacolarne la volontà.
(Omissis)
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 9‑4‑2009 G.L. conveni‑
va dinanzi al Tribunale di Bassano del Grappa F. V., F.M.F.,
F.R., S. M. G. e P.G., esponendo che il 30‑6‑2005 aveva stipu‑
lato con le prime quattro un contratto preliminare avente ad
oggetto il trasferimento di un immobile sito in (Omissis), per
il prezzo di Euro 1.600.000,00; che tale contratto era stato
sottoposto, nell’interesse del promissario acquirente G.L., alla
condizione della rinuncia da parte di Fe.Re. e f.r. al diritto di
prelazione sull’immobile sorto in forza di contratto stipulato
l’8‑4‑1974; che con missiva del 22‑1‑2007 le promittenti ven‑
ditrici avevano comunicato all’attore che, visto il tempo tra‑
Nota redazionale a cura di P ietro d’A lessandro
Avvocato
Secondo l’insegnamento tradizionale, la funzione della condizione è
quella di dare rilievo ad un piano di interessi (controprogramma) esterno ed
ulteriore rispetto al piano di interessi interno tipico della fattispecie contrat‑
tuale (programma interno), la cui esistenza è prevista come futura ed incerta;
il rapporto tra i due piani di interessi consiste in ciò, che la realizzazione di
quello interno è voluta solo in quanto quello esterno non si manifesti [Falzea,
La condizione e gli elementi dell’atto giuridico, Milano, 1941, 80; Rescigno,
voce “Condizione, dir vig.”, in Enc. del dir., vol VIII, sd ma 1961, 766; Do‑
gliotti, Condizione unilaterale: un importante revirement della Suprema
Corte, Riv. Not., 1993, 1236]. Viene cioè introdotto nel piano della fattispecie
un particolare intento estraneo al suo contenuto tipico e che deve quindi esse‑
re realizzato e tutelato con mezzi che non rientrano nella struttura di base
dell’atto.
La giurisprudenza ha rilevato che talvolta l’interesse cui la condizione
attribuisce rilievo non è comune ad entrambe le parti ma fa capo ad uno sol‑
tanto dei contraenti, nel senso che solo quest’ultimo non stipulerebbe se il
contratto non fosse condizionato, mentre la controparte subisce, per così dire,
la condizione.
Da questo aspetto del fenomeno, la giurisprudenza ha ritenuto di trarre
un’importante conseguenza sul piano sistematico: tutte le ipotesi di condizio‑
ne, sia sospensiva che risolutiva, prevista nell’esclusivo interesse di una parte
sarebbero riconducibili ad un’unica figura, denominata condizione unilatera‑
le, la cui principale caratteristica consisterebbe nel potere del soggetto per la
cui tutela fu apposta di rinunziare agli effetti della stessa, rendendo puro il
negozio, sia prima che dopo l’avveramento della condizione risolutiva o il
mancato avveramento della condizione sospensiva, senza che la controparte
possa ostacolarne gli effetti.
Ulteriore conseguenza dell’unilateralità della clausola consisterebbe
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
scorso senza che i prelazionari avessero formalizzato la rinun‑
cia alla prelazione, si dichiaravano libere da ogni impegno e
ribadivano la loro disponibilità alla stipula di un nuovo con‑
tratto preliminare non sottoposto a condizione sospensiva; che
il 7‑3‑2007 le medesime promittenti venditrici avevano inviato
altra missiva con cui, esibendo la lettera con cui Fe.Re. aveva
comunicato il diniego di rinunciare al diritto di prelazione,
avevano comunicato di ritenersi sciolte da ogni impegno as‑
sunto; che erano seguite trattative per la stipula di altro preli‑
minare, con un incontro presso un notaio senza che le parti
addivenissero ad un accordo; che con contratto preliminare
trascritto del 4‑4‑2007 le convenute avevano promesso in
vendita il bene a P.G., e a tale contratto era seguito l’atto defi‑
nitivo dell’11‑7‑2007. Ciò posto, l’attore chiedeva: 1) che fosse
accertata l’autenticità delle sottoscrizioni apposte al contratto
preliminare del 30‑6‑2005 e alla missiva del 22‑1‑2007; 2) che
fosse accertato che tale contratto preliminare si era concluso
con la rinuncia da parte sua alla condizione sospensiva stabi‑
lita in suo favore; 3) che fosse conseguentemente dichiarata
l’inopponibilità nei suoi confronti del contratto preliminare e
del contratto definitivo stipulati dalle promittenti venditrici
con P.G.; 4) che, in caso di mancato accoglimento delle doman‑
de precedenti, le convenute fossero condannate in solido a ri‑
sarcire i danni arrecati per aver agito in mala fede.
Nel costituirsi, i convenuti contestavano la fondatezza
della domanda e ne chiedevano il rigetto. Il P., inoltre, chie‑
deva in via riconvenzionale la condanna dell’attore al risarci‑
mento dei danni per responsabilità aggravata ex art. 96
c.p.c..
Con sentenza del 28‑12‑2008 il Tribunale adito rigettava
la domanda attrice e condannava il G. a risarcire i danni ca‑
gionati al P., nella misura di Euro 30.000,00.
Avverso tale decisione proponevano appello principale il
G. e appello incidentale il P..
nell’inapplicabilità della finzione di avveramento ex art 1359 cc [Cass. 8
giugno 1983, n. 3936, Giust. civ. mass., 1983, 6].
Per la giurisprudenza dominante [Cass. 5 giugno 2008, n. 14938, Riv.
Not., 2010, 1,163; Cass. 15 novembre 2006, n. 24299; Cass. 27 novembre
1992, n. 12708], nell’ambito della quale si inserisce la sentenza in commento,
dunque, la condizione unilaterale è una normale clausola condizionale rego‑
lata dagli artt 1353 cc e ss prevista, in virtù dell’autonomia privata, nell’inte‑
resse di una sola parte liberamente rinunziabile senza vincoli di forma ed
anche per facta concludentia.
La natura unilaterale della clausola non necessariamente deve essere
prevista espressamente, potendo emergere per implicito, come corollario in‑
defettibile dello scopo che le parti si propongono, allorquando la sua deter‑
minazione nell’interesse di un unico contraente, chiamato a sopportare un
preciso onere economico, promani da una corretta valutazione dell’intero
rapporto negoziale [Cass. 17 agosto 1999, n. 8685, in Giur. it., 2000, 915].
La dottrina precisa [Smiroldo, Condizione unilaterale di vendita, Giur.
it., 1976, I, 2, 377] che oggetto della rinunzia sarebbe il diritto di considerare
sospesa l’operatività del negozio ovvero il diritto di considerare inefficace il
negozio, a seconda che la rinunzia avvenga in pendenza o dopo il mancato
avveramento della condizione sospensiva.
Pertanto l’operatività del contratto sarebbe conseguenza riflessa e non
diretta della rinunzia, il cui unico effetto è quello di rimuovere un ostacolo
alla normale operatività del negozio, fonte degli effetti.
Secondo diversa impostazione, la rinunzia sarebbe esercizio di un diritto
potestativo, come tale con efficacia non retroattiva [Costantini, Appunti
sulla condizione unilaterale, Dir. e Giust., 1970, 13 e ss].
L’opinione dominante in giurisprudenza, che ricostruisce la condizione
unilaterale in termini di condizione pura e semplice, è stata variamente criti‑
cata in dottrina, in base al rilievo che detta teoria non tiene conto delle note‑
voli peculiarità della figura.
Si è rilevato che nella condizione pura e semplice il verificarsi o meno
dell’evento opera in maniera automatica sull’efficacia del contratto, senza
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
2 0 1 2
71
Motivi della decisione
1) In via preliminare, deve esaminarsi l’eccezione di inam‑
missibilità del ricorso, sollevata dai controricorrenti sotto i
seguenti profili: a) per la mancata indicazione degli atti e
documenti ex art. 366 n. 6 c.p.c.; b) per la mancata articola‑
zione del ricorso in motivi separati, singolarmente dotati del
carattere della specificità; c) per carenza d’interesse, dovuta
al passaggio in giudicato della pronuncia di rigetto della do‑
manda subordinata di risarcimento danni, in relazione alla
quale il ricorrente ha limitato le sue censure.
L’eccezione è infondata, dovendosi rilevare: a) che nella
specie il requisito di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6 deve ritener‑
si assolto, avendo il ricorrente indicato i documenti su cui
si fonda il ricorso e la sede in cui gli stessi sono rinvenibili
nel fascicolo di parte di primo grado, ritualmente prodotto
in Cassazione; b) che il requisito dell’esposizione di motivi
di impugnazione, stabilito, a pena di inammissibilità,
dall’art. 366 c.p.c., n. 4, deve considerarsi soddisfatto nel
caso di ricorso per cassazione che denunzi con un unico,
articolato motivo, plurime violazioni di legge e vizi di mo‑
tivazione, allorché, come nella fattispecie in esame, risulti‑
no sufficientemente illustrate le ragioni addotte a sostegno
delle censure mosse; c) che nei giudizio di appello (v. con‑
clusioni riportate nella sentenza impugnata) l’appellante ha
chiesto l’accoglimento di “tutte le domande formulate in via
gradata nell’atto di citazione di primo grado” e che, pertan‑
to, nessun giudicato si è formato sulla statuizione di rigetto
della domanda subordinata di risarcimento danni, adottata
dal Tribunale.
2) Con l’unico motivo di ricorso, articolato in tre censure,
viene denunciata l’omessa e contraddittoria motivazione,
nonché la falsa applicazione degli artt. 112, 115 e 116 c.p.c.
e dell’art. 1326 c.c..
In primo luogo, il G. critica la sentenza impugnata nella
parte in cui ha escluso che la condizione risolutiva della man‑
cata rinuncia al diritto di prelazione, prevista nel contratto
preliminare del 30‑6‑2005, sia stata apposta nell’interesse del
promissario acquirente. Sostiene che il carattere unilaterale
di detta condizione risulta dal tenore letterale del contratto
(“a tutela di parte acquirente, si conviene…”) e dallo spirito
della pattuizione, che era quello di tutelare il G. dalle conse‑
guenze pregiudizievoli che gli sarebbero potute derivare, an‑
che indirettamente, dall’eventuale esercizio del diritto di
necessità di alcun intervento da parte dei contraenti, a differenza di quanto
accade nella condizione unilaterale [Villani, Condizione unilaterale e vincolo
contrattuale, Riv. dir. civ., 1975, I, 564; Carbone, I mille volti della condizio‑
ne unilaterale, Contr. e Impresa, 2002, 259].
Tale teoria, inoltre, si limita a descrivere il fenomeno senza spiegare in
forza di quale meccanismo tecnico‑ giuridico esso operi; il preteso diritto a
considerare sospesa l’operatività del negozio o a disporre della sua efficacia
deve misurarsi con l’esistenza di una condizione, la cui rilevanza deve in qual‑
che modo essere annullata [Gazzoni, Condizione unilaterale e conflitti con i
terzi, Riv. Not., 1994, 1199].
Le difficoltà ricostruttive ora indicate hanno indotto la dottrina a prospet‑
tare soluzioni diverse.
Secondo un’opinione [Villani, Condizione unilaterale e vincolo contrat‑
tuale, cit., 557 e ss.], recepita da una sentenza della CS rimasta isolata [Cass. 30
ottobre 1992, n. 11816, Giust. civ., 1993, 1225] ma ribadita in una pronuncia
di merito [Trib. Nocera Inferiore, 20 aprile 2005, Giur. Merito, 2006, I, 36] la
condizione unilaterale non rientra nello schema della condizione vera e propria
ma il fenomeno può essere spiegato diversamente, individuando, quanto alla
condizione unilaterale sospensiva una struttura negoziale complessa composta
da due distinte pattuizioni: un negozio bilateralmente condizionato ed un
contratto di opzione di contenuto identico al primo ma non sottoposto a con‑
dizione. La rinunzia alla condizione concreta dunque un atto di accettazione
dell’opzione che perfeziona un nuovo contratto.
La tesi comporta notevoli conseguenze sul piano applicativo.
Anzitutto gli effetti decorrerebbero dal momento della rinunzia e non re‑
troagirebbero al primo contratto; sarebbero dunque salvi i diritti dei terzi che
trascrivano il titolo prima della trascrizione dell’atto di esercizio della rinunzia
[Villani, Condizione, cit., 584].
Nel caso in cui non sia stato fissato, il Giudice potrà intervenire stabilen‑
do un termine ex art 1331 cc [Id., op. cit., 583‑584].
La rinunzia è un atto formale che richiede la forma del contratto cui ac‑
cede [Cass. 30 ottobre 1992, n. 11816, cit.].
La condizione unilaterale risolutiva costituirebbe invece un’ipotesi di re‑
cesso a sua volta sospensivamente condizionato al verificarsi dell’evento de‑
dotto in condizione risolutiva [Villani, op. cit., 588].
In prospettiva analoga si è sostenuto che la cd rinunzia sarebbe esercizio
di un diritto di opzione avente però ad oggetto non già la nascita di un nuovo
contratto, ma la modificazione di quello originario [Gabrielli, Pubblicità
degli atti condizionati, Riv. dir. civ., 1991, I, 37 e ss.].
Tale teoria è stata criticata perché ritenuta da alcuni troppo artificiosa [Lamber‑
ti‑Ferrara, La condizione unilaterale, Riv. Not., 201; Carbone, op. cit., 261].
Per altri [Gazzoni, op. cit., 1202] la automatica riconduzione della con‑
dizione unilaterale all’opzione è possibile solo se la condizione è meramente
potestativa e sempre che ciò risulti dalla volontà delle parti [Gabrielli, La
riserva di gradimento nei contratti, Riv. trim. dir. proc. civ., 1970, 1315],
mentre tale non è quella in questione.
Per una diversa opinione, nella figura in esame sarebbe configurabile una
doppia condizione, la prima, causale, posta nell’esclusivo interesse di uno solo
dei contraenti e la seconda, potestativa, il cui avveramento è legato alla volon‑
tà della parte favorita ed avrebbe un duplice oggetto, non solo il fatto dedotto
ma anche la mancata rinunzia della parte interessata.
Nel caso di condizione sospensiva unilaterale, le due condizioni sono al‑
ternative e la manifestazione di volontà del contraente favorito supplisce al
mancato avveramento della condizione causale, se la condizione è invece riso‑
lutiva, le due condizioni sono cumulative [Dogliotti, Condizione unilaterale:
un importante revirement della Suprema Corte, cit., 1239].
Secondo un’ulteriore ricostruzione, durante la fase di pendenza non si è
in presenza di due condizioni quanto, piuttosto, di due fatti alternativi dedot‑
ti in un’unica condizione, un fatto causale ed un fatto potestativo legato alla
volontà di una parte; l’alternatività discende dal fatto che il fatto volontario
può operare in direzione opposta, mentre l’avveramento di quest’ultimo elimi‑
na la rilevanza dell’altro, avendo determinato la produzione o la stabilizzazio‑
ne definitiva degli effetti, con il conseguente venir meno del’incertezza [Gaz‑
zoni, cit., 1201; Carbone, cit., 280 e ss].
Con sentenza depositata il 28‑4‑2010 la Corte di Appello
di Venezia rigettava l’appello principale; in accoglimento
dell’appello incidentale, ordinava al Conservatore dei Registri
Immobiliari di (OMISSIS) di annotare la cancellazione della
domanda giudiziale. In motivazione la Corte territoriale rile‑
vava, in particolare, che la condizione risolutiva della manca‑
ta rinuncia al diritto di prelazione, prevista nel contratto
preliminare del 30‑6‑ 2005, non poteva ritenersi apposta
nell’interesse del promissario acquirente; e che, comunque,
anche a voler opinare diversamente, l’appellante, con missiva
del 28‑3‑2007, non aveva comunicato la rinuncia alla condi‑
zione, ma la sua disponibilità alla stipula di un nuovo contrat‑
to, diverso dal precedente nel contenuto.
Per la cassazione di tale sentenza ricorre il G., sulla base
di un unico motivo. A pag. 12 e 13 del ricorso il ricorrente ha
precisato di non avere più interesse all’acquisto dell’immobile
e, quindi, all’accoglimento delle conclusioni formulate ai
punti 1) e 2) dell’atto di citazione di primo grado, ma di voler
coltivare solo la domanda risarcitoria di cui al punto 3); e di
non avere evocato, per tale ragione, nel giudizio di cassazione
il P., vertendosi in ipotesi di cause scindibili.
F.V., F.M.F., F.R. e S. M. resistono con controricorso.
In prossimità dell’udienza le controricorrenti hanno depo‑
sitato una memoria.
civile
Gazzetta
72
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
prelazione da parte dei prelazionari. Rileva che la tesi della
non unilateralità della condizione non risulta suffragata da
argomentazioni efficaci ed adeguate.
In secondo luogo, il ricorrente deduce, sempre con riguar‑
do alla natura della condizione apposta al contratto, che la
Corte di Appello, non ponendo alla base del proprio convin‑
cimento la prova documentale, mai contestata dalla contro‑
parte, e rilevando d’ufficio il carattere non unilaterale della
condizione, ha violato gli artt. 115 e 112 c.p.c..
In terzo luogo, con riferimento alle ulteriori argomenta‑
zioni svolte nella sentenza impugnata, il ricorrente rileva, in
particolare, che il giudice di appello non ha tenuto conto del
fatto che il promittente acquirente, nel cui esclusivo interesse
era stata apposta la condizione in esame, con lettera del
28‑3‑2007 aveva inequivocabilmente manifestato la volontà
di rinunciare alla stessa.
Sostiene che, avendo il promittente acquirente accettato,
con la predetta lettera, la proposta (effettuata dai promitten‑
ti venditori con missiva del 22‑1‑2007) di conclusione del
“medesimo” contratto preliminare senza la previsione della
condizione sospensiva, tra le parti, a mente dell’art. 1326 c.c.,
si è perfezionato il contratto preliminare di vendita avente ad
oggetto i beni promessi in vendita nel preliminare del
30‑6‑2005 e alle medesime condizioni contrattuali ivi previ‑
ste, ad eccezione della condizione sospensiva originariamente
prevista.
3) Le prime due censure sono prive di fondamento.
Secondo il costante orientamento di questa Corte, le parti,
nella loro autonomia contrattuale, possono pattuire una con‑
dizione sospensiva (o risolutiva) nell’interesse esclusivo di uno
soltanto dei contraenti, occorrendo al riguardo una espressa
clausola o, quanto meno, una serie di elementi idonei ad in‑
durre il convincimento che si tratti di una condizione alla
quale l’altra parte non abbia alcun interesse. Ne consegue che
la parte contraente nel cui interesse è posta la condizione ha
la facoltà di rinunziarvi sia prima che dopo l’avveramento o il
non avveramento di essa, senza che la controparte possa co‑
munque ostacolarne la volontà (Cass. 15/11/2006 n. 24299;
Cass. 27‑11‑1992 n. 12708; Cass. 23‑3‑1991 n. 3185;
20‑12‑1989 n. 5757; 15‑11‑1986 n. 6742; 6‑7‑1984 n. 3965).
Nella specie la Corte di Appello, muovendo da tale prin‑
cipio, ha ricercato se la condizione risolutiva prevista nel
contratto preliminare del 30‑6‑2005 (mancata rinuncia da
parte di Fe.
R. e f.r. al diritto di prelazione sull’immobile promesso in
vendita, sorto in forza di contratto stipulato l’8/4/1974) fosse
stata pattuita nell’esclusivo interesse del promittente acqui‑
rente, ed ha dato risposta negativa al quesito.
A tale convincimento essa è pervenuta muovendo dal rilie‑
vo che la prelazione convenzionale non ha natura reale ma
obbligatoria, e che il mancato rispetto dei diritto di prelazione
non comporta la nullità degli atti compiuti e dei negozi posti
in essere, ma da diritto soltanto al risarcimento del danno (cfr.
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
Cass. 18‑7‑2008 n. 19928); ed osservando, pertanto, che, nel
caso in cui i prelazionari avessero inteso far valere il loro dirit‑
to dopo la stipula del contratto di vendita del bene, l’acquiren‑
te non avrebbe subito l’evizione, laddove le venditrici avrebbe‑
ro potuto subire l’azione per il risarcimento del danno.
Si tratta di considerazioni ineccepibili, atteso che, essendo
il patto di prelazione efficace e vincolante solo tra le parti
contraenti, in caso di inosservanza il contraente che avrebbe
dovuto essere preferito non può esercitare azione contro l’ac‑
quirente del bene, ma può solo agire per il risarcimento dei
danni contro l’alienante, che è venuto meno agli accordi con‑
trattuali con lui stipulati.
La decisione impugnata, pertanto, ha dato conto, con
argomentazioni corrette sul piano logico e giuridico e come
tali non sindacabili in sede di legittimità, dell’esistenza di un
concreto interesse delle promittenti venditrici a non stipulare
il contratto definitivo di compravendita in caso di mancata
rinuncia, da parte dei terzi aventi diritto, al diritto di prela‑
zione sul bene promesso in vendita, per non vedersi esposte a
possibili azioni risarcitorie da parte dei prelazionari; il che
porta ad escludere in radice la validità dell’assunto del ricor‑
rente, secondo cui la condizione della mancata rinuncia al
diritto di prelazione sarebbe stata apposta nell’esclusivo inte‑
resse del promittente venditore.
Non sussistono, di conseguenza, i vizi denunciati dal ri‑
corrente, essendo al contrario evidente che quest’ultimo, at‑
traverso la formale prospettazione di violazione dei canoni
legali di interpretazione contrattuale di cui all’art. 1362 c.c.
e di vizi motivazionali, censura sostanzialmente il giudizio
espresso dal giudice di appello circa il carattere non unilate‑
rale della condizione e intende ottenere al riguardo una nuova
valutazione di merito, inammissibile in questa sede.
Nè ricorre la dedotta violazione degli artt. 115 e 112 c.p.c.,
dovendosi rilevare, sotto il primo profilo, che la Corte di
Appello ha posto a fondamento della decisione le prove docu‑
mentali ritualmente acquisite e, sotto il secondo, che il giudi‑
ce distrettuale non ha rilevato d’ufficio il carattere non uni‑
laterale della condizione apposta nel contratto preliminare del
30‑6‑2005, ma si è pronunciato sullo specifico motivo di
gravame con cui l’appellante rimproverava al Tribunale di non
aver considerato che la predetta condizione era stata prevista
nell’esclusivo interesse dei promissario acquirente, e che
quest’ultimo vi aveva rinunciato.
4) Una volta escluso che si tratti di condizione apposta
nell’esclusivo interesse del promissario acquirente, restano
assorbite le ulteriori doglianze mosse dal ricorrente, che pre‑
suppongono la natura unilaterale di tale condizione e, quindi,
la possibilità di rinuncia alla stessa da parte del G.
5) Per le ragioni esposte il ricorso deve essere rigettato,
con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle
spese sostenute dal resistente nel presente grado di giudizio,
liquidate come da dispositivo.
(Omissis)
Diritto e procedura penale
I contenuti positivi della prevenzione speciale e il diritto all’educazione
del minore autore di reato
75
Clelia Iasevoli
Relazione introduttiva sull’incidenza delle fonti comunitarie e internazionali
nel nostro ordinamento penale
80
Vittorio Ambrosio
La nuova disciplina del falso in attestazioni e relazioni del professionista
nella legge fallimentare
85
Federico Baffi
I contrasti risolti dalle Sezioni unite penali
91
A cura di Angelo Pignatelli
Rassegna di merito [
A cura di Alessandro Jazzetti e Andrea Alberico ]
A cura di Alessandro Jazzetti e Giuseppina Marotta ]
95
98
penale
Rassegna di legittimità [
Gazzetta
F O R E N S E
●
2 0 1 2
75
● Clelia Iasevoli
Docente di Procedura penale
Università di Napoli “Federico II”
1. Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato
Nell’attuale contesto di trasformazione del tipo dei delitti
compiuti dai minori, per non dire della metamorfosi sociale
della criminalità, occorre interrogarsi sul rapporto tra diritto
all’educazione, funzione della pena e struttura del processo
minorile, premessa ineludibile per ogni ragionamento intorno
alla procedura penale, non solo minorile1. Questa, infatti,
vive una risalente stagione di crisi, diffusa su diversi livelli tra
loro interferenti: dai problemi ordinamentali e di organizza‑
zione, ai temi più intimamente connessi agli assetti normativi
della materia, invasa da un diritto giurisprudenziale che de‑
termina il cedimento di principi fondamentali del processo
penale fino al giudicato, soprattutto quando si reputa ‘costret‑
ta’ ad eseguire le pronunce della Corte di Strasburgo2 .
Ma vi è una ragione in più per affrontare il tema sul ver‑
sante specifico della devianza minorile, in quanto essa si
presenta con caratteristiche di maggiore complessità rispetto
a qualche anno addietro. Allora, lo schema mertoniano3offri‑
va esauriente criterio interpretativo, giacché la devianza gio‑
vanile trovava fondata spiegazione nel contrasto tra le mete
prefigurate dalla struttura culturale e le reali opportunità che
la struttura sociale offriva per il loro raggiungimento; si cir‑
coscriveva, così, ad aree marginali di classi inferiori.
Ora si assiste ad un ampliamento, che potremmo definire
interclassista perché coinvolge indistintamente i diversi ceti
sociali e trae le sue matrici dal rifiuto più consapevole di mo‑
delli e regole sociali, che non hanno saputo offrire immagini
rassicuranti sul piano economico, politico, culturale, lascian‑
do diffondere un senso di precarietà, a cui si è accompagnata
una disaffezione verso le istituzioni4 .
A fronte di questi tratti caratterizzanti il fenomeno, la ri‑
flessione si sposta sulle potenzialità strategiche della pena
come integrazione sociale, prospettiva che ora va definita so‑
prattutto per i risvolti sul piano trattamentale del minore.
Il Costituente scrive, in materia, una norma la cui origina‑
lità ed il cui ruolo promozionale furono apprezzati solo dopo
che la parte più sensibile della dottrina italiana alla fine degli
anni ‘60, ed in primo luogo Franco Bricola 5 , dimostrò la cen‑
1 La complessità di tale rapporto è oggetto di una nostra analisi monografica,
alla quale si rinvia per tutte le implicazioni sistematiche ad esso connesse, Dirit‑
to all’educazione e processo penale minorile, Napoli, 2012, passim.
2G. Riccio, La ‘nuova’ progettualità per far fronte alla crisi della giustizia, in
Cass. pen., 2007, p. 4408; Idem, Itinerari culturali e premesse di metodo per la
‘riscoperta’ del modello processuale, in AA.VV., Verso la riscoperta di un mo‑
dello processuale, Milano, 2003
3 R. K. Merton, Teoria e struttura sociale, Bologna, 1971, p. 98. Secondo questo
modello interpretativo della devianza è l’eccessiva condivisione di determinate
mete sociali ovvero la massificazione in cui l’individuo si annulla ad incidere
sulle scelte criminali. Si tratta del fenomeno della unidimensionalizzazione teo‑
rizzato da H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Torino, 1964.
4 S. Moccia, Riflessioni sulle implicazioni penalistiche della devianza giova‑
nile, in AA.VV., La tutela dei minori di cultura islamica nell’area mediterra‑
nea. Aspetti sociali, giuridici e medici, a cura di A. Cilardo, Napoli, 2011,
p. 89 e ss.
5 F. Bricola, voce Teoria generale del reato, in Noviss. dig. it., vol. XIX, To‑
rino, 1973, p. 7 e ss; Idem, Riforma del processo penale e profili di diritto
penale sostanziale, in Studi in memoria di Pietro Nuvolone, Milano, 1991,
III, p. 55 e ss.
penale
Sommario: 1. Le pene devono tendere alla rieducazione
del condannato. – 2. Il teologismo costituzionale sotteso al
sistema penale integrato. – 3. Il diritto del minore al tratta‑
mento differenziato
I contenuti positivi
della prevenzione
speciale e il diritto
all’educazione del
minore autore di reato
l u g l i o • a g o s t o
76
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
tralità del contenuto del terzo comma dell’art. 27 Cost. Furo‑
no in tal modo superate le tante perplessità, che il testo aveva
suscitato, specialmente in chi non si rassegnava ad accettare
la scelta di rieducazione, continuando a coltivare antistoriche
nostalgie di retribuzione o di prevenzione negativa.
Si apriva così il percorso di deeticizzazionedella sanzione,
in cui si rinviene la posizione speculativa che ricompone, in
maniera dialettica, le antinomie tra gli scopi della pena, as‑
sumendo come criterio di prevalenza le tre fasi in cui si arti‑
cola la vicenda penale: in quella legislativa, la pena non può
che perseguire la finalità di prevenzione generale; nelle altre
due fasi, della commisurazione e dell’esecuzione, essa assolve
alla funzione di prevenzione speciale rieducatrice 6 . In stretta
continuità sul versante processualpenalistico7, si rintraccia
l’impostazione di chi, cogliendo questa pluridimensionalità
della pena, ne distingue la componente finalistica a seconda
dei diversi momenti istituzionali della sua esistenza.
Per tale ultima tesi, rispetto alla funzione legislativa, la
pena realizza la prevenzione generale; quanto alla funzione
giurisdizionale, la pena è garanzia di proporzione; relativamen‑
te alla funzione esecutiva si espande lo scopo rieducativo.
Invero, la norma (art. 27 Cost. comma 3) apre a prospet‑
tive dommatiche e politico‑criminali, colte da chi8parte dalla
premessa che in uno stato sociale di diritto il trattamento è
diritto rieducativo riconosciuto a tutela del valore di sintesi
della persona e comporta «l’effettiva integrazione del sogget‑
to, da ottenersi tramite la realizzazione di un programma di
(re)inserimento basato sul training sociale, sull’emancipazione
individuale». La proiezione finalistica, qui evocata, non si
esaurisce all’interno dell’area della fase esecutiva della sanzio‑
ne, ma va oltre; perché la rieducazione è un connotato di es‑
senza della sanzione, che condiziona l’esistenza della fattispe‑
cie astratta al momento della concreta estinzione. Insomma,
l’ampio raggio d’azione del principio di cui all’art. 27 comma 3
Cost. non esclude il versante della struttura del reato. Ne di‑
scendono due implicazioni 9: a) nella selezione delle fattispecie
sanzionatorie il legislatore deve aver valutato a priori l’idonei‑
tà delle stesse ad attuare un «trattamento personalizzato non
desocializzante»; b) le modalità esecutive sono strumentali
alla concreta attuazione della personalizzazione del tratta‑
mento punitivo.
L’opzione di politica criminale si muove in termini di
prevenzione; ma si osserva che la prevenzione speciale mani‑
festa il suo aspetto negativo come neutralizzazione dell’indi‑
viduo e l’aspetto positivo come recupero sociale, da attuarsi
essenzialmente in libertà, attraverso una terapia sociale eman‑
cipante – scelta con il consenso del reo –, essendo palese che
non vi possa essere risocializzazione senza il rispetto della
persona, senza la manifestazione di volontà di aderire ad un
programma di rieducazione.
Ed anche per il giovane disadattato o deviante va appron‑
tata una strategia di socializzazione che si preoccupi di forni‑
re gli aiuti necessari per l’attivazione del senso di responsabi‑
lità e per il raggiungimento della piena capacità di autodeter‑
minarsi10 ; a maggior ragione per il minore la funzione della
pena deve porre al centro delle scelte di politica criminale il
rispetto della libertà e della dignità della persona.
Da ciò deriva l’accentuazione della giurisdizionalizzazione
degli interventi per garantire quanto più possibile la posizione
giuridica del minore e per attivare il suo senso di responsabi‑
lità11; da altro lato, la ricerca e la sperimentazione in libertà
di strategie di recupero sono affidate agli enti locali che pos‑
sono proficuamente adattare i processi d’intervento alle
strutture realmente presenti, impiegando in maniera ottimale
i mezzi a disposizione. Questo significa privilegiare la funzio‑
ne specialpreventiva nel trattamento penale del minore.
2. Il teologismo costituzionale sotteso al sistema penale integrato
Sul terreno metodico‑sistematico, l’individuazione dei
contenuti “socializzanti” coinvolge, nella vicenda interpreta‑
tiva, i principi costituzionali dello stato di diritto – e, quindi,
gli artt. 2, 3 comma 1, 19, 21 Cost., sintesi della garanzia
della dignità della persona – ma anche quelli dello stato so‑
ciale – scritti negli artt. 3 comma 2, 4, 32, 34 Cost. –; tutti
insieme e da diverse angolazioni, essi garantiscono lo sviluppo
della personalità in una prospettiva di solidarietà12 , concor‑
rendo a costruire il concetto di rieducazione di cui all’art. 27
comma 3 Cost. e a delinearne l’ambito operativo, specifica‑
mente utilizzabile in materia minorile.
Il quadro normativo si arricchisce del riferimento alla
fondamentale esigenza della proporzione, nel significato di
limite garantisco all’interno del rapporto tra responsabilità e
misura della sanzione; si tratta di un elemento guida per il
legislatore nel momento della posizione della norma e per il
giudice nel momento della determinazione della pena: l’ag‑
gancio normativo è offerto attraverso un’ermeneutica elemen‑
tare, dall’art. 3 Cost., in materia di uguaglianza.
Lo stesso quadro normativo qualifica il “tendere” di cui
all’art. 27 comma 3 Cost. seconda proposizione, come guida
delle ‘operazioni’ necessarie a realizzare lo scopo della pena
genericamente riferibile alla risocializzazione.
Il concetto di “rieducazione”, come è noto, è accompagna‑
to da significati molto differenziati e, talvolta, incompatibili
con un assetto normativo da stato sociale di diritto13 .
Ad esempio, appare certamente inaccettabile il tradizio‑
nale significato di “emenda morale”, perché limita la prospet‑
tiva di recupero sociale.
Convince, perciò, l’orientamento metodologico che si af‑
fida al sistema della nostra Carta costituzionale. Esso, per un
verso, evita che attraverso gli organi della giustizia statale si
legittimino scopi trascendenti la mera adesione ai principi che
essa pone e, segnatamente, concezioni etiche, la cui accetta‑
6 G. Fiandaca, Art. 27 comma 3 e 4, in AA.VV., Commentario della Costituzio‑
ne, a cura di G. Branca‑A. Pizzorusso, Bologna‑Roma, 1991, p. 263.
7 G. Riccio, voce Responsabilità penale, in Enc. giur. Treccani, agg., Roma, 1994,
p. 25‑26
8 S. Moccia, Il diritto penale tra essere e valore, Funzione della pena e sistema‑
tica teleologica, Napoli, 2006, p. 101 e ss.
9 L’espressione è di G. Fiandaca, Art. 27 comma 3 Cost., in AA.VV., Commen‑
tario alla Costituzione, cit., p. 275.
10 M. Leonardi, Le cause e i processi della devianza minorile, in AA. VV., La
giustizia penale minorile: formazione, devianza, diritto e processo, a cura di A.
Pennisi, Milano, 2004, p. 64.
11 Cfr. Larizza S. , Bisogno di punizione o bisogno di educazione? Il perenne
dilemma della giustizia minorile, in Cass. pen., 2006, p. 2975 e ss.
12In tal senso, S. Moccia, Il diritto penale tra essere e valore, cit., p.104.
13Sul punto si vedano le magistrali indicazioni di G. Vassalli, Il dibattito sulla
rieducazione, in Rass. penit. e crim., 1982, p. 437 e ss.
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
2 0 1 2
77
zione dovrebbe esser legata a scelte, per definizione, comple‑
tamente libere, non potendo esse dipendere dal sistema di
coazione della sanzione penale; per altro verso, esso riconosce
alla pena il compito di offrire al reo la possibilità di orientare
la propria esistenza nel senso del rispetto di quella altrui.
Ciò non può significare il perseguimento di un adattamen‑
to coattivo verso modelli comportamentali eteronomi; non
può giustificare il tentativo di indebite manipolazioni della
personalità; né deve operare un cambiamento ab externo
dell’identità individuale. Piuttosto, con tutte le garanzie dello
stato sociale di diritto, si deve favorire un’effettiva integrazio‑
ne del soggetto, da ottenersi tramite la realizzazione di un
programma di (re)inserimento basato sul training sociale,
sull’emancipazione individuale e, quindi, attraverso la realiz‑
zazione di forme efficaci di sostegno socio‑culturale. Tutto
ciò implica la sperimentazione quanto più ampia possibile di
modalità ‘extraistituzionali’ di esecuzione della sanzione.
Peraltro, il “trattamento” non può imporsi coattivamente:
non sul piano della legittimità per il rispetto della dignità e
dell’autonomia individuale; non sul piano dell’efficacia perché
l’imposizione ne minerebbe la riuscita, per la quale è indispen‑
sabile la volontaria ed attiva adesione del soggetto.
In una situazione del genere, un diritto penale che si faccia
carico dell’osservanza dei diritti costituzionali per la tutela
della persona non può reagire con risposte sanzionatorie ri‑
goristiche di tipo afflittivo‑deterrenti, ma solo cercando di
realizzare le condizioni per elidere la desocializzazione, oggi,
normalmente connesse all’internamento in un’istituzione di
tipo custodiale.
In questo contesto, ancora in linea generale, non può non
considerarsi che il punto focale della questione riguarda l’in‑
dividuazione concreta del singolo trattamento di recupero e
le sue effettive modalità applicative; ma il tema tocca alla
radice l’attuale sistema sanzionatorio, prima ancora che le
modalità del trattamento penitenziario; il che ha ancor più
significato per le vicende processuali e per gli strumenti per il
trattamento dei minori.
Sul primo punto, viene diffusamente riconosciuto l’indi‑
scutibile inefficacia della sanzione penale, così come è usual‑
mente strutturata nella specie della pena detentiva, con il
consueto corollario di disumanità, che connota il più delle
volte la sua esecuzione. In altri termini, il sistema resta esclu‑
sivo, non inclusivo, sostenuto, come è, da una prevenzione
speciale negativa, che genera i luoghi per l’esclusione; siamo
ancora a quei tempi, stando alla dichiarata disumanità della
sanzione penale, e non solo sul piano formale del rispetto del
progetto costituzionale, nonostante i lunghi passi della Storia
verso il riconoscimento dei diritti della persona.
L’ordinamento del nostro Paese contiene i presupposti
normativi – forse non i connotati effettuali – per realizzare in
positivo lo scopo risocializzante della pena; sembra, cioè, che
possano essere legittimamente perseguiti gli scopi positivi
della prevenzione, costituiti dal rafforzamento della coscien‑
za sociale intorno ai suoi valori basici.
In materia, v’è chi14 rimarca la profonda differenza tra la
ben articolata e complessa disciplina costituzionale italiana,
da una parte, e la semplicistica, inappagante soluzione “dis‑
suasiva” che caratterizza la normativa europea nel rispetto di
fondamentali prerogative individuali.
Si riconosce, cioè, che il silenzio dei Trattati e delle stesse
Carte europee dei diritti sulla funzione della pena non rap‑
presenta solo la mancanza di un referente teleologico vinco‑
lante, essenziale per la costruzione dell’intero sistema degli
interventi penali europei; si riconosce, cioè, che le prescrizio‑
ni relative alla necessaria “non sproporzione” della pena ri‑
spetto al reato (di cui all’art. 49 comma 3 della Carta dei di‑
ritti fondamentali dell’Unione) ed al divieto di trattamenti
inumani o degradanti (di cui agli artt. 3 Cedue 4 Carta dei
diritti) siano compatibili, in astratto, con la teoria retributiva
e con la prevenzione speciale. E ciò per chi reputa che la pro‑
porzione tra pena e reato possa essere interpretata, anche,
considerando il dato – centrale – della pericolosità soggettiva
dell’autore del reato, rispetto alla quale la “pena” può atteg‑
giarsi come forma deterrente e/o neutralizzante.
In questi diversi parametri normativi manca il riferimento
alla funzione rieducativa della pena, intesa quale offerta di
reinserimento sociale, che costituisce la pietra angolare di un
sistema penale, corrispondente ai principi personalistici e
solidaristici della nostra Costituzione.
Peraltro, tale ‘vuoto dei fini’ha aperto alla giurisprudenza
della Corte di giustizia ed al diritto secondario dell’Unione
– anche a decisioni quadro ed a direttive in materia pena‑
le – un inaccettabile spazio di ‘supplenza’, entro cui ha avuto
luogo l’imposizione agli Stati membri di obblighi di crimina‑
lizzazione relativi a sanzioni penali, non solo efficaci e pro‑
porzionate, ma anche “dissuasive”15.
14 S. Moccia, Funzioni della pena ed implicazioni sistematiche: tra fonti europee
e Costituzione italiana, in Dir. pen. proc., 2012, p. 921
15 S. Moccia, Funzioni della pena ed implicazioni sistematiche: tra fonti europee
e Costituzione italia, cit.
3. Il diritto del minore al trattamento differenziato
In questo contesto si inserisce l’osservazione della specifi‑
ca vicenda minorile; che trova nella peculiarità del rapporto
con la persona e con i diritti di cui è portatore le ragioni della
specializzazione sia sul profilo sostanziale che processuale.
Rispetto alla seconda vicenda le linee programmatiche su
cui il legislatore risolve problemi strategici per la tutela di
diritti del minore nel processo, i punti di orientamento della
filosofia specializzante si aggregano sulla indispensabilità
dell’ osservazione del minore ai fini del trattamento proces‑
sale e sulla necessità di includere nel processo strumenti di
tutela dei suoi diritti.
Chiariamo. Il raggiunto ordine logico non elide il potere
discrezionale del legislatore di differenziare le situazioni che
scandiscono i tempi dello scopo della pena; ciò che accade
nella giurisdizione minorile si realizza in nome di quei diritti
del minore. Una volta accertata la responsabilità, si anticipa
nel processo il progetto di integrazione sociale, certo, non con
strumenti clemenziali incompatibili con la filosofia del rap‑
porto processo‑pena. Per tale evenienza il legislatore sceglie
una “strategia” idonea a ridurre i danni del processo rispetto
allo sviluppo della persona, arricchendolo di strumenti di
recupero endoprocessuale.
I contenuti positivi della prevenzione speciale divengono
il referente assiologico dell’azione di tutela del minore autore
penale
Gazzetta
78
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
di reato, affidata alla giurisdizione, in tal modo riducendo i
rischi di una condanna pregiudizievole al completamento
della personalità, allo stato deviata.
Non vanno mai confuse, però, la pienezza dei diritti pro‑
cedurali dei minori e le legittime esigenze dell’accertamento
con le soluzioni strategicamente orientate al recupero del
giovane disadattato. Nella vicenda di cui trattiamo, la sostan‑
za penale acquista diversa natura, mettendo il trattamento del
minore al primo posto della scala dei valori in gioco nel siste‑
ma punitivo, quando la giurisdizione ne accerti la responsa‑
bilità, non potendo, questa, muoversi al di fuori dei paradig‑
mi del giusto processo; essi sono imposti anche ai magistrati
laici che coadiuvano i togati nell’esercizio della funzione giu‑
risdizionale, proprio per assicurare le conoscenze “tecniche”,
necessarie all’osservazione della personalità ed alla individua‑
zione della meritevolezza del trattamento e dei modi del suo
esercizio.
Lo scopo del processo rimane l’accertamento del fatto.
Su questo diverso modo di considerare il sistema penale
quando si tratta di un soggetto minorenne vi sono tracce
sempre più significative all’interno della giurisprudenza della
Corte costituzionale16 , secondo cui la capacità di intendere e
di volere del minore tra i quattordici e i diciotto anni – e cioè
la sua imputabilità (art. 98 c.p.) – deve essere verificata caso
per caso, in relazione al momento in cui è stato commesso il
fatto.
In secondo luogo, il largo ricorso alla sospensione condi‑
zionale della pena ed al perdono giudiziale nell’ambito della
giustizia minorile conferma, non soltanto la tendenza genera‑
le a considerare come ultima ratioil ricorso all’istituzione
carceraria, ma sottolinea con forza la necessità di valutazioni
del giudice fondate su prognosi individualizzate in ordine
alle prospettive di recupero del minore deviante.
In sintesi, l’ordinamento italiano non si è ispirato ad un
generico favor per i minori, ma, sul fondamento del disposto
di cui all’art. 31 ult. comma Cost.17, ha provveduto (in parti‑
colare con la l. 25 luglio 1956 n. 888) a sviluppare istituti e
servizi che dovrebbero rendere residuale l’internamento dei
minori nei riformatori giudiziari e nelle prigioni scuola. Ciò
non comporta alcuna sottovalutazione della pericolosità e
gravità del fenomeno della delinquenza minorile: ma significa
solamente che non si intende lasciare intentata alcuna possi‑
bilità di recupero di soggetti, non ancora del tutto maturi dal
punto di vista fisio‑psichico.
Questa ordinata scansione ‘fasica’ – che esalta i compiti
delle diverse istituzioni coinvolte nella vicenda – è scomposta
per la giurisdizione minorile, ove prevalgono i bisogni di evi‑
tare che il processo penale costituisca causa di interruzione
dell’iter di formazione della personalità del minore. Di conse‑
guenza, si modificano, strutturalmente, le linee politiche su
cui costruire l’ordinata successione degli eventi: rimosso il
divieto di osservazione della persona – ritenuto un pericoloso
sintomo di trasformazione del diritto penale del fatto in dirit‑
to penale dell’autore – il legislatore segue linee strategiche
idonee al fine innanzi individuato, recuperando nel processo
16 Corte cost., sent. del 20 aprile 1978, n. 46, cit.
17 Art. 31 ult. comma Cost. secondo cui la Repubblica “protegge la maternità,
l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo”.
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
strumenti del trattamento sanzionatorio sotto forma di so‑
spensione del giudizio per consentire al minore l’orientato
‘ravvedimento’: la messa alla prova (art. 28 d.P.R. n. 448 del
1988) è la macroscopica esemplificazione di questa strategia.
In particolare all’interno dell’assetto delineato dalla giu‑
risprudenza costituzionale18 si origina il diritto al trattamen‑
to differenziato del minore; lungo questo percorso il giudice
delle leggi perviene, con una costante metodica di intervento,
al superamento della regola transitoria dell’estensione ai mi‑
nori dell’ordinamento penitenziario previsto per gli adulti
(art. 79 della l. 26 luglio 1975, n. 354), non essendo stata
emanata ad oggi la disciplina diversificata.
Interrogarsi sui significati politici sottesi a questo inspie‑
gabile ritardo del Parlamento19, non appare immediatamente
utile; non lo è, invece, l’osservazione euristica della funzione
supplente svolta dalla Corte costituzionale.
L’antinomia tra provvisorietà della soluzione di tutela e
contenuti del diritto all’educazione ha rafforzato l’attività di
ricostruzione ermeneutica del giudice delle leggi 20 , che ha
sopperito negli anni all’atteggiamento rinunciatario del legi‑
slatore con decisioni di accoglimento o con sentenze additive,
ma anche con interpretative di rigetto, nelle quali ha scritto
le ragioni costituzionali del trattamento diversificato21.
Ebbene, a questa giurisprudenza va riconosciuto il merito
di aver diffuso la cultura della specializzazione del giudice
minorile, quale situazione strumentale al recupero del mino‑
re deviante e al suo reinserimento sociale; ed in questa pro‑
spettiva è stata evidenziata in maniera costante l’inadeguatez‑
za delle disposizioni 22 , descrivendo il filo conduttore di un
preciso indirizzo normativo‑assiologico e di metodo.
Dunque, non è un caso che, all’interno della disarmonia
tra principi costituzionali e regole di trattamento penitenziario,
l’azione della Corte si è spinta a privilegiare decisamente le
esigenze di non desocializzazione del minore autore di reato.
Con queste decise posizioni, ma forse ancora con ‘incerta
coscienza’, la Corte privilegiava i contenuti della funzione
specialpreventivapositiva nel trattamento penale del minore,
e con ciò senza mettere in discussione il fatto che scopo del
processo penale è l’ accertamento del fatto e della responsa‑
bilità dell’imputato, anche se minore23 .
18 Corte cost. sent. 22 maggio 1987, n. 206, in Cass. pen., 1987, p. 2085; Corte
cost.,, sent. 15 luglio 1983, n. 222, in Giur. cost, 1983, p. 1319. Cfr. S. Lariz‑
za, I principi costituzionali della giustizia penale minorile, in La giustizia pe‑
nale minorile: formazione, devianza, diritto e processo, a cura di A. Pennisi,
Milano, 2004, p. 93 e ss. Per una ricognizione generale dell’art. 31 Cost., si
vedano L. Cassetti, Art. 31, in Commentario alla Costituzione, cit., pp. 640‑654;
C. Bergonzini, Art. 31, in Commentario breve alla Costituzione, a cura di S.
Bartole, R. Bin, Padova, 2008, pp. 318‑321.
19 P. De Martino, Riflessioni su alcune proposte de iure condendo in tema di
esecuzione penale minorile, in Cass. pen., 2011, p. 3183.
20 Cfr., ad esempio, Corte Cost., sent. 15 luglio 1983, n. 222, cit., e Corte cost.,
sent. 22 maggio 1987, n. 206 cit.
21 S. Ruggeri, La disciplina penitenziaria, in AA. VV., La giurisdizione specializ‑
zata nella giustizia penale minorile, cit., p. 241. Per una disamina della dispo‑
sizione in esame, cfr. G. La Greca, Commento all’art. 79, in Ordinamento
penitenziario, a cura di G. Grevi, G. Giostra, F. Della Casa, III, Padova, 2006,
p. 1082.
22 G. Giostra, Prime riflessioni intorno ad uno Statuto europeo dell’imputato
minorenne, in AA. VV., Per uno Statuto europeo dell’imputato minorenne,
cit., p. 13.
23 Cfr., M. G.Coppetta, Spunti per uno Statuto europeo del condannato mino‑
renne, in AA.VV., L’esecuzione penitenziaria a carico del minorenne nelle carte
internazionali e nell’ordinamento italiano, cit., p. 145.
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
La linea metodologica segna la giurisdizionalizzazione del
diritto, consegnando lo sviluppo del fenomeno al giudice del
caso, dal momento che è la forza dirompente del caso a dero‑
gare la legge.
In buona sostanza, la Corte dominava e domina dall’alto
il consolidarsi del diritto giurisprudenziale, muovendo dalla
consapevolezza che la rieducazione non può avere lo stesso
contenuto positivo per tutti i consociati.
La convinzione era, ed è, che il principio di uguaglianza
implica l’individualizzazione del trattamento rieducativo
rapportata alle condizioni personali (art. 3 comma 1 Cost.) e
socio‑economiche (art. 3 comma 2 Cost.) di ciascun condan‑
nato: esso stesso, dunque, contiene il carattere ontologicamen‑
te diversificante del trattamento24 .
Tuttavia ed in termini generali, ciò impone la costatazione
che la funzione della pena è in grado di condizionare la strut‑
tura e le forme della giurisdizione penale minorile.
Dunque, l’attività di codificazione della fase dell’esecuzio‑
ne della pena nei confronti del minore non è più rinviabile, e
non soltanto per raccogliere i moniti della Corte costituzio‑
nale. È necessario dare seguito alla Raccomandazione (08) 11
sulle “Regole europee relative ai minori oggetto di sanzioni o
misure conseguenti ad una violazione della legge penale”,
approvata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa 25
24In argomento, M. G. Coppetta, L’esecuzione della pena detentiva: il trattamen‑
to intra moenia e le misure alternative, in AA. VV., L’esecuzione penitenziaria
a carico del minorenne nelle carte internazionali e nell’ordinamento italiano,
cit., p. 251.
25 Da un punto di vista formale, la raccomandazione (08) 11 è un corpus di dirit‑
to penitenziario minorile che si compone di 142 articoli ed è suddivisa in otto
parti: (I) Principi basilari, campo di applicazione e definizioni; (II) Sanzioni e
misure; (III) Privazione della libertà personale; (IV) Consulenza legale ed assi‑
stenza; (V) Procedure di reclamo. Ispezione e controllo; (VI) Personale; (VII)
Valutazione, ricerca, lavoro con i media e il pubblico; (VIII) Aggiornamento
normativo.
Nel catalogo delle garanzie proprie del diritto penitenziario minorile, non
mancano il riferimento all’osservanza dei diritti umani e alla legalità che deve
2 0 1 2
79
proprio in considerazione della sua natura, essendo essa rite‑
nuta atto prevalentemente politico, privo di efficacia diretta,
e non potendo essere classificata come norma interposta ri‑
spetto all’art. 117 comma 1 Cost.
È appena il caso di notare che se per noi l’ostacolo potreb‑
be essere aggirato dalla prevalente forza del principio di di‑
versificazione, la cui fonte è costituita dalla linea costituzio‑
nale tracciata dagli artt. 2, 3, 29, 30, 31, 32, 34 Cost., la
praticabilità di una giustizia minorile che voglia esprimere le
potenzialità insite nell’ordinamento deve misurarsi necessa‑
riamente con gli obblighi pattizi a cui è tenuta l’Italia 26 .
permeare l’intera fase esecutiva (principio di riserva di legge), la quale a sua
volta deve essere sottoposta al controllo di un organo giurisdizionale (principio
di riserva di giurisdizione).
26 M. L. Fiorillo, Un ordinamento penitenziario per i minori, in Min. giust.,
2008, p. 135.
penale
Gazzetta
80
D i r i t t o
●
Relazione introduttiva
sull’incidenza
delle fonti comunitarie
e internazionali
nel nostro ordinamento
penale
● Vittorio Ambrosio
Avvocato
e
p r o c e d u r a
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
Sommario: 1. Premessa di natura storica; 2. Gli effetti
che producono le fonti degli ordinamenti sovranazionali sul
diritto interno; 3. I rapporti conflittuali tra le fonti comuni‑
tarie e il diritto penale; 4. I rapporti conflittuali tra la CEDU
e il diritto penale; 5. Conclusioni: gli obiettivi della rivista
1. Premessa di natura storica
Nell’odierna realtà socio‑economica l’abbattimento globa‑
le delle barriere fra stati genera un avvicinamento di ordine
culturale tra le diverse popolazioni foriero di una progressiva
omogeneizzazione delle regole comuni.
Se è vero che ha ancora cogenza il principio “ubi societas
ibi ius” non si può non evidenziare che per effetto della realiz‑
zazione di questo nuovo spazio territoriale comune sia nata
l’esigenza di creare un nuovo ordinamento giuridico teleologi‑
camente orientato alla definizione di regole idonee a garantire
la pacifica convivenza civile.
Esperimenti di questo genere sono noti al contesto inter‑
nazionale, nati soprattutto sulle macerie dei conflitti mondia‑
li in cui la restaurazione dell’ordine sociale negli stati bellige‑
ranti si è avuta grazie alla creazione di organismi internazio‑
nali aventi come scopo precipuo quello di mantenere solidi i
rapporti fra stati.
Lo stato italiano, nell’immediato dopoguerra, di concerto
con le più grandi potenze europee, ha partecipato alla stipu‑
lazione di trattati diretti a creare organismi sovranazionali
dotati a loro volta di organi capaci di effettuare ingerenze sui
principi di sovranità nazionale.
Un primo riferimento storico si rinviene nella stipulazione
della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo (CEDU).
Tale Carta nasce con lo scopo principe di tutelare a livello
internazionale i diritti fondamentali dell’uomo, oltremodo
calpestati durante il secondo conflitto mondiale attraverso la
perpetrazione di trattamenti disumani atti a distruggere la
dignità fisica e morale dell’individuo.
La grande novità della Convenzione si rinviene nella crea‑
zione della Corte EDU, organo giurisdizionale finalizzato ad
assicurare che i diritti tutelati vengano effettivamente rispet‑
tati dagli stati paciscenti.
Oltre alla CEDU l’Italia, al fine di rafforzare la coopera‑
zione economica tra stati che si erano confrontati nelle due
guerre mondiali, prende parte alla nascita della Comunità
Europea per realizzare il tanto agognato “mercato comune”
nel territorio europeo, garantendo in questo modo la libera
circolazione delle persone, dei beni, dei servizi e dei capitali.
2. Gli effetti che producono le fonti degli ordinamenti sovranazio‑
nali sul diritto interno
Poste queste essenziali premesse sulle ragioni che hanno
spinto lo Stato italiano ad aderire ad organizzazioni interna‑
zionali è necessario soffermarsi sulla natura di tali ordinamen‑
ti e sugli effetti che hanno gli atti di questi organismi all’inter‑
no dell’ordinamento nazionale.
Tale aspetto problematico assume nel moderno contesto
giuridico un rilievo tutt’altro che marginale, stante l’inevita‑
bile bisogno dell’operatore del diritto di “dotarsi” di strumen‑
ti di conoscenza tesi a presentargli un quadro completo delle
normative nazionali e sovranazionali che investono la fattispe‑
cie concreta sottoposta al suo esame.
Procedendo per gradi, bisogna sottolineare che il nostro
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
ordinamento costituzionale è influenzato dalle fonti norma‑
tive che derivano dal diritto comunitario e dalla CEDU, te‑
nendo conto anche delle interpretazioni di essi offerte dagli
organi giurisdizionali incaricati della loro applicazione ed
interpretazione.
Invero, la nostra carta costituzionale, come risulta dal
combinato disposto degli artt. 10, 11 e 117, consente che lo
stato italiano, a condizioni di reciprocità con gli altri stati,
ceda la propria sovranità per esercitare la potestà legislativa
nel rispetto dei vincoli del diritto comunitario e degli obblighi
internazionali.
Ne discende come logico corollario che il diritto comunita‑
rio e la CEDU esplicano nel nostro ordinamento un’efficacia
diretta a sovvertire la normale gerarchia delle fonti normative.
Per quanto riguarda il diritto comunitario, oggi si ritiene
pacificamente, alla luce dell’evoluzione della giurisprudenza
costituzionale culminante nella celeberrima sentenza Granital,
che i rapporti tra ordinamento nazionale e ordinamento co‑
munitario siano retti dal cd. principio del primato del diritto
comunitario, in forza del quale la norma interna contrastante
con il diritto comunitario direttamente applicabile deve essere
disapplicata sia dal giudice nazionale che dalla p.a.
In ossequio a tale principio, si è arrivati alla conclusione
di considerare le direttive non trasposte come fonti comuni‑
tarie che, a determinate condizioni, possono produrre effetti
diretti.
In primo luogo, si ritengono immediatamente applicabili
quelle direttive, o meglio, quelle parti di direttive, che preve‑
dono un obbligo negativo in capo ai destinatari di non tenere
un dato comportamento, trattandosi all’evidenza di norme
che non necessitano di intermediazione, per cui gli interessa‑
ti possono invocarne il rispetto anche se la direttiva nel suo
complesso sia priva di efficacia diretta.
In secondo luogo, si riconoscono effetti diretti a quelli
direttive che, prive di carattere innovativo, si limitano a con‑
fermare la portata di norme già previste dal Trattato istituti‑
vo della Comunità europea.
In ultimo, si ritiene che possano essere portate immedia‑
tamente ad esecuzione, una volta spirato infruttuosamente il
termine assegnato all’autorità nazionale per la loro attuazio‑
ne, tutte quelle direttive che, tradendo la loro indole fisiolo‑
gicamente incompleta, a) prevedono obblighi aventi un con‑
tenuto sufficientemente chiaro e preciso, tale da non lasciare
margine di discrezionalità agli Stati; b) abbiano carattere in‑
condizionato, tale cioè da non richiede l’adozione di ulteriori
atti; c) creino diritti a favore dei singoli chiaramente indivi‑
duabili nel loro contenuto.
Ricorrendo tali condizioni, la direttiva (self‑executing)
dovrà essere applicata direttamente dal giudice nazionale e lo
Stato inadempiente non potrà prendere a pretesto la mancata
attuazione della direttiva al fine di disconoscere le posizioni
dalla stessa compitamente conferite, visto che l’effetto utile e
il carattere vincolante delle norme in esame verrebbero tra‑
volti ove si desse al singolo Stato la possibilità di vanificare
con un colpevole comportamento omissivo gli effetti di un
direttiva dettagliata.
In ordine agli effetti diretti delle direttive, la Corte di
Giustizia ha avuto cura di chiarire che le norme comunitarie
in esame possono produrre effetti diretti solo in senso verti‑
cale, non anche in senso orizzontale. Ciò significa che le di‑
2 0 1 2
81
sposizioni di una direttiva non attuata (o non fedelmente
trasposta) possono essere fatte valere dati privati solo nei
confronti dello Stato inadempiente. Va, peraltro, precisato che
ai fini dell’efficacia verticale della direttiva, il concetto di
Stato viene inteso in senso ampio, come sinonimo di ammini‑
strazione pubblica, comprensivo, quindi, anche di enti non
statali e, segnatamente, degli enti territoriali. È stata, inoltre,
riconosciuta la possibilità di far valere la direttiva anche nei
confronti di soggetti privati, laddove gli stessi risultino inve‑
stiti di funzioni pubblicistiche.
In particolare, la Corte estende l’efficacia verticale ad ogni
organismo che sia stato incaricato, con atto della pubblica
autorità, di prestare, sotto il controllo di quest’ultimo, un
servizio di interesse pubblico e che dispone a tale effetto di
poteri esorbitanti rispetto alle regole applicabili nei rapporti
tra privati” (Corte di Giustizia, 12 luglio 1990, Foster, in
causa 188/89).
La giurisprudenza comunitaria esclude, invece, con net‑
tezza l’efficacia orizzontale della direttiva, ovvero la possibi‑
lità per il singolo di far valere la direttiva, azionando i diritti
dalla stessa attribuiti, nei confronti di altri soggetti privati.
Diverso è il discorso da fare in relazione alla CEDU poiché
essa si ascrive tra le fonti di natura di natura internazionale
che, a differenza del TUE, non determina una cessione della
sovranità nazionale.
Ciononostante, non si può negare che negli ultimi decen‑
ni anche il diritto sovranazionale ha raggiunto una vis per‑
suasiva nel nostro ordinamento. Infatti, per effetto della ri‑
forma del titolo V avvenuta con legge costituzionale n. 3/2001,
è stato introdotto un ulteriore limite alla potestà legislativa
dello stato la quale, in ossequio al disposto dell’art. 117 cost.,
si esercita in conformità con la costituzione, il diritto comu‑
nitario e gli obblighi di natura internazionale.
Il problema del rispetto degli obblighi internazionali nel
nostro ordinamento si è posto soprattutto in relazione alla
CEDU.
La compiuta definizione dei rapporti CEDU – diritto in‑
terno è cristallizzata nelle magistrali sentenze gemelle della
Corte Costituzionale n. 348 e 349 del 2007, le quali afferma‑
no in maniera apodittica che: “l’art. 117, primo comma,
Cost., ed in particolare l’espressione “obblighi internaziona‑
li” in esso contenuta, si riferisce alle norme internazionali
convenzionali anche diverse da quelle comprese nella previ‑
sione degli artt. 10 e 11 Cost. Così interpretato, l’art. 117,
primo comma, Cost., ha colmato la lacuna prima esistente
quanto alle norme che a livello costituzionale garantiscono
l’osservanza degli obblighi internazionali pattizi. La conse‑
guenza è che il contrasto di una norma nazionale con una
norma convenzionale, in particolare della CEDU, si traduce
in una violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. Questa
Corte ha, inoltre, precisato nelle predette pronunce che al
giudice nazionale, in quanto giudice comune della Conven‑
zione, spetta il compito di applicare le relative norme, nell’in‑
terpretazione offertane dalla Corte di Strasburgo, alla quale
questa competenza è stata espressamente attribuita dagli
Stati contraenti. Nel caso in cui si profili un contrasto tra una
norma interna e una norma della Convenzione europea, il
giudice nazionale comune deve, pertanto, procedere ad una
interpretazione della prima conforme a quella convenziona‑
le, fino a dove ciò sia consentito dal testo delle disposizioni
penale
Gazzetta
82
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
a confronto e avvalendosi di tutti i normali strumenti di er‑
meneutica giuridica. …
Solo quando ritiene che non sia possibile comporre il con‑
trasto in via interpretativa, il giudice comune, il quale non può
procedere all’applicazione della norma della CEDU (allo stato,
a differenza di quella comunitaria provvista di effetto diretto)
in luogo di quella interna contrastante, tanto meno fare appli‑
cazione di una norma interna che egli stesso abbia ritenuto in
contrasto con la CEDU, e pertanto con la Costituzione, deve
sollevare la questione di costituzionalità (anche sentenza n. 239
del 2009), con riferimento al parametro dell’art. 117, primo
comma, Cost., ovvero anche dell’art. 10, primo comma, Cost.,
ove si tratti di una norma convenzionale ricognitiva di una
norma del diritto internazionale generalmente riconosciuta.
La clausola del necessario rispetto dei vincoli derivanti dagli
obblighi internazionali, dettata dall’art. 117, primo comma,
Cost., attraverso un meccanismo di rinvio mobile del diritto
interno alle norme internazionali pattizie di volta in volta ri‑
levanti, impone infatti il controllo di costituzionalità, qualora
il giudice comune ritenga lo strumento dell’interpretazione
insufficiente ad eliminare il contrasto”.
3. I rapporti conflittuali tra le fonti comunitarie e il diritto penale
Le questioni problematiche si acuiscono quando le fonti
sovranazionali interferiscono con il diritto penale.
In relazione al diritto comunitario si ritiene che esso non
possa avere effetti in malam partem nella materia penale
poiché, in base al principio di attribuzione, agli organi comu‑
nitari non sono attribuite competenze dirette in materie pe‑
nali. Invero, la giurisprudenza della Corte di Giustizia è
granitica nel ritenere che: “Una direttiva comunitaria non
può avere come effetto, di per sé e indipendentemente da una
legge interna di uno Stato membro adottata per la sua attua‑
zione, di determinare o aggravare la responsabilità penale
degli imputati in un procedimento penale nazionale (nella
specie, la Corte ha ritenuto che la prima direttiva sul diritto
societario non potesse pertanto essere invocata, nella parte
in cui impone di prevedere sanzioni effettive, proporzionate
e dissuasive per le false comunicazioni sociali, al fine di farne
discendere l’illegittimità delle disposizioni penali in materia
di società e di consorzi del d.lgs. 11 aprile 2002 n. 61, che
impedirebbero di perseguire penalmente le fattispecie delit‑
tuose così come ridisciplinate)”.
In disparte l’operatività del principio di attribuzione,
l’argomento principe in base al quale si esclude la possibilità
da parte delle fonti comunitarie di incidere sulle scelte di
politica criminale è l’imperatività del principio costituzionale
della riserva di legge ex art 25 Cost.
La ratio di tale ultimo principio è stata da sempre rinve‑
nuta nell’esigenza di garantire la massima ponderazione delle
scelte legislative in tema di descrizione dell’area del penalmen‑
te rilevante. Per questi motivi si è sempre riconosciuta
un’esclusiva competenza legislativa in materia penale in capo
al parlamento quale unico organo abilitato ad attuare scelte
politico criminali idonee ad imporre la repressione di fatti
contrari al sentire sociale della nazione.
È stato evidenziato che il procedimento legislativo previsto
dagli artt. 70 ‑ 74 Cost. è in grado di garantire la dialettica
democratica tra le diverse forze politiche che rappresentano il
popolo e la tutela delle minoranze culturali.
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
La riserva di legge tutela altresì il singolo cittadino il
quale può liberamente orientare i propri comportamenti
nell’ambito delle scelte di criminalizzazione predisposte dal
legislatore nazionale.
La maggiore aporia dogmatica connessa al principio della
riserva di legge si pone in relazione all’influenza che possono
avere le fonti comunitarie che incidono su fattispecie nazio‑
nali penalmente rilevanti, estendendo l’area del penalmente
rilevante.
Si è sempre pacificamente esclusa una tale possibilità in
quanto il principio di riserva di legge in materia penale è
considerato un diritto fondamentale del cittadino il quale ha
diritto di autodeterminare i propri comportamenti tenendo
conto dei precetti predisposti dal legislatore interno.
È stato osservato che eventuali limiti penalmente rilevanti
predisposti da fonti sovranazionali scemano la capacità di au‑
todeterminazione del soggetto il quale non è in grado di avere
accesso all’infinita congerie di norme di conio comunitario.
Va rilevato che, malgrado l’Unione europea non abbia mai
avuto competenze dirette in materia penale, con riferimento
alle materie del terzo pilastro riguardante la cooperazione
giudiziaria in materia penale per combattere i fenomeni di
criminalizzazione transfrontalieri, non sono mancati atti
comunitari che hanno influenzato il legislatore penale interno
(es. in tema di mandato di arresto europeo, introduzione
della responsabilità amministrativa degli enti, introduzione
dell’art. 316 ter ecc…).
Il conseguimento di tali obiettivi da parte del legislatore
nazionale è avvenuto o attraverso l’utilizzo di tecniche norma‑
tive di assorbimento, dirette ad estendere l’area del penalmen‑
te rilevante in materie già disciplinate, oppure, mediante tecni‑
che normative di armonizzazione, atte a conformare la tutela
penale di taluni stati alla legislazione di altri stati membri.
In un primo momento per la concretizzazione di tali risul‑
tati ci si servì dei classici strumenti di diritto internazionale
con i quali si articola la cooperazione tra Stati, ovvero le
convenzioni, che venivano ratificate dal legislatore tramite il
procedimento costituzionale previsto dall’art. 87 Cost.
Il carattere farraginoso di tale strumento, connesso alla
fisiologica lentezza nell’approvazione della legge di ratifica,
ha portato alla progressiva sostituzione della convenzione con
le decisioni quadro.
Atti, questi ultimi, che, similmente alle direttive, vincola‑
vano lo stato membro solo nel risultato da perseguire.
Il processo di progressiva comunitarizzazione degli stru‑
menti della cooperazione in materia giudiziaria e di polizia si
chiude alla fine del 2009 con l’entrata in vigore del Trattato di
Lisbona, che ‑ nel quadro della già evidenziata dissoluzione dei
tre pilastri nell’organismo unitario rappresentato dall’Unione
europea ‑ segna anche la scomparsa degli strumenti normativi
tipici del terzo pilastro, tra i quali segnatamente le decisioni
quadro. Le materie di (ex) terzo pilastro divengono ora, come
già si è sottolineato, competenze dell’Unione tout courtai sen‑
si degli artt. 82‑89 del nuovo TFU; ed in tali materie è pertan‑
to possibile all’Unione intervenire a pieno titolo con gli stru‑
menti normativi classici del regolamento e della direttiva.
A fronte di questa novità si aprono scenari interessanti,
seppur ad oggi ancora inesplorati dalla giurisprudenza della
Corte di Giustizia poiché tali fonti potrebbero avere effetti
diretti anche nell’area del penalmente rilevante.
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
4. I rapporti conflittuali tra la CEDU e il diritto penale
Come è noto, la CEDU, oltre agli articoli predisposti in
sede di prima stesura, si compone di protocolli addizionali
che svolgono una funzione meramente integrativa.
Il sistema di protezione della CEDU, ut supra evidenziato,
prevede un organismo giurisdizionale, Corte EDU, quale
giudice di ultima istanza con riferimento alle questioni che
coinvolgono i diritti fondamentali dell’uomo.
È opportuno precisare che nell’individuazione di tali di‑
ritti assume un ruolo centrale anche la giurisprudenza della
Corte EDU la quale, con la propria attività interpretativa,
mira ad estendere il contenuto dei precetti della convenzione
onde garantire una protezione dinamica ed evolutiva confor‑
me alle esigenze sociali moderne.
Ciò posto, si delinea un sistema che, oltre a vincolare lo
Stato dal punto di vista normativo, lo costringe a tener conto
anche del dato interpretativo.
In tale contesto si pone la questione problematica relativa
all’influenza della CEDU sul principio di riserva di legge, se,
in altre parole, il catalogo in essa contenuto è direttamente
applicabile nel nostro sistema penale.
Quest’interrogativo di fondo ha posto delle questioni
problematiche interessanti in quanto, come analizzato in
precedenza, la CEDU non è dotata di un’efficacia diretta al
pari delle fonti comunitarie.
Ad essa è attribuito il rango di fonte subcostituzionale che
determina l’obbligo per il giudice nazionale di sollevare la
questione di legittimità costituzionale della legge interna
contrastante con la convenzione.
Ne consegue che la Corte Costituzionale non è vincolata
ad attuare i principi della convenzione così come interpretati
dalla Corte EDU poiché al Giudice delle leggi è attribuito un
margine di apprezzamento che gli consente di tener conto
delle peculiarità dell’ordinamento giuridico in cui la norma
convenzionale è destinata ad inserirsi.
In tale giudizio comparativo la Corte costituzionale può
subordinare il diritto derivante dalla Convenzione ad un in‑
teresse costituzionalmente preminente.
Tuttavia, la giurisprudenza costituzionale ha specificato i
limiti di tale giudizio comparativo.
Invero, la sentenza della Corte Costituzionale n. 317 del
2009 statuisce che: “Con riferimento ad un diritto fondamen‑
tale garantito anche dalla Convenzione europea per i diritti
dell’uomo, il rispetto degli obblighi internazionali non può
mai essere causa di una diminuzione di tutela rispetto a quel‑
le già predisposte dall’ordinamento interno, ma può e deve,
viceversa, costituire strumento efficace di ampliamento del‑
la tutela stessa. In particolare, la Corte non può ammettere
che una tutela superiore, che sia possibile introdurre per il
tramite dell’art. 117, primo comma, Cost., rimanga sottratta
ai titolari di un diritto fondamentale. L’obiettivo di massima
espansione delle garanzie deve essere conseguito attraverso
lo sviluppo delle potenzialità insite nelle norme costituziona‑
li che tutelano i medesimi diritti protetti a livello convenzio‑
nale e nel necessario bilanciamento con altri diritti fonda‑
mentali costituzionalmente garantiti, suscettibili di essere
incisi dall’espansione di una singola tutela. La protezione dei
diritti fondamentali deve, dunque, essere sistemica e non
frazionata in una serie di norme non coordinate ed in poten‑
ziale conflitto tra loro, e la realizzazione di un equilibrato
2 0 1 2
83
sistema di tutela è demandata, per gli ambiti di rispettiva
competenza, al legislatore, al giudice comune e al giudice
delle leggi. Il risultato complessivo dell’integrazione delle
garanzie dell’ordinamento deve essere di segno positivo, nel
senso che dall’incidenza della singola norma CEDU sulla
legislazione italiana deve derivare un plus di tutela per tutto
il sistema dei diritti fondamentali. Resta fermo che la Corte
costituzionale non può sostituire la propria interpretazione
di una disposizione della CEDU a quella della Corte di Stra‑
sburgo, con ciò uscendo dai confini delle proprie competen‑
ze, in violazione di un preciso impegno assunto dallo Stato
italiano con la sottoscrizione e la ratifica, senza l’apposizione
di riserve, della Convenzione, ma può valutare come ed in
qual misura il prodotto dell’interpretazione della Corte eu‑
ropea si inserisca nell’ordinamento costituzionale italiano.”
In definitiva, dalle recenti prese di posizione della Corte
costituzionale emerge che, per quanto concerne i diritti fon‑
damentali, la disciplina giuridica deve essere quella che tra
diritto nazionale e diritto convenzionale assicura la maggiore
protezione; e pertanto là dove la CEDU, come interpretata
dalla Corte di Strasburgo, assicura una protezione a tali di‑
ritti più intensa rispetto a quella offerta dalla Costituzione,
la Corte costituzionale deve far proprio il livello di tutela più
intenso offerto a livello sovranazionale.
Nasce in questo modo un concitato dialogo tra Corte
Costituzionale e Corte EDU nel quale entrambi gli organi
mirano ad affermare standard di tutela dei diritti fondamen‑
tali che non si pongano in contrasto con altre prerogative
costituzionali.
La questione dell’efficacia diretta della CEDU sembrava
essersi sopita a seguito del Trattato di Lisbona, entrato in
vigore il 1 dicembre 2009, che ha modificato l’art. 6 TFU
comunitarizzando la CEDU.
L’art. 6, par. 1 del Trattato, come modificato dal Trattato
di Lisbona prevede che: “L’Unione riconosce i diritti, le liber‑
tà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 di‑
cembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico
dei trattati”.
Una prima lettura di tale articolo ha tratto in inganno
alcuni interpreti i quali hanno fornito un’interpretazione di‑
versa rispetto ai dicta delle sentenze 348 e 349 del 2007
sull’efficacia delle norme CEDU nel nostro ordinamento.
Infatti, una parte della giurisprudenza (Cons. Stato, sez.
IV, 2 marzo 2010, n. 1220; T.a.r. Lazio, sez. II‑bis, 18 maggio
2010, n. 11894) ha ritenuto che la CEDU sia stata “comuni‑
tarizzata”, con la conseguenza che il giudice nazionale po‑
trebbe direttamente disapplicare la legge nazionale in contra‑
sto con la convenzione, senza necessità di rimettere la que‑
stione alla Corte costituzionale.
Tale indirizzo giurisprudenziale è stato sconfessato dalla
Corte Costituzionale con la sentenza n. 80 del 2011, la quale
ha escluso che il riferimento dell’art. 6 abbia comportato la
diretta applicabilità della CEDU.
A tali conclusioni la Corte è giunta muovendo dalla pre‑
messa che l’art. 11 della Costituzione – e cioè l’articolo che
ammette a certe condizioni la cessione di sovranità attraverso
la stipula dei Trattati – è applicabile solo all’ordinamento
dell’Unione e non anche a quello della CEDU, il primo confi‑
gurandosi una “realtà giuridica, funzionale e istituzionale”
penale
Gazzetta
84
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
ben differenziata dal secondo.
In particolare, ha spiegato che l’art. 11 Cost. non sarebbe
direttamente riferibile alla CEDU neppure facendo leva
sull’art. 6, paragrafo 3, TUE, che – come si è visto – qualifica
i diritti fondamentali della CEDU come “principi generali”
del diritto dell’Unione. Ciò perché tale disposizione, ripren‑
dendo lo schema del previgente art. 6, paragrafo 2, dello
stesso TUE, si limita a confermare una forma di protezione
preesistente al Trattato di Lisbona, e cioè una protezione per
cui i diritti fondamentali garantiti dalla CEDU e risultanti
dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri ven‑
gono in gioco non in sé e per sé, ma soltanto “in quanto
principi generali” del diritto dell’Unione; beninteso, con rife‑
rimento alle fattispecie in cui venga in rilievo l’interpretazio‑
ne o l’applicazione di tale diritto.
Per la Corte costituzionale italiana, la situazione anteriore
al Trattato di Lisbona non è, dunque, mutata per il fatto che la
cosiddetta Carta di Nizza abbia assunto, in forza del paragra‑
fo 1, primo comma, dell’art. 6 TUE, lo “stesso valore giuridico
dei Trattati” e che l’art. 52, paragrafo 3, primo periodo, della
suddetta Carta, preveda una clausola di equivalenza fra i dirit‑
ti da essa previsti e “quelli corrispondenti garantiti” dalla
CEDU. Infatti, l’art. 6, paragrafo 1, secondo comma, TUE – cui
fa eco la Dichiarazione numero 1 allegata a detto Tratta‑
to – chiarisce che “le disposizioni della Carta non estendono
in alcun modo le competenze dell’Unione definite nei Trattati”
e che tali disposizioni trovano applicazione, pertanto, alle sole
fattispecie già disciplinate dal diritto dell’Unione.
Nello specifico, con riferimento alla materia penale, la
Corte ha affermato che le disposizioni della CEDU non esten‑
dono in alcun modo le competenze dell’Unione Europea de‑
finite dai trattati.
Dalla mancata competenza dell’Unione in materia penale
ne discende come logica conseguenza che, se anche la CEDU
fosse da ritenersi realmente comunitarizzata, non potrebbe
comunque “innovare” il diritto penale vigente.
La portate del nuovo art. 6 è stata presa anche in conside‑
razione da un recentissima sentenza della Corte di Giustizia di
Lussemburgo, la quale ha affermato che: “il rinvio operato
dall’articolo 6, paragrafo 3, TUE alla CEDU (…) non impone
al giudice nazionale, in caso di conflitto tra una norma di
diritto nazionale e detta Convenzione, di applicare diretta‑
mente le disposizioni di quest’ultima, disapplicando la norma
di diritto nazionale in contrasto con essa”. Tale articolo, in‑
fatti, secondo la Corte di giustizia, “non disciplina il rapporto
tra la CEDU e gli ordinamenti giuridici degli Stati membri e
nemmeno determina le conseguenze che un giudice naziona‑
le deve trarre nell’ipotesi di conflitto tra i diritti garantiti da
tale convenzione ed una norma di diritto nazionale” (Grande
sezione 24 aprile 2012, in causa C‑571/10, Kamberaj).
Per completezza espositiva va segnalato che il dialogo tra
la Corte Costituzionale e la Corte EDU Questo dialogo po‑
trebbe divenire più serrato se e quando sarà data esecuzione
al punto 12, lettera d) della menzionata Dichiarazione di
Brighton. In esso si auspica che nella Convenzione, allo scopo
di rafforzare l’interazione fra la Corte EDU e le autorità na‑
zionali, sia introdotto un Protocollo addizionale – da redige‑
re entro la fine del 2013 – per dotare la Corte del potere di
inviare “advisory opinions” sull’interpretazione della Con‑
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
venzione, su richiesta dello Stato membro. Le “opinions”,
secondo la Dichiarazione, dovrebbero avere carattere vinco‑
lante per il solo Stato cui appartiene l’autorità che formula il
quesito interpretativo e non per gli altri Stati.
Esse si configurano, quindi, per quello Stato come una
sorta di “pregiudiziale convenzionale” e dovrebbero, pertan‑
to, vincolare l’autorità richiedente alla stessa stregua delle
pronunce rese dalla Corte di giustizia di Lussemburgo in sede
di rinvio pregiudiziale sull’interpretazione del diritto dell’Unio‑
ne ai sensi dell’art. 267 del TFUE.
5. Conclusioni: gli obiettivi della rivista
Nel quadro delineato si inserisce l’iniziativa che questa ri‑
vista intende promuovere, aprendo una sezione sui “temi caldi”
del diritto interno che contrastano il diritto transnazionale.
Bisogna prendere atto del fatto che il diritto comunitario
così come la CEDU vive, oltre che negli atti normativi, anche
nelle dinamiche interpretative atte a specificare il contenuto
delle norme.
Tale meccanismo complesso richiede al giurista che si
affaccia allo studio di una tematica di difficile cognizione un
approccio dinamico, poiché deve far fronte ad una mole di
dati ed informazioni difficilmente governabili.
Nella presente relazione si è preferito riportare i principi
generali che regolano i rapporti tra diritto interno, diritto
comunitario e CEDU. Ciò a discapito delle fattispecie concre‑
te che generano i principali contrasti tra le corti interne ed
internazionali.
Si avverte il lettore che non si è trattato di una dimentican‑
za, ma tale scelta rappresenta il portato di una raffinata linea
editoriale che da questo numero in poi vuole sottoporre all’at‑
tenzione del giurista il quadro normativo completo delle que‑
stioni che investono materie regolate anche dal diritto sovra‑
nazionale al fine di fornirgli gli strumenti necessari per meglio
esaminare i casi concreti sottoposti alla sua attenzione.
Infatti, non mancherà un’analitica trattazione sui maggio‑
ri contrasti che si registrano nell’attuale panorama giurispru‑
denziale.
In particolare:
• Sulla rilevanza nel nostro ordinamento del principio di
retroattività della lex favorevole (espresso dalla Corte Edu
nel caso Scoppola, rifiutato dalla C.Cost., sent. n. 236 del
2011);
• Sull’individuazione di criteri certi per risolvere i casi di
concorso apparente di Norme (in cui le sez.un. del 2010,
n. 1235 affermano la vincolatività dell’art. 7 CEDU nel
nostro ordinamento con riferimento al principio di preve‑
dibilità);
• Sull’ammissibilità di un sindacato in malam partem della
Corte Cost. in caso di violazione del diritto comunitario
(Corte Cost. 28 gennaio 2010, n. 28);
• Sull’accoglimento di un principio di legalità sostanziale ad
opera delle Sezioni unite 21 gennaio 2010 n. 18288 (con‑
forme all’interpretazione delle previsioni della CEDU che
considerano elemento di diritto anche il mutamento della
giurisprudenza);
• Sulla natura giuridica delle confische previste dall’ordina‑
mento interno (che per la Corte Edu sono delle pene, men‑
tre il legislatore interno le considera misure di sicurezza).
Gazzetta
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
85
2 0 1 2
●
Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267
Disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della
liquidazione coatta amministrativa.
La nuova disciplina
del falso in attestazioni
e relazioni
del professionista
nella legge fallimentare
Art. 236‑bis
Falso in attestazioni e relazioni
● Federico Baffi
***
Praticante avvocato abilitato al patrocinio
Dal trentesimo giorno successivo all’entrata in vigore della
Legge di conversione 134/2012, la disciplina del falso si arric‑
chisce di una nuova figura di reato, introdotta dall’Esecutivo
nel Decreto Legge 83/2012, la cui formulazione originaria è
stata mantenuta anche all’esito dei passaggi parlamentari.
Dall’undici di settembre è infatti penalmente rilevante la
condotta del professionista che espone informazioni false od
omette informazioni rilevanti nell’ambito dei procedimenti di
concordato preventivo e di omologazione di accordi di ristrut‑
turazione, nonché dei piani di cui all’articolo 67 terzo comma,
lettera d) L.F. 1 elaborati a partire da questa data.
L’ambito di applicazione
Nell’ambito delle procedure concordatarie, la norma mira
a tutelare la veridicità delle informazioni contenute in un nu‑
merus clausus di relazioni o attestazioni.
Il reato si perfeziona, tassativamente, solo laddove il pro‑
fessionista esponga informazioni false od ometta informazio‑
ni vere e rilevanti nell’attestare la veridicità dei dati aziendali
e la fattibilità del piano di risanamento della esposizione de‑
bitoria, e di riequilibrio della situazione finanziaria dell’im‑
presa, nell’ambito del quale atti, pagamenti e garanzie conces‑
se su beni del debitore non sono soggetti a revocatoria (artt. 67,
terzo comma, lett. d) L.F.);
• la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano
1 Art. 67. Atti a titolo oneroso, pagamenti, garanzie
3 [..]
d) gli atti, i pagamenti e le garanzie concesse su beni del debitore purché posti
in essere in esecuzione di un piano che appaia idoneo a consentire il risanamen‑
to della esposizione debitoria dell’impresa e ad assicurare il riequilibrio della sua
situazione finanziaria; un professionista indipendente designato dal debitore,
iscritto nel registro dei revisori legali ed in possesso dei requisiti previsti
dall’art. 28, lettere a) e b) deve attestare la veridicità dei dati aziendali e la fatti‑
bilità del piano; il professionista è indipendente quando non è legato all’impre‑
sa e a coloro che hanno interesse all’operazione di risanamento da rapporti di
natura personale o professionale tali da comprometterne l’indipendenza di
giudizio; in ogni caso, il professionista deve essere in possesso dei requisiti pre‑
visti dall’art. 2399 del codice civile e non deve, neanche per il tramite di sogget‑
ti con i quali è unito in associazione professionale, avere prestato negli ultimi
cinque anni attività di lavoro subordinato o autonomo in favore del debitore
ovvero partecipato agli organi di amministrazione o di controllo; il piano può
essere pubblicato nel registro delle imprese su richiesta del debitore. [..]
penale
1. Il professionista che nelle relazioni o attestazioni di cui
agli artt. 67, terzo comma, lett. d), 161, terzo comma, 182‑bis,
182‑quinquies e 186‑bis espone informazioni false ovvero
omette di riferire informazioni rilevanti, è punito con la re‑
clusione da due a cinque anni e con la multa da 50.000 a
100.000 euro.
2. Se il fatto è commesso al fine di conseguire un ingiusto
profitto per sé o per altri, la pena è aumentata.
3. Se dal fatto consegue un danno per i creditori la pena
è aumentata fino alla metà.
86
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
presentato con la domanda di concordato preventivo, se‑
condo quanto richiesto dall’art. 161 secondo e terzo com‑
ma L.F. 2;
• la veridicità dei dati aziendali e l’attuabilità dell’accordo
con i creditori, relativamente alla idoneità dell’accordo
stesso ad assicurare l’integrale pagamento dei creditori
estranei, nei rispetto di specifici termini (ex art. 182‑bis
L.F. 3);
2 Art. 161. Domanda di concordato
1.La domanda per l’ammissione alla procedura di concordato preventivo è
proposta con ricorso, sottoscritto dal debitore, al tribunale del luogo in cui
l’impresa ha la propria sede principale; il trasferimento della stessa intervenuto
nell’anno antecedente al deposito del ricorso non rileva ai fini della individua‑
zione della competenza.
2.Il debitore deve presentare con il ricorso:
a) una aggiornata relazione sulla situazione patrimoniale, economica e finan‑
ziaria dell’impresa;
b) uno stato analitico ed estimativo delle attività e l’elenco nominativo dei
creditori, con l’indicazione dei rispettivi crediti e delle cause di prelazione;
c) l’elenco dei titolari dei diritti reali o personali su beni di proprietà o in pos‑
sesso del debitore;
d) il valore dei beni e i creditori particolari degli eventuali soci illimitatamente
responsabili.
e) un piano contenente la descrizione analitica delle modalità e dei tempi di
adempimento della proposta.
3.Il piano e la documentazione di cui ai commi precedenti devono essere ac‑
compagnati dalla relazione di un professionista, designato dal debitore, in
possesso dei requisiti di cui all’articolo 67, terzo comma, lettera d), che attesti
la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano medesimo. Analoga re‑
lazione deve essere presentata nel caso di modifiche sostanziali della proposta
o del piano. [..]
3 Art. 182‑bis. Accordi di ristrutturazione dei debiti
1. L’imprenditore in stato di crisi può domandare, depositando documentazio‑
ne di cui all’ articolo 161, l’omologazione di un accordo di ristrutturazione dei
debiti stipulato con i creditori rappresentanti almeno il sessanta per cento dei
crediti, unitamente ad una relazione redatta da un professionista, designato dal
debitore, in possesso dei requisiti di cui all’articolo 67, terzo comma, lettera d)
sulla veridicità dei dati aziendali e sull’attuabilità dell’accordo stesso con par‑
ticolare riferimento alla sua idoneità ad assicurare l’integrale pagamento dei
creditori estranei nei rispetto dei seguenti termini: a) entro cento venti giorni
dall’omologazione, in caso di crediti già scaduti a quella data; b) entro cento
venti giorni dalla scadenza, in caso di crediti non ancora scaduti alla data
dell’omologazione.
2. L’accordo è pubblicato nel registro delle imprese e acquista efficacia dal
giorno della sua pubblicazione.
3.Dalla data della pubblicazione e per sessanta giorni i creditori per titolo e
causa anteriore a tale data non possono iniziare o proseguire azioni cautelari o
esecutive sul patrimonio del debitore, né acquisire titoli di prelazione se non
concordati. Si applica l’ articolo 168, secondo comma.
4. Entro trenta giorni dalla pubblicazione i creditori e ogni altro interessato
possono proporre opposizione. Il tribunale, decise le opposizioni, procede
all’omologazione in camera di consiglio con decreto motivato.
5. Il decreto del tribunale è reclamabile alla corte di appello ai sensi dell’ arti‑
colo 183, in quanto applicabile, entro quindici giorni dalla sua pubblicazione
nel registro delle imprese.
6. Il divieto di iniziare o proseguire le azioni cautelari o esecutive di cui al terzo
comma può essere richiesto dall’imprenditore anche nel corso delle trattative e
prima della formalizzazione dell’accordo di cui al presente articolo, depositan‑
do presso il tribunale competente ai sensi dell’articolo 9 la documentazione di
cui all’articolo 161, primo e secondo comma, lettere a), b), c) e d) e una propo‑
sta di accordo corredata da una dichiarazione dell’ imprenditore, avente valore
di autocertificazione, attestante che sulla proposta sono in corso trattative con
i creditori che rappresentano almeno il sessanta per cento dei crediti e da una
dichiarazione del professionista avente i requisiti di cui all’articolo 67, terzo
comma, lettera d), circa la idoneità della proposta, se accettata, ad assicurare
l’integrale pagamento dei creditori con i quali non sono in corso trattative o
che hanno comunque negato la propria disponibilità a trattare. L’istanza di
sospensione di cui al presente comma è pubblicata nel registro delle imprese e
produce l’effetto del divieto di inizio o prosecuzione delle azioni esecutive e
cautelari, nonché del divieto di acquisire titoli di prelazione, se non concordati,
dalla pubblicazione.
7. Il tribunale, verificata la completezza della documentazione depositata, fissa
con decreto l’udienza entro il termine di trenta giorni dal deposito dell’istanza
di cui al sesto comma, disponendo la comunicazione ai creditori della docu‑
mentazione stessa. Nel corso dell’udienza, riscontrata la sussistenza dei presup‑
posti per pervenire a un accordo di ristrutturazione dei debiti con le maggio‑
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
• in caso di richiesta del debitore di autorizzazione a contrar‑
re finanziamenti, la funzionalità dei medesimi alla miglio‑
re soddisfazione dei creditori (182‑quinquies L.F. 4);
• in caso di richiesta di continuità aziendale, la conformità
al piano allegato alla domanda di concordato preventivo,
la funzionalità del medesimo alla migliore soddisfazione
dei creditori, la ragionevole capacità di adempimento dei
contratti pubblici in corso e di quelli eventualmente stipu‑
lati dal debitore dopo l’inizio della procedura (186‑bis
L.F.5).
ranze di cui al primo comma e delle condizioni per il regolare pagamento dei
creditori con i quali non sono in corso trattative o che hanno comunque nega‑
to la propria disponibilità a trattare, dispone con decreto motivato il divieto di
iniziare o proseguire le azioni cautelari o esecutive e di acquisire titoli di prela‑
zione se non concordati assegnando il termine di non oltre sessanta giorni per
il deposito dell’accordo di ristrutturazione e della relazione redatta dal profes‑
sionista a norma del primo comma. Il decreto del precedente periodo è recla‑
mabile a norma del quinto comma in quanto applicabile.
8. A seguito del deposito di un accordo di ristrutturazione dei debiti nei termi‑
ni assegnati dal tribunale trovano applicazione le disposizioni di cui al secondo,
terzo, quarto e quinto comma. Se nel medesimo termine è depositata una do‑
manda di concordato preventivo, si conservano gli effetti di cui ai commi sesto
e settimo.
4 Art. 182‑quinquies. Disposizioni in tema di finanziamento e di continuità azien‑
dale nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione dei debiti
1. Il debitore che presenta, anche ai sensi dell’articolo 161 sesto comma, una
domanda di ammissione al concordato preventivo o una domanda di omolo‑
gazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti ai sensi dell’articolo 182 bis,
primo comma, o una proposta di accordo ai sensi dell’articolo 182 bis, sesto
comma, può chiedere al tribunale di essere autorizzato, assunte se del caso
sommarie informazioni, a contrarre finanziamenti, prededucibili ai sensi
dell’art. 111, se un professionista designato dal debitore in possesso dei requi‑
siti di cui all’articolo 67, terzo comma, lettera d), verificato il complessivo
fabbisogno finanziario dell’impresa sino all’omologazione, attesta che tali fi‑
nanziamenti sono funzionali alla migliore soddisfazione dei creditori.2. L’auto‑
rizzazione di cui al primo comma può riguardare anche finanziamenti indivi‑
duati soltanto per tipologia ed entità, e non ancora oggetto di trattative.
3. Il tribunale può autorizzare il debitore a concedere pegno o ipoteca a garan‑
zia dei medesimi finanziamenti.
4. Il debitore che presenta domanda di ammissione al concordato preventivo
con continuità aziendale, anche ai sensi dell’articolo 161 sesto comma, può
chiedere al tribunale di essere autorizzato, assunte se del caso sommarie infor‑
mazioni, a pagare crediti anteriori per prestazioni di beni o servizi, se un pro‑
fessionista in possesso dei requisiti di cui all’articolo 67, terzo comma, lettera
d), attesta che tali prestazioni sono essenziali per la prosecuzione della attività
di impresa e funzionali ad assicurare la migliore soddisfazione dei creditori.
L’attestazione del professionista non è necessaria per pagamenti effettuati fino
a concorrenza dell’ammontare di nuove risorse finanziarie che vengano appor‑
tate al debitore senza obbligo di restituzione o con obbligo di restituzione po‑
stergato alla soddisfazione dei creditori.
5. Il debitore che presenta una domanda di omologazione di un accordo di ri‑
strutturazione dei debiti ai sensi dell’articolo 182‑bis, primo comma, o una
proposta di accordo ai sensi dell’articolo 182‑bis, sesto comma, può chiedere
al Tribunale di essere autorizzato, in presenza dei presupposti di cui al quarto
comma, a pagare crediti anche anteriori per prestazioni di beni o servizi. In tal
caso i pagamenti effettuati non sono soggetti all’azione revocatoria di cui
all’articolo 67.
5 Art. 186‑bis. Concordato con continuità aziendale
1. Quando il piano di concordato di cui all’art. 161, secondo comma, lett. e)
prevede la prosecuzione dell’attività di impresa da parte del debitore, la cessio‑
ne dell’azienda in esercizio ovvero il conferimento dell’azienda in esercizio in
una o più società, anche di nuova costituzione, si applicano le disposizioni del
presente articolo, nonché gli articoli 160 e seguenti, in quanto compatibili. Il
piano può prevedere anche la liquidazione di beni non funzionali all’esercizio
dell’impresa.
2. Nei casi previsti dal presente articolo:
a) il piano di cui all’articolo 161, secondo comma, lett. e), deve contenere anche
un’analitica indicazione dei costi e dei ricavi attesi dalla prosecuzione dell’atti‑
vità d’impresa prevista dal piano di concordato, delle risorse finanziarie neces‑
sarie e delle relative modalità di copertura;
b) la relazione del professionista di cui all’articolo 161, terzo comma, deve at‑
testare che la prosecuzione dell’attività d’impresa prevista dal piano di concor‑
dato è funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori;
c) Il piano può prevedere una moratoria fino a un anno dall’omologazione per
il pagamento dei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, salvo che sia
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
Il soggetto attivo del reato
Il falso in attestazioni e relazioni è un reato proprio, quindi
riferibile alla figura del professionista designato dal debitore.
Il novero dei possibili soggetti agenti è tassativamente ri‑
stretto dal combinato disposto degli artt. 67 L.F. (come mo‑
dificato dalla medesima legge di conversione 134/2012) e
dell’art. 28 lett. a) e b) L.F.6 a cui l’art. 67 L.F. fa riferimento:
avvocati, dottori commercialisti, ragionieri e ragionieri com‑
mercialisti, studi professionali associati o società tra profes‑
sionisti, questi ultimi con la limitazione imposta dalla norma
relativamente alla necessaria designazione al loro interno di
una persona fisica che sia responsabile della procedura.
Il professionista dovrà essere indipendente, secondo i ca‑
noni stabiliti dagli artt. 67 comma terzo lett. d) L.F. e 2399
C.C., ovvero
• non legato all’impresa e a coloro che hanno interesse
all’operazione di risanamento da rapporti di natura per‑
sonale o professionale tali da comprometterne l’indipen‑
denza di giudizio;
• in possesso dei requisiti previsti dal sopracitato art. 2399
del codice civile per accedere alla carica di sindaco,
• privo (nei cinque anni precedenti all’incarico) di rapporti
diretti di lavoro subordinato o autonomo in favore del
debitore, ovvero di ruoli di amministrazione o di control‑
lo, neanche per il tramite di soggetti con i quali è unito in
associazione professionale.
prevista la liquidazione dei beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione.
3. Fermo quanto previsto nell’articolo 169‑bis, i contratti in corso di esecuzio‑
ne alla data di deposito del ricorso, anche stipulati con pubbliche amministra‑
zioni, non si risolvono per effetto dell’apertura della procedura. Sono ineffica‑
ci eventuali patti contrari. L’ammissione al concordato preventivo non impedi‑
sce la continuazione di contratti pubblici se il professionista designato dal de‑
bitore di cui all’art. 67 ha attestato la conformità al piano e la ragionevole ca‑
pacità di adempimento. Di tale continuazione può beneficiare, in presenza dei
requisiti di legge, anche la società cessionaria o conferitaria d’azienda o di rami
d’azienda cui i contratti siano trasferiti. Il giudice delegato, all’atto della cessio‑
ne o del conferimento, dispone la cancellazione delle iscrizioni e trascrizioni.
4. L’ammissione al concordato preventivo non impedisce la partecipazione
a procedure di assegnazione di contratti pubblici, quando l’impresa presen‑
ta in gara:
a) una relazione di un professionista in possesso dei requisiti di cui all’articolo
67, lettera d) che attesta la conformità al piano e la ragionevole capacità di
adempimento del contratto;
b) la dichiarazione di altro operatore in possesso dei requisiti di carattere gene‑
rale, di capacità finanziaria, tecnica, economica nonché di certificazione, richie‑
sti per l’affidamento dell’appalto, il quale si è impegnato nei confronti del
concorrente e della stazione appaltante a mettere a disposizione, per la durata
del contratto, le risorse necessarie all’esecuzione dell’appalto e a subentrare
all’impresa ausiliata nel caso in cui questa fallisca nel corso della gara ovvero
dopo la stipulazione del contratto, ovvero non sia per qualsiasi ragione più in
grado di dare regolare esecuzione all’appalto. Si applica l’articolo 49 del decre‑
to legislativo 12 aprile 2006, n. 163.
5. Fermo quanto previsto dal comma precedente, l’impresa in concordato può
concorrere anche riunita in raggruppamento temporaneo di imprese, purché
non rivesta la qualità di mandataria e sempre che le altre imprese aderenti al
raggruppamento non siano assoggettate ad una procedura concorsuale. In tal
caso la dichiarazione di cui al precedente comma, lettera b), può provenire
anche da un operatore facente parte del raggruppamento.
6. Se nel corso di una procedura iniziata ai sensi del presente articolo l’esercizio
dell’attività d’impresa cessa o risulta manifestamente dannosa per i creditori, il
tribunale provvede ai sensi dell’articolo 173. Resta salva la facoltà del debitore
di modificare la proposta di concordato.
6 Art. 28. Requisiti per la nomina a curatore
1. Possono essere chiamati a svolgere le funzioni di curatore:
a) avvocati, dottori commercialisti, ragionieri e ragionieri commercialisti;
b) studi professionali associati o società tra professionisti, sempre che i soci
delle stesse abbiano i requisiti professionali di cui alla lettera a). In tale caso,
all’atto dell’accettazione dell’incarico, deve essere designata la persona fisica
responsabile della procedura; [..]
2 0 1 2
87
Il secondo comma dell’art. 236‑bis L.F. lascia, però, alcuni
inquietanti spiragli di estensione della responsabilità agli even‑
tuali “altri” che con il falso conseguano l’ingiusto profitto: non
può aprioristicamente escludersi che, in sede applicativa, l’even‑
tuale addebito di responsabilità per tali soggetti possa spinger‑
si persino oltre i confini della responsabilità concorsuale.
L’elemento psicologico del reato
Come sottolineato anche dal servizio novità a cura dell’Uf‑
ficio del Massimario della Suprema Corte di Cassazione7,
l’elemento psicologico necessario perché si perfezioni il reato
in esame è il dolo generico, ovvero la previsione con coscien‑
za e volontà di affermare il falso od omettere di informazioni
vere e soprattutto rilevanti8.
Il dolo specifico è invece richiesto solo per l’ipotesi aggra‑
vata prevista in caso di perseguimento del fine di ingiusto
profitto.
Consumazione del reato e tentativo
Il falso in attestazioni e relazioni appare come un reato
unisussistente, che si perfeziona solo nel momento in cui il
falso entra a far parte della procedura concorsuale o paracon‑
corsuale. Ne consegue l’inconfigurabilità del tentativo,
il quale ‑ secondo radicati orientamenti giurisprudenziali 9
supportati dalla migliore dottrina ‑ risulterebbe incompatibi‑
le con la frazionabilità dell’ iter criminis.
La struttura delle ipotesi delittuose previste dalla norma
L’art. 236‑bis L.F. prevede un’ipotesi commissiva ed una
omissiva.
Sono previste due circostanze aggravanti: una prima,
speciale, ovvero applicabile solo alla fattispecie prevista da
questa norma, ad effetto comune, e quindi con un possibile
aumento di pena fino ad un terzo.
L’ingiusto profitto descritto dalla norma potrà certamen‑
te riguardare sia il soggetto agente, che, eventualmente, per‑
sona da questi diversa.
Sulla qualificazione di tale ingiusto profitto, sarà invece,
presumibilmente, l’applicazione della norma a dilatarne o
comprimerne la portata aldilà del mero incremento di stru‑
mentalità patrimoniale: se da una parte la lettera della norma
parla di “profitto” e non di “vantaggio”, dall’altra non vi è
infatti alcun riferimento ad un vantaggio patrimoniale stricto
sensu inteso, e ciò lascia margini di dubbio, specialmente se
la memoria si sposta indietro, fermandosi al lungo e combat‑
tuto percorso che ha portato alla esclusione dei vantaggi
privi di contenuto patrimoniale dall’ambito di operatività
dell’art. 323 c.p. prima della riforma.
La seconda aggravante è anch’essa speciale, ma non ad
effetto comune, bensì ad effetto speciale, comportando un
aumento di pena superiore al terzo, e si configura quando si
verifica un danno per i creditori.
7 Pistorelli L. – Carcano D. Relazione III/07/2012,. Ufficio del Massimario
della Corte di Cassazione, Servizio Novità
8Sul criterio della rilevanza, si tornerà in seguito.
9 Cfr. Cass. pen., sez. V, 22 ottobre 1992 “quando l’autore della falsità è lo
stesso soggetto che deve formare l’atto, non c’è falso punibile fino a quando
l’atto rimane nella disponibilità dell’agente che può apportarvi modificazioni o
aggiunte e può anche rinunciare a compierlo.”
penale
Gazzetta
88
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
Anche in materia di qualificazione del danno per i credi‑
tori, sarà l’applicazione della norma a comprimerne o dilatar‑
ne la nozione classica di diminutio patrimoni.
Il bene giuridico tutelato
Il bene giuridico che ictu oculiappare tutelato dalla norma
è quello dell’affidamento: il reato, così come inquadrato,
sembra riconducibile tra quelli contro la fede pubblica, seb‑
bene la scelta normativa relativa alla sua collocazione non
riesca a fugare del tutto dubbi su possibili diverse opzioni.
Inoltre non può escludersi a priori che possa rivelarsi in
sede applicativa come reato plurioffensivo, quantomeno in
merito alle ipotesi descritte di falso aggravato dal persegui‑
mento di un ingiusto profitto, o dal danno per i creditori.
Il vuoto normativo in materia
La tutela penale della correttezza delle informazioni sulla
situazione economica, patrimoniale e finanziaria del debitore
era già stata oggetto dei lavori della commissione Trevisana‑
to10, che pochi anni orsono ha modificato il diritto fallimen‑
tare. In quella sede, con lo stralcio in sede parlamentare dei
lavori che avevano riguardato le disposizioni penali della
materia11, si è persa ancora una volta l’opportunità di una
riforma organica, con risultati di cui è sin troppo semplice
sottolineare la negatività. In dottrina sono infatti forti le
critiche12 alla cd. “stratificazione normativa” utilizzata ed
abusata come tecnica novellativa della materia.
Se è possibile, in questo come in tanti altri casi, ci si trova
addirittura davanti ad una meta‑novella, una novella della
novella, o più semplicemente un ritardatario completamento
della medesima. La tutela penale arriva quindi in seconda
battuta, dopo un illogico e risalente stralcio, che avrebbe
potuto a suo tempo rendere la novella coerente e forse com‑
pleta, o quantomeno unitaria.
Alla luce di ciò, è stata sottolineata, in sede legislativa
così come in dottrina, l’opportunità sopperire alla inadegua‑
tezza dell’art. 236 co.1 L.F. nel sanzionare le azioni fraudo‑
10 Commissione per l’elaborazione di principi direttivi di uno schema di disegno
di legge delega al governo, relativo all’emanazione della nuova legge fallimen‑
tare ed alla revisione delle norme concernenti gli istituti connessi, istituita con
D. I. 28 novembre 2001.
11 Art. 16 (Disposizioni penali)
La disciplina degli illeciti penali nelle materie di cui alla presente legge si
ispira ai seguenti criteri direttivi:
[
…
]
8. prevedere il delitto di falsa esposizione di dati o di informazioni o altri
comportamenti fraudolenti: consistente nella condotta di esposizione di in‑
formazioni false o di omissione di informazioni imposte dalla legge per
l’apertura della procedura di composizione concordata della crisi al fine di
potervi indebitamente accedere, ovvero in successivi atti o nei
comportamenti di cui ai commi 1 e 5 compiuti nel corso di essa; ovvero di
simulazione di crediti inesistenti o di altri comportamenti di frode, al fine di
influire sulla formazione delle maggioranze; prevedere che la stessa pena si
applica al creditore che riceve il pagamento o accetta la promessa al fine
dell’espressione del proprio voto;[…]
12 Insolera G. Riflessi penalistici della nuova disciplina del concordato pre‑
ventivo e delle composizioni extragiudiziali della crisi della impresa in Giu‑
risprudenza Commerciale n. 3 Maggio – Giugno 2006, Giuffrè “La produ‑
zione legislativa di riforma del diritto fallimentare si è manifestata in modo
disordinato se non bislacco. Ciò riguarda il noto succedersi dei diversi testi
legislativi, ma anche la stessa scelta degli strumenti di legiferazione. In questo
modo si sono creati i migliori presupposti per la continua insorgenza di
problemi interpretativi di difficile soluzione. Questa osservazione, come
vedremo, si amplifica a proposito del coordinamento tra disciplina civilisti‑
ca, ormai completatasi con la pubblicazione del d.lgs. 9 gennaio 2006, di
attuazione della l. n. 80 del 2005, e norme penali fallimentari che si sono
invece volute mantenere invariate, nonostante i molteplici conati di riforma
di cui si era avuta notizia negli ultimi anni.”
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
lente commesse da soggetti diversi dall’imprenditore indivi‑
duale nell’ambito della procedura concordataria. Tra questi
soggetti spicca la figura del professionista incaricato di redi‑
gere le certificazioni, che agisce secondo quasi unanime opi‑
nione13, iure privatorum, e che non avrebbe potuto né avrebbe
dovuto quindi essere chiamato a rispondere del reato di falso
in atto pubblico prima di questa riforma del 2012: la piena
rilevanza pubblicistica è infatti, come noto, riconosciuta, dal
complesso di norme in materia di procedura concordataria,
solo in capo al curatore ed al commissario giudiziale14.
Restava però la possibilità di utilizzare le norme sul con‑
corso di persone per sanzionare i comportamenti di profes‑
sionisti che formavano documenti falsi, utilizzati dall’impren‑
ditore individuale per accedere al concordato preventivo.
Una tutela secondo alcuni punti di vista scarna, se con‑
frontata con un dato: l’art. 236 c.p. finiva col colpire solo gli
imprenditori individuali e non gli organi societari, nonostan‑
te alcuni forzati orientamenti giurisprudenziali, fortemente
criticati per la violazione del principio di legalità utilizzata
per perseguire questi ultimi.
Ne conseguiva, quindi, l’impossibilità di perseguire il
comportamento illecito di un professionista concorrente di un
soggetto, sì organico, ma non rientrante nel novero di quelli
ritenuti dalla norma come soggetti attivi di un reato proprio.
La tendenza legislativa responsabilizzatrice
Se non vi era, ieri, dubbio in merito alla inopportunità
della caducazione del versante penalistico nella precedente
riforma, non può non sottolinearsi, oggi, come e quanto re‑
centi interventi legislativi stiano modificando il quadro delle
responsabilità in senso diametralmente opposto.
La relazione illustrativa del Governo al D.L. 83/12, nell’in‑
trodurre il reato di falso in attestazioni e relazioni, nel mese
di giugno sottolineava come questo intervento si rendesse
necessario per evitare “asimmetrie irragionevoli” 15 rispetto
al contenuto della norma introdotta con l’art.19 comma se‑
condo16 della l. 3/2012, la quale punisce il componente dell’or‑
13 Bricchetti R. in “La disciplina della crisi d’impresa e il nuovo sistema revo‑
catorio: la riforma del diritto fallimentare nella delega legislativa”, in www.
fallimento.ipsoa.it, Ipsoa.
14 Cfr. Insolera G. in Op. Cit. “assume un rilievo decisivo come, nel quadro
complessivo della riforma, si sia mantenuta la tradizionale specifica attribuzio‑
ne della qualifica di Pubblico Ufficiale nei confronti del curatore (art. 30) e del
commissario giudiziale (art. 165). Si è così confermata l’adozione, in questo
campo, di una chiave di identificazione espressa della qualifica, ma assume si‑
gnificato di argomento a contrario anche la circostanza che non si sia fatto ri‑
corso a tale metodo per inquadrare le nuove figure”.
15 Relazione illustrativa del Governo allegata al d.l. 83/12 “La sanzione penale
prevista è necessaria per saldare i meccanismi di tutela e bilanciare adeguata‑
mente il ruolo centrale riconosciuto al professionista attestatore nell’intero in‑
tervento normativo. Peraltro, tale soluzione si impone per evitare asimmetrie
irragionevoli, in ottica costituzionale, rispetto alla rilevanza penale della con‑
dotta dell’organismo di composizione della crisi da sovraindebitamento del
debitore non fallibile che “rende false attestazioni in ordine alla veridicità dei
dati contenuti nella proposta o nei documenti ad essa allegati ovvero in ordine
alla fattibilità del piano di ristrutturazione dei debiti proposto dal debitore”, a
norma dell’articolo 19, secondo comma, della legge n. 3 del 2012”.
16 Procedimento per la composizione delle crisi da sovra indebitamento
Art. 19 Sanzioni
[
…
]
2. Il componente dell’organismo di composizione della crisi che rende false
attestazioni in ordine all’esito della votazione dei creditori sulla proposta di
accordo formulata dal debitore ovvero in ordine alla veridicità dei dati conte‑
nuti in tale proposta o nei documenti ad essa allegati ovveroin ordine alla fat‑
tibilità del piano di ristrutturazione dei debiti proposto dal debitore è punito
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
ganismo di composizione della crisi che renda false attesta‑
zioni, in ordine all’esito od ai dati contenuti nella proposta di
accordo (o nei suoi allegati), all’interno procedimento per la
composizione delle crisi da sovra indebitamento.
Se a questo dato affianchiamo quello della responsabilità
penale, che sorge – anche – in capo al professionista se, al
fine di ottenere per sé o per altri un pagamento parziale dei
tributi e dei relativi accessori, indica nella documentazione
presentata per la transazione fiscale elementi attivi per un
ammontare inferiore a quello effettivo, elementi passivi fittizi
per un ammontare complessivo superiore ai 50mila euro,
avremo un ulteriore indizio per sottolineare quanto e come il
professionista sia al centro dell’attenzione del legislatore per
quel che riguarda la sanzione penale.
A destare talune perplessità, in questo frangente, sono la
natura e la statura del destinatario ben più “qualificato”–
quantomeno dall’ordinamento‑ rispetto al professionista at‑
testatore.
Nel caso dell’art. 236‑bis, forse coerentemente con un
impianto che ha “privatizzato” alcune procedure concorsua‑
li, appare infatti evidente come, in qualche modo, il legislato‑
re abbia compiuto un ulteriore passo nella direzione di solle‑
vare un’Autorità come la Magistratura fallimentare da talune
scelte e responsabilità, caricando e moltiplicando sulle spalle
del professionista quel peso tolto all’Autorità stessa.
Pochi dubbi ci sono in ordine ad una evidente necessità
ordinamentale di regolamentare l’operato del professionista
attestatore, e questo è stato fatto presente anche dal legislato‑
re, o meglio, dall’Esecutivo, che ancora una volta ha svolto il
ruolo di supplente di un Parlamento immobile ed inerme sia
in fase di redazione delle norme in generale, sia soprattutto,
in particolare, in fase di conversione di questa norma scritta
dall’Esecutivo, con buona pace del principio di riserva asso‑
luta di legge come intesa da Bricola.
Qualche dubbio in più sorge guardando la cornice editta‑
le e più in generale la tecnica di redazione della norma.
Pene da Pubblico Ufficiale a fronte di una natura ibrida del pro‑
fessionista
Volendo per un attimo superare i dubbi già palesati che
riguardano la riconducibilità del falso in attestazioni e relazio‑
ni nell’alveo dei delitti contro la fede pubblica, paragonando
le sanzioni previste per questa norma con quelle relative ai
reati previsti dal codice agli artt. 476 e ss., ci si ritrova a nota‑
re quanto la pena detentiva prevista sia alta, nel minimo e nel
massimo, e quanto sia per molti versi più vicina a quelle pre‑
viste per i falsi dei Pubblici Ufficiali che per quelli dei privati.
Senza particolari timori reverenziali nell’utilizzo di tale
aggettivo, la pena pecuniaria prevista dall’art. 236‑bis è ad‑
dirittura definibile come “biblica”.
Rispetto a buona parte delle altre previsioni che punisco‑
no il falso, a fronte di una così severa previsione edittale, in
materia di falso in attestazioni e relazioni, il professionista
appare però maggiormente esposto a rischi per quel che ri‑
guarda i dati che egli è tenuto ad attestare: essendo soggetto
a stringenti canoni di indipendenza previsti dalla novella,
con la reclusione da uno a tre anni e con la multa da 1.000 a 50.000
euro. […]
2 0 1 2
89
senza voler aprire il vaso di Pandora della problematica rela‑
tiva all’induzione, non può non sottolinearsi come proprio il
requisito di indipendenza scopra a questi il fianco, se in buo‑
na fede, rispetto alla problematica della fonte di quanto egli
è tenuto ad attestare.
La richiesta asetticità del professionista lo rende infatti
particolarmente vulnerabile rispetto a fenomeni noti nel mon‑
do delle crisi d’impresa, quali ad esempio l’inesistenza di al‑
cune attività, la loro sopravvalutazione, l’effettiva consistenza
o la fittizietà delle passività.
Non è difficile prevedere quanto e come saranno in sede
applicativa richiesti al professionista tassi di diligenza proba‑
bilmente vicini alla chiaroveggenza, stante la mancata cono‑
scenza di circostanze non comunicate, che ex post verranno
contestate e qualificate come palesi.
La tecnica redazionale della norma e la trappola della rilevanza
In realtà il primo comma della norma suscita già a prima
lettura un serio interrogativo: la condotta omissiva è, in qual‑
che modo, para‑tassativizzata dall’ombrello della rilevanza,
mentre per quel che riguarda la condotta commissiva, almeno
a giudicare dal tenore letterale, l’esposizione di qualsiasi in‑
formazione falsa è bastevole perché il reato sia integrato.
I sessanta giorni necessari per la conversione del decreto
legge non sono bastati al nostro Parlamento per correggere
questa palese disarmonia, introducendo almeno il criterio
della rilevanza quale canone di qualificazione delle informa‑
zioni che possono esporre del professionista alla contestazio‑
ne di falso in attestazioni e relazioni.
Durante il periodo di vigenza del Decreto Legge, a sotto‑
lineare questa prima grande ombra sulla norma, suggerendo
questo tipo di soluzione, quantomeno in termini ermeneutici,
è stato anche il Servizio Novità a cura dell’Ufficio del Massi‑
mario della Suprema Corte di Cassazione, con una relazione17
le cui grida d’allarme sul tema sono state in parte esposte
anche su stampa specializzata durante il periodo di vigenza
del decreto legge18.
A ben vedere, però, il requisito della rilevanza è in re ipsa
un elemento in grado di suscitare dubbi in merito al rispetto
dei canoni di tassatività e determinatezza; ce lo testimoniano
la storia e l’evoluzione degli articoli 2621 e 2622 C.C., con il
lunghissimo dibattito creato da dottrina e giurisprudenza
attorno al concetto di rilevanza, seppur diversamente inteso
ed articolato dalle norme sulle false comunicazioni sociali,
rispetto a quella sulla falsità delle informazioni attestate dal
professionista.
Senza voler tornare indietro alle formulazioni precedenti
l’ultima novella del falso in bilancio, basterà ricordare anche
solo alcune delle problematiche ermeneutiche sorte in quel
caso, a causa al riferimento ad un concetto di rilevanza comun‑
17Pistorelli l. – Carcano D. Rel. cit in nota 7. “se interpretata letteralmente,
la norma incriminatrice finisce per rivelare un’asimmetria tra le condotte prese
in considerazione, giacché qualsiasi falsità commissiva, ancorché ad oggetto
dati di scarsa rilevanza, rischia di integrare il reato di nuovo conio a fronte
della previsione, invece, di una più restrittiva modulazione della tipicità delle
falsità omissive. Distonia questa non facilmente giustificabile e che potrebbe
dunque suggerire interpretazioni tese ad estendere il requisito di rilevanza anche
alla condotta commissiva”.
18 Cfr. Bricchetti R. – Pistorelli L. “Operazioni di risanamento, professionisti
nel mirino” in Guida al Diritto n. 29/2012del 14.07.2012, pag.45.
penale
Gazzetta
90
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
que più circoscritto di quello utilizzato dall’Esecutivo prima e
dal Parlamento poi con l’introduzione dell’art. 236‑bis L.F.
Anche a fronte di un indice concreto come la patrimonializza‑
zione delle soglie di rilevanza, ci sono voluti, infatti, anni di
confronti e contributi per stabilire quali fossero il bene giuri‑
dico protetto dalla norma, la natura giuridica delle soglie, i
margini di sopravvivenza del concetto di “falso qualitativo”.
Eppure quella norma dagli orizzonti liquescenti19 era, in
termini di tassatività e determinatezza, ben più precisa di
quanto non appaia a prima vista questa.
Il rischio di un revirement del falso colposo mascherato da dolo
eventuale
Questa cornice, ben poco confortante, lascia aperto un
interrogativo: il deficit di tassatività della norma e la sua ne‑
bulosa formulazione contribuiscono infatti ad alimentare,
almeno in chi scrive, l’idea che dietro l’angolo possa palesar‑
si, in sede applicativa, un tipo di addebito di responsabilità in
capo al professionista che somigli sinistramente a quel falso
colposo alla cui insussistenza, nel nostro ordinamento pena‑
listico, si è giunti solo dopo aspri e lunghi confronti.
Sarebbe confortante poter escludere a priori una contesta‑
zione di falso in attestazioni e relazioni a titolo di dolo even‑
tuale, ma purtroppo l’eccessiva dilatazione dell’utilizzo di
contestazioni supportate dalla facile ricerca di questa forma
di dolo, unite alla sempre più labile linea di confine che lo
divide dalla colpa, non consentono una tale dose di ottimismo,
anche a causa di un legislatore in generale pigro, ed in ritardo
nell’aggiornare, quantomeno, le cornici edittali dei reati pu‑
nibili a titolo di colpa.
p e n a l e
F O R E N S E
A fronte di “asimmetrie” ‑create dallo stesso legislatore
con un metodo di normazione assolutamente alluvionale‑ e
da questi poste a motivazione dell’introduzione di questa
norma, 20la soluzione scelta rischia di mostrare in sede appli‑
cativa ben più gravi asimmetrie, allo stato latenti.
Il rischio concreto in fase giudiziaria è infatti veder coin‑
volto il professionista la cui valutazione prognostica venga
resa errata da elementi da lui non controllabili né prevedibili:
solo e rigorosamente ex post gli potrebbe infatti essere mosso
un addebito di colpevolezza per la mera assenza chiaroveg‑
genza ex ante, il tutto a tutela di beni nei confronti dei quali
alcuni comportamenti previsti dalla norma non mostrano
nemmeno un connotato minimo di offensività, tale da giusti‑
ficare una scelta di politica criminale così aspra.
In conclusione, la norma, così come formulata appare
purtroppo estremamente pericolosa per una serie di categorie
che vedono sempre più a rischio il loro operato, in un fran‑
gente, come quello della composizione delle crisi d’impresa,
nel quale l’ordinamento sembra aver scelto di confermare una
insolita abdicazione a tutte le sue monolitiche preogative
pubblicistiche, riservandosi, però, di dar a queste spazio con
una pretesa di “punire”improvvisamente rigida, alla quale,
non fa però da contrappeso alcuna responsabilizzazione di chi
‑in sede concordataria e paraconcordataria e con una quali‑
fica vera e propria di Pubblico Ufficiale‑ ha il ruolo di ammet‑
tere, omologare, “sorvegliare”.
L’effettiva offensività delle condotte sanzionate ed una preoccu‑
pante anticipazione della soglia di tutela
In termini di ragionevolezza, al termine di questa prima
lettura, il legislatore sembrerebbe aver tralasciato un ulterio‑
re dato estremamente rilevante, avendo ricondotto in un alveo
singolo situazioni estremamente diverse tra loro, lasciando
così trasparire una improvvisa quanto indomabile ansia di
punire severamente ciò che fino a ieri aveva volontariamente
deciso di lasciare impunito.
L’elenco apparentemente breve di attestazioni e relazioni
nell’ambito delle quali spiega la sua operatività dell’art. 236‑bis
nasconde infatti una rilevante insidia:
in termini di tipicità, di colpevolezza, e soprattutto in
termini sanzionatori la norma non fa nessuna differenza tra
tipi di attestazioni dal contenuto estremamente diverso.
Sono sanzionate infatti allo stesso modo sia le falsità che
riguardano attestazioni di dati lato sensu fattuali, sia quelle
che riguardano valutazioni che non si ritiene errato definire
come “prognostiche”, con evidentissimi scarti in termini di
elemento psicologico necessario perché sia integrato il reato
con un tipo di attestazioni o con un altro: ne deriva quindi,
un grave pregiudizio per il professionista‑soggetto attivo del
reato, al quale in alcuni casi rischiano di essere richiesti om‑
niscienza e volontà.
19 Napoleoni V.., Gli orizzonti liquescenti delle false comunicazioni sociali: il
delitto di cui all’art. 2621 c.c. come reato di pura omission,.in Cass. Pen. 1999
pag. 295
Gazzetta
20Cfr. nota 15
Gazzetta
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
●
CORTE DI CASSAZIONE, Sezioni unite penali, sentenza 17
luglio 2012 (ud. 21 giugno 2012), n. 28719
A cura di
Angelo Pignatelli
Avvocato
È legittimato alla proposizione del ricorso straordinario ex art. 625
bis c.p.p., il condannato al solo risarcimento dei danni in favore
della parte civile che prospetti un errore di fatto nella decisione
della Corte di cassazione relativa a tale capo
***
La questione di diritto per la quale il ricorso è stato rimes‑
so alle Sezioni unite è la seguente: “se sia ammissibile la pro‑
posizione del ricorso straordinario per errore di fatto nei
confronti della decisione di legittimità che confermi le statu‑
izioni civili di condanna dell’imputato”.
Sul punto, si registrano due contrapposti orientamenti
giurisprudenziali:
Il primo indirizzo negativo fa leva sull’assunto, più volte
ribadito dalle medesime Sezioni unite, secondo il quale, poiché
il ricorso straordinario è ammesso solo a favore del condan‑
nato e considerato che il rimedio previsto dall’art. 625 bis
c.p.p., ha natura di norma eccezionale, possono costituire
oggetto della impugnazione straordinaria soltanto quei prov‑
vedimenti della Corte di Cassazione che rendano definitiva la
sentenza di condanna, e non anche altre decisioni, fra le qua‑
li quelle che intervengano in procedimenti incidentali, o prov‑
vedimenti di altra natura, seppure collegati in modo indiretto
con la pronuncia definitiva di condanna (sez.un., 30 aprile
2002 n. 16103, Basile; sez.un., 30 aprile 2002, n. 16104, De
Lorenzo; sez. IV 03 ottobre 2007, n. 42725, Mediati, Rv.
238302; sez. V, 16 giugno 2006, n. 30373, Nappi).
Ne consegue, pertanto che secondo tale orientamento,
oggetto del ricorso straordinario possono essere, dunque,
esclusivamente pronunce di condanna, dovendosi intendere
con tale termine, l’applicazione di una sanzione penale: più in
particolare, si è affermato che con l’indicazione del termine
“condannato”, quale specificazione soggettiva che identifica
la parte legittimata alla proposizione del ricorso straordinario,
l’art. 625 bis c.p.p., avrebbe inteso individuare la figura del
soggetto imputato, il quale in tale sua qualità abbia subito una
condanna ad una delle pene contemplate dalle leggi penali (sez.
III, 28 gennaio 2004, n. 6835, Mongiardo, Rv. 228495; sez.
V, 08 novembre 2005, n. 45937, Ierinò, Rv. 233218; sez. I, 15
febbraio 2008, n. 11653, Brusa; sez. IV, 21 luglio 2009,
n. 38269, Somma, Rv. 245292).
L’indirizzo opposto ritiene che alla proposizione dell’erro‑
re di fatto contenuto in un provvedimento della Corte di cas‑
sazione sia legittimato anche il soggetto che, per effetto di
esso, risulti condannato anche solo agli effetti civili, sul rilievo
che la qualità di condannato sarebbe fatta discendere da una
qualsiasi sentenza di condanna, senza ulteriori distinzioni. Ciò
si desumerebbe da un passaggio della sentenza delle Sezioni
unite De Lorenzo, già citata, nel quale si afferma che, attesa
la natura di strumento eccezionale insuscettibile di applicazio‑
ne analogica, costituendo deroga al principio di irrevocabilità
delle decisioni della Corte di cassazione, il ricorso straordina‑
rio non è esperibile se non contro sentenze di condanna, senza
tuttavia distinguere se di condanna tout court o anche di
condanna ai soli effetti civili; cosicché, sarebbe legittimo rite‑
nere che tale strumento sia esperibile, in via generale, contro
penale
I contrasti risolti
dalle Sezioni unite penali
●
91
2 0 1 2
92
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
tutte le sentenze di condanna (sez. I, 12 marzo 2003, n. 12720,
Nosari). Nella medesima prospettiva si è più di recente (sez.
VI, 27 aprile 2010, n. 26485, Chiatante) ribadita la legittima‑
zione a proporre ricorso straordinario a norma dell’art. 625
bis c.p.p., anche in capo all’imputato (o al responsabile civile
ex art. 83 c.p.p.) che risulti condannato al risarcimento dei
danni in favore della parte civile, per errore di fatto prodot‑
tosi nella decisione della Corte di cassazione. L’assunto riposa
nella ratio della collocazione sistematica della norma, nel
senso che il giudice penale è chiamato ad emettere pronunce
di condanna, non solo per la responsabilità penale ma anche
per quella civile, ove la relativa azione sia stata esercitata in
sede penale mediante la costituzione di parte civile, ai sensi
dell’art. 74 c.p.p. e segg., in relazione a quanto previsto
dall’art. 185 c.p.
Una soluzione contraria, apparirebbe in contrasto con i
principi costituzionali che valgono tanto nel processo civile
che in quello penale.
In altri termini, si assisterebbe, proseguono i Giudici Er‑
mellini, ad una irragionevole disparità di trattamento, giacché
mentre, ove l’azione di danno fosse stata esercitata in sede
propria, la parte sarebbe ammessa a far valere l’errore di fatto
della Corte di cassazione attraverso i rimedi previsti dal codi‑
ce di procedura civile, lo stesso diritto non sarebbe esercitabi‑
le in caso di azione civile esercitata nel processo penale.
Conclusivamente, le Sezioni unite hanno enunciato il se‑
guente principio di diritto: «è legittimato alla proposizione
del ricorso straordinario ex art. 625 bis c.p.p., il condannato
al solo risarcimento dei danni in favore della parte civile che
prospetti un errore di fatto nella decisione della Corte di
cassazione relativa a tale capo».
CORTE DI CASSAZIONE, Sezioni unite penali, sentenza 21
giugno 2012 (dep. 17 luglio 2012), n. 28717
Sull’ammissibilità del ricorso straordinario per errore di fatto
contro la sentenza di legittimità di parziale annullamento con
rinvio
***
Le Sezioni unite sono state chiamate a pronunciarsi sul
quesito “se possa ritenersi ammissibile la proposizione del
ricorso straordinario per errore di fatto di cui all’art. 625 bis
c.p.p. avverso la sentenza della Corte di Cassazione che abbia
pronunciato l’annullamento con rinvio soltanto in riferimen‑
to alla questione relativa alla sussistenza di una circostanza
aggravante, e che, dunque, abbia determinato la irrevocabi‑
lità del giudizio in punto di sussistenza della responsabilità
penale”.
Al riguardo, si registrano due diversi indirizzi.
Il primo nega la legittimazione al ricorso straordinario da
parte del condannato con sentenza oggetto di annullamento
parziale da parte della Corte di cassazione, in quanto viene,
in particolare, valorizzato il rilievo ‑ già enunciato in sez.un.,
n. 16104 del 27 marzo 2002, De Lorenzo ‑ per il quale, con‑
siderata la natura di rimedio straordinario che caratterizza il
ricorso di cui all’art. 625 bis c.p.p., insuscettibile per ciò
stesso di applicazione analogica, e tenuto conto del fatto che
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
esso deroga al principio di irrevocabilità delle decisioni della
Corte di cassazione, il ricorso straordinario è ammissibile
soltanto contro le sentenze di condanna. E per sentenze di
condanna, vertendosi in tema di pronunce della Corte di
cassazione, non possono che intendersi le sentenze che riget‑
tano o che dichiarano inammissibili i ricorsi proposti avverso
sentenze di condanna. Pertanto, come non sono suscettibili di
ricorso straordinario le decisioni di legittimità emesse nell’am‑
bito dei procedimenti incidentali, così non lo sono le decisio‑
ni di annullamento con rinvio, perché non determinano la
forma‑ zione del giudicato e quindi non trasformano la con‑
dizione dell’imputato in quella di condannato, che è la sola a
fungere da presupposto imprescindibile della legittimazione
attiva alla impugnazione straordinaria. In merito, poi, alle
decisioni di annullamento, sono impugnabili ‑ secondo tale
orientamento ‑ soltanto quelle di annullamento parziale, ma
limitatamente a quei capi della sentenza che, secondo quanto
disposto dall’art. 624 c.p.p., acquistano autorità di cosa giu‑
dicata perché non in connessione essenziale con i capi annul‑
lati. Per questi ultimi, invece, il ricorso straordinario può es‑
sere esperito soltanto all’esito del giudizio rescissorio, una
volta che sia passata in giudicato la sentenza del giudice di
merito. Una soluzione, questa, che varrebbe, nei casi di an‑
nullamento totale, dal momento che una siffatta pronuncia
travolge tutte le parti della sentenza impugnata e quindi de‑
volve al giudizio rescissorio l’intera res giudicanda, impeden‑
do che l’imputato acquisti la qualità di condannato (sez. I, 28
gennaio 2004, n. 4975, Ratizzino, Rv 227335). Nel medesimo
senso, si è anche puntualizzato che la irrevocabilità e la ese‑
cutività della sentenza, condizioni necessarie per la proponi‑
bilità del ricorso straordinario, devono riguardare il capo di
imputazione nella sua interezza, e non può dirsi che si sia
formato il giudicato se permane la condizione di imputato.
Varrebbe quindi il principio secondo il quale non si è in pre‑
senza di una condanna allorché è stata accertata soltanto la
responsabilità dell’imputato, ma non è ancora stata applicata
la relativa pena (sez. I, 15 giugno 2007, n. 24659, Metelli, Rv
239463; in termini sostanzialmente analoghi, sez. I, 28 gen‑
naio 2009, n. 16692, Mancuso, Rv 243551; sez. V, 16 luglio
2009, n. 40171, Metelli, Rv244613).
In senso opposto, si è invece affermato il principio per il
quale deve ritenersi legittimato a proporre ricorso straordina‑
rio per errore materiale o di fatto, in qualità di soggetto
“condannato”, anche l’imputato nei cui confronti sia interve‑
nuta una sentenza della Corte di cassazione di annullamento
con rinvio di una sentenza di condanna, quando il rinvio ri‑
guardi soltanto il quo modo della condotta ed il quantum del
conseguente trattamento sanzionatorio, avendo tale pronun‑
cia contenuto e valenza di rigetto per quel che riguarda l’ac‑
certamento dell’an della colpevolezza (sez. V, 21 novembre
2007, n. 217, dep. 2008, Di Caro Scorsone, Rv 239462). In
altra occasione, pur ribadendosi l’assunto secondo il quale il
rimedio previsto dall’art. 625 bis c.p.p. non può essere attiva‑
to contro sentenze di annullamento con rinvio che non deter‑
minano la formazione della cosa giudicata e che, quindi, non
trasformano la condizione giuridica dell’imputato in quella di
condannato, si è tuttavia operato un distinguo tra il carattere
parziale o totale dell’annullamento; nel primo caso, infatti, la
formazione di un giudicato parziale rende ammissibile il ri‑
corso straordinario limitatamente a quei capi della sentenza
l u g l i o • a g o s t o
F O R E N S E
che, a norma dell’art. 624 c.p.p., acquistano autorità di cosa
giudicata, non essendo in connessione essenziale con i capi
annullati; nel secondo caso, invece, rispetto ai capi investiti
dall’annullamento, l’impugnazione straordinaria non può
essere rivolta all’annullamento con rinvio. In tale ultima
eventualità ‑ si è osservato ‑ la impugnazione straordinaria
può ritenersi ammissibile soltanto all’esito del giudizio rescis‑
sorio, allorquando sia passata in giudicato la sentenza emessa
dal giudice del rinvio, e deve poter avere ad oggetto sia la
decisione con la quale la Corte rigetti o dichiari inammissibi‑
le il ricorso avverso la condanna adottata in sede di rinvio, sia
la precedente sentenza di annullamento con rinvio, che all’ul‑
tima si salda ai fini della formazione del giudicato (sez. I, 15
aprile 2009, n. 17362, Di Matteo). L’orientamento che esclu‑
de la legittimazione a proporre immediatamente ricorso
straordinario nel caso di sentenza di annullamento parziale
con rinvio in punto di pena ‑ differendone la esperibilitàsol‑
tanto all’esito della definizione del giudizio di rinvio e
dell’eventuale ricorso per cassazione proposto avverso la re‑
lativa sentenza ‑ non è stato condiviso alla luce delle non
poche aporie di sistema che da tale impostazione sarebbero
scaturite. Al di là, infatti, della non condivisibilità, per le ra‑
gioni già esposte, del fondamento teorico su cui quell’orien‑
tamento fa leva (si afferma, infatti, che soltanto dopo l’esau‑
rimento del giudizio di rinvio sorgerebbe la condizione di
condannato agli effetti della legittimazione a proporre ricor‑
so straordinario) occorre subito osservare come il sistema non
richiede affatto ‑ e non sembra anzi consentire ‑ che la senten‑
za del giudice di rinvio possa formare oggetto di ricorso, fa‑
cendo valere un errore (ostativo) della sentenza di annulla‑
mento. Di conseguenza, la sentenza della cassazione che
giudichi sulla pronuncia adottata in sede di rinvio (ipotesi,
questa, per di più eventuale) non è contaminata da alcun tipo
di vizio, posto che l’errore di fatto ha inciso esclusivamente
sulla originaria pronuncia rescindente, nella parte in cui ‑ per
stare al caso che qui interessa ‑ non ha annullato la sentenza
di condanna del giudice di merito.
All’esito della approfondita analisi le Sezioni unite hanno
affermato il principio per il quale « deve ritenersi legittimata
alla proposizione del ricorso straordinario per errore mate‑
riale o di fatto anche la persona condannata con sentenza
annullata con rinvio in relazione alla sussistenza di una cir‑
costanza aggravante».
CORTE DI CASSAZIONE Sezioni unite penali, sentenza 18
luglio 2012 (ud. 19 aprile 2012), n. 28997
Le Sezioni unite escludono la legittimità della disciplina delle inter‑
cettazioni di conversazioni o comunicazioni ex art. 266 c.p.p. e ss.,
per eseguire controlli occulti sulla corrispondenza dei detenuti
***
La questione di diritto per la quale il ricorso è stato rimesso
alle Sezioni unite, può così essere enunciata: “se alla sottoposi‑
zione a controllo e all’acquisizione probatoria della corrispon‑
denza del detenuto possa‑ no estendersi le disposizioni relative
alle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni”.
La controversia sorgeva da un provvedimento del pubbli‑
2 0 1 2
93
co mini‑ stero, convalidato dal G.i.p., che ordinava alla dire‑
zione del carcere l’intercettazione per la durata di 40 giorni
della corrispondenza epistolare e telegrafica in ingresso e in
uscita destinata al detenuto o inviata da questo, previa estra‑
zione di copia delle missive, senza che di tale attività fosse
informato né il detenuto né i mittenti o i destinatari della
corrispondenza.
L’ordinanza di rimessione alle Sezioni unite riassumeva gli
indirizzi in conflitto: il primo orientamento (Sentenza Costa,
sez. V, del 18 ottobre 2007, n. 3579, dep. 2008, Rv. 238902),
ritiene la disciplina prevista per le intercettazioni di conversa‑
zioni o comunicazioni di cui all’art. 266 c.p.p., applicabile in
via analogica anche alle operazioni di intercetta‑ zione della
corrispondenza inviata da un detenuto o a lui trasmessa, rile‑
vandosi che l’art. 18‑ter Ord. Pen. ‑ per il quale il detenuto deve
essere immediatamente informato in caso di trattenimento
della corrispondenza “ha una finalità diversa, di natura preven‑
tiva, … incompatibile con la fase delle indagini preliminari,
disciplinata dalle norme del codice di procedura penale”.
Il secondo orientamento, espresso nelle sentenze sez. II,
del 13 giugno 2006, n. 20228, Rescigno, Rv. 234652, sez. VI,
del 13 ottobre 2009, n. 47009, Giacalone, Rv. 245183, sez. V,
del 29 aprile 2010, n. 16575, Azoulay, Rv. 246870, precisano
“non può ignorarsi che il ricorso alla analogia, … prospetta‑
to nella sentenza Costa per superare l’ostacolo letterale del
disposto dell’art. 266 c.p.p., (che fa riferimento alle sole inter‑
cettazioni di conversazioni o comunicazioni telefoniche), an‑
che per la espressa riserva assoluta di legge e di giurisdizione
prevista per la compressione di tali diritti dall’art. 15 Cost.,
non può non destare perplessità per la indubbia compromis‑
sione di diritti costituzionalmente garantiti che comporta”.
In base all’art. 254 c.p.p. ‑ precisa la Corte ‑ il sequestro
da parte dell’a.g.”di lettere, pieghi, pacchi, valori, telegrammi
o altri oggetti di corrispondenza” è assistito da particolare
garanzie. E, nel corso delle indagini preliminari, stante la
previsione di cui all’art. 353 c.p.p., comma 3, gli ufficiali di
polizia giudiziaria, se vi è l’urgente necessità di acquisire og‑
getti di corrispondenza, sono abilitati ad ordinare a chi è
preposto al servizio postale di sospendere l’inoltro; ordine che
cessa di effetto se il p.m. non dispone il sequestro entro le
ventiquattro ore. In ogni caso, disposto il sequestro, d’inizia‑
tiva o su impulso della polizia giudiziaria, il p.m., in base al
combinato disposto degli artt. 365 e 366 c.p.p., deve deposi‑
tare il relativo verbale, entro il terzo giorno successivo all’at‑
to, dandone avviso al difensore dell’indagato (salva la facoltà
di ritardare il deposito, per non oltre trenta giorni, ricorrendo
i presupposti dell’art. 366 c.p.p., comma 2).
Ciò detto in via generale, affermano i Giudici Ermellini,
non si può dubitare che sia “corrispondenza” anche quella che
transita per gli istituti di detenzione, diretta verso l’esterno
dal detenuto o a lui spedita; e che il detenuto ha diritto di
vedere inoltrata o di ricevere, non trattandosi di res di cui
abbia disponibilità l’amministrazione carceraria. E qui la
ragione di specifica tutela, oltre che in forza della riferita
norma costituzionale, riceve maggior ragione proprio dallo
stato di costrizione del soggetto che intrattiene contatti epi‑
stolari con soggetto libero, dovendo egli necessariamente af‑
fidarsi per tali contatti all’amministrazione, che smista la
posta diretta ai detenuti o da loro spedita. È quindi proprio
in base alla speciale condizione del detenuto, cui deve essere
penale
Gazzetta
94
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
comunque assicurato il rispetto dei diritti fondamentali com‑
patibili con tale status (v., tra le altre, Corte cost., sentt.nn. 26
del 1999, 212 del 1997, 410 e 349 del 1993), che i poteri di
intrusione dell’autorità giudiziaria nella corrispondenza che
transita per gli istituti penitenziari ricevono apposita regola‑
mentazione, tra l’altro con previsione di limiti temporali e
della facoltà di reclamo, ad opera dell’art. 18‑ter ord. pen.,
inserito dalla legge 8 aprile 2004, n. 95, anche a seguito di
numerose decisioni della Corte EDU (v., tra le tante, sentenze
del 23 febbraio 1993 e del 28 settembre 2000, Messina c.
Italia, del 15 novembre 1996, Domenichini c. Italia e del 26
luglio 2001, Di Giovine c. Italia).
Stante tale peculiare regolamentazione del sequestro di
corrispondenza epistolare, ad avviso dei Supremi Giudici, non
può essere condiviso l’assunto (espresso in particolare dalla
sentenza Costa, cit.) secondo cui la disciplina dell’art. 266
c.p.p., sia applicabile “in via analogica” anche ad essa (sia o
non riferibile a soggetto detenuto o internato).
Come già rimarcato, il Supremo Consesso ribadisce che in
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
base all’art. 15 Cost., comma 2, la libertà e segretezza della
corrispondenza può avvenire soltanto per atto motivato dell’au‑
torità giudiziaria “con le garanzie stabilite dalla legge”.
E in materia presidiata dalla riserva di legge e di giurisdi‑
zione, non è consentita interpretazione analogica o estensiva
di discipline specifica‑ mente dettate per singoli settori, quale
quella di cui all’art. 266 c.p.p. e ss., che, particolarmente, si
riferisce alle intercettazioni “di conversazioni o comunicazio‑
ni telefoniche o di altre forme di telecomunicazione”.
Sulla scorta delle argomentazioni richiamare, le Sezioni
unite affermano il principio di diritto secondo cui « la disci‑
plina delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni,
di cui all’art. 266 c.p.p. e ss., non è applicabile alla corrispon‑
denza, dovendosi per la sottoposizione a controllo e la utiliz‑
zazione probatoria del con‑ tenuto epistolare seguire le forme
del sequestro di corrispondenza di cui agli artt. 254 e 353
c.p.p., e, trattandosi di corrispondenza di detenuti, anche le
particolari formalità stabilite dall’art. 18 ter dell’Ordinamen‑
to Penitenziario».
F O R E N S E
●
Rassegna di legittimità
●
A cura di
Alessandro Jazzetti
Sostituto Procuratore Generale
presso la Corte di Appello di Napoli
Andrea Alberico
Dottore di Ricerca in Diritto Penale
Avvocato
l u g l i o • a g o s t o
2 0 1 2
95
Casellario giudiziale ‑ Iscrizioni ‑ Decreto penale di condanna ‑
Benefici previsti dall’art. 460, comma quinto, c.p.p. ‑ Cancellazione
dell’iscrizione nel casellario giudiziale ‑ Esclusione
In tema di decreto penale di condanna, tra i benefici pre‑
visti dall’art. 460, comma quinto, c.p.p. non rientra, quale
effetto dell’estinzione del reato, anche la cancellazione
dell’iscrizione nel casellario giudiziale, non essendo quest’ul‑
tima tassativamente elencata dall’art. 5 del d.P.R. n. 313 del
2002, lett. g) ed h), che si pone quale unica norma applicabi‑
le a seguito dell’abrogazione dell’art. 687 cod. proc. pen. per
effetto dell’art. 52 del citato d.P.R.
Cass., sez. I, sentenza 11 gennaio 2012, n. 25041
(dep. 22 giugno 201) Rv. 252732
Pres. Giordano, Est. Tardio Imp. P.G. in proc. Aguzzi, P.M.
D’Angelo (Conf.)
(Annulla senza rinvio, Gip Trib. Rieti, 19 novembre 2010)
Competenza – Competenza per materia ‑ Incompetenza ‑ Rileva‑
bilità ‑ Incompetenza ‑ Conflitto fra Corte d’Assise e tribunale in
composizione collegiale ‑ Competenza della Corte d’Assise ‑ Ra‑
gioni ‑ Fattispecie
La Corte d’Assise, essendo giudice superiore rispetto agli
altri giudici di primo grado ai sensi dell’art. 38 della legge 10
aprile 1951, n. 287, una volta verificata la regolare costituzio‑
ne delle parti, non può più spogliarsi della competenza inve‑
stendo il Tribunale in composizione collegiale. (Nella specie,
relativa ad un conflitto fra Corte d’Assise e tribunale in com‑
posizione collegiale, la S. C. ha chiarito che l’avvenuto muta‑
mento del collegio di Assise per incompatibilità del giudice a
latere non comporta la regressione del processo alla fase che
precede l’apertura del dibattimento).
Cass., sez. I, sentenza 19 giugno 2012, n. 25076
(dep. 22 giugno 201) Rv. 252742
Pres. Giordano, Est. La Posta, Imp. Conf. comp. in proc. Li‑
gato, P.M. Galasso (Conf.)
(Dichiara competenza, Trib. Santa Maria Capua Vetere, 10
novembre 2011)
Fonti del diritto ‑ Circolari ‑ Ausilio per l’interpretazione ‑ Effetti
vincolanti ‑ Esclusione ‑ Fattispecie
La circolare interpretativa è atto interno alla P.A. che si
risolve in un mero ausilio ermeneutico e non esplica alcun
effetto vincolante non solo per il giudice penale, ma anche per
gli stessi destinatari, poiché non può comunque porsi in con‑
trasto con l’evidenza del dato normativo. (Fattispecie in tema
di condonabilità di opera non residenziale, ammessa da Cir‑
colare del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti in via
interpretativa e disattesa in fase esecutiva in applicazione del
suddetto principio).
Cass., sez. III, ordinanza 13 giugno 2012, n. 25170
(dep. 25 giugno 2012) Rv. 252771
Pres. De Maio, Est. Ramacci, Imp. La Mura, P.M. Stabile
(Conf.)
(Dichiara inammissibile, App. Salerno, 28 giugno 2011)
Fonti del diritto ‑ Leggi – Legge penale ‑ Successione di leggi ‑ In‑
tervenuta depenalizzazione ‑ Sentenza di assoluzione perché il
fatto non è più previsto dalla legge come reato ‑ Inesistenza di
norme transitorie ‑ Trasmissione degli atti all’autorità amministra‑
tiva ‑ Dovere del giudice ‑ Insussistenza
civile
Gazzetta
96
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
In caso di annullamento senza rinvio della sentenza im‑
pugnata per non essere il fatto previsto dalla legge come reato,
ma solo come illecito amministrativo, il giudice non ha l’ob‑
bligo di trasmettere gli atti all’autorità amministrativa com‑
petente a sanzionare l’illecito amministrativo qualora la legge
di depenalizzazione non preveda norme transitorie analoghe
a quelle di cui agli artt. 40 e 41 legge 24 novembre 1981,
n. 689, la cui operatività è limitata agli illeciti da essa depe‑
nalizzati e non riguarda gli altri casi di depenalizzazione.
Cass., sez. un., sentenza 29 marzo 2012, n. 25457
(dep. 28 giugno 2012) Rv. 252693
Pres. Lupo, Est. Fiale, Imp. Campagne Rudie, P.M. Fedeli
(Diff.)
(Annulla in parte con rinvio, App. Genova, 17 novembre
2010)
Impugnazioni ‑ Cassazione – Casi di ricorso ‑ Ricorso straordinario
per errore di fatto ‑ Imputato condannato solo agli effetti civili ‑
Legittimazione ‑ Sussistenza
È legittimato alla proposizione del ricorso straordinario,
a norma dell’art. 625‑bis, c.p.p, anche l’imputato condanna‑
to al solo risarcimento dei danni in favore della parte civile,
che prospetti un errore di fatto nella decisione della Corte di
cassazione relativamente al capo concernente le statuizioni
civili, per l’ontologica identità di diritti processuali tra l’azio‑
ne penale e l’azione civile.
Cass., sez. un., sentenza 21 giugno 2012, n. 28719
(dep. 17 luglio 2012) Rv. 252695
Pres. Lupo, Est. Macchia, Imp. Marani, P.M. Ciani (Conf.)
(Revoca in parte, Cass., 03 giugno2010)
Impugnazioni ‑ Interesse ad impugnare ‑ Assoluzione perché il
fatto non è più previsto dalla legge come reato ‑ Statuizione che
dispone la trasmissione degli atti all’autorità amministrativa ‑
Interesse ad impugnare ‑ Sussistenza
Nella ipotesi di assoluzione perché il fatto non è più pre‑
visto dalla legge come reato, sussiste l’interesse dell’imputato
ex art. 568, comma quarto, c.p.p., ad impugnare con ricorso
per cassazione la statuizione concernente l’ordine di trasmis‑
sione degli atti all’autorità amministrativa per l’applicazione
delle sanzioni relative a un illecito depenalizzato.
Cass., sez. un., sentenza 29 marzo 2012, n. 25457
(dep. 28 giugno 2012) Rv. 252693
Pres. Lupo, Est. Fiale, Imp. Campagne Rudie, P.M. Fedeli
(Diff.)
(Annulla in parte con rinvio, App. Genova, 17 novembre
2010)
Misure cautelari ‑ Personali ‑ Disposizioni generali ‑ Scelta delle
misure (criteri) ‑ Art. 1, comma quarto, legge n. 62 del 2011 ‑ Inter‑
pretazione
L’art. 1, comma quarto, della legge n. 62 del 2011 (che
dichiara applicabili le disposizioni dell’art. 1 solo a decorre‑
re dal 1o gennaio 2014, fatta salva la possibilità di utilizzare
i posti già disponibili a legislazione vigente presso gli istituti
a custodia attenuata) si interpreta nel senso che tale applica‑
zione differita non può concernere il comma primo (che ha
modificato l’art. 275 comma quarto c.p.p. ampliando il no‑
vero dei minori beneficiari della tutela in esso accordata
mediante l’elevazione del limite di età che comporta il divie‑
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
to di custodia cautelare in carcere per il genitore), mentre,
laddove ricorrano esigenze di eccezionale rilevanza, solo
queste ultime possono giustificare il differimento dell’appli‑
cazione a far data dal momento in cui sarà completato il
piano straordinario delle carceri oppure dal 1o gennaio
2014.
Cass., sez. IV, sentenza 26 aprile 2012, n. 22338
(dep. 08 giugno 2012) Rv. 252740
Pres. Marzano, Est. Dovere, Imp. P.M. in proc. Brognoli, P.M.
Fodaroni (Diff.)
(Rigetta, Trib. lib. Brescia, 21 febbraio 2012)
Notificazioni – All’imputato – Decreto di irreperibilità (efficacia)
‑ Decreto di irreperibilità ai fini della notifica dell’avviso di con‑
clusione delle indagini preliminari ‑ Efficacia ai fini della notifica
del decreto di citazione a giudizio ‑ Sussistenza ‑ Limiti
Il decreto di irreperibilità emesso dal P.M. ai fini della
notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari
è efficace anche ai fini della notifica del decreto di citazione
a giudizio, salvo che il P.M. effettui ulteriori indagini dopo
la notifica di detto avviso.
Cass., sez. un., sentenza 24 magio 2012, n. 24527
(dep. 20 giugno 2012) Rv. 252692
Pres. Lupo, Est. Davigo, Imp.: Napolitano, P.M. Fedeli
(Conf.)
(Rigetta, App. Milano, 11 maggio 2011)
Parte civile ‑ Impugnazioni ‑ Sentenza di proscioglimento ‑ Speci‑
fico riferimento agli effetti civili ‑ Necessità ‑ Sussistenza
È inammissibile l’appello, proposto dalla parte civile
avverso la sentenza di proscioglimento, rivolto unicamente
ad ottenere l’affermazione della responsabilità penale degli
imputati in assenza di alcun riferimento, neppure implicito,
agli effetti di carattere civile che si intendano conseguire.
Cass., sez. IV, sentenza 3 maggio 2012, n. 23155
(dep. 12 giugno 2012) Rv. 252763
Pres. Sirena PA., Est. Montagni A., Rel. Montagni A., Imp. Di
Curzio e altri, P.M. Policastro A. (Diff.)
(Rigetta, App. Roma, 24 maggio 2010)
Procedimenti speciali ‑ Giudizio abbreviato ‑ In genere ‑ Eccezione
di incompetenza territoriale ‑ Ammissibilità ‑ Condizioni
L’eccezione di incompetenza territoriale è proponibile “in
limine” al giudizio abbreviato non preceduto dall’udienza
preliminare, mentre, qualora il rito alternativo venga instau‑
rato nella stessa udienza, l’incidente di competenza può es‑
sere sollevato, sempre “in limine” a tale giudizio, solo se già
proposto e rigettato in sede di udienza preliminare. (In mo‑
tivazione la Corte ha precisato che, pur in assenza nel giudi‑
zio speciale di una fase dedicata alla soluzione delle questio‑
ni preliminari, l’eccezione può essere proposta in quella de‑
dicata alla verifica della costituzione delle parti).
Cass., sez. un., sentenza 29 marzo 2012, n. 27996
(dep. 13 luglio 2012) Rv. 252612
Pres. Lupo, Est. Siotto, Imp. Forcelli, P.M. Fedeli (Conf.)
(Annulla con rinvio, App. Bologna, 21 ottobre 2010)
Procedimenti speciali – Giudizio abbreviato ‑ In genere ‑ Richiesta
di retrocessione dal rito in conseguenza di contestazione integra‑
tiva ‑ Revocabilità ‑ Condizioni
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
In tema di giudizio abbreviato, la richiesta di retrocessio‑
ne dal rito avanzata ai sensi dell’art. 441 bis c.p.p. può esse‑
re validamente revocata dall’imputato prima che il giudice
provveda sulla stessa, non potendosi in tal caso qualificare
la suddetta revoca come riproposizione della domanda di
abbreviato.
Cass., sez. V, sentenza 27 aprile 2012, n. 24125
(dep. 18 giugno 2012) Rv. 252806
Pres. Marasca, Est. Fumo, Imp. Melella e altro, P.M. D’Am‑
brosio (Diff.)
(Rigetta, App. Ancona, 28 aprile 2011)
Prove ‑ Mezzi di prova ‑ Testimonianza ‑ Incompatibilità – Impu‑
tato di reato collegato ‑ Interrogatorio delle persone indagate in
reato connesso o collegato ai sensi dell’art. 371, comma secondo,
lett. b) c.p.p. di iniziativa della P.G. ‑ Necessità degli avvisi previsti
dall’art. 64 c.p.p. ‑ Sussistenza ‑ Ragioni
In tema di interrogatorio delle persone indagate in reato
connesso o collegato ai sensi dell’art. 371, comma secondo,
lett. b) c.p.p., l’atto deve sempre essere preceduto, a pena di
inammissibilità, dagli avvisi previsti dall’art. 64 c.p.p. anche
quando è compiuto di iniziativa della polizia giudiziaria, non
essendo coerente né ragionevole che detta garanzia sia rico‑
nosciuta solo quando all’interrogatorio proceda il pubblico
ministero.
Cass., sez. I, sentenza 10 maggio 2012, n. 22643
(dep. 11 giugno 2012) Rv. 252741
Pres. Giordano, Est. Santalucia, Imp. Andriietes, P.M. Volpe
(Diff.)
(Annulla con rinvio, Trib. Reggio Calabria, 18 maggio
2011)
Prove – Mezzi di ricerca della prova ‑ Intercettazioni di conversa‑
zioni o comunicazioni – Esecuzione delle operazioni ‑ Operazioni
di ascolto eseguite presso impianti installati in una Procura diver‑
sa da quella che ha disposto le intercettazioni ‑ Trasmissione del
procedimento per competenza alla Procura distrettuale ‑ Prose‑
guibilità delle operazioni nei locali della Procura territoriale, ov‑
vero presso apparati diversi ‑ Conseguenze ‑ Indicazione
L’attribuzione del procedimento alla Procura distrettuale
in ragione della competenza funzionale ex art. 51, com‑
2 0 1 2
97
ma terzo ‑”bis”, c.p.p., non può di per sé comportare ‑ nel
caso in cui il G.i.p. distrettuale abbia disposto la proroga
della durata delle operazioni di intercettazione, o, comunque,
l’attivazione di nuove intercettazioni ‑ la caducazione delle
condizioni legittimanti l’utilizzo di apparati diversi da quelli
esistenti presso la Procura della Repubblica del luogo ove
erano state attivate le intercettazioni le cui risultanze abbia‑
no determinato la trasmissione del procedimento per com‑
petenza alla Procura distrettuale. Ne consegue che le inter‑
cettazioni possono proseguire presso la Procura territoriale
e l’adozione di uno specifico provvedimento esecutivo delle
operazioni di registrazione per l’impiego di apparecchiature
alternative è richiesto soltanto nell’ipotesi in cui la Procura
distrettuale ritenga, per esigenze organizzative o per motivi
in ogni caso collegati alle esigenze di indagine, che le suddet‑
te operazioni debbano essere effettuate nei locali della stessa
Procura distrettuale, ovvero con impianti in dotazione di
altri organi di polizia.
Cass., sez. VI, sentenza 6 marzo 2012, n. 25120
(dep. 22 giugno 2012) Rv. 252614
Pres. Di Virginio, Est. Carcano, Imp. Cicala e altri, P.M.
Cesqui (Parz. Diff.)
(Rigetta in parte, App. Lecce, sez.dist. Taranto, 11 febbraio
2011)
Reati fallimentari – Reati di persone diverse dal fallito ‑ Fatti di
bancarotta ‑ Bancarotta impropria da reato societario ‑ Compo‑
nente del consiglio di amministrazione ‑ Responsabilità per
omesso impedimento del reato ‑ Mancata acquisizione delle in‑
formazioni necessarie allo svolgimento dell’incarico ‑ Reato ‑ Sus‑
sistenza
Il componente del consiglio di amministrazione risponde
del concorso nella bancarotta impropria da reato societario
per mancato impedimento del reato anche quando egli sia
consapevolmente venuto meno al dovere di acquisire tutte le
informazioni necessarie all’espletamento del suo mandato.
Cass., sez. V, sentenza 29 marzo 2012, n. 23091
(dep. 12 giugno 2012) Rv. 252803
Pres. Ferrua, Est. Sandrelli, Imp. P.G. in proc. Baraldi e altro,
P.M. Izzo (Conf.)
(Annulla con rinvio, App. Bologna, 12 ottobre 2010)
penale
Gazzetta
98
D i r i t t o
●
●
p r o c e d u r a
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
DIRITTO PENALE
Rassegna di merito
e
A cura di
Alessandro Jazzetti
Sostituto Procuratore Generale
presso la Corte di Appello di Napoli
Giuseppina Marotta
Avvocato
Circostanze attenuanti generiche: concessione – Criteri
La concessione o no delle circostanze attenuanti generiche
risponde a una facoltà discrezionale del giudice, il cui eserci‑
zio, positivo o negativo che sia, deve essere motivato nei soli
limiti atti a far emergere in misura sufficiente il pensiero del
decidente circa l’adeguamento della pena in concreto inflitta
alla gravità effettiva del reato e alla personalità del reo. Tali
attenuanti non vanno intese, comunque, come oggetto di una
“benevola concessione” da parte del giudice, né l’applicazio‑
ne di esse costituisce un diritto in assenza di elementi negati‑
vi, ma la loro concessione deve avvenire come riconoscimen‑
to dell’esistenza di elementi di segno positivo, suscettibili di
positivo apprezzamento (Corte di Cassazione, sez. 11 penale,
sentenza 17 febbraio – 10 marzo 2011, n. 9849; Cass. pen.,
sezione V I, sentenza 28 ottobre‑23 novembre 2010
n. 41365).
Tribunale Nola, coll. B)
sentenza 28 giugno 2012, n. 1743
Pres. Napoletano, Est. Scermino
Concorrenza sleale: soggetto attivo – Requisiti
(art. 513 bis c.p.)
L’art. 513 bis c.p. rimanda ad una ipotesi delittuosa che
può essere posta in essere solo ed esclusivamente da soggetti
che rivestono una determinata qualifica ossia quella di eser‑
centi di una attività commerciale, industriale o comunque
produttiva (cfr. tra le altre sez. VI, sentenza 31 gennaio 1996,
n. 7627; sez. II, sentenza 16 maggio 2001, n. 26918). La Su‑
prema corte non ha mancato sul punto di rilevare, non solo
che il reato di illecita concorrenza con minacce o violenza
(art. 513 bis c.p.) ha natura di reato proprio, in quanto la
norma incriminatrice richiede che il soggetto attivo eserciti
un’attività commerciale, industriale o comunque produttiva,
ma anche che “tale requisito non deve essere inteso in senso
meramente formale, essendo sufficiente, per la sua (del reato)
configurabilità, lo svolgimento di fatto della predetta attivi‑
tà.
Tribunale Nola, coll. A)
sentenza 18 luglio 2012, n. 1974
Pres. Est. Aschettino
Concorrenza sleale: attività criminali di tipo mafioso – Necessi‑
tà – Esclusione
(art. 513 bis c.p.)
Sebbene reato in contestazione al capo 1 sia stato intro‑
dotto nel codice penale dalla l. n. 646 del 1982, art. 8 (legge
antimafia Rognoni‑La Torre) con la finalità tipica di repri‑
mere forme di concorrenza illecita di stampo mafioso che si
attuano con l’intimidazione finalizzata a controllare (o a
impedire) la concorrenza nello specifico ambiente della cri‑
minalità organizzata di tipo mafioso (Cass., sez. II, 9 genna‑
io 1998 n. 131), la giurisprudenza ha avuto modo di precisa‑
re che la disposizione in esame, per le modalità di inserimen‑
to nel codice penale, può trovare applicazione anche al di
fuori dell’ambito delle attività criminali di tipo mafioso
(Cass., sez. VI, 12 aprile 2007 n. 37528), in quanto il riferi‑
mento alle condotte tipiche della criminalità organizzata non
intende affatto dimensionare l’ambito di applicabilità della
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
norma, restringendolo alle sole operazioni di criminalità
organizzata ed a condotte di appartenenti ad organizzazioni
criminali, ma solo caratterizzare i comportamenti punibili,
con il ricorso ad un significativo parallelismo (Cass., sez. II,
15 marzo 2005 n. 13691; Cass., sez. III, 15 febbraio 1995
n. 450). In definitiva, la disposizione in esame, avente quale
scopo la tutela dell’ordine economico e, quindi, del normale
svolgimento delle attività produttive ad esso inerenti, mira a
reprimere tutti quei comportamenti diretti ad arrecare,
nell’esercizio di un’attività imprenditoriale, una turbativa al
libero mercato, attraverso l’uso strumentale della violenza o
della minaccia (cfr. sez. VI, sentenza n. 1089/2009).
Tribunale Nola, coll. A)
sentenza 18 luglio 2012, n. 1974
Pres. Est. Aschettino
Estorsione: intermediazione per la restituzione del bene sottrat‑
to ‑ Sussistenza del reato
(art. 629 c.p.)
Il delitto di estorsione punisce il fatto di colui che chiede ed
ottiene dal derubato il pagamento di una somma di denaro
come corrispettivo dell’attività di intermediazione posta in es‑
sere per la restituzione del bene sottratto, in quanto la vittima
subisce gli effetti di una minaccia implicita, e cioè quella della
mancata restituzione del bene, in mancanza del versamento
della richiesta di denaro a compenso dell’attività di intermedia‑
zione svolta (sez. II, sentenza n. 4565 del 02 dicembre 2004 ud.
‑ dep. 08 febbraio 2005 ‑ Rv. 230908). Quando, vi è la richiesta
di un compenso a chi possedeva, accompagnata dalla prospet‑
tazione della mancata restituzione del bene sottratto, detta
condotta non può che considerarsi tesa a coartare l’altrui vo‑
lontà a scopo di profitto: colui che sia stato privato illecitamen‑
te di un bene, infatti, conserva il diritto alla restituzione, oltre
che l’aspettativa morale di riacquistarlo, sicché la richiesta di
denaro in cambio dell’adempimento dell’obbligo giuridico di
restituire, che incombe sull’agente, influisce sulla libertà di de‑
terminazione del soggetto passivo ed integra, di per sé, minaccia
rilevante ai sensi dell’alt 629 c.p. (sez. II, sentenza n. 8309 del
24 giugno 1998 ud. (dep. 10 luglio 1998) Rv. 211184).
Tribunale Nola coll. B)
sentenza 14 giugno 2012, n. 1571
Pres. Est. Napoletano
Estorsione: aggravante di più persone riunite – Differenze con
concorso di persone nel reato – Requisiti
(art. 629 c.p.)
Mette conto evidenziare che sul punto si sono, di recente,
pronunciate le Sezioni unite della Corte di Cassazione, chia‑
mate a dirimere il contrasto giurisprudenziale segnalato,
precisando che “nel reato di estorsione, la circostanza aggra‑
vante speciale delle più persone riunite richiede la simultanea
presenza di non meno di due persone nel luogo ed al momen‑
to di realizzazione della violenza o della minaccia ‑ sez.un.,
sentenza n. 21837 del 29 marzo 2012 ud. (dep. 05 giugno
2012) Rv. 252518). Le Sezioni unite hanno risolto il contra‑
sto nel senso sopra riportato, sulla scorta della interpretazio‑
ne letterale, rispettosa del principio di legalità nella duplice
accezione della precisione e determinatezza della condotta
punibile e del divieto di analogia in malam partem in materia
penale e di quella logico sistematica, delineando con chiarez‑
2 0 1 2
99
za la differenza tra la ipotesi di concorso di persone nel de‑
litto di estorsione e quella aggravata delle “più persone riu‑
nite” nel luogo e nel momento ove venga esercitata la violen‑
za o la minaccia tesa a coartare la volontà della vittima, non
potendosi la circostanza aggravante identificare con una
generica ipotesi di concorso di persone nel reato.
Tribunale Nola, coll. B)
sentenza 14 giugno 2012, n. 1571
Pres. Est. Napoletano
Falsa testimonianza: causa di non punibilità – Limiti e presupposti
(art. 372 – 384 c.p.)
In tema di falsa testimonianza la causa di non punibilità
prevista dall’art. 384 c.p. è applicabile anche quando il pros‑
simo congiunto dell’ ‘imputato abbia operato la scelta di non
avvalersi della facoltà di astenersi dal testimoniare, in quan‑
to la suddetta causa, che trova la sua giustificazione nell’
istinto della conservazione della propria libertà e del proprio
onore (nemo tenetur se detegere) e nell’esigenza di tener con‑
to agli stessi fini dei vincoli di solidarietà familiare, presup‑
pone una situazione di necessità nettamente distinta da
quella prevista in via generale dall’art. 54 c.p. poiché non
richiede che il pericolo non sia stato causato dall’agente,
nella quale il nocumento alla libertà e all’onore è evitabile
solo con la commissione di uno dei reati contro l’amministra‑
zione della giustizia: ne consegue che l’obbligo legale di testi‑
moniare o anche la libera scelta di farlo, nell’ipotesi in cui
non si eserciti, ove prevista, la facoltà di astenersi, non inci‑
dono sull’operatività della suddetta esimente.
Tribunale Nola coll. D)
sentenza 6 giugno 2012, n. 1483
Pres. Napoletano, Est. Di Petti
Lesioni volontarie: indebolimento permanente di organo – Pre‑
supposti
(art. 582, 585 c.p.)
In tema di lesioni volontarie, l’indebolimento permanen‑
te della funzione visiva non è escluso dal fatto che l’occhio
abbia riacquistato completa efficienza grazie all’applicazione
d’una protesi poiché la permanenza dell’indebolimento va
riferito alla normale funzione dell’organo, prescindendo
dall’uso coadiuvante di mezzi artificiali (in senso conforme
sez. V, sentenza n. 9903 del 06 ottobre 1993). Per cui la ri‑
costruzione del pavimento orbitale a mezzo di una membra‑
na riassorbibile comporta un indebolimento permanente
dell’organo e della funzione visiva anche in assenza di una
diplopia, ciò vale anche per gli organi costituenti plurimi o a
funzione similare laddove il danno ad uno solo dell’organo
geminato (es. rene, testicolo, occhio), può configurare l’ag‑
gravante dell’indebolimento permanente anche se non quella
della perdita dell’uso di organo.
Tribunale Nola, coll. A)
sentenza 18 luglio 2012, n. 1974
Pres. Est. Aschettino
Reato proprio: responsabilità dei concorrenti – Estensione – Cri‑
teri di valutazione ed applicazione
(art. 117 c.p.)
L’art. 117 c.p. prevede il “mutamento del titolo dì reato
per taluno dei concorrenti” posto che, in assenza della norma
penale
Gazzetta
100
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
specifica, la condotta posta in essere dagli imputati potrebbe
essere ricondotta al reato di violenza privata o di estorsione.
Come è noto l’estensione della responsabilità per il reato
proprio anche ai concorrenti che non rivestono la qualifica
richiesta dalla norma ha formato oggetto di attenzione ed è
stata sottoposta ad una profonda rivisitazione dalla giuri‑
sprudenza di legittimità che si è sforzata di far rientrare la
disciplina codicistìca nell’alveo del principio di personalità
della responsabilità fissato dall’art. 27 della Costituzione. In
particolare sì è escluso che l’ipotesi disciplinata dall’alt. 117
c.p. possa configurare un’ipotesi di responsabilità c.d. “og‑
gettiva” che scatta a prescindere da qualsìasi valutazione in
ordine alla colpevolezza del soggetto agente, al contrario si è
sostenuto, e sul punto il collegio condivide in pieno l’appro‑
do della giurisprudenza di legittimità, che è sempre necessa‑
rio operare una rigorosa valutazione della sussistenza del
nesso psichico che deve riguardare non solo la volontà e co‑
scienza della condotta criminosa ma anche la conoscenza da
parte del concorrente privo della qualifica della sussistenza
in capo ad uno dei concorrenti della qualità che vale a qua‑
lificare il reato come reato proprio.
Tribunale Nola coll. A)
sentenza 18 luglio 2012, n. 1974
Pres. Est. Aschettino
Recidiva: aumento obbligatorio – Condizioni
(art. 99 c.p.)
Per i delitti contemplati dall’art. 407 co. 2 lett. a), l’art. 99
co. 5 c.p., prevede l’obbligatorietà della rilevanza sanziona‑
toria della recidiva. Tale comma di chiusura si riferisce ad
ogni forma di recidiva facoltativa ed ha la funzione di prefi‑
gurare in rapporto a ciascuna di esse altrettante ipotesi di
recidiva obbligatoria, sicché l’applicazione dell’aumento di
pena è sottratto alla valutazione discrezionale del giudice,
quando il soggetto commetta un nuovo delitto incluso tra
quelli indicati dall’art. 407 co. 2 lett. a). Tanto è avvalorato
anche dal dato testuale della disposizione, avendo il legisla‑
tore non solo espressamente previsto l’obbligatorietà dell’au‑
mento di pena, ma addirittura stabilito che nei casi indicati
dal secondo comma, per i quali non è previsto un aumento
obbligatorio nel quantum, l’aumento da apportare non pos‑
sa essere inferiore ad un terzo della pena da infliggere per il
nuovo delitto.
Corte di Appello Napoli, sez. I
sentenza 12 luglio 2012, n. 3685
Pres. Marotta, Est. Saraceno
Ricettazione: delitto presupposto – Accertamento – Criteri
(art. 648 c.p.)
Ai fini della configurabilità del reato di ricettazione, non
si richiede l’accertamento giudiziale del delitto presupposto
né dei suoi autori, né dell’esatta tipologia di esso, essendo
sufficiente che sia raggiunta la prova logica della provenien‑
za illecita delle utilità oggetto delle operazioni compiute: il
che, nella specie, ricorreva per effetto dei riscontri testimo‑
niali resi dall’Organo di PG nonché della denuncia di furto
versata in atti (Cass. pen., sez. V, 21 maggio 2008, n. 36940;
Cass. pen., n. 36779 del 2006, Cass. pen., sez, II, 11 maggio
2005, n. 23396, Cass. pen., sez, II, 23 febbraio 2005,
n. 13448, Cass. pen., sez, IV, 7 novembre 1997, n. 11303,
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
Cass, pen., n. 2311 del 1995).
Tribunale Nola, coll. B)
sentenza 28 giugno 2012, n. 1743
Pres. Napoletano, Est. Scermino
Ricettazione: elemento materiale – Possesso della cosa
(art. 648 c.p.)
Sotto altro profilo, va rammentato come ai tini della
sussistenza del delitto di ricettazione. la ricezione, che ne è
l’elemento materiale, è comprensiva di qualsiasi consegui‑
mento del possesso della cosa proveniente da reato, mentre,
quanto al profitto, è sufficiente qualsiasi utilità o vantaggio
derivante dal possesso della cosa (cfr. Cass., sez. II, n. 2804
del 16 marzo 19923: onde il fatto di aver sorpreso il preve‑
nuto nella materiale disponibilità del bene furtivo soddisfa‑
ceva per tabulas i richiamati elementi richiesti dalla norma
incriminatrice.
Tribunale Nola, coll. B)
sentenza 28 giugno 2012, n. 1743
Pres. Napoletano, Est. Scermino
Ricettazione: provenienza delittuosa del bene –Consapevolezza
dell’agente – Limiti e condizioni
(art. 648 c.p.)
Ai fini del reato contestato, la consapevolezza dell’agente
della provenienza delittuosa della cosa acquistata o ricevuta
può ricavarsi da qualsiasi elemento, e, in particolare, dalla
sua peculiare natura, in quanto tale da ingenerare in una
persona di media levatura la certezza che la cosa non poteva
essere legittimamente posseduta da chi la deteneva ovvero,
anche, dal Pomessa ‑ o non attendibile ‑ indicazione della
provenienza della cosa ricevuta, la quale è sicuramente rive‑
latrice della volontà di occultamento, logicamente spiegabile
con un acquisto in mala fede. (Cass. pen., sez. II, 22 gennaio
2008, n. 5996; Cass. pen., sez. II, 17 maggio 2007, n. 23387;
Cass. pen., sez. II, 03 aprile 2007, n. 23025; Cass. pen., sez.
II, 07 aprile 2004, n. 18034).
Tribunale Nola, coll. B)
sentenza 28 giugno 2012, n. 1743
Pres. Napoletano, Est. Scermino
Riciclaggio: condotta punibile ‑ Presupposti
(art. 648 bis c.p.)
Sussiste il reato di cui all’art. 648 bis c.p. nell’ipotesi in
cui l’agente, ricevuta un’autovettura che egli sa essere di pro‑
venienza delittuosa, vi apponga, allo scopo di ostacolare
l’accertamento ditale provenienza, targhe di pertinenza di
altro veicolo o compia altre simili operazioni tese ad impedi‑
re il riconoscimento o l’identificazione del veicolo (cfr. tra le
altre Cass. pen., sez II, n. 12766 del 11/200; Cass. pen. 2
giugno 2000, n. 6534; Cass. pen., sez I 21 giugno 1997
n. 3373).
Tribunale Nola, coll. B)
sentenza 14 giugno 2012, n. 1568
Pres. Napoletano, Est. De Majo
Riciclaggio: elemento soggettivo – Criteri di accertamento
(art. 648 bis c.p.)
L’elemento soggettivo del delitto di riciclaggio è integrato
dal dolo generico, che ricomprende sia la volontà di compie‑
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
re le attività relative ad impedire l’identificazione della pro‑
venienza delittuosa di beni, sia la consapevolezza di tale
provenienza (Cass., sez. II, 7 gennaio 2011,n. 546). La scien‑
za dell’agente in ordine alla provenienza dei beni da determi‑
nati delitti può sì essere desunta da qualsiasi elemento ma
sussiste solo quando gli indizi in proposito siano così gravi ed
univoci da autorizzare la logica conclusione della “certezza”
che i beni ricevuti per la sostituzione siano di derivazione
delittuosa specifica (Cassazione penale, sez. VI, n. 9090 del
06 aprile 1995). Ed a tal fine il giudice di merito è tenuto ad
indagare se, date le particolari modalità del fatto, l’agente
poteva, allorché ricevette, acquistò od occultò il bene, aver
raggiunto la certezza della sua illecita provenienza e, dunque,
dell’ anteriorità di un reato commesso da altri.
Tribunale Nola, coll. B)
sentenza 14 giugno 2012, n. 1568
Pres. Napoletano, Est. De Majo
Tentato omicidio: elementi costitutivi – Valutazione
(art. 56, 575 c.p.)
Al fine di determinare la sussistenza del reato tentato,
deve essere compiuta una duplice valutazione che tenga conto
del profilo oggettivo della fattispecie tentata (idoneità e non
equivocità degli atti) e del profilo soggettivo della stessa (dolo).
L’idoneità, ossia la suscettibilità degli atti a produrre l’evento
previsto dalla norma incriminatrice quale elemento del delit‑
to consumato, va valutata con giudizio ex ante, che tenga
conto delle circostanze in cui opera l’agente e delle modalità
dell’azione, in modo da determinarne la reale adeguatezza
causale e l’attitudine degli stessi atti a creare una situazione
di pericolo attuale e concreto di lesione del bene protetto
dalla norma. Gli atti sono, quindi inidonei se, in assoluto,
sulla base di detta valutazione, difettino intrinsecamente di
qualsiasi efficacia causale, senza ovviamente tener conto
delle circostanze impreviste che escludono l’evento. L’univo‑
cità della direzione dell’atto, cioè la probabilità che, per il
grado di sviluppo dell’azione, possa prevedersi come verosi‑
mile la consumazione del delitto va desunta, anch’essa con
giudizio ex ante, non solo dalla sua oggettiva sintomaticità
(cd. Criterio di essenza) ma anche aliunde da qualsiasi ele‑
mento collaterale (cd. Criterio di prova), come ad esempio
dall’ulteriore condotta dell’agente e dalle sue successive di‑
chiarazioni.
Tribunale Nola, G.u.p. Sepe
sentenza 30 luglio 2012, n. 334
2 0 1 2
101
Violenza sessuale: condotte punibili
(art. 609 bis c.p.)
La condotta vietata dall’art. 609 bisc.p. ricomprende ‑ se
connotata da costrizione (violenza minaccia o abuso di auto‑
rità), sostituzione ingannevole di persona ovvero abuso di
condizioni di inferiorità tisica o psichica ‑ oltre ad ogni forma
di congiunzione carnale, qualsiasi atto che, risolvendosi in un
contatto corporeo tra soggetto attivo e soggetto passivo,
ancorché fugace ed estemporaneo, o comunque coinvolgendo
la corporeità sessuale di quest’ ultimo, sia finalizzato e nor‑
malmente idoneo a porre in pericolo la libertà di autodeter‑
minazione del soggetto passivo nella sua sfera sessuale. Le
finalità dell’agente e l’eventuale soddisfacimento del proprio
piacere sessuale non assumono un rilievo decisivo ai tini del
perfezionamento del reato, che è caratterizzato dal dolo ge‑
nerico e richiede semplicemente la coscienza e volontà di
compiere atti pervasivi della sfera sessuale altrui. Ne deriva
che anche i palpeggiamenti ed i toccamenti possono costitui‑
re una indebita intrusione nella sfera sessuale. laddove il ri‑
ferimento al sesso non deve limitarsi alle zone genitali, com‑
prendendo pure quelle ritenute «erogene» (stimolanti
dell’istinto sessuale) dalla scienza medica, psicologica ed
antropologico‑sociologica, siccome parimenti suscettibili di
eccitare la concupiscenza sessuale anche in modo non com‑
pleto e/o di breve durata, (Cassazione penale, sez. IV. 03
ottobre 2007. n. 3447; Cassazione penale, sez. III, 02 febbra‑
io 2007, n. 9250; Cassazione penale, sez. III, 05 giugno 2008,
n. 27469: Cass. pen., sez. un. 27 novembre 2008, n. 3287.)
Tribunale Nola, coll. B)
sentenza 14 giugno 2012, n. 1566
Pres. Napoletano, est. Scermino
Violenza sessuale: elemento soggettivo – Requsiti
(art. 609 bis c.p.)
L’elemento soggettivo del reato di abuso sessuale consiste
nella coscienza e volontà di compiere un atto invasivo e lesi‑
vo della libertà sessuale della persona non consenziente, re‑
stando pertanto irrilevante l’eventuale fine ulteriore, sia esso
di concupiscenza, ludico o d’umiliazione. propostosi dal
soggetto agente.
Tribunale Nola, coll. B)
sentenza 14 giugno 2012, n. 1566
Pres. Napoletano, Est. Scermino
PROCEDURA PENALE
Tentato omicidio: pericolo di vita – Nozione e criteri di valutazione
(art. 56, 575 c.p.)
La nozione medica di pericolo di vita, può costituire per
il Giudice un indice della idoneità degli atti posti in essere
dall’agente, ma non può essere l’unico, necessario parametro
posto a base della decisione. È ben possibile, infatti, che
un’azione sia assolutamente idonea a cagionare la morte di
un uomo e sia altresì diretta in maniera inequivocabile a rag‑
giungere tale risultato, pur senza ledere minimamente l’inte‑
grità fisica della vittima (si pensi ad es. al caso di un soggetto
contro il quale viene sparato un colpo di arma da fuoco che
però non lo raggiunge, mancandolo di pochi centimetri.)
Tribunale di Nola, G.u.p. Sepe
sentenza 30 luglio 2012, n. 334
Prova documentale: sentenze nonirrevocabili ‑ Valutazione ‑ Limiti
(art. 238 bis c.p.)
Le sentenze pronunziate in procedimenti penali diversi e
non ancora divenute irrevocabili, legittimamente acquisite al
fascicolo del dibattimento nel contraddittorio tra le parti,
possono essere utilizzate come prova limitatamente all’esi‑
stenza della decisione e alle vicende processuali in esse rap‑
presentate, ma non ai fini della valutazione delle prove e
della ricostruzione dei fatti oggetto di accertamento in quei
procedimenti.
Tribunale Nola, coll. C)
sentenza 25 maggio 2012, n. 1356
Pres. Di Iorio, Est. Cervo Napolitano
penale
Gazzetta
102
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
p e n a l e
Valutazione della prova: testimonianza della persona offesa mi‑
norenne in caso di reati contro la libertà sessuale – Criteri
(art. 192 c.p.p.)
Costituisce generale e consolidato principio quello secondo
il quale, in tema di reati contro la libertà sessuale, la valutazio‑
ne del contenuto delle dichiarazioni della persona offesa mino‑
renne, oltre a non sfuggire alle regole generali in materia di
testimonianza. in relazione alla attenta verifica della natura
disinteressata e della coerenza intrinseca del narrato, richiede
la necessità di accertare. da un lato, la cosiddetta capacità a
deporre, ovvero l’attitudine psichica, rapportata all’età, a me‑
morizzare gli avvenimenti e a riferirne la verificazione in modo
coerente e compiuto. e. dall’altro, il complesso delle situazioni
che attingono la sfera interiore del minore, il contesto delle
relazioni con l’ ambito familiare ed extrafamiliare e i processi
di rielaborazione delle vicende vissute (Cass. pen., sez. III, sent.
n. 39994 del 26 settembre 2007, RV. 237952). Più in partico‑
lare, si rileva che con il necessario uso dell’indagine psicologica,
condotta da un consulente o da un perito, due aspetti prelimi‑
nari debbono essere vagliati dal Giudicante: l’attitudine del
minore a testimoniare, sotto il profilo intellettivo ed affettivo,
e la sua credibilità (Cass. sez. III, sent. n. 41282 del 5 ottobre
2006, RV. 235578). Il primo consiste nell’accertamento della
capacita del minore di recepire le informazione di raccordarle
con altre, di ricordarle e di esprimerle in una visione complessa.
da considerare in relazione al1’età, alle condizioni emozionali,
che regolano le sue re1azoni con il mondo esterno, alla qualità
e natura dei rapporti familiari. Il secondo è diretto ad esamina‑
re il modo in cui la giovane persona offesa ha vissuto ed ha ri‑
elaborato la vicenda, in maniera da selezionare sincerità, tra‑
visamento dei fatti e menzogna sebbene, questo ulteriore ac‑
certamento è stato talvolta inserito nella diversa tematica
della valutazione della generale attendibilità del mezzo di pro‑
va venendo a coincidere con essa in tal senso.
Tribunale Nola, coll. B)
sentenza 14 giugno 2012, n. 1566
Pres. Napoletano, Est. Scermino
Tribunale Nola, coll. B),
sentenza 14 giugno 2012, n. 1566,
Pres. Napoletano, Scermino est., De Majo.
Valutazione della prova: escussione di persona offesa da abuso
sessuale – Verifica psicologica – Necessità – Limiti e condizioni
(art. 192 c.p.p.)
La pregnante verifica psicologica di chi denuncia un abu‑
so sessuale si rende necessaria solo allorché la parte lesa sia un
soggetto che si trova ancora nella prima infanzia, non anche
quando si tratti dì persona già adolescente: ciò in considera‑
zione della naturale maturazione connessa all’età ed in assen‑
za di elementi ‑ quali una particolare predisposizione all’ela‑
borazione fantasiosa od alla suggestione ‑ tali da rendere
dubbio il narrato. In altri termini, superata la prima infanzia,
opera secondo la più avvertita giurisprudenza una sorta pre‑
sunzione iuris tantum di piena capacità di distinguere la real‑
tà e di comprendere il significato degli accadimenti a favore
del dichiarante: presunzione superabile solo a fronte di con‑
creti indici di segno contrario (cfr, Cass. sez. III, sent n. 44971
del 6 novembre 2007. Rv. 238279, nel caso di specie, la per‑
sona offesa aveva meno di 11 anni; in termini analoghi, Cass.,
sez III, sent. n. 27742 del 6 maggio 2008, RV. 240695, a
mente della quale «la sola età adolescenziale non costituisce
“in re ipsa” circostanza tale da escludere la capacità a deporre
in assenza di patologie incidenti su tale capacità»).
LEGGI PENALI SPECIALI
Gazzetta
F O R E N S E
Valutazione della prova: testimonianza di p.o.minorenne ‑ Rimo‑
zione/reticenza – Credibilità ‑ Sussistenza
(art. 192 c.p.p.)
Il dato della rimozione e del patimento era sintomatico
non solo del grave imbarazzo che stava vivendo in quel mo‑
mento la dichiarante, ma anche della veridicità di episodi che,
alla loro rievocazione, erano capaci di innescare nuovamen‑
te, nella sua sfera psichica, una forte sofferenza emotiva ed
espositiva, il che non poteva che confermare in via logico‑in‑
diziaria la effèttività dei fatti riferiti, essendo la iniziale reti‑
cenza, vergogna ed angoscia nella narrazione incompatibile
con la non verificazione dei fatti riferiti (cfr, Cass. sez. III,
sent. n. 1057 del 19dicembre 2006, RV. 236024).
Tribunale Nola, coll. B)
sentenza 14 giugno 2012, n. 1566
Pres. Napoletano, Est. Scermino
Sentenze irrevocabili: valutazione ‑ Criteri e limiti
(art. 238 bis c.p.p.)
Le sentenze irrevocabili acquisite ai sensi dell’art. 238 bis
c.p.p.. sono pienamente utilizzabili ai fini della prova del fatto
in esse accertato, non solo di quello direttamente riferibile
alla statuizione contenuta nel dispositivo, ma anche di ogni
altra acquisizione fattuale evidenziata nel corpo della motiva‑
zione, purché siano oggetto di valutazione alla stregua dei
criteri fissati nello stesso art. 238 bis attraverso il richiamo
all’art. 192 co. 30 c.p.p., dunque purché siano valutate unita‑
mente agli altri elementi che ne confermino l’attendibilità.
Tribunale Nola, coll. C)
sentenza 25 maggio 2012, n. 1356
Pres. Di Iorio, Est. Cervo, Napolitano
Armi: porto illegale – Detenzione – Assorbimento – Limiti e con‑
dizioni
(l. 110/75)
In tema di reati concernenti le armi, il delitto di porto il‑
legale assorbe per continenza quello di detenzione, escluden‑
done il concorso materiale, solo quando la detenzione dell’ar‑
ma inizi contestualmente al porto della medesima in luogo
pubblico e sussista altresì la prova che l’arma non sia stata in
precedenza. Pertanto, l’affermazione di responsabilità per il
reato di porto illegale di arma comporta, inassenza di prova
contraria – come nella fattispecie in esame ‑. l’affermazione di
responsabilità per il connesso reato di detenzione illegale
della stessa arma, in quanto tale reato costituisce il normale
antecedente logico del primo sicché è ravvisabile il concorso
tra i due reati, in quanto si tratta di condotte diverse che inte‑
grano distinte ipotesi delittuose ‑ sez. II, sentenza n. 3998 del
13 gennaio 2010 ud. (dep. 29 gennaio 2010) Rv. 246427.
Tribunale Nola, coll. B)
sentenza 25 maggio 2012, n. 1355
Pres. Napoletano, Est, Scermino
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
Armi: nozione di clandestinità
(l. 110/75)
Quanto al reato di cui all’art. 23 l. 110/75, si osserva che
rientra nella nozione di arma clandestina quella il cui nume‑
ro di matricola sia stato totalmente, o anche solo parzialmen‑
te, cancellato, atteso che la norma contenuta nell’art. 23 1.
110/75 mira a garantire la facile ed immediata controllabilità
dell’arma ai fini di un pronto riconoscimento della sua pro‑
venienza. Pertanto, per la sussistenza del reato in esame, non
è necessario che la mancanza o l’alterazione dei dati di im‑
matricolazione dell’arma sia ditale natura da non consentire
la ricostruzione dei numeri, contrassegni o sigle, essendo,
invece, sufficiente che siffatta ricostruzione, anche se possi‑
bile con i mezzi offerti dalla tecnica, sia resa più difficoltosa
o comunque ritardata. Né è necessario che le manomissioni
riguardino tutti gli estremi relativi, bastando l’abrasione del
solo numero di matricola (o addirittura di parte dello stesso)
perché, anche in tali ipotesi, si rendano disagevoli la indivi‑
duazione di ciascuna arma ed il controllo dei vari movimen‑
ti della stessa (Cass. pen., sez. I, 21 marzo 85, n. 2618).
Tribunale Nola, coll. B)
sentenza 25 maggio 2012, n. 1355
Pres. Napoletano, Est, Scermino
Armi: ricettazione – Presupposti
(l. 110/75 – art. 648 c.p.)
Relativamente al reato di ricettazione, si osserva che in
mancanza di elementi atti a dimostrare la legittima prove‑
nienza dell’arma ‑ e quindi che il detentore ha provveduto di
persona ad eliminare i contrassegni, commettendo, così. il
reato di cui all’art. 23 quarto comma l. 110/75 si deve presu‑
mere l’esistenza del delitto di ricettazione sulla base del fatto
stesso del possesso dell’arma clandestina, da ritenersi indizio
sufficiente dell’illecita provenienza dell’arma: in tal caso, il
detentore dovrà rispondere sia di ricettazione che del reato
previsto dall’art. 23, terzo comma della legge citata.
Tribunale Nola, coll. B)
sentenza 25 maggio 2012, n. 1355
Pres. Est. Napoletano
Armi: detenzione e porto – Armi comuni e armi clandestine ‑ Con‑
corso di reati – Condizioni
(l. 497/74 – l. 110/75)
Tra i reati di detenzione e porto di arma comuni da sparo
(artt. 10,12, e 14 l. n. 497/74 sostitutivi degli artt. 2,4 e 7 l.
n. 895167) e i reati previsti dall’art. 23 l. 110/75 non si veri‑
fica alcun assorbimento, tutelando le norme rispettivamente
indicate per i detti reati un bene giuridico diverso, infatti la
norma contenuta nel citato art. 23 l.110/75 (come già eviden‑
ziato sopra) mira a garantire la facile ed immediata controlla‑
bilità dell’arma ai fini di un pronto riconoscimento della sua
provenienza, mentre le norme relative alla denunzia delle
armi e alla licenza di porto d’armi sono dettate perché l’Au‑
torità di PS. possa avere tempestiva conoscenza delle persone
che detengono le armi e che sono autorizzate a portarle fuori
della propria abitazione (Cass. pen., sez. I, 21 aprile 88,
n. 4862).
Tribunale Nola, coll. B)
sentenza 25 maggio 2012, n. 1355
Pres. Est. Napoletano
2 0 1 2
103
Armi: ricettazione e detenzione illegale – Concorso – Sussistenza
(l. 110/75 – art. 81 c.p.)
Tra il delitto di detenzione di arma clandestina e quello di
ricettazione, non sussiste un rapporto di specialità, sia per la
diversa obiettività giuridica delle fattispecie, sia per il diverso
contenuto dei due precetti in presunto conflitto, avuto riguardo
al fatto che il “delitto presupposto della ricettazione di un’arma
si identifica nella “clandestinizzazione”, ad opera di terzo,
dell’arma stessa (Cass. pen., sez. II, 5 aprile 89, n. 4700).
Tribunale Nola, coll. B)
sentenza 25 maggio 2012, n. 1355
Pres. Est. Napoletano
Bancarotta fraudolenta: soggetto attivo – Responsabilità
(art. 216 L.F.)
Tra i soggetti attivi del reato è compreso l’amministratore di
fatto in quanto qualsiasi soggetto che di fatto si sia inserito
nell’attività amministrativa di una società poi dichiarata fallita,
risponde del reato di cui agli artt. 2l6 e 223 legge fallimentare,
come diretto destinatario delle disposizioni in esse contenute.
le quali indicano, tra gli altri. gli amministratori, con riferimen‑
to non ad una formale attribuzione di qualifiche. ma all’eserci‑
zio concreto delle funzioni che la sostanziano. Ne deriva che
l’amministratore di fatto di una società può rispondere del rea‑
to fallimentare quand’anche l’amministratore legale della stessa
non sia ritenuto colpevole sul punto, dovendosi aver riguardo
all’effettivo potere di gestione svolto nell’attività sociale.
Tribunale Nola, coll. A)
sentenza 13 giugno 2012, n. 1559
Pres. Aschettino, Est. de Majo
Bancarotta fraudolenta: amministratore di fatto – responsabili‑
tà – Sussistenza
(art. 216 L.F.)
Secondo l’interpretazione giurisprudenziale. l’amministra‑
tore di fatto risponde del reato di cui agli artt. 223 e 216 legge
fallimentare sia quale “extraneus”, in concorso con gli organi
legali della società, sia autonomamente, quale diretto destina‑
tario della norma incriminatrice. Nella prima ipotesi è neces‑
saria la prova dell’apporto causale dato dall’extraneus al fatto
proprio dell’amministratore legale. Nella seconda ipotesi. è
sufficiente la prova della gestione della società da parte dell’am‑
ministratore di fatto la cui responsabilità è diretta e personale.
e non concorsuale. prescinde da quella dell’amministratore
legale e si staglia quand’anche sia esclusa la responsabilità di
quest’ultimo (cfr. Cass. pen., sez. V, 17 gennaio 1996, Cass..
pen. 1997.547). Peraltro, una volta accertata la massiccia in‑
gerenza di un soggetto nella gestione della società, si giudica
ultroneo indagare, se tale intromissione costituisca una attivi‑
tà di concorso dell’ “extraneus’ oppure una attività delittuosa
come “intraneus”, in veste di amministratore di fatto. (cfr.
Cass. pen., sez. V., 9 giugno 1993, R. pen. cc. 1995, 73).
Tribunale Nola, coll. A)
sentenza 13 giugno 2012, n. 1559
Pres. Aschettino, Est. de Majo
Bancarotta fraudolenta: destinatario delle norme incriminatri‑
ci – Criteri di individuazione
(art. 216 L.F.)
La posizione dell’amministratore di fatto, destinatario
penale
Gazzetta
104
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
delle norme incriminatrici della bancarotta fraudolento, va
determinata con riferimento alle esposizioni civilistiche che.
regolando l’attribuzione della qualifica di imprenditore e di
amministratore di diritto, costituiscono la parte precettiva di
norme che sono sanzionale dalla legge penale. La disciplina
sostanziale si traduce. in via processuale, nell’accertamento
di elementi sintomatici di gestione o cogestione della società,
risultanti dall’organico inserimento del soggetto, qua/e ‘in‑
traneus’ che svolge funzioni gerarchiche e direttive, in qual‑
siasi momento dell”iter” di organizzazione, e commercializ‑
zazione dei beni e servizi rapporti di lavoro con i dipendenti
materiali e negoziali con i finanziatori, fornitori e clienti in
qualsiasi branca aziendale, produttiva, amministrativa, con‑
trattuale, disciplinare. Infatti secondo il consolidato e condi‑
visibile orientamento giurisprudenziale, quando sia provato
che l’imprenditore ha avuto a disposizione determinati beni,
ove non abbia saputo rendere conto del loro mancato repe‑
rimento o non abbia saputo giustificare la destinazione per
le effettive necessità dell’impresa, si deve dedurre che li ha
dolosamente distratti. posto che il fallito ha l’obbligo giuri‑
dico di fornire la dimostrazione della destinazione data ai
beni acquisiti al suo patrimonio, con la conseguenza che
dalla mancata dimostrazione può essere legittimamente de‑
sunta la prosa della distrazione o dell’occultamento.
Tribunale Nola, coll. A)
sentenza 13 giugno 2012, n. 1559
Pres. Aschettino, Est. de Majo
Bancarotta fraudolenta: distrazione di beni – Mancata dimostra‑
zione della destinazione – Sussistenza del reato
(art. 216 L.F.)
Ricorre l’ipotesi di bancarotta fraudolenta se all’atto
dell’inventano fallimentare non risultano presenti alcuni beni
e l’imprenditore fallito non riesce a fornire alcuna giustifica‑
zione sul/a destinazione assegnata agli stessi: l’imprenditore,
infatti, è posto in posizione di garanzia per la tutela del patri‑
monio d’impresa, cespite destinato alla soddisfazione delle
pretese creditorie, sicché lo stesso si libera da ogni responsabi‑
lità penale solo se riesce a fornire la prova che l’ammanco è
dipeso da fatti esterni alla sua condotta o da circostanze fisio‑
logicamente connesse alla funzione gestoria. In pratica. “la
prova della distrazione o dell’occultamento dei beni della im‑
presa dichiarata fallita può essere desunta anche dalla sola
mancata dimostrazione, ad opera dell’amministratore, della
destinazione dei beni. Ciò in quanto quest’ultima costituisce
valida presunzione della dolosa distrazione, rilevante, ai sensi
dell’art. 192 c.p.p, al fine di affermare la responsabilità dell’im‑
putato, non costituendo in alcun modo inversione dell’onere
della prosa fatto che sia rimessa all’interessato la dimostrazio‑
ne della concreta destinazione dei beni o del loro ricavato.
Tribunale Nola, coll. A)
sentenza 13 giugno 2012, n. 1559
Pres. Aschettino, Est. de Majo
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
Bancarotta fraudolenta patrimoniale: elemento soggettivo – Re‑
quisiti
(art. 216 comma 1 n. I L.F.)
Quanto all’elemento psicologico va infatti ricordato che
non è necessario il dolo specifico, ma è sufficiente il dolo
generico, il quale deve considerarsi insito nella consapevole
volontà del fatto distrattivo, implicante di per sé l’accettazio‑
ne della conseguenza tipica della condotta, consistente nella
sottrazione di beni alla garanzia della massa dei creditori cui
erano destinati.
Tribunale Nola, coll. A)
sentenza 13 giugno 2012, n. 1559
Pres. Aschettino, Est. de Majo
Bancarotta documentale fraudolenta: omessa tenuta di contabi‑
lità interna – Differenze con il reato di bancarotta semplice
(art. 216 L.F.)
L’omessa tenuta della contabilità interna (ovvero la sua
sottrazione nell’imminenza della procedura concorsuale)
integra gli estremi del reato di bancarotta documentale frau‑
dolenta e non quello di bancarotta semplice qualora si accer‑
ti che scopo dell’omissione e/o della sottrazione sia quello di
recare pregiudizio ai creditori. Laddove nella specie la fina‑
lità predetta poteva evincersi da tutta la condotta tenuta
dall’imputato nonché dal fatto che una così estesa omissione
della tenuta contabile è incompatibile con un’ipotesi di tra‑
scuratezza colposa, attesa la rilevante dimensione organizza‑
tiva dell’impresa gestita (cfr. volume di affari di centinaia di
milioni di lire).
Da tanto ne discende ulteriormente la prova della consa‑
pevole finalità di recare pregiudizio ai creditori, al fine di
occultare le proprie condotte gestorie antidoverose.
Tribunale Nola, coll. A)
sentenza 13 giugno 2012, n. 1559
Pres. Aschettino, Est. de Majo
Bancarotta fraudolenta: aggravanti ‑ Aumento di pena – Moda‑
lità
(art. 219 L.F.)
In tema di reati fallimentari. nel caso di consumazione di
una pluralità di condotte tipiche di bancarotta nell’ambito
del medesimo fallimento le stesse mantengono la propria
autonomia ontologica, dando luogo ad un concorso di reati,
unificati, ai soli fìni sanzionatori nel cumulo giuridico pre‑
vi1o dall’art. 219, comma secondo, L.F., disposizione che
pertanto non prevede sotto il profilo strutturale, una circo‑
stanza dettata per i reati fallimentari una peculiare disciplina
della continuazione derogatoria di quella ordinaria di cui
all’art. 81 c.p.
Tribunale Nola, coll. A)
sentenza 13 giugno 2012, n. 1559
Pres. Aschettino, Est. de Majo
Diritto amministrativo
Sistema Idrico Integrato. Moduli Gestionali e determinazione delle tariffe
107
Alessandro Barbieri
Eccezione di compromesso, bando di gara e capitolato di appalto:
questioni e brevi riflessioni 113
Francesco Rinaldi
Rassegna di giurisprudenza sul Codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture 119
(d.lgs. 12 Aprile 2006, n. 163 e ss. mm.)
amministrativo
A cura di Almerina Bove
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
●
Sistema Idrico Integrato.
Moduli Gestionali
e determinazione
delle tariffe
● Alessandro Barbieri
Avvocato
2 0 1 2
107
S ommario: Premessa. La qualificazione del Servizio
Pubblico Integrato (S.I.I.) – 1. Il quadro normo‑giurispru‑
denziale relativo ai moduli gestionali per lo svolgimento del
S.I.I. – 2. Sistemi tariffari applicabili ai servizi idrici fino al
2009 – 3. Modalità di determinazione della tariffa nel siste‑
ma non normalizzato dopo il 2009.
Premessa. La qualificazione del Servizio Pubblico Integrato
(S.I.I.)
L’indagine relativa al modulo gestionale utilizzabile per il
c.d. Sistema Idrico Integrato, deve muovere da alcune premes‑
se di ordine normo – giurisprudenziale, funzionali ad inqua‑
drare la disciplina giuridica applicabile al “servizio idrico
integrato”.
Quest’ultimo, infatti, è individuato dall’art. 141 comma 2
del d.lgs. n. 152/2006, recante “Norme in materia ambien‑
tale” (cosiddetto codice dell’ambiente), come quel servizio
“costituito dall’insieme dei servizi pubblici di captazione,
adduzione e distribuzione di acqua ad usi civili di fognatura
e di depurazione delle acque reflue”. Esso “deve essere gesti‑
to secondo principi di efficacia, efficienza ed economicità,
nel rispetto delle norme nazionali e comunitarie”.
Si tratta, ormai per pacifica acquisizione, di un servizio
sussumibile nel quadro dei pubblici a rilevanza economica,
categoria che, in linea di principio, può dirsi corrispondente
alla categoria del servizio di interesse economico generale
(Corte Cost. sent. n. 272/2004 e n. 325/2010, nonché Corte
Cost., sent. n. 187 del 15 giugno 2011) prevista dall’ordina‑
mento comunitario (su cui cfr. Corte di Giustizia UE 18 giu‑
gno 1998, in causa C 35/96; Libro Verde della Commissione
Europea del 21 maggio 2003).
Ciò posto, quanto a definizione del servizio, si chiarisce
che, come è noto, la disciplina normativa di riferimento, ma‑
xime in tema di suo affidamento, ha conosciuto plurime
modifiche nel corso degli ultimi anni.
Sul versante organizzativo, il servizio in esame si struttu‑
ra (ex art. 146 d.lgs. 156/2006), sulla base degli ambiti terri‑
toriali ottimali (A.T.O.), definiti dalle Regioni in attuazione
della l. 5 gennaio 1994, n. 36.
Peraltro, le Autorità d’Ambito territoriali, previste
dall’art. 148 del d.lgs. n. 152/2006, sono state soppresse
dall’art. 2 comma 186 bis della l. 23 dicembre 2009, n. 1911
con decorrenza 01.01.20112; le funzioni già esercitate dalle
Autorità – tra cui la scelta della forma di gestione del servizio,
l’affidamento ed il relativo controllo ex art. 142 comma 3 del
d.lgs. n. 152/2006 – devono essere attribuite con legge dalle
Regioni, nel rispetto dei principi di sussidiarietà, differenzia‑
zione ed adeguatezza3.
1 La richiamata disposizione prevede, tra l’altro, la nullità decorso il predetto
termine di ogni atto compiuto dall’autorità d’ambito territoriale, nonché la
soppressione di essa autorità a partire dal termine sopra indicato, pur a prescin‑
dere dall’entra in vigore della Legge Regionale di attribuzione delle funzioni già
esercitate da tali Enti.
2Tale termine è stato prorogato dapprima al 31.03.2011 (ex art. 1 comma 1 D.L.
n. 225/2010); successivamente al 31.12.2011 (d.P.C.M. 21.03.2011); e infine
al 31.12.2012 (art. 13 comma 2 D.l. 216/2011).
3 Cfr. sul punto, art. 1 comma 1 quinques del D.L. 25 gennaio 2010, conv. in L.
n. 42/2010. Secondo la Corte Costituzionale, peraltro, al legislatore regionale
compete esclusivamente disporre l’attribuzione delle funzioni delle soppresse
AAT, essendo di pertinenza esclusiva del legislatore statale, invece, la disciplina
dell’affidamento della gestione del SII attenendo tale aspetto alla materia della
amministrativo
Gazzetta
108
d i r i t t o
a m m i n i s t r at i v o
In relazione alle modalità di affidamento della gestione
del servizio idrico integrato, originariamente l’art. 150 com‑
ma 1 del d.lgs. n. 152/2006 disponeva che “l’autorità d’am‑
bito, nel rispetto del piano d’ambito e del principio della
unitarietà della gestione per ciascun ambito, delibera la for‑
ma di gestione tra quelle di cui all’art. 113 comma 5 del de‑
creto legislativo 18 agosto 2000, n. 267”4.
Per i profili relativi alle modalità di svolgimento del servi‑
zio, la norma è stata abrogata sia in modo espresso sia per
incompatibilità dall’art. 23 bis l. n. 133/2008, direttamente o
a mezzo del regolamento approvato con d.P.R. n. 168/20105.
A seguito del noto referendum, con d.P.R. 18 luglio 2011,
n. 113, l’art. 23 bis è stato abrogato, con efficacia ex nunc, a
decorrere dal giorno successivo a quello della pubblicazione
del decreto stesso sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica
italiana (ossia dal 21 luglio 2011).
L’abrogazione dell’art. 23 bis ha comportato, di conse‑
concorrenza e tutela dell’ambiente (da ultimo, cfr. Corte Cost. n. 6272012). Per
converso, l’Ente o il soggetto, individuato dalla legge regionale, come deputato
ad esercitare le competenze già intestate alle AAT, annovera tra le sue funzioni
quelle di deliberare la forma di gestione del SII e di aggiudicare la gestione di
tale servizio.
4 L’art. 113 comma 5 del d.lgs. n. 267/2000, come sostituito dall’art. 14 comma 1
lett. d) della legge 24 novembre 2003, n. 326 (che ha convertito in legge il de‑
creto legge 30 settembre 2003, n. 269) nonché dall’art. 4 comma 234 della
legge 24 dicembre 2003, n. 350 disponeva quanto segue: “L’erogazione del
servizio avviene secondo le discipline di settore e nel rispetto della normativa
dell’Unione Europea, con conferimento della titolarità del servizio: a) a società
di capitali individuate attraverso l’espletamento di gara ad evidenza pubblica;
b) a società a capitale misto pubblico e privato nelle quali il socio privato
venga scelto attraverso l’espletamento di gare con procedura ad evidenza pub‑
blica che abbiano dato garanzia di rispetto delle norme interne e comunitarie
in materia di concorrenza secondo le linee di indirizzo emanate dalle autorità
competenti attraverso provvedimenti o circolari specifiche; c) a società a capi‑
tale interamente pubblico a condizione che l’ente o gli enti pubblici titolari del
capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato
sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante dell’attività
con l’ente o gli enti pubblici che la controllano”.
5 L’art. 23 bis della l. n. 133/2008 statuiva al primo comma che “le disposizioni
contenute nel presente articolo si applicano a tutti i servizi pubblici locali e
prevalgono sulle relative discipline di settore con esse incompatibili”. Il com‑
ma 11 dello stesso art. 23 bis stabiliva, altresì, che l’art. 113 del Testo Unico
Enti locali è abrogato nelle parti incompatibili con le disposizioni del medesimo
articolo. L’art. 12 del D.P.R. n. 168/2010, in attuazione della delega a tal fine
conferita al Governo dal comma 10 dell’art. 23 bis, ha precisato che – a decor‑
rere dall’entrata in vigore del regolamento – sono o restano abrogate le seguen‑
ti disposizioni: a) articolo 113, commi 5, 5 bis, 6, 7, 8, 9 escluso il primo pe‑
riodo, 14, 15 bis, 15 ter e 15 quater, del decreto legislativo n. 267 del 2000 e
successive modificazioni; b) articolo 150 comma 1 del decreto legislativo 3
aprile 2006, n. 152, ad eccezione della parte in cui individua la competenza
dell’Autorità d’ambito per l’affidamento e l’aggiudicazione. Ne deriva che,
antecedentemente all’abrogazione referendaria, al conferimento della gestione
del servizio idrico trovavano applicazione le disposizioni ex art. 23 bis, ossia:
a) a favore di imprenditori o di società in qualunque forma costituite individua‑
te mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, nel rispetto dei
principi del Trattato che istituisce la Comunità Europea e dei principi generali
relativi ai contratti pubblici e, in particolare, dei principi di economicità, effi‑
cacia, imparzialità, trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione,
parità di trattamento, mutuo riconoscimento e proporzionalità; b) a società a
partecipazione mista pubblica e privata, a condizione che la selezione del socio
avvenga mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, nel rispetto dei
principi di cui alla lettera a), le quali abbiano ad oggetto, al tempo stesso la
qualità di socio e l’attribuzione di specifici compiti operativi connessi alla ge‑
stione del servizio e che al socio sia attribuita una partecipazione non inferiore
al 40 per cento; c) in via derogatoria: per situazioni eccezionali che, a causa di
peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del
contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace ed utile ricorso
al mercato, l’affidamento può avvenire in favore di società a capitale intera‑
mente pubblico, partecipata dall’ente locale, che abbia i requisiti richiesti
dall’ordinamento comunitario per la gestione cosiddetta in house e, comunque,
nel rispetto dei principi della disciplina comunitaria in materia di controllo
analogo sulla società e di prevalenza dell’attività svolta dalla stessa con l’ente
o gli enti pubblici che la controllano.
Gazzetta
F O R E N S E
guenza, la caducazione – con la medesima decorrenza – del
citato regolamento approvato con d.P.R. n. 168/2010, adot‑
tato sulla base della norma di delega contenuta nel comma 10
del medesimo articolo.
Non applicandosi alle modalità di affidamento della ge‑
stione del servizio idrico integrato l’art. 4 del successivo d.l.
n. 138/2011 (per espressa esclusione di cui al comma 34, ad
eccezione dei commi da 19 a 27 relativi alle cause di incom‑
patibilità comunque applicabili), è necessario soffermarsi – nel
dettaglio – su quale sia la disciplina normativa attualmente
vigente nel settore.
Orbene, l’assetto successivo al referendum abrogativo è
stato scolpito dalla Corte Costituzionale nella pronuncia re‑
lativa all’ammissibilità del quesito referendario6.
Il giudice delle Leggi ha osservato che, dall’abrogazione
referendaria, non deriva né una lacuna normativa incompati‑
bile con gli obblighi comunitari né l’applicazione di una nor‑
mativa contrastante con il suddetto assetto concorrenziale
minimo inderogabile richiesto dall’ordinamento comunitario.
In altri termini, l’abrogazione dell’art. 23 bis l. n. 133/2008
non ha comportato alcuna reviviscenza delle norme abrogate
da tale articolo, con conseguente applicazione immediata
nell’ordinamento italiano della disciplina comunitaria relati‑
va alle regole concorrenziali minime in tema di gara ad evi‑
denza pubblica per l’affidamento della gestione del servizio
idrico integrato7.
Nell’alveo di queste ultime, la Corte Costituzionale inten‑
de riferirsi in particolare ai principi del Trattato per il funzio‑
namento dell’Unione Europea nonché alla giurisprudenza
della Corte di Giustizia8.
Da quanto precede, dunque, discende:
che, giusta l’abrogazione dell’art. 23 del d.l. n. 112/2008
e l’inapplicabilità al servizio idrico intergrato dell’art. 4 del
D.L. n. 138/20119, conv. in Legge n. 148/2007, nelle modifiche
introdotte dalla Legge n. 183/2011 – in virtù della deroga ex
art. 4 comma 32 del cit. D.L. n. 138/2011 – si deve ritenere
che l’affidamento della gestione del servizio idrico integrato
risulta assoggettata alla disciplina comunitaria relativa alle
regole concorrenziali minime in tema di gara ad evidenza
pubblica, stante, per un verso, l’assenza attuale di un corpus
normativo specifico e, per altro, l’insussistenza di una ipotesi
di reviviscenza delle norme abrogate dall’art. 23 bis D.L.
6 Corte Cost. sent. n. 24/2011, poi ribadita nella successiva sent. n. 320/2011.
7 Cfr. sul punto Corte Costituzionale, 20 luglio 2012, sentenza n. 199 la quale
nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 del decreto‑legge, 13 ago‑
sto 2011, n. 138 convertito con modificazioni dalla legge 14 settembre 2011,
n. 148 ha chiarito, in un obiter dictum, che “Le poche novità introdotte
dall’art. 4 accentuano, infatti, la drastica riduzione delle ipotesi di affidamenti
diretti dei servizi pubblici locali che la consultazione referendaria aveva inteso
escludere. Tenuto, poi, conto del fatto che l’intento abrogativo espresso con il
referendum riguardava «pressoché tutti i servizi pubblici locali di rilevanza
economica» (sentenza n. 24 del 2011) ai quali era rivolto l’art. 23‑bis, non può
ritenersi che l’esclusione del servizio idrico integrato dal novero dei servizi
pubblici locali ai quali una simile disciplina si applica sia satisfattiva della vo‑
lontà espressa attraverso la consultazione popolare, con la conseguenza che la
norma oggi all’esame costituisce, sostanzialmente, la reintroduzione della disci‑
plina abrogata con il referendum del 12 e 13 giugno 2011”.
8In tale senso, testualmente, cfr. Corte Conte, sezione regionale di controllo per
la Lombardia, n. 7/2012/PAR; nonché in dottrina C. Tessarolo, L’affidamen‑
to della gestione del servizio idrico integrato, in www.dirittodeiservizipubblici.
it del 12.04.2012.
9Norma, come detto, dichiarata costituzionalmente illegittima dalla sentenza
della Corte Costituzionale, 20 luglio 2012, n. 199.
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
112 /20 08 (a sua volta colpito dalla Consultazione
Referendaria)10;
la sussistenza, a normativa vigente, della titolarità, in
capo all’ente d’ambito competente e fino al 31.12.2012,
dell’attribuzione di procedere all’affidamento del servizio;
il venir meno di tale potere a partire dal 01.01.2013, al‑
lorché le autorità d’ambito risultano normativamente soppres‑
se anche in difetto dell’intervento legislativo regionale depu‑
tato a disciplinare la nuova organizzazione per ambiti ottima‑
li della gestione del servizio e la individuazione del soggetto
istituzionale chiamato ad affidare il servizio.
Con riferimento, peraltro, a quanto immediatamente so‑
pra esposto, va rilevato, in concreto, come sia dato assoluta‑
mente pacifico che alcuni Enti d’Ambito, come ad esempio
l’ATO 2 in Regione Campania, non abbiano mai esercitato le
proprie funzioni istituzionali, maxime, esercitando la propria
competenza principale consistente nell’affidamento al Gesto‑
re del S.I.I.
Ciò è tanto vero che, a titolo esemplificativo, in Regione
Campania, proliferano forme di autogestione del S.I.I. (cfr. i
casi dell’Abc/Arin; Ottogas; Acquedotti Scpa etc.), le quali
non potrebbero rinvenire spiegazione diversa se non in quella
della inoperatività dell’Ente d’Ambito (si tratta del c.d. sistema
di gestione non “normalizzato”).
A suffragio di quanto precede, è agevole osservare, peral‑
tro, come sia proprio la sussistenza di regimi non normaliz‑
zati il presupposto fattuale della competenza ex art. 2 com‑
ma 3 del D.L. 79/1995 e art. 31 comma 29 L. 448/1998, in
capo al C.I.P.E. di stabilire, “fino a quando non sarà adotta‑
to il metodo normalizzato di determinazione delle tariffe per
il servizio idrico integrato […] i criteri, i parametri ed i limi‑
ti per la determinazione e l’adeguamento delle tariffe del
servizio acquedottistico, del servizio di fognatura e per l’ade‑
guamento del servizio di depurazione”.
1. Il quadro normo‑giurisprudenziale relativo ai moduli gestiona‑
li per lo svolgimento del S.I.I.
Si è ora nella condizione di affrontare il tema del modulo
gestionale suscettibile di utilizzazione ai fini dell’esercizio del
S.I.I.
In via preliminare, ed alla luce delle indicazioni della
giurisprudenza più recente, non residua dubbio sul fatto che
risulti precluso agli Enti interessati cedere le reti che costitu‑
iscono patrimonio indisponibile ai sensi dell’art. 822 e 824
c.c., maxime, alla luce del fatto che in materia di servizio
idrico non sussiste norma che preveda la separazione tra la
rete e gestione del servizio.
Il che, peraltro, è anche alla base del pronunciamento
della Suprema Corte Costituzionale in ordine alla impossibi‑
lità per gli Enti interessati di ricorrere alla società interamen‑
te pubblica ex art. 113 comma 13 D.lgs 267/00, chiamata a
gestire la rete conferita in proprietà dagli enti partecipanti11.
10 Cfr. Corte Cost. sentenza n. 24/2011.
11 Corte Costituzionale, 25 novembre 2011, n. 320 secondo cui “al riguardo, va
osservato che la proprietà pubblica delle reti implica, indubbiamente, l’assog‑
gettamento di queste – e, dunque, anche delle reti idriche – al regime giuridico
del demanio accidentale pubblico, con conseguente divieto di cessione e di
mutamento della destinazione pubblica. In particolare le reti, intese in senso
ampio, vanno ricomprese, in quanto appartenenti ad enti pubblici territoriali,
2 0 1 2
109
I moduli gestionali cui è possibile fare ricorso alla stregua
delle indicazioni giurisprudenziali più recenti, ed in linea con
i principi che informano il sistema nazionale e comunitario,
dunque, sono:
• affidamento ad una società in house12 ;
• società mista costituita con gara c.d. a doppio oggetto;
• affidamento in concessione a terzi scelti con procedura ad
evidenza pubblica nel rispetto dei principi del Trattato.
a) L’affidamento alla società diretto in favore di una so‑
cietà in house, trova la propria giustificazione nella circostan‑
za che tale soggetto si atteggia come longa manus dell’ammi‑
nistrazione/amministrazioni partecipanti, costituendone, per
così dire, naturale prolungamento per la gestione di un S.P.L.
di rilevanza economica. Ciò in quanto: i) il capitale sociale è
in titolarità completamente pubblica; ii) sussiste sulla società
il c.d. controllo analogo ad opera dell’amministrazione par‑
tecipante; iii) svolge in favore dell’Ente pubblico la parte più
importante – se non esclusiva – della propria attività.
Sotto il profilo contabile, peraltro, è appena il caso di
precisare che le società in house sono, per la loro stessa natu‑
ra di longa manus dell’amministrazione partecipante, assog‑
gettate al patto di stabilità interno, sì come stabilito dall’art. 4
comma 14 d.l. 138/201113 (ed ancor prima dall’art. 18 com‑
ma 2 bis della Legge 133/2008)14.
Anche se, un orientamento giurisprudenziale degno di con‑
tra i beni demaniali, ai sensi del combinato disposto del secondo com‑
ma dell’art. 822 e del primo comma dell’art. 824 cod. civ. Il comma 1
dell’art. 143 del d.lgs. n. 152 del 2006 (anch’esso anteriore alla disposizione
regionale impugnata) conferma la natura demaniale delle infrastrutture idriche,
dettando una specifica normativa di settore. Esso dispone, infatti, che: «Gli
acquedotti, le fognature, gli impianti di depurazione e le altre infrastrutture
idriche di proprietà pubblica, fino al punto di consegna e/o di misurazione,
fanno parte del demanio ai sensi degli articoli 822 e seguenti del codice civile e
sono inalienabili se non nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge». È, perciò,
evidente l’incompatibilità del regime demaniale stabilito dal comma 5
dell’art. 23‑bis del decreto‑legge n. 112 del 2008 e dal comma l dell’art. 143 del
d.lgs. n. 152 del 2006 con il conferimento in proprietà previsto dal comma 13
dell’art. 113 del TUEL”.
12 si ricorda che “il controllo, per essere “analogo”, secondo la giurisprudenza
comunitaria, deve tradursi nella possibilità di influenza determinante sia sugli
obiettivi strategici che sulle decisioni importanti (cfr. sul punto, Corte giust.,
sentenza 13 novembre 2008, causa C‑324‑07 Coditel Brabant SA. In preceden‑
za, si segnalano le sentenze 13.10.2005, causa C‑458/03 Parking Brixen, para.
67‑70; 11.2.2005, causa C‑26/03 Stadt Halle e 18 novembre 1999, causa
C‑107/98 Teckal).
Il Consiglio di Stato, Sez. V, n. 1365/2009, con ampi richiami alla citata sen‑
tenza della Corte di Giustizia “Coditel Brabant SA”, ha altresì affermato che:
“il requisito del controllo analogo non sottende una logica “dominicale”, rive‑
lando piuttosto una dimensione “funzionale”: affinché il controllo sussista
anche nel caso di una pluralità di soggetti pubblici partecipanti al capitale
della società affidataria non è dunque indispensabile che ad esso corrisponda
simmetricamente un “controllo” della governance societaria. (…) Non può
invero obliterarsi che l’attività delle società‑organo, come quelle affidatarie in
house di servizi pubblici, rimane un’attività “funzionalizzata”, rispetto alla
quale la “forma” degli strumenti giuridici utilizzati non rileva in sé, risultando
invece finalizzata al miglior conseguimento degli scopi legali dell’amministra‑
zione” (cfr. Cons. Stato, Sez. V, n. 1365/2009).
In maggior dettaglio, è stato ritenuto che, con riferimento al requisito del control‑
lo analogo (Cfr. Corte di Giustizia, causa C. 324/07, 13 novembre 2008; Cons.
Stato, Ad. Plen. N. 1/2008), debba sussistere un controllo stringente sul soggetto
gestore e l’ente pubblico deve esercitare poteri maggiori rispetto a quelli che il
diritto societario riconosce alla maggioranza sociale, e che le decisioni più impor‑
tanti del soggetto gestore debbano essere necessariamente e statutariamente sot‑
toposte al vaglio preventivo dell’ente affidante (Cfr. Corte dei Conti, sezione re‑
gionale di controllo per il Piemonte, delibera n. 3/2012/SRCPIE/PAR; cfr. Auto‑
rità Garante della Concorrenza e del Mercato, AS894B del 6 settembre 2011).
13 Cfr. Corte Conti, sezione di controllo per la Lombardia, deliberazione
n. 350/2011.
14 Cfr. Corte Conti, Sezioni Riunite in sede di Controllo, “Rapporto 2012 sul
coordinamento della finanza pubblica”.
amministrativo
Gazzetta
110
d i r i t t o
a m m i n i s t r at i v o
siderazione per la sua completezza, afferma che, allo stato,
l’obbligo di assoggettamento al patto di stabilità interno delle
società in house, risulti privo di efficacia e di operatività in ra‑
gione della mancata adozione del decreto ministeriale di cui
all’art. 18 comma 2 bis del d.l. 112/2008, convertito in Legge
133/2008, chiamate a definire a seguito di un percorso concer‑
tativo con altri ministeri interessati e sentita la Conferenza
unificata Stato/Regioni, le modalità e la modulistica per l’assog‑
gettamento al patto di stabilità interno di siffatte società1516.
Del pari si segnala che, con riferimento all’applicabilità
alle società in house del c.d. obbligo di consolidamento ex
art. 20 comma 9 del d.l. n. 98/2011, convertito in Legge
n. 111/2011 [secondo cui “ai fini del computo del rapporto
percentuale tra spese di personale e spese correnti, si calco‑
lano le spese sostenute anche dalle società a partecipazione
pubblica locale totale o di controllo che sono titolari di affi‑
damento diretto di servizi pubblici locali senza gara, ovvero
che svolgono funzioni volte a soddisfare esigenze di interesse
generale aventi carattere non industriale né commerciale,
ovvero che svolgono attività nei confronti della pubblica
amministrazione a supporto di funzioni amministrative di
natura pubblicistica. La disposizione di cui al precedente
periodo non si applica alle società quotate su mercati regola‑
mentati”], una parte della giurisprudenza contabile ritiene
operativo tale obbligo17, viceversa la Corte dei Conti, sezione
delle Autonomie, con deliberazione n. 14/AUT/2011/QMIG
ha precisato che “in conclusione, l’ambito soggettivo è circo‑
scritto alle seguenti società: a) partecipate in modo totalitario
da un ente pubblico o da più enti pubblici congiuntamente,
tenuto conto del concetto univocamente accolto di società in
house, come società che vive “prevalentemente” di risorse
provenienti dall’ente locale (o da più enti locali), caratteriz‑
zata da un valore della produzione costituito per non meno
dell’80% da corrispettivi dell’ente proprietario”.
Con tale ultimo pronunciamento, è appena il caso di pre‑
cisarlo, la Sezione delle Autonomie si è espressa su di una
questione di massima.
Con riguardo, peraltro, all’orientamento più restrittivo
viene affermata la insussistenza di un concorrente ed autono‑
mo limite percentuale di spesa di personale in capo alla socie‑
tà in house singolarmente intesa, dovendosi piuttosto “con‑
solidare” un solo tetto di spesa complessivo.
Non di meno, è bene precisarlo, pur in mancanza del ci‑
tato decreto ministeriale costituisce orientamento altrettanto
pacifico quello per il quale l’esercizio concreto dei poteri di
vigilanza intestati alle amministrazioni partecipanti, impone
a queste ultime di procedere alla redazione di un bilancio
consolidato (società ed ente locale) funzionale all’osservanza
al patto di stabilità18.
b) Dall’esame della giurisprudenza emerge che l’affida‑
mento ad una società mista in cui il socio privato operativo è
15 Cfr. Corte Conti, sezione di controllo per la Lombardia, deliberazione 7/2012/
PAR.
16 Cfr. Corte Conti, Sezioni Riunite in sede di Controllo, “Rapporto 2012 sul
coordinamento della finanza pubblica”, pagg. 164 e ss, 277 e ss.
17 Cfr. Corte Conti, sezione di controllo per la Lombardia, deliberazione 7/2012/
PAR.
18 Corte dei Conti, sez. reg. contr. Piemonte, n. 14/2010; cfr. altresì, sez. reg.
contr. Sardegna n. 24/2010; Corte dei Conti, SS.RR. in sede di controllo del.
n. 28/2011.
Gazzetta
F O R E N S E
scelto mediante gara “a doppio oggetto” appare legittimo,
purché: a) la gara unica per la scelta del partner e l’affidamen‑
to dei servizi definisca esattamente l’oggetto dei servizi mede‑
simi (deve trattarsi di servizi “determinati”); b) la selezione
dell’offerta migliore sia rapportata non solo alla solidità fi‑
nanziaria dell’offerente, ma alla capacità di svolgere le presta‑
zioni specifiche oggetto del contratto; c) il rapporto instau‑
rando abbia durata predeterminata.
In sostanza, in linea di principio, i compiti operativi rela‑
tivi alla gestione del servizio che devono rientrare nella pro‑
cedura concorsuale di gara per la scelta del socio operativo di
una società mista per un servizio pubblico locale a rilevanza
economica devono essere gli stessi oggetto del contratto di
servizio con la predetta società mista. È rimessa alla discre‑
zionalità dell’Amministrazione, nel rispetto della vigente
normativa a tutela della concorrenza, l’individuazione della
latitudine dell’attività da conferire al socio privato operativo
e delle modalità di svolgimento della procedura.
In relazione ad una società mista per la gestione del S.I.I.
con socio operativo scelto con gara a doppio oggetto, si ritie‑
ne peraltro insussistente l’obbligo di assoggettamento al
patto di stabilità interno, così come l’obbligo di consolida‑
mento delle spese di personale ex art. 20 comma 9 del D.L.
98/2011, ovvero i divieti e le limitazioni in materia di assun‑
zioni ex art. 18 comma 2 bis primo e secondo periodo del d.l.
n. 112/2008.
c) Con riferimento all’affidamento al terzo scelto con
procedura ad evidenza pubblica, pur non trovando in toto
applicazione le disposizioni del D.lgs n. 163/2006, si ritiene
pacifica comunque la doverosità dell’osservanza dei principi
di trasparenza, non discriminazione e concorsualità sanciti
dal diritto nazionale e comunitario, nonché dalle disposizione
di cui alla Legge n. 27/2012.
2. Sistemi tariffari applicabili ai servizi idrici fino al 2009
Individuati i modelli gestionali suscettibili di utilizzazione,
appare utile dettagliare la disciplina vigente circa la determi‑
nazione della tariffa applicabile al S.I.I.
La tariffa del servizio idrico risulta, per la prima volta,
organicamente disciplinata con la Legge Galli (L. n. 36/1994)
la quale, all’art. 13 (ora art. 154 del d.lgs. 152/2006), ha de‑
finito la tariffa quale “corrispettivo del servizio idrico inte‑
grato” ovvero del “servizio costituito dall’insieme dei servizi
pubblici di captazione, addu‑zione e distribuzione di acqua
ad usi civili, di fognatura e di depurazione delle acque reflue”
(cfr. art. 4, comma 1, lett. f. della Legge Galli).
Con l’art. 13 della Legge Galli, ora recepito ed integrato
dall’art. 154 del d.lgs. 152/2006, è stata stabilito, in altre
parole, un’unica tariffa per tutti i servizi rientranti nel servizio
idrico integrato, in un’ottica di concentrazione della gestione
di tutti i servizi sopra delineati in capo ad un unico gestore
definito “gestore del servizio idrico integrato”.
A tale scopo, è stata individuata anche una nuova dimen‑
sione territoriale so‑vra comunale di riferimento con l’obiet‑
tivo precipuo di superare la frammentazione e conseguire
adeguate dimensioni gestionali: l’Ambito territoriale ottimale
(ATO) al cui funzionamento è preposta l’Autorità di Ambito
Territoriale Ottimale (ATO).
Nel sistema sopra delineato, definito altresì quale sistema
“normalizzato” e/o “a regime”, la tariffa del servizio idrico
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
integrato viene, quindi, stabilita dall’Autorità di Ambito Ter‑
ritoriale Ottimale in relazione al modello di gestione, alla
quantità e qualità della risorsa idrica, al livello qualitativo del
servizio, al piano finanziario, ai costi reali ed alle economie
conseguenti al miglioramento dell’efficienza ed al superamen‑
to della frammentazione delle preesistenti gestioni.
Come noto, tuttavia, il sistema a regime di determinazio‑
ne tariffaria così co‑me definito dal Codice dell’Ambiente
(d.lgs. 152/2006), in molti casi non risulta pienamente attua‑
to, in ragione, prevalentemente, della mancata attuazione di
alcuni ATO e della mancata individuazione dei vari gestori
del servizio idrico integrato.
Ne è conseguito che in alcuni ambiti territoriali, non esista
un unico soggetto deputato alla gestione del servizio idrico
integrato ma più soggetti, pubblici e/o privati, deputati ognu‑
no di essi alla gestione di una parte del servizio idrico inte‑
grato (quali, ad esempio, il servizio di fornitura, fognatura e
depurazione).
In tale contesto, l’approvazione della relativa tariffa è
stata stabilita, fino al 2009, dall’Ente locale competente, in
virtù di quanto previsto dagli art. 42 e 117 del T.U. degli
Enti Locali (d.lgs. 267/2000), sulla base delle delibere e de‑
terminazioni del CIPE (Comitato Interministeriale per la
programmazione economica) il quale aveva competenza, ai
sensi dell’art. 2 comma 3 del D.L. 79/1995 e dell’art. 31 com‑
ma 29 L. 448/1998, a stabilire, “fino a quando non sarà
adottato il metodo normalizzato di determinazione delle
tariffe per il servizio idrico integrato […] i criteri, i parame‑tri
ed i limiti per la determinazione e l’adeguamento delle tarif‑
fe del servizio acque‑dottistico, del servizio di fognatura e per
l’adeguamento del servizio di depurazione”.
Dal quadro sopra delineato, in definitiva, emergevano due
sistemi:
Il primo di tipo normalizzato, la cui tariffa veniva stabi‑
lita e determinata dall’Autorità d’Ambito, in caso di piena
attuazione degli ATO;
Il secondo di tipo transitorio – quale quello applicabile ai
servizi idrici rica‑denti nei Comuni dell’Isola di Ischia – la cui
tariffa veniva approvata dai Comuni stessi, sulla base dei
criteri, parametri e limiti stabiliti dal CIPE.
3. Modalità di determinazione della tariffa nel sistema non nor‑
malizzato dopo il 2009
Il sistema transitorio così come definito dal d.l. 79/1995
e dalla l. 448/1998, che assegnava le competenze circa la de‑
terminazione delle tariffe al CIPE, risulta oggi abrogato per
effetto dell’art. 23 bis, comma 8, del d.l. 112/2008 così come
interpretato dall’art. 10, comma 28 del d.l. 13 maggio 2011
n. 70.
In particolare, con tale ultima disposizione è stato previsto
che “l’articolo 23‑bis, comma 8, del decreto‑legge 25 giugno
2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6
agosto 2008, n. 133, come modificato dall’articolo 15 del
decreto‑legge 25 settembre 2009, n. 135, convertito, con
modificazioni, dalla legge 20 novembre 2009, n. 166, si in‑
terpreta nel senso che, a decorrere dalla entrata in vi‑gore di
quest’ultimo, e’ da considerarsi cessato il regime transitorio
di cui all’articolo 2, comma 3, del decreto‑legge 17 marzo
1995, n. 79, convertito, con modificazioni, dalla legge 17
maggio 1995, n. 172”.
2 0 1 2
111
La norma interpretativa ha, in definitiva, chiarito che il
regime transitorio di cui all’art. 2, comma 3, del D.L.
79/1995 – in cui, come ribadito, attribuiva le competenze
alla determinazione delle tariffe in capo al CIPE – è cessato
alla data di entrata in vigore del D.L. 135/2009, ovvero alla
data del 30 settembre 2009, con conseguente cessazione di
tutte le competenze in capo al CIPE circa la determinazione
delle po‑litiche tariffe nello specifico settore idrico.
Tale cessazione di competenze non pare, d’altronde, esse‑
re messa in discussione dagli esiti del referendum abrogativo,
indetto con decreto del Presidente della Repubblica del 23
marzo 2011, sull’art. 23 bis del d.l. 112/2008.
Al riguardo, sebbene in teoria gli esiti del referendum
avrebbe potuto com‑portare una riviviscenza dell’art. 2 com‑
ma 3 del d.l. 79/1995 e pertanto anche una rinnovata compe‑
tenza del CIPE, è altresì vero che il d.l. 70/2011 non si era
limitato ad una conferma della cessazione del sistema non
normalizzato di determinazione delle tariffe, ma aveva anche
determinato un trasferimento delle competenze in mate‑ria di
regolazione delle tariffe dal CIPE in favore dell’Agenzia Na‑
zionale per la rego‑lazione e la vigilanza in materie di acque
(cfr. art. 10, commi 11 e ss del d.l. 70/2011).
Cosicché, a prescindere della riviviscenza dell’art. 2 com‑
ma 3 del d.l. 79/1995 – la quale assegnava le competenze in
materia tariffaria al CIPE – in ogni caso, per effetto del d.l.
70/2011, le competenze in merito alla regolazione delle
ta‑riffe si dovevano considerare trasferite in favore della neo‑
nata Autorità Nazionale per la regolazione e la vigilanza in
materia di Acque.
A conclusione di tale articolato percorso normativo, va
altresì rilevato come – per effetto dell’art. 21, comma 13 e 19,
del successivo d.l. 214/2011 – le competenze in materia tarif‑
faria nello specifico settore idrico sono state nuovamente
oggetto di trasferimento passando dall’Autorità Nazionale per
la regolazione e la vigilanza in materia di Acque (oggetto
peraltro di soppressione per effetto della medesima normativa)
in favore dell’Autorità per l’Energia Elettrica ed il Gas.
Tale ultima Autorità con deliberazione del 1 marzo 2012,
74/2012/R/IDR ha avviato un procedimento per l’adozione
di provvedimenti tariffari e per l’avvio delle attività di raccol‑
ta di dati e informazioni in materia di servizi idrici: attività
quest’ultima proseguita con l’adozione di un documento per
la consultazione 204/2012/R/IDR che rappresenta, allo stato,
un punto provvisorio di riferimento per la determinazione
delle nuove tariffe idriche.
Da quanto sopra delineato, emerge quindi, come allo
stato, non via siano riferimenti certi per la determinazione
delle tariffe specie nel sistema, come nella specie, di tipo non
normalizzato.
Tuttavia, alla luce dei principi di fonte comunitaria e na‑
zionale nonché dei primi punti di riferimento forniti dall’Au‑
torità per l’Energia Elettrica ed il Gas, non pare che tale si‑
tuazione possa inibire alle amministrazioni competenti di
procedere alla eventuale determinazione e/o rideterminazione
della tariffa del servizio idrico specie nel caso in cui la tariffa
applicata non sia in grado di coprire integralmente i costi
operativi di gestione del servizio.
Al riguardo, è, innanzitutto, principio consolidato desu‑
mibile dalla normativa comunitaria e nazionale quello secon‑
do cui la tariffa del servizio idrico – nelle varie forme in cui
amministrativo
Gazzetta
112
d i r i t t o
a m m i n i s t r at i v o
lo spesso si articola (depurazione, fognatura e fornitura idri‑
ca) – in quanto corrispettivo del servizio reso sia stabilito in
misura tale da assicurare la copertura integrale di tutti i costi
di esercizio e di investimento.
Di tanto viene fatta espressa menzione dalla Commissione
Europea la quale, nell’esplicitare il significato dell’art. 9 della
direttiva dell’allora Comunità Europea – oggi Unione Euro‑
pea – 2000/60/CE (Direttiva Quadro Acque), chiarisce che
tra i costi che la tariffa per il servizio idrico deve integralmen‑
te coprire vi sono: a) i costi finanziari dei servizi idrici, che
comprendono gli oneri legati alla fornitura ed alla gestione
dei servizi in questione. Essi comprendono tutti i costi opera‑
tivi e di manutenzione e i costi di capitale (quota capitale e
quota interessi, nonché l’eventuale rendimento del capitale
netto; b) i costi ambientali, ovvero i costi legati ai danni che
l’utilizzo stesso delle risorse idriche causa all’ambiente, agli
ecosistemi ed a coloro che usano l’ambiente (ad esempio una
riduzione della qualità ecologica degli ecosistemi acquatici o
la salinizzazione e degradazione di terreni produttivi); c) i
costi delle risorse, ovvero i costi della mancate opportunità
imposte ad altri utenti in conseguenza dello sfruttamento
intensivo delle risorse al di là del loro livello di ripristino e
ricambio naturale (ad esempio legati all’eccessiva estrazione
di acque sotterranee).
Inoltre, lo stesso principio viene recepito dal Testo Unico
degli Enti Locali (d.lgs. 267/2000) al cui art. 117 viene stabi‑
lito “1. Gli enti interessati approvano le tariffe dei servizi
pubblici in misura tale da assicurare l’equilibrio economi‑
co‑finanziario dell’investimento e della connessa gestione. I
criteri per il calcolo della tariffa relativa ai servizi stessi sono
i seguenti: a) la corrispondenza tra costi e ricavi in modo da
assicurare la integrale copertura dei costi, ivi compresi gli
oneri di am‑mortamento tecnico‑finanziario; b) l’equilibrato
rapporto tra i finanziamenti raccolti ed il capitale investito;
c) l’entità dei costi di gestione delle opere, tenendo conto
an‑che degli investimenti e della qualità del servizio; d) l’ade‑
guatezza della remunera‑zione del capitale investito, coeren‑
te con le prevalenti condizioni di mercato”.
Proprio alla luce di tale principi non pare che si possa
dubitare del potere, da parte degli Enti locali competenti, di
Gazzetta
F O R E N S E
determinare e/o rideterminare le tariffe per il servizio idrico
al fine di garantire la copertura integrale dei costi di gestione
del servizio stesso. Anzi, tenuto conto che di quanto eviden‑
ziato dalla Giurisprudenza Amministrativa circa le conse‑
guenze negative per la collettività derivanti da un eventua‑le
mancato esercizio di tale potere, l’adeguamento tariffario
parrebbe porsi addirittura come doveroso.
Come è stato evidenziato dal Consiglio di Stato, infatti,
“un incremento dei costi non coperto dalle tariffe porterebbe
alla conseguenza della necessaria copertura del costo a cari‑
co della collettività anziché dell’utenza, in proporzione al
consumo” (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 24 febbraio 2011
n. 1175).
L’esatta copertura del costo del servizio idrico da parte
delle tariffa risulta, peraltro, riconosciuto dalla stessa Auto‑
rità dell’Energia Elettrica e del Gas la quale, nel documento
per la consultazione 204/2012/R/IDR, ha esplicitamente
evidenziato che “il nuovo metodo tariffario per la determi‑
nazione della tariffa del servizio idrico integrato, dovrà
conformarsi al d.P.R. 116/2011, al diritto dell’Unione Euro‑
pea e del Decreto Legge n. 70/11; in particolare, tale metodo
dovrà assicurare, pena la violazione del decreto legge 70/11,
del diritto comunitario e degli stessi principi affermati dalla
Corte Costituzionale (sentenza n. 26/11), la copertura inte‑
grale di tutti i costi di esercizio e di investimento, compresi i
costi finanziari”.
In ogni caso, poiché l’Autorità dell’Energia Elettrica e del
Gas ha avviato un’istruttoria anche al fine di fornire con ur‑
genza le indicazioni circa i metodi di determinazione della
tariffa, pare opportuno prima dell’eventuale approvazione di
nuove tariffe sottoporre i criteri della nuova tariffa all’Auto‑
rità medesima per un parere di competenza.
Ai fine della determinazione della nuova tariffa si segnale
che, alla luce anche del referendum abrogativo del 12‑13 giu‑
gno 2011, la stessa potrà tenere conto del costo operativo di
gestione e dei costi di investimento, ma non potrà tenere con‑
to “dell’adeguatezza della remunerazione del capitale inve‑
stito” il cui riferimento stabilito all’art. 154 comma 1 del d.
lgs. 152/2006 è stato espunto per effetto del citato referendum
abrogativo.
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
●
Eccezione di compromesso,
bando di gara e capitolato
di appalto: questioni
e brevi riflessioni
● Francesco Rinaldi
Avvocato
2 0 1 2
113
Sommario: Premessa – 1. Le clausole del bando di gara
prevalgono su quelle del capitolato? – 2. La diversità di
previsioni tra bando, capitolato e contratto, ed i facta con‑
cludentia – 3. La par condicio competitorum e la complessa
natura del bando di gara o lex specialis – 4. I diversi atti
della procedura selettiva dell’evidenza pubblica (bando, ca‑
pitolato e lettera d’invito) e la regola della complementarie‑
tà – 5. La contrapposizione logica tra bando e capitolato
speciale in materia di clausola di compromissoria e la par
condicio competitorum – 6. La natura e la funzione della
clausola compromissoria – 7. La relatività e l’autonomia
della clausola compromissoria – 8. Ancora sulla natura del
bando di gara e del capitolato – 9. La proposizione di do‑
manda riconvenzionale nell’ambito dell’atto di resistenza a
giudizio arbitrale – 10. Considerazioni conclusive.
Premessa
Come di frequente avviene, l’indagine proposta trae ori‑
gine da alcune applicazioni concrete in materia di eccezione
preliminare di compromesso e/o di competenza di Collegio
arbitrale, in conseguenza di dubbie interpretazioni circa la
validità ed efficacia di clausole compromissorie contenute in
capitolati speciali di appalti e bandi di gara, con specifico
riferimento alla materia dei lavori pubblici.
Un caso «tipo» può essere così sinteticamente riassunto:
una clausola di esclusione della competenza arbitrale conte‑
nuta in un bando di gara di lavori pubblici ha preminenza
rispetto a contrarie pattuizioni successive contenute nell’am‑
bito del capitolato speciale?
La questione, così posta, ne sottintende un’altra di porta‑
ta più generale: in caso di contrasto tra le clausole del bando
di gara e quelle del capitolato, a quale tra queste dovrà essere
accordata prevalenza?
Nel caso specifico, il bando di gara (di data, evidentemen‑
te, anteriore) escludeva la possibilità di ricorrere ad arbitrato,
il capitolato speciale (di data successiva), invece, sottoscritto
dalla Stazione appaltante e dall’Impresa aggiudicataria dei
lavori, ne consentiva la possibilità.
1. Le clausole del bando di gara prevalgono su quelle del capito‑
lato?
Al quesito di portata generale, ossia se alle clausole del
bando di gara possa o meno essere accordata generale preva‑
lenza rispetto alle clausole del capitolato, quelli che sembrano,
allo stato, essere gli orientamenti maggioritari della giurispru‑
denza amministrativa danno soluzione affermativa, in consi‑
derazione del fatto che «il capitolato assolve alla preminente
funzione di predeterminare l’assetto negoziale degli assetti
dell’amministrazione e dell’impresa aggiudicataria in seguito
all’espletamento della gara e non di regolamentare diretta‑
mente la procedura selettiva», quest’ultima affidata, piutto‑
sto, alle regole del bando di gara1.
Nell’ambito della fattispecie concreta, come accennato, il
bando di gara, regolarmente pubblicato nel Bollettino uffi‑
1
In tal senso, tra le tante, cfr. Tar Lazio, sez. III‑quater, 22 febbraio 2007,
n. 1609, in www.lexitalia.it; ed in senso sostanzialmente conforme, v. anche
Cons. di Stato, sez. V, 29 agosto 2006 n. 5035, e già Cons. di Stato, sez. VI, 17
luglio 1998, n. 1101, in www.lexitalia.it.
amministrativo
Gazzetta
114
d i r i t t o
a m m i n i s t r at i v o
ciale regionale, stabiliva espressamente e senza dubbie termi‑
nologie l’esclusione della competenza arbitrale; il capitolato
speciale di appalto, di data successiva, prevedeva, al contrario,
espressamente la clausola arbitrale.
Se ci si fermasse ad una generica ed esemplificativa affer‑
mazione di prevalenza delle clausole del bando di gara rispet‑
to alle clausole del capitolato di appalto, si potrebbe generi‑
camente concludere nel senso, quindi, della prevalenza delle
prime su quelle del capitolato e, di conseguenza, per la fonda‑
tezza dell’eccezione di compromesso e/o di incompetenza del
Collegio arbitrale.
Tuttavia, la questione si prospetta ben più complessa ed
articolata di quanto non possa a prima vista apparire.
2. La diversità di previsioni tra bando, capitolato e contratto, ed i
facta concludentia
È difatti, ragionevole interrogarsi sulla validità ed efficacia
della clausola arbitrale, la quale pur sempre risulta da
una – benché successiva –, concorde manifestazione di volon‑
tà da parte dell’Amministrazione committente ed impresa
esecutrice dei lavori, attraverso, prima, l’introduzione nell’am‑
bito del capitolato e, successivamente, attraverso la sottoscri‑
zione del contratto di appalto, che espressamente richiama il
capitolato speciale di appalto, del quale costituisce, dunque
parte integrante2: in tale prospettiva, può, dunque, ritenersi
che anche il contratto di appalto contenga la clausola arbitra‑
le di cui al capitolato speciale.
Ci si chiede, di conseguenza, se la sottoscrizione del con‑
tratto di appalto (successiva, naturalmente, sia al bando che
al capitolato speciale) e con espresso richiamo a tutti i patti
del capitolato speciale, ivi compresa la clausola compromis‑
soria, possa o meno aver prodotto, su di un piano, se si vuole,
più strettamente «privatistico», una sorta di effetto novativo
rispetto alla clausola di esclusione dell’arbitrato, espressa,
invece, nel bando; ed inoltre, se si vuole, su di un piano piut‑
tosto «pubblicistico», se un simile effetto «derogatorio» del
bando di gara possa o meno considerarsi ammissibile, avuto
riguardo specialmente al noto principio della par condicio
competitorum, regola sovraordinata.
In questa complessa prospettiva ermeneutica, si rendereb‑
be, altresì, opportuno qualche ulteriore rilievo in merito al
comportamento eventualmente tenuto dalle parti contraenti
(amministrazione e impresa) successivamente all’accettazione
del bando ed alla sottoscrizione del contratto di appalto, di
cui parte integrante ne è il capitolato speciale.
In chiave esegetica, potrebbe, cioè, assumere significato il
comportamento successivamente tenuto dalle parti litiganti,
come ad esempio, l’aver preliminarmente aderito al giudizio
arbitrale nominando proprio arbitro e successivamente revo‑
cato tale volontà, spiegando, appunto, l’eccezione di compe‑
tenza arbitrale; o aver effettuato atto di resistenza a giudizio
arbitrale ma con contestuale proposizione di domanda ricon‑
venzionale.
Ci si chiede, cioè, se simili comportamenti successivi pos‑
2
Sul punto, Corte ha, in più di un’occasione, ribadito la comune natura nego‑
ziale del capitolato speciale d’appalto e del relativo contratto, affermando, al‑
tresì, che il capitolato speciale costituisce, appunto, «allegato indispensabile»
del contratto «avente anch’esso valore negoziale» (così, Cass., sez. I, 8 agosto
2001, n. 10925).
Gazzetta
F O R E N S E
sano assumere, in aggiunta agli atti di gara (bando, capitola‑
to e contratto), significato concludente, nel senso, cioè, della
validità o meno della clausola compromissoria.
3. La par condicio competitorum e la complessa natura del bando
di gara o lex specialis
Alla luce della descrizione che precede, come in parte
accennato, è, ora, possibile tracciare i principi di riferimento
che possano essere dirimenti in relazione all’eccezione pregiu‑
diziale di compromesso nell’ambito di una simile fattispecie
conflittuale.
Da un lato, si manifesta la natura pubblicistica, nel senso
di «normativa speciale» (o lex specialis) del bando, destinata,
di regola, a prevalere su ogni altra disposizione contraria del
capitolato e, quindi, del contratto di cui è integrazione, con
l’ovvia conseguenza della incompetenza arbitrale, sottinten‑
dendo la violazione della par condicio competitorum.
Da un’altra prospettiva, tuttavia, si potrebbe, però, obiet‑
tare che, in primo luogo, non ogni disposizione del bando, sic
et simpliciter, ha necessariamente efficacia prevalente rispet‑
to alle condizioni negoziali di gara espresse nel capitolato
speciale e nel contratto. Per intenderci, e seppure con le dovu‑
te precisazioni e distinzioni, al bando di gara, com’è noto,
viene comunemente riconosciuta una «doppia» natura: pub‑
blicistica ed inderogabile (attinente, cioè, alle condizioni re‑
lative alla scelta del contraente, che è propriamente la fase
pubblicistica), privatistica e negoziale (condizioni del futuro
contratto). In secondo luogo, la redazione del capitolato spe‑
ciale d’appalto, unilateralmente da parte dell’amministrazio‑
ne committente, e la successiva sottoscrizione del contratto
da parte di entrambi i contraenti, potrebbero produrre, am‑
missibilmente, quell’effetto novativo e derogatorio del bando
di gara al quale si faceva sopra cenno.
4. I diversi atti della procedura selettiva dell’evidenza pubblica
(bando, capitolato e lettera d’invito) e la regola della complementarietà
Risulta evidente la complessità delle questioni poste.
In primo luogo, è necessario chiarire la natura ed i rap‑
porti intercorrenti tra i diversi atti della lex specialis (bando,
capitolato e lettera d’invito, benché quest’ultima sia neutra
sul punto non facendo riferimento alla clausola compromis‑
soria).
Una prima considerazione può, tuttavia, essere tratta.
Il bando di gara, come si accennava, comunemente con‑
tiene regole relative alla regolamentazione della procedura
selettiva, in ciò distinguendosi dal capitolato (che pure è atto
della lex specialis) che detta, invece, regole che assolvono alla
preminente «funzione di predeterminare l’assetto negoziale
degli interessi dell’amministrazione ed dell’impresa aggiudi‑
cataria in seguito all’espletamento della gara»3.
In questi limiti, viene solitamente accordata prevalenza
alle disposizioni del bando rispetto al capitolato. Nel limite,
cioè, in cui vi sia «contrapposizione logica» tra due prescri‑
zioni contenute nei due diversi atti di gara (bando e capitola‑
to). Se, cioè, si tratta di prescrizione volta a regolamentare la
3
Così, tra le tante in materia di distinzione tra bando e capitolato, Cons. di
Stato, sez. V, 29 agosto 2006, n. 5035, in www.lexitalia.it.
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
selezione tra i concorrenti, nel rispetto del principio della par
condicio, dovrà essere data prevalenza alle disposizioni del
bando.
Tale osservazione consente di effettuare una prima pre‑
cisazione: deve, cioè, esservi contrapposizione logica tra due
prescrizioni dei due atti di gara, come accade nel caso di
specie.
Diverso, cioè, sarebbe stato il caso in cui, ad esempio e per
rimanere in argomento, il bando di gara non contenesse alcu‑
na prescrizione in merito alla clausola arbitrale, contenuta
esclusivamente nel capitolato, in termini positivi (cioè, di
deferimento al collegio arbitrale) o in termini negativi (cioè,
di esclusione della competenza arbitrale).
In tal caso, non essendovi contrapposizione logica, non si
potrebbe applicare il principio della prevalenza, costituendo
ius receptum, il principio secondo il quale «le clausole conte‑
nute nei diversi atti che compongono la lex specialis di una
gara pubblica (bando, capitolato, lettera di invito) vanno
interpretate in un rapporto non di prevalenza ma di
complementarietà»4.
Sicché, ove alcuna prescrizione vi fosse nel bando circa
l’arbitrato, si potrebbe tranquillamente applicare il capitolato
e, di conseguenza, affermare la competenza del Collegio ar‑
bitrale, in corretta applicazione della regola della complemen‑
tarietà.
Nel caso di specie, invece, essendovi contrapposizione
logica tra le prescrizioni del bando e del capitolato in merito
alla competenza arbitrale, si rende necessario un ulteriore
approfondimento circa la natura della prescrizione.
La suesposta regola della complementarietà svolge una
funzione di integrazione, nel senso, cioè, che la disciplina di
una gara pubblica è determinata «dall’integrazione delle di‑
sposizioni contenute in ciascuno dei predetti atti i quali, nel
dettare le modalità di svolgimento del procedimento concor‑
suale vincolanti per tutti i partecipanti, assolvono all’impre‑
scindibile funzione di garantire il rispetto della par condicio
tra le imprese concorrenti»5. Di conseguenza, secondo conso‑
lidato principio giurisprudenziale, «nell’interpretazione delle
clausole del bando di gara per l’aggiudicazione di un contrat‑
to della pubblica amministrazione deve darsi prevalenza alle
espressioni letterali in esso contenute, escludendo ogni pro‑
cedimento ermeneutico in funzione integrativa diretto ad
evidenziare pretesi significati e ad ingenerare incertezze
nell’applicazione»6.
Alla luce dei suesposti principi può essere tratta un’altra
considerazione: se vi è contrapposizione logica tra due pre‑
scrizioni del bando e del capitolato e se le prescrizioni hanno
ad oggetto la regolamentazione del procedimento di selezione,
allora non solo dovrà essere accordata prevalenza alle dispo‑
sizioni del bando ma dovrà essere, altresì, esclusa ogni inter‑
pretazione diversa dal dato letterale, non residuando alcun
potere discrezionale dell’amministrazione in considerazione
del principio, appunto prevalente, della par condicio.
4
In tal senso, tra le numerose decisioni in materia, v. Tar Sardegna, Cagliari, sez.
I, 20 luglio 2007, n. 1672, in www.lexitalia.it; ed in senso conforme, v. Tar
Venezia, sez. I, 23 settembre 2002, n. 5708, in www.lexitalia.it.
5 Così, Tar Sardegna, Cagliari, sez. I, 20 luglio 2007, n. 1672, cit.
6 In tale direzione, cfr. Cons. di Stato, sez. V, 30 agosto 2005, n. 4413, in www.
lexitalia.it.
2 0 1 2
115
Tanto per fare un esempio, si consideri il caso di due
opposte prescrizioni del bando e del capitolato in materia di
cauzione: il bando impone la prestazione di cauzione a pena
di esclusione, il capitolato espressamente la esclude. È evi‑
dente che in un simile caso prevarrà il bando e, di conseguen‑
za, l’impresa che non ha prestato cauzione dovrà essere
esclusiva.
5. La contrapposizione logica tra bando e capitolato speciale in
materia di clausola di compromissoria e la par condicio competitorum
La fattispecie concreta si prospetta ancor più complessa,
atteso che le prescrizioni in contrapposizione logica non han‑
no, però, ad oggetto la regolamentazione della procedura
selettiva, bensì, e più semplicemente, il deferimento in arbitri
di future controversie relative alla gara di appalto.
Il che, seppure in prima approssimazione, condurrebbe ad
escludere la pur sostenibile applicabilità, sic et simpliciter,
delle suesposte regole di prevalenza di bando.
Per intenderci, non sembra ci si trovi di fronte a prescri‑
zioni relative ad assicurare la par condicio competitorum.
La concorde compromissione in arbitri, successiva al ban‑
do ed all’aggiudicazione, cioè, è in grado di violare la par
condicio a fronte dell’esclusione?
Per intenderci meglio, è possibile ritenere che, se non vi
fosse stata l’esclusione della clausola arbitrale, vi sarebbe
stata una diversa, presumibilmente più ampia partecipazione
alla gara pubblica? Ed in ogni caso, la novazione della previ‑
sione del bando, determina la violazione del principio
dell’eguale trattamento tra le imprese partecipanti? In manie‑
ra ancora più esplicita, può, nel caso in esame, l’amministra‑
zione esimersi dal rispettare la clausola di esclusione dell’ar‑
bitrato inserita nel bando, senza, per ciò solo, violare la par
condicio di tutti i concorrenti? Ed ancora, può l’amministra‑
zione disapplicare la clausola del bando, costituendo questo
l’atto con cui l’amministrazione si è originariamente autovin‑
colata e trattandosi di atto tendenzialmente immodificabile?
La risposta ai suesposti interrogativi può, forse corretta‑
mente, essere la seguente, e, cioè, che i principi di riferimento
e lo svolgimento della vicenda concreta sembrano poter in‑
durre ad affermare la sussistenza della competenza del Colle‑
gio arbitrale, naturalmente ove si condividano le seguenti ed
ulteriori considerazioni.
Si consideri, difatti, che, se in assenza di previsioni, sia del
bando che del capitolato, ben potrebbero le parti contraenti
scegliere di deferire eventuali controversie ad un Collegio
arbitrale, sottoscrivendo la clausola compromissoria; ad
eguale soluzione dovrebbe potersi pervenire nel caso in esame,
nel quale, cioè, a fronte di una clausola di esclusione del ban‑
do, tuttavia, le parti contraenti decidano, comunque, di no‑
vare detta clausola di esclusione, compromettendo in arbitri
la controversia.
Ciò, naturalmente, è possibile solo a condizione che si
convenga circa la natura «negoziale» della clausola del bando
di gara, nel caso di specie, la clausola compromissoria. Solo,
cioè, ove si convenga sulla circostanza che la clausola com‑
promissoria in oggetto (sia in termini di esclusione, sia in
termini di previsione positiva), benché, prima negativa (ban‑
do), poi, positiva (nel capitolato e successivamente sottoscrit‑
ta dai contraenti nel contratto di appalto), conservi la sua
amministrativo
Gazzetta
116
d i r i t t o
a m m i n i s t r at i v o
autonoma natura negoziale e continui a svolgere la sua fun‑
zione. Solo in tal caso, difatti, potrà essere affermata la libera
disponibilità delle parti circa la compromettibilità della con‑
troversia in arbitri, anche in presenza, cioè, di pregressi divie‑
ti, successivamente novati tra i contraenti, non trattandosi di
clausola del bando diretta a regolamentare la procedura se‑
lettiva.
Per intenderci ancora meglio, come in parte accennato,
nell’ambito del contenuto del bando di gara è possibile, secon‑
do un tradizionale e condivisibile insegnamento dottrinale e
giurisprudenziale, distinguere due parti: «una di natura sostan‑
ziale, intesa a rendere noti l’oggetto del contratto e le sue con‑
dizioni; una concernente le modalità di svolgimento della gara.
La prima parte non può essere modificata in sede di gara o di
aggiudicazione; la seconda è pure immutabile poiché con essa
la p.a. è vincolata a seguire determinate modalità, alla cui os‑
servanza ogni concorrente ha un interesse legittimo» 7.
Dunque, se la clausola compromissoria non attiene né
all’oggetto, né alle condizioni dell’appalto, né alle modalità di
svolgimento della gara, ma è autonoma rispetto agli atti di
gara ed al contratto, potrà allora essere oggetto di modifica
da parte della stessa amministrazione come è avvenuta nel
caso di specie, attraverso l’inserzione della clausola nel capi‑
tolato speciale e nel contratto.
Gazzetta
F O R E N S E
contratti di diritto privato comune, che hanno ad oggetto
diritti patrimoniali, e consiste nella rimessione a giudici pri‑
vati della decisione, a seconda dei casi di controversie future
o di controversie attuali10.
Ne consegue l’effetto di deroga alla giurisdizione ordinaria.
In questa prospettiva, «nell’istituto dell’arbitrato, così
come derivato dalla riforma legislativa del 1994, la eccezio‑
ne, con la quale si deduca l’esistenza di una clausola compro‑
missoria per arbitrato rituale, non attiene alla competenza,
ma al merito, essendo diretta a far valere non l’incompetenza
del giudice adito, ma la rinunzia convenzionale delle parti
all’azione giudiziaria ed alla giurisdizione dello Stato, e,
quindi, l’improponibilità della domanda. Tale eccezione è
riservata esclusivamente alla parte e non pio più essere pro‑
posta dopo la chiusura dell’udienza di trattazione di cui
all’art. 183 c.p.c.»11.
6. La natura e la funzione della clausola compromissoria
Ove si convenga circa la natura «negoziale» della clauso‑
la del bando di gara, a prescindere, cioè, dalla sua previsione
positiva o negativa (cioè, di esclusione), conservando questa
la sua autonomia rispetto sia al bando che al capitolato e non
incidendo sulla procedura selettiva, potrà essere modificata
(in un senso o nell’altro) dai contraenti, rimanendo nella loro
disponibilità. Naturalmente, nella fattispecie concreta, la
clausola compromissoria è già contenuta nel capitolato spe‑
ciale.
Si rende opportuno un approfondimento, seppur breve,
circa la natura e la funzione della clausola compromissoria.
Posta la distinzione tra compromesso (qui la controversia
è già nata e determinata) e la clausola compromissoria (qui la
controversia è eventuale futura e non determinata8), delicata
e complessa è la natura giuridica di simili patti.
Pur necessitando di ben altro approfondimento, è, tutta‑
via, possibile, in sintesi, aderire alla tesi prevalente (anche in
giurisprudenza) secondo la quale si tratta di contratto o pat‑
to di diritto privato sostanziale (e non processuale) pur
avendo effetti processuali 9.
La funzione o causa del compromesso e della clausola
compromissoria è speciale, nel senso che, a differenza dei
7. La relatività e l’autonomia della clausola compromissoria
Altri due profili della clausola compromissoria assumono
peculiare significato, anche per la vicenda in oggetto.
Il primo, è rappresentato dalla natura relativa dell’ecce‑
zione di compromesso, nel senso, cioè, che la parte convenuta
in giudizio (ordinario o arbitrale) ha l’onere di sollevarla, in
mancanza intendendosi rinunziata con riferimento alla singo‑
la controversia in essere12.
Ciò confermerebbe la libera disponibilità della compro‑
missione o meno in arbitri della controversia.
Il secondo profilo, è rappresentato dall’autonomia della
clausola compromissoria, nel senso, cioè, che pur accedendo
ad altro negozio (appalto), tuttavia, costituisce negozio giuri‑
dico a sé stante. Così, ad esempio, la nullità del negozio non
determina, di regola, la nullità della clausola compromisso‑
ria.
Il principio di autonomia della clausola compromissoria
sembra assumere peculiare significato nella vicenda in esame,
trattandosi, cioè, di negozio a sé stante, sia rispetto al bando
(che lo esclude), sia rispetto al capitolato ed al contratto di
appalto (che lo prevedono)13.
Una diversa conclusione potrebbe condurre alla violazio‑
ne dei principi dell’autonomia privata (cfr. l’art. 41 della Cost.)
in assenza di sovraordinate ragioni giustificative, quali, ap‑
punto, la par condicio competitorum14.
Corollario della natura intrinsecamente e necessariamen‑
te volontaristica dell’arbitrato, sia in relazione alla scelta di
sottrarre la decisione della controversia al giudice ordinario,
sia con riferimento alla costituzione del collegio arbitrale ed
alla scelta degli arbitri15, è il principio della piena libertà circa
la scelta dell’an della via arbitrale.
7 Per tutti, v. A. Cianflone – G. Giovannini, L’appalto di opere pubbliche,
Milano, 2003, spec. pp. 220, 295, 476, 1212 e ss., cui si rinvia anche per op‑
portuni approfondimenti di natura bibliografica.
8In argomento, cfr., in particolare, Redenti, voce Compromesso, in Noviss. Dig.
it., p. 785 e ss.; Carnelutti, Sistema dir. proc. civ., I, p. 550 ss.; Vecchione,
L’arbitro nel sistema del processo civile, p. 356 ss.; e la consolidata giurispru‑
denza ivi citata.
9 Così, espressamente, Cianflone – Giovannini, op. cit., spec. p. 478 e ss. Ri‑
costruzione, questa, proposta da Redenti, op. ult. cit., p. 785 ss.; Carnelutti,
op. ult. cit., p. 55o ss.; Vecchione, op. ult. cit., p. 356 ss.; Andrioli, in Comm.,
cit., IV, p. 779 e ss.; Schizzerotto, Dell’arbitrato, p. 166 ss.; ed in giurispru‑
denza condivisa, in particolare, da Cass., sez. un., 13 dicembre 1971, n. 3620;
nonché, Cass., 3 dicembre 1954, n. 6414.
10 Così, Cianflone – Giovannini, op. cit., spec. p. 1323 e ss.
11 Così, Cass., 8 agosto 2001, n. 10925.
12 Cfr. Redenti, op. ult. cit., p. 785 e ss.; ed in giurisprudenza, v. Cass., 12 luglio
1978, n. 3515, la quale ritiene come non possa essere eccepita dall’attore;
nonché, Cass., 28 giugno 1975, n. 2655.
13Il principio di autonomia è pacificamente affermato sia in dottrina (per tutti, v.
Redenti, op. ult. cit., p. 785 e ss.; Cianflone – Giovannini, op. cit., p. 1323
e ss.), sia in giurisprudenza (v. Cass., 26 giugno 1992, n. 8028; Cass., 11 otto‑
bre 1972, n. 3003; Cass., 28 gennaio 1972, n. 244).
14Seppure in fattispecie diverse da quella in esame, v. Tar Bari, Puglia, sez. I, 28
gennaio 2003, n. 394, in www.lexitalia.it; nonché, Corte Cost., sent. n. 127 del
1977.
15 Così, Lodo Roma, reso in data 28 marzo 2006.
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
Principi questi che, specificamente in materia di lavori
pubblici, risultano essere stati recepiti nei diversi interventi
legislativi dalla legge Merloni (l. 11.2.1994, n. 109; l.
14.5.2005, n. 80 e Codice dei contratti pubblici, artt. 241. e
ss. d.lgs. 12.4.2006, n. 163)16.
In particolare, il Codice dei contratti pubblici del 2006
attribuisce un campo estremamente ampio di applicazione,
non solo ai lavori pubblici, ma anche «a tutte le controversie
su diritti soggettivi, derivanti dall’esecuzione dei contratti
pubblici relativi a lavori, servizi, forniture, concorsi di pro‑
gettazione e di idee, comprese quelle conseguenti al mancato
raggiungimento dell’accordo bonario» (art. 241, co. 1).
Ed inoltre, si osservi come sia considerato «ormai certo che
la fonte dell’opzione per la sede arbitrale non possa più ricer‑
carsi e porsi in una legge ordinaria o, in generale, in una volon‑
tà autoritativa, bensì debba essere individuata esclusivamente
nella volontà concorde delle parti di derogare alla G.O., optan‑
do per una soluzione della controversia in una sede diversa»17.
8. Ancora sulla natura del bando di gara e del capitolato
Qualche ulteriore riflessione si rende necessaria in merito
alla natura del bando di gara e del capitolato speciale.
Come in parte accennato, il bando di gara, oggi discipli‑
nato dall’art. 64 del Codice dei contratti pubblici (come modif.
dall’art. 1, co. 1, lett. q), del d.lgs. n. 152 del 2008), è un atto
giuridico di natura complessa con due immediati profili: uno
interno, riproduttivo (riproduce i contenuti essenziali dello
schema contrattuale) e integrativo (integra lo schema nego‑
ziale attraverso clausole di attuazione eventualmente omesse,
ad es.: tempi di consegna, documentazione, etc.); uno esterno,
nel senso che il bandi rende conoscibile la delibera a contrar‑
re e lo schema contrattuale18.
Inoltre, il bando costituisce sempre una dichiarazione di
volontà e, come tale rientra nell’ambito dei provvedimenti
amministrativi a contenuto prescrittivo. Il bando, difatti, «si
rivolge a destinatari individuabili solo nella fase di esecuzio‑
ne dell’atto e fissa le regole da rispettare nella fase di scelta
del contraente»19.
Ha differenza del capitolato generale di appalto, non ha
natura normativa, proprio perché privo dei caratteri della
generalità e dell’astrattezza 20.
Definire il bando di gara lex specialis equivale ad affermarne
il suo carattere autoritativo e, di conseguenza, l’obbligatorietà
delle relative clausole per la stazione appaltante ed i concorrenti21.
16 Per un commento al codice dei contratti pubblici, v. Commentario breve alla
legislazione sugli appalti pubblici e privati, Breviaria iuris, a cura di Carul‑
lo‑Iudica, Padova, 2009.
17 Così, Corte Cost., sentenze nn. 127 del 1977, n. 54 del 1996, n. 493 del 1994,
n. 232 del 1994, n. 206 del 1994, n. 49 del 1994, n. 488 del 1991; nonché, Tar
Puglia Bari, n. 467 del 2002; in dottrina, v., in particolare, Ruffini, Volontà
delle parti e arbitrato nelle controversie relative agli appalti pubblici, in Riv.
dell’arbitrato, 2001, spec. p. 654 e ss.; Id., Patto compromissorio, in Riv.
dell’arbitrato, 2005, p. 711 e ss.
18 Per una ricostruzione particolarmente significativa, in tale prospettiva, v., per
tutti, Franzese, Il contratto oltre privato e pubblico, contributi della teoria
generale per il ritorno ad un diritto unitario, Padova, 1998, p. 27 e ss.; nonché,
Benedetti, I contratti della pubblica amministrazione tra specialità e diritto
comune, Torino, 1999, p. 7 e ss.
19 Così, Cons. Stato., sez. IV, n. 7258 del 2002, in www.lexitalia.it.
20In tal senso, cfr., in particolare, Cons. di Stato, sez. V, n. 1225 del 2002, in www.
lexitalia.it.
21Secondo la ricostruzione particolarmente significativa operata da Cons. di
2 0 1 2
117
Naturalmente, vi sono diverse tipologie di bandi, a secon‑
da della tipologia di gara.
L’art. 5, co. 7, del Codice dei contratti pubblici attribuisce,
inoltre, alle Stazioni appaltanti il potere di «adottare capito‑
lati, contenenti la disciplina di dettaglio e tecnica della gene‑
ralità dei propri contratti o di specifici contratti, nel rispetto
del presente codice e del regolamento di cui al comma 1. I
capitolati menzionati nel bando o nell’invito costituiscono
parte integrante del contratto».
Dunque, il capitolato è espressione della capacità regola‑
mentare, di natura amministrativa, della Stazione appaltante.
Si distinguono, almeno in linea generale, due categorie di
capitolati: capitolati generali e capitolati speciali.
Il primo, contiene le condizioni generali applicabili indi‑
stintamente ad una categoria di appalti; il secondo, invece,
ha la funzione di disciplinare l’oggetto di uno specifico con‑
tratto di appalto ed è redatto in relazione ad uno specifico
contratto. Entrambi, sotto il profilo contenutistico, conten‑
gono norme di dettaglio e tecniche22.
L’ultimo inciso del co. 7 dell’art. 5, «costituiscono parte
integrante del contratto», conferma la loro natura di atto
amministrativo non normativo, ma di natura negoziale.
Naturalmente anche il capitolato è lex specialis, quindi,
atto autoritativo nel senso che vincola l’amministrazione, al
pari del bando di gara, alla sua osservanza 23.
In tal senso, alle norme del capitolato viene comunemente
attribuita natura pubblicistica 24; anche se, secondo altro di‑
verso orientamento, invece, si tratterebbe di norme di natura
civilistica, in quanto attinenti alla fase di formazione progres‑
siva del contratto, riconducibili sostanzialmente alle condi‑
zioni generali di contratto, regolamentate dal Codice civile
all’art. 1341 del cod. civ. 25.
Così, ad esempio, ove le parti abbiano richiamato il capito‑
lato per disciplinare il rapporto contrattuale, come avviene nel
caso che esso costituisca parte integrante del contratto, le nor‑
me del capitolato, ivi comprese quelle che «prevedono il defe‑
rimento delle controversie nascenti dal contratto ad un Colle‑
gio arbitrale, assumono la stessa natura e portata negoziale
dell’atto che le richiama, perdendo qualsiasi collegamento con
la fonte normativa di provenienza, e conservando efficacia
indipendentemente dalle successive modifiche della stessa»26.
Con specifico riferimento alla clausola compromissoria
può, altresì, osservarsi, in chiave storica, come simili clausole
(positive, cioè, nel senso della devoluzione; o negative, nel
senso dell’esclusione) solitamente vengono contenute, per le
anzidette ragioni, nell’ambito del capitolato generale o specia‑
le, e non, invece, nell’ambito del bandi di gara. Ed inoltre,
nell’ambito dell’evoluzione legislativa in materia di appalti
pubblici sembra potersi scorgere un favor arbitrati 27.
Stato, sez. IV, nn. 6440/2002 e 7528/2002, in www.lexitalia.it.
22 A. Cianflone – G. Giovannini, L’appalto di opere pubbliche, Milano, 2003,
spec. pp. 220, 295 e ss.
23 Così, C.G.C.E., sez. VI, 24 aprile 2004, C‑496/99 P. 24In tal senso, cfr., in particolare, Alesio, in Dir. e giust., 2004, spec. pp. 17 e 39
e ss.
25In questa prospettiva, v., in particolare Casetta, Manuale di diritto ammini‑
strativo, Milano, 2007, p. 207 e ss.
26 Così, Cass., n. 23670 del 2006.
27In tale direzione, sembra porsi la dottrina e la giurisprudenza prevalenti, in
precedenza citate.
amministrativo
Gazzetta
118
d i r i t t o
a m m i n i s t r at i v o
Gazzetta
F O R E N S E
orientamenti, uno meno recente, ma ampiamente condiviso,
favorevole alla tesi secondo la quale la proposizione della do‑
manda riconvenzionale implicherebbe tacita rinunzia alla ecce‑
zione di compromesso32.
Secondo questo orientamento, come accade dinanzi al
Giudice ordinario, se la parte non si limita a formulare sem‑
plici difese o a sollevare eccezioni in senso proprio, ma pro‑
ponga una domanda riconvenzionale, pone in essere una
condotta processuale che, risolvendosi, come quella dell’atto‑
re che faccia valere le sue pretese, in una richiesta al Giudice
ordinario di emettere una statuizione relativa al rapporto
processuale dedotto in giudizio, implica la volontà di rinun‑
ziare all’eccezione di arbitrato.
Secondo un altro, più recente ed egualmente ampiamente
condiviso, orientamento, invece, la domanda riconvenzionale
deve sempre ritenersi proposta in via subordinata al mancato
accoglimento dell’eccezione di compromesso che, se accolta,
preclude la cognizione sia della domanda dell’attore, sia di
quella riconvenzionale33.
9. La proposizione di domanda riconvenzionale nell’ambito dell’at‑
to di resistenza a giudizio arbitrale
Una ulteriore problematica questione merita di essere, sep‑
pur brevemente, esaminata.
Ci si chiede, precisamente, se la proposizione di domanda
riconvenzionale nell’ambito atto di resistenza a giudizio arbitra‑
le possa o meno integrare, in chiave interpretativa, gli estremi
del comportamento concludente tenuto dalle parti litiganti, nel
senso, cioè, della volontà di devolvere la controversia in arbitri,
in considerazione anche della libertà delle forme: «la stipulazio‑
ne della convenzione arbitrale deve ritenersi validamente effet‑
tuata con lo scambio delle missive concernenti la proposta e
l’accettazione del deferimento ad arbitri, non potendo la richie‑
sta di costituzione di un collegio e la relativa accettazione esse‑
re diversamente interpretate se non come concorde volontà di
compromettere la lite»28. Dovendosi, naturalmente, aggiungere
che, in ogni caso, hanno forma scritta il capitolato speciale, il
contratto di appalto, l’istanza di accesso a giudizio arbitrale ed
i successivi atti.
Si ricordi, in proposito, l’art. 1362 del cod. civ. che, unita‑
mente alle altre norme di ermeneutica contrattuale
(artt. 1362‑1371 del cod. civ.), è considerato applicabile anche
ai contratti della pubblica amministrazione, ai bandi di gara, ai
capitolati speciali e generali29.
Questa norma impone di considerare il comportamento
complessivo tenuto dalle parti, «anche posteriore alla conclu‑
sione del contratto».
Precisamente, in materia in tema di interpretazione delle
clausole del bando di gara, la giurisprudenza ha enucleato i se‑
guenti principi di portata generale, sulla base della considera‑
zione che i principi di ermeneutica non sono tanto quelli propri
degli atti amministrativi (tipicamente unilaterali ed organizza‑
tivi), quanto quelli relativi agli accordi (stante la preordinazione
del bando a sollecitare le offerte e ad indicare, sia pure nelle linee
generali, il contenuto del futuro rapporto convenzionale).
Si tratta di principi desunti dalle regole dell’ermeneutica con‑
trattuale e dalle regole dell’affidamento: la ricerca dell’effettiva
intenzione dell’amministrazione, la funzione della clausola ad
assicurare la par condicio, la regola della buona fede oggettiva30.
In sostanza, nell’interpretare il bandi di gara (e lo stesso
vale per la lettera d’invito), non deve dimenticarsi come ci si
trovi innanzi ad un atto‑provvedimento amministrativo consi‑
stente in manifestazione di volontà31.
Di conseguenza, in merito al significato da attribuirsi alla
proposizione della domanda riconvenzionale, nel senso, cioè, di
possibile rinunzia all’eccezione di compromesso, può osservar‑
si quanto segue.
Effettivamente in giurisprudenza si sono affermati due
10. Considerazioni conclusive
Qualora si condividano le riflessioni che precedono, circa la
complessa ed articolata problematica in esame, nel senso della
compromettibilità in arbitri di simili controversie, può assume‑
re specifico significato la descritta autonomia della clausola
compromissoria. Tale potere di disposizione sembra, insomma,
essere rimesso alla libera volontà delle parti, a prescindere, cioè,
anche da specifiche previsioni di divieto, che potrebbero, sep‑
pure con la dovuta prudenza, essere considerate modificabili,
senza, per ciò solo, ingenerare profili di violazione della par
condicio competitorum.
Certo, per dovere di completezza, occorre pure rilevare come
le questioni sottese alla complessa vicenda in indagine non si
esauriscano affatto nelle brevi note che precedono, risultando
di ben più ampia portata. A tali ulteriori questioni in attesa di
adeguata soluzione, in questa sede, anche per ovvie ragioni di
brevità e di sintesi, è solo possibile fare cenno. Si consideri, ad
esempio, la dibattuta rilevabilità d’ufficio o meno del difetto di
potestas iudicandi del collegio arbitrale nelle ipotesi di nullità
del compromesso o della clausola compromissoria34.
Ad ogni modo, vale sempre quell’insegnamento che, special‑
mente in materia di validità dell’atto giuridico negoziale, invita
alla prudenza, «in senso contrario a qualsiasi resa ad un prag‑
matismo, che si risolva in acquiescenza al disordine normativo
e rinuncia al compito propositivo dell’interprete», spinti dalla
«necessità di evitare facili fughe dalle proprie responsabilità, con
l’alibi di quella frantumazione concettuale, in cui indubbiamen‑
te il disordine normativo corre il rischio di tradursi»35.
28In tal senso, v. Cass., sez. I, 2 febbraio 2007, n. 2256; in senso conforme, Cass.,
sez. I, n. 1989 del 2000.
29Tra le tante in materia, v. Cons. di Stato, sez. IV, 29 aprile 2002, n. 2279; Cass.,
29 novembre 2005, n. 26047; Cons. di Stato, sez. V, n. 37 del 2007; in dottri‑
na, per tutti, cfr. A. Cianflone – G. Giovannini, L’appalto di opere pubbliche,
cit., pp. 220, 295 e ss.
30Tra le numerose decisioni in materia, particolare significati assumono le seguen‑
ti: Cons. di Stato, sez. IV, n. 335 del 2 luglio 1985; Cons. di Stato, sez. V, 3
ottobre 2002, n. 5215; Cons. di Stato, sez. V, 25 marzo 2002, n. 1695; Cons.
di Stato, 10 giugno 2002, n. 3205, in www.lexitalia.it; in dottrina, per tutti, cfr.
Cianflone – Giovannini, op. ult. cit., p. 295 e ss.
31 Cosi, Ponte, in Urb. e app., 2003, p. 1201 e ss.; Di Donna, in Urb. e app.,
2005, p. 350 e ss.
32Orientamento condiviso, tra le altre, da Cass., sez. III, 5 dicembre 2003,
n. 18643; Cass., sez. II, 16 dicembre 1992, n. 13317; Cass., nn. 3449 e 3499
del 1972; Corte App. Genova 26 febbraio 2002.
33In questa direzione, invece, Trib. Bergamo, 22 aprile 2008; Cass., sez. II, 7 luglio
2004, n. 12475; Cass., sez. III, 19 dicembre 2000, n. 15941; Trib. Belluno, 26
ottobre 2005; Trib. Bologna, sez. II, 7 luglio 2004, n. 2075; Cass., sez. I, 30
maggio 2007, n. 12684.
34In senso affermativo, di recente, v. Cass., sez. I, 24 luglio 2007, n. 16332.
35 Così, in maniera particolarmente significativa, E. Quadri, A proposito della
ristampa del «contributo alla teoria del negozio giuridico» di Renato Scogna‑
miglio, in Riv. dir. civ., 2009, II, p. 385 e ss., ma spec. p. 402.
F O R E N S E
●
Rassegna
di giurisprudenza
sul Codice
dei contratti pubblici
di lavori, servizi
e forniture
(d.lgs. 12 Aprile 2006,
n. 163 e ss. mm.)
●
A cura di Almerina Bove
Dottore di ricerca e Avvocato
presso l’Avvocatura Regionale della Campania
l u g l i o • a g o s t o
2 0 1 2
119
Aggiudicazione definitiva. Termine per l’impugnazione
Anche per le gare d’appalto indette in epoca anteriore
all’entrata in vigore del Codice del processo amministrativo,
il termine per l’impugnazione dell’aggiudicazione definitiva
da parte dei concorrenti non aggiudicatari inizia a decorre‑
re dal momento in cui essi hanno ricevuto la comunicazione
di cui all’art. 79, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 163 del
2006, e non dal momento, eventualmente successivo, in cui
la stazione appaltante abbia concluso con esito positivo la
verifica del possesso dei requisiti di gara in capo all’aggiudi‑
catario, ai sensi dell’art. 11, comma 8, dello stesso decreto.
Adunanza Plenaria, 31 luglio 2012, n. 31
Pres. Giancarlo Coraggio; Estens. Raffaele Greco
Annullamento dell’esclusione dell’impresa sopravvenuto alla
formazione della graduatoria. Obbligo di rinnovo delle operazio‑
ni di gara
Nella gara per l’affidamento di contratti pubblici l’inte‑
resse fatto valere dal ricorrente che impugna la sua esclusio‑
ne è volto a concorrere per l’aggiudicazione nella stessa gara;
pertanto anche nel caso dell’offerta economicamente più
vantaggiosa, in presenza del giudicato di annullamento
dell’esclusione stessa sopravvenuto alla formazione della
graduatoria, il rinnovo degli atti deve consistere nella sola
valutazione dell’offerta illegittimamente pretermessa, da
effettuarsi ad opera della medesima commissione preposta
alla procedura.
Adunanza Plenaria, 26 luglio 2012, n. 30
Pres. Francesco Coraggio; Estens. Anna Leoni
A.T.I. Obbligo di indicazione delle parti del servizio che saranno
eseguite dai singoli operatori riuniti. Sussiste anche per le ATI
orizzontali
L’art. 37, comma 4, del Codice dei Contratti pubblici
n. 163 del 2006, nella parte in cui ha previsto che “nel caso
di forniture o servizi nell’offerta devono essere specificate le
parti del servizio che saranno eseguite dai singoli operatori
riuniti o consorziati” si applica non solo quando si tratti di
a.t.i. verticali, ma anche di a.t.i. orizzontali.
In particolare, l’indicazione delle parti si rende necessa‑
ria al fine di evitare che l’esecuzione di quote rilevanti
dell’appalto siano eseguite da soggetti sprovvisti delle qua‑
lità prescritte dalla lex specialis in ordine ai requisiti di ca‑
pacità tecnico finanziaria e persegue altresi’ la finalità di
assecondare il corretto esplicarsi delle dinamiche concorren‑
ziali, assicurando l’effettività del raggruppamento e impe‑
dendo la partecipazione fittizia di imprese.
Adunanza Plenaria, 5 luglio 2012, n. 26
Pres. Giancarlo Coraggio; Estens. Francesco Caringella
Attestazione SOA. Onere di tempestiva richiesta di verifica trien‑
nale al fine della partecipazione a gare indette nelle more della
proroga dell’attestazione
La proroga a cinque anni dell’efficacia delle attestazioni
SOA disposta dall’art. 7, comma 1, della legge 1o agosto
2002, n. 166 e dall’art. 1 del d.P.R. 10 marzo 2004, n. 93,
è subordinata alla richiesta di verifica triennale ed al suo
positivo esito.
L’impresa che abbia richiesto in termini la verifica trien‑
nale del proprio attestato SOA può partecipare alle gare
amministrativo
Gazzetta
120
d i r i t t o
a m m i n i s t r at i v o
indette dopo il triennio anche se la verifica sia compiuta
successivamente, fermo restando che l’efficacia dell’aggiu‑
dicazione è subordinata, ai sensi dell’art. 11, comma 8, del
d.lgs 12 aprile 2006, n. 163, all’esito positivo della verifica
stessa. Viceversa, l’impresa che abbia presentato la richiesta
fuori termine può partecipare alle gare soltanto dopo la
data di positiva effettuazione della verifica.
Adunanza Plenaria, 18 luglio 2012, n. 27
Pres. Giancarlo Coraggio; Estens. Maurizio Meschino
Dichiarazioni ex. art 38, lett.c). 1. Incorporazione e fusione socie‑
taria. Fusione e Obbligatorietà della dichiarazione per gli ammi‑
nistratori delegati e i direttori tecnici che hanno operato nell’ul‑
timo anno presso la società incorporata o le società fusesi. – 2.
Decorrenza del principio di diritto affermato
1. Nei casi di incorporazione o di fusione societaria,
perfezionatesi prima della partecipazione ad una pubblica
gara, la dichiarazione ex art. 38 del D.lgs n. 163 del 2006
circa l’insussistenza di reati incidenti sulla moralità profes‑
sionale deve essere resa a pena di esclusione anche da parte
degli amministratori delegati e dei direttori tecnici che han‑
no operato nell’ultimo anno presso la società incorporata o
le società fusesi.
Ciò in quanto le fattispecie della incorporazione e della
fusione pur non realizzando un’ipotesi di successione uni‑
versale danno vita ad un soggetto composito in cui prose‑
guono la loro esistenza le società partecipanti all’operazione
societaria. Per l’effetto, non si possono considerare “altrui”
gli amministratori che sono amministratori di un soggetto
che è parte del tutto, e che conserva la sua identità origina‑
ria pur sotto una diversa forma giuridica.
2. I concorrenti che prima della Adunanza Plenaria n. 10
del 2012 non abbiano reso la dichiarazione di cui alla stessa
lettere c) rispetto agli amministratori delegati o ai direttori
tecnici che hanno operato nella societtecnicai o incorporata
nell’ultimo anno possono essere esclusi dalla procedura di
gara soltanto quando il bando di gara abbia esplicitato tale
onere di dichiarazione e la conseguente causa di esclusione;
in caso contrario, l’esclusione risulta legittima solo ove vi
sia la prova che gli amministratori per i quali è stata omessa
la dichiarazione abbiano effettivamente pregiudizi penali.
Adunanza Plenaria 7 Giugno 2012, n. 21
Pres. Giancarlo Coraggio; Estens. Rosanna de Nictolis
Gazzetta
F O R E N S E
Dichiarazioni ex art. 48 – Verifica a campione del controllo del
possesso dei requisiti di capacità economico – finanziaria e tecnico
organizzativa. Necessità di richiesta scritta da parte della stazione
appaltante
Ai sensi dell’art. 48 del d.lgs 163 del 2006, il potere di
controllo esercitato dalla stazione appaltante, finalizzato alla
verifica del possesso dei requisiti tecnici ed economici da par‑
te concorrenti all’uopo sorteggiati, presuppone una richiesta
specifica di esibizione della documentazione, a nulla rilevando
che un rappresentante della ditta possa essere stato presente
alla seduta pubblica nella quale è avvenuto il sorteggio.
È pertanto da ritenersi illegittima l’esclusione del concor‑
rente che in mancanza di un’esplicita richiesta da parte dell’am‑
ministrazione abbia omesso di esibire la documentazione at‑
testante il possesso dei requisiti.
Tar Campania, Napoli, sez I, 18 Giugno2012, n. 3480
Pres. Cesare Mastrocola; Estens. Fabio Donadono
Offerta tecnica. Presentazione di un’offerta composta di un nume‑
ro di cartelle superiore a quello massimo prescritto dal bandi a
pena di eslcusione. Impine l’esclusione dalla gara
Ove la normativa di gara preveda che la presentazione
della offerta debba essere contenuta in un numero di cartelle
prefissato, a pena di esclusione, ogni violazione, anche mini‑
ma, del limite prefissato non può che comportare l’esclusione,
non prevedendo la legge di gara alcuna tolleranza.
Consiglio di Stato, sez. V, 14 maggio 2012, n. 2745
Pres. Calogero Piscitello; Estens. Antonio Amicuzzi
Principio di pubblicità della seduta di apertura delle offerte tecniche
al fine di verificarne lo “stato di consistenza”. Si applica anche alle
procedure negoziate e agli affidamenti in economia, in relazione sia
ai settori ordinari che ai settori speciali di rilevanza comunitaria
I principi di pubblicità e trasparenza che governano la di‑
sciplina comunitaria e nazionale in materia di appalti pubblici
comportano che, qualora all’aggiudicazione debba procedersi
col criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, l’aper‑
tura delle buste contenenti le offerte e la verifica dei documen‑
ti in esse contenuti vadano effettuate in seduta pubblica anche
laddove si tratti di procedure negoziate, con o senza previa
predisposizione di bando di gara, e di affidamenti in economia
nella forma del cottimo fiduciario, in relazione sia ai settori
ordinari che ai settori speciali di rilevanza comunitaria.
Adunanza Plenaria, 31 luglio 2012, n. 31
Pres. Giancarlo Coraggio; Estens. Raffaele Greco
Diritto tributario
La tutela contro gli atti dell’esecuzione esattoriale 123
tributario
Achille Benigni
Gazzetta
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
●
123
Sommario: 1. Premessa; 2. La tutela contro gli atti dell’ese‑
cuzione forzata tributaria nel vigente assetto ordinamentale;
3. Rapporti tra avviso di accertamento esecutivo ed esecuzio‑
ne forzata; 4. Ipotesi particolari e spunti ricostruttivi; 5.
Conclusioni.
● Achille Benigni
Avvocato
Premessa
L’introduzione dell’istituto dell’accertamento esecutivo ad
opera dell’art.29 d.l. 31 maggio 2010 n. 78 (conv. in l. 30 luglio
2010 n. 122)1 sembra avere generato una nuova tipologia di
provvedimenti che un’autorevole dottrina ha definito
“impoesattivi”2.
Con essi, infatti, il legislatore ha inteso cumulare in un uni‑
co atto le funzioni di accertamento e riscossione dei tributi,
precedentemente affidate a distinti provvedimenti, allo scopo di
accelerare gli effetti del prelievo fiscale in tema di imposte sui
redditi ed Iva.
Le osservazioni che seguono si propongono di mettere in
luce alcune problematiche sollevate dall’istituto in esame ed in
particolare quelle inerenti al difetto di coordinamento tra que‑
ste norme e le disposizioni preesistenti, che disciplinano la tu‑
tela del contribuente nella delicata fase che collega l’esercizio
della potestà di imposizione con la riscossione coattiva del
credito fiscale.
1. La tutela contro gli atti dell’esecuzione forzata tributaria nel vigen‑
te assetto ordinamentale
L’attuale assetto normativo è costituito dagli artt. 2 e 19
d.lgs. n. 546 del 1992 che segnano i cd. limiti orizzontali e ver‑
ticali della giurisdizione delle commissioni tributarie e dagli
artt. 57 e 58 d.p.r. n. 602 del 1973 (nel testo novellato dal d.lgs.
26 febbraio 1999 n. 46) che disciplinano le opposizioni all’ese‑
cuzione, agli atti esecutivi e di terzo in materia di esecuzione
esattoriale.
Dalla ricognizione di queste norme traspare la scelta “di si‑
stema” del legislatore di devolvere alla giurisdizione delle com‑
missioni tutte le controversie tributarie aventi ad oggetto l’impu‑
gnazione di una serie di atti qualificati dall’art.19 d.lgs. n. 546
del 1992 come “autonomamente impugnabili”, secondo un’elen‑
cazione che per molti anni è stata ritenuta tassativa3.
In questa elencazione, tuttavia, non rientrano gli atti
*Il presente contributo riproduce, con integrazioni, il testo della relazione svolta
al convegno di studi “Politiche di deflazione fiscale e garanzie costituzionali:
l’accertamento esecutivo ed il nuovo rito delle liti minori” tenutosi ad Avellino
il 13 aprile 2012.
1 L’art. 29 del detto decreto ‑ rubricato “concentrazione della riscossione nell’ac‑
certamento” ‑ prevede che gli avvisi di accertamento concernenti le imposte sui
redditi e l’Iva ed i connessi provvedimenti sanzionatori debbano contenere anche
l’intimazione ad adempiere, entro il termine di presentazione del ricorso, all’ob‑
bligo di pagamento degli importi in essi indicati, ovvero, in caso di tempestiva
impugnazione, di quelli dovuti in base all’art.15 d.p.r. n. 602 del 1973. Lo
stesso articolo, poi, soggiunge che tali atti diventano esecutivi decorsi sessanta
giorni dalla notifica e devono altresì contenere l’avvertimento che, decorsi ulte‑
riori trenta giorni dalla scadenza del termine per il pagamento, la riscossione
delle somme richieste, in deroga alle disposizioni in tema di iscrizione a ruolo è
affidata in carico agli agenti della riscossione, anche ai fini dell’esecuzione for‑
zata (fatta salva l’ipotesi in cui vi sia fondato pericolo per il positivo esito della
riscossione, nella quale l’affidamento all’agente può avvenire da parte dell’uffi‑
cio anche prima della scadenza dei detti termini).
2 La definizione è stata coniata da C. Glendi in Notifica degli atti “impoesattivi”
e tutela cautelare ad essi correlata, in Dir. prat. trib., 2011, I, p. 481 ss.
3 Cfr. Cass. SS. UU. 26 marzo 1999 n. 185 in Fisco, 1999. In passato la giurispru‑
denza tendeva a rimarcare il carattere tassativo dell’elenco di cui all’art.19 – qua‑
le espressione del principio di tipicità degli atti impugnabili – senza peraltro
escludere l’ammissibilità di una sua interpretazione estensiva. Solo in epoca re‑
cente la S. C. ha esteso ulteriormente tale concetto, fino a ricomprendervi ogni
ipotesi di atto amministrativo idoneo ad esprimere compiutamente ed in modo
autoritativo la pretesa tributaria.
tributario
La tutela contro
gli atti dell’esecuzione
esattoriale*
2 0 1 2
124
d i r i t t o
dell’esecuzione forzata (pignoramento, vendita forzata, decre‑
to trasferimento, ecc.) in quanto per questi ultimi, ‑ che si
pongono a valle rispetto agli atti autonomamente impugnabi‑
li – tuttora permane la giurisdizione del giudice ordinario (ex
art.2 d.lgs. n. 546 del 1992). Trattasi però di una giurisdizione
fortemente depotenziata, posto che ‑ come è noto ‑ in materia
di esecuzione esattoriale l’opposizione di terzo è ammessa, ma
con una serie di limitazioni attinenti al profilo delle prove
utilizzabili a sostegno delle ragioni del terzo opponente, men‑
tre l’opposizione all’esecuzione è vietata (salvo che con essa
non si sollevi una questione concernente la pignorabilità dei
beni) ed è altresì vietata l’opposizione agli atti esecutivi relati‑
va alla regolarità formale ed alla notificazione del titolo ese‑
cutivo e del precetto4.
Le predette norme sono state sottoposte anche al vaglio
della Consulta, che però sino ad oggi ha sempre respinto le re‑
lative eccezioni5.
Cercherò di dimostrare come questo assetto, già insoddisfa‑
cente prima della novella, sia destinato ad entrare definitiva‑
mente in crisi a seguito dell’impatto con le nuove norme.
2. Rapporti tra avviso di accertamento esecutivo ed esecuzione
forzata
È stato osservato6 che con la scomparsa del ruolo la sequen‑
za di atti che collegano la fase dell’imposizione fiscale con
quella della riscossione coattiva si è accorciata, in quanto è ve‑
nuta meno una delle possibilità di accesso alla giurisdizione
tributaria, la quale – giova ricordarlo – è pur sempre una giuri‑
sdizione di tipo “impugnatorio”, nel senso che la lite fiscale
necessita per potersi radicare di un atto impugnabile.
Orbene, nel sistema attuale possono configurarsi varie ipo‑
tesi in cui tale accesso risulta complicato o addirittura precluso
del tutto.
In primo luogo va considerata l’eventualità, non rara nella
pratica, di un accertamento che non sia stato validamente noti‑
ficato (come accade nei casi di notificazione nulla o addirittura
inesistente).
Fino a ieri in un caso del genere era possibile per il contri‑
4 La giustificazione prevalente era che la funzione delle opposizioni regolate
dagli artt.615 e 617 del c.p.c. è svolta nel nostro caso dai ricorsi contro il
ruolo e l’avviso di mora (oggi sostituito dall’intimazione ad adempiere di cui
all’art.50 d.p.r. n. 602 del 1973), che sono impugnabili dinanzi al giudice tri‑
butario.
5Invero, se si esamina la giurisprudenza costituzionale più recente, formatasi in
relazione al testo novellato degli artt. 57 e 58 d.p.r. n. 602 del 1973, si noterà
che le pronunzie sono tutte di inammissibilità. L’ultima in ordine di tempo è
l’ordinanza n. 133 del 13 aprile 2011 (in Fisco, 2011, 17, p. 2708) che ha di‑
chiarato manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituziona‑
le del combinato disposto degli articoli 57 e 60 del d.p.r. n. 602 del 1973.
Nella fattispecie la Corte ha rilevato che al contribuente erano state notificate,
successivamente alla cartella di pagamento, alcune intimazioni ad adempiere
che avrebbero potuto essere impugnate dinanzi al giudice tributario senza ne‑
cessità di ricorrere ai rimedi delle opposizioni esecutive previste dal codice di
rito. Sicché, in definitiva, non può escludersi che in un diverso contesto fattua‑
le, o con una differente prospettazione della questione di legittimità, la Consul‑
ta possa in futuro approdare ad un giudizio di incostituzionalità delle norme
citate.
6 A. Carinci, Prime considerazioni sull’avviso di accertamento “esecutivo” ex
DL n. 78/2010, in Riv. dir. trib. 2011, I, p. 175. L’A. osserva che l’avviso di
accertamento sarà d’ora in poi l’unico atto che il contribuente riceverà prima
della possibile aggressione esecutiva. Trattasi, però, di osservazione formulata
prima delle modifiche introdotte dall’art.8 d.l. 2 marzo 2012 n. 16, che ha
prescritto l’obbligo della comunicazione dell’affidamento dell’atto impoesattivo
all’agente della riscossione mediante raccomandata semplice, cui accennerò
infra.
t r i b u ta r i o
Gazzetta
F O R E N S E
buente impugnare la cartella di pagamento (ergo, l’iscrizione a
ruolo), deducendo il vizio di notifica dell’atto presupposto: il
ricorso contro il ruolo, in pratica, assolveva anche la funzione
di sottoporre al vaglio del giudice tributario la legittimità e – se‑
condo l’orientamento prevalente, che tende a ricostruire la
giurisdizione tributaria in termini di giurisdizione sul rapporto
e non solo sull’atto7 – anche la fondatezza della pretesa imposi‑
tiva, nel senso che in tale giudizio sarebbe stato possibile per il
ricorrente sollevare questioni concernenti il presupposto e la
base imponibile8.
Oggi tutto questo è più complicato: se il vizio incide sul
procedimento di notificazione dell’avviso di accertamento, può
generarsi un vero e proprio deficit di tutela giurisdizionale, te‑
nuto conto che non vi saranno più un’iscrizione a ruolo ed una
cartella di pagamento suscettibili di impugnazione autonoma
dinanzi al giudice tributario.
Se il contribuente è “fortunato”, potrebbe essere raggiunto
medio tempore da un provvedimento di tipo cautelare (quale
può essere un preavviso di fermo amministrativo o di iscrizione
ipotecaria)9, ossia da un atto comunque ricompreso nell’elenco
di cui all’art. 19 ed il cui carattere di atto autonomamente im‑
pugnabile ne farebbe una comoda via di accesso alla giurisdi‑
zione tributaria, che ovviamente sarebbe estesa anche al rappor‑
to. Analogamente, nel caso in cui fosse notificata al contribuen‑
te una intimazione ad adempiere ex art.50 d.p.r. 602 del 1973
(perché nel frattempo è decorso un anno dalla notificazione
dell’accertamento), quest’ultimo potrebbe impugnare tale atto
facendo valere il vizio di notifica (ovvero la mancata notifica‑
7Non è qui il caso di soffermarsi sull’annosa diatriba relativa all’oggetto del
processo tributario, che vede storicamente contrapposte due correnti di pensie‑
ro, facenti capo alla teoria dichiarativa e costitutiva dell’obbligazione tributaria.
Ai fini che qui interessano, mi limito a rilevare come la giurisprudenza abbia
da tempo assunto una posizione “sincretistica”, ritenendo che il giudizio tribu‑
tario, benché introdotto mediante l’impugnazione di un atto, è comunque fina‑
lizzato all’accertamento dell’obbligazione tributaria. Per un’accurata sintesi di
tale problematica cfr. A. Giovannini, Il ricorso e gli atti impugnabili, in Aa.
Vv., Il processo tributario, a cura di F. Tesauro, Torino, 1998, passim.
8 La disposizione dell’ultima parte dell’art.19 comma 3o d.lgs. n. 546 del 1992
prevede, infatti, che la mancata notificazione di un atto autonomamente impu‑
gnabile, adottato precedentemente all’atto notificato, ne consente l’impugna‑
zione unitamente a quest’ultimo. Tale norma (per vero assai discussa per la sua
formulazione criptica), viene normalmente interpretata nel senso che il ricor‑
rente avrebbe sempre una duplice opzione difensiva, potendo egli limitarsi a
chiedere l’annullamento dell’atto impugnato a causa della mancata (doverosa)
notificazione dell’atto presupposto, ovvero entrare nel merito della pretesa fi‑
scale, domandando al giudice tributario di pronunziarsi sulla legittimità della
stessa. Cfr. G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, Parte generale, V ed.,
Padova, 2003, p. 619. Sebbene questa seconda opzione possa sembrare inop‑
portuna in termini di strategia difensiva (e in molti casi lo è, tenuto conto che
la mancata notifica dell’atto presupposto è di per sé sufficiente a provocare la
caducazione di quello successivo, determinando un vizio proprio di quest’ulti‑
mo, Cass. SS. UU. 25 luglio 2007 n. 16412 in Boll. Trib. 2007, 19, p. 1554,
ma vedi, in senso contrario, la recentissima Cass. Sez. V, 4 maggio 2012 n. 6721
in Fisco, 2012, p.3303, che, contravvenendo ad un indirizzo consolidato,
sembra postulare l’onere di estensione dell’impugnativa all’atto presupposto),
possono tuttavia configurarsi casi nei quali, non essendo ancora spirati i termi‑
ni per l’esercizio della potestà di imposizione, il contribuente potrebbe avere
interesse a far accertare l’inesistenza dell’obbligazione tributaria al fine di
scongiurare definitivamente la riattivazione della pretesa (si pensi ad es. al re‑
gime delle obbligazioni solidali, ove l’interesse ad ottenere un giudicato favore‑
vole sul rapporto è collegato alla invocabilità di tale giudicato da parte degli
altri coobbligati, ex art. 1306, comma 2o, c.c.).
9 È controversa la natura cautelare anziché esecutiva di tali provvedimenti. Al‑
cuni recenti pronunciamenti della S. C. (Cass. SS. UU. 22 febbraio 2010 n. 4077
in Giur. trib. n. 10/2010 p. 862; Cass. SS. UU. 19 marzo 2009 n. 6594 in Giur.
trib. n. 10/2009 p. 876) sembrerebbero deporre a favore della natura esecutiva
di tali atti, in virtù del loro essere prodromici all’esecuzione forzata, anche se
non vi è dubbio che la funzione primaria dell’ipoteca e del fermo amministra‑
tivo resti quella di garantire il credito erariale.
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
zione) dell’atto impoesattivo prodromico, ottenendone l’annul‑
lamento.
Se però tutto questo non accade, nel senso che il primo atto
successivo all’avviso di accertamento è il pignoramento, si pone
concretamente il problema del tipo di tutela esperibile da parte
del contribuente.
Un’impostazione eccessivamente formalistica rischierebbe,
infatti, di precludere ogni possibilità di difesa giurisdizionale, il
che è irragionevole, per cui bisogna ricercare delle soluzioni
interpretative che siano compatibili con l’attuale assetto ordina‑
mentale e nel contempo rispettose dei principi costituzionali.
De jure condito, la soluzione più logica, anche sul piano
sistematico, è quella di ipotizzare la tutela dinanzi al giudice
tributario ogni qual volta si contesti la legittimità dell’atto
impoesattivo. È evidente, infatti, che il vizio di notifica, in
quanto afferente ad un atto recettizio, è destinato ad inficiarne
la legittimità.
A tal proposito, come è stato giustamente osservato, la tesi
della S. C. che ha esteso la sanatoria degli atti processuali ai vizi
di notifica degli avvisi di accertamento10, già di per sé discutibile,
appare oggi incompatibile con la natura, la struttura e la funzio‑
ne del nuovo avviso di accertamento esecutivo: il carattere recet‑
tizio di tale atto, che acquista efficacia esecutiva solo all’esito
della sua notificazione al destinatario, fa sì che, da un lato, la
notificazione rappresenti un elemento costitutivo dell’intera
fattispecie11 e, dall’altro, che essa non possa essere surrogata da
forme equipollenti, tanto meno dalla conoscenza effettiva12.
Nel nostro caso, infatti, l’avviso di accertamento non è
soltanto il veicolo della pretesa impositiva ma è anche ‑ in
quanto atto esattivo ‑ il titolo che rende possibile l’esecuzione
coattiva della pretesa stessa.
10 Ci si riferisce ai principi sanciti da Cass. SS. UU. 5 ottobre 2004 n. 19854 in
Giur. trib. 1/2005, p. 14 e poi sostanzialmente ribaditi da numerose pronunzie
successive (tra cui Cass. sez. trib. 12 luglio 2006 n. 15849 e Cass. sez. trib. 2
luglio 2009 n. 15554). In tali decisioni la S. C. ha propugnato la soggezione
dell’avviso di accertamento al regime delle nullità della notificazione nel pro‑
cesso ed a quello delle relative sanatorie ex artt. 156 e 160 c.p.c., con la conse‑
guenza che la nullità della notificazione del provvedimento impositivo può
essere sanata per raggiungimento dello scopo e per effetto della proposizione
del ricorso, fatte salve le decadenze eventualmente maturate. Trattasi di un’im‑
postazione fortemente (e giustamente) avversata in dottrina, che si pone in
contrasto con il più rigoroso orientamento che ravvisa nella notificazione un
elemento costitutivo, anziché un mero requisito di efficacia, dell’atto recettizio.
Cfr. in proposito C. Glendi, La sanatoria delle nullità di notifica degli atti
impugnati nel processo tributario, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1978, I, p. 45 ss; C.
Scalinci, La notifica dell’atto tributario recettizio: un Giano bifronte tra sa‑
natoria e decadenza, in Riv. dir. trib. 2005, II, p. 13 ss., in particolare p. 33.
11 È stato altresì evidenziato che la notifica dell’avviso di accertamento esecutivo
dovrebbe avvenire ai sensi dell’art.60 d.p.r. 600 del 1973, ossia con la necessa‑
ria intermediazione dell’agente notificatore anche nella ipotesi di notificazione
a mezzo posta, laddove per i successivi atti determinativi della pretesa richia‑
mati nell’ultima parte del primo comma dell’art. 29, tale intermediazione, in
base alla lettera della legge, non risulterebbe necessaria, potendo gli stessi esse‑
re notificati direttamente a mezzo posta e cioè senza il ricorso al messo notifi‑
catore di cui all’art.60. Glendi, op. loc. cit., p. 494.
12Osserva C. Glendi, op. loc. ult. cit., p. 488, che con la nuova disciplina la
formazione del titolo esecutivo non preesiste alla notifica, ma dipende dalla
stessa, sicché la ricostruzione operata dalla S. C. con riferimento ai vecchi av‑
visi di accertamento, già di per sé discutibile per le ragioni esposte nella nota
11, appare ancor meno plausibile se riferita al nuovo avviso di accertamento,
la cui disciplina positiva subordina testualmente alla notificazione la esecutivi‑
tà del titolo (la quale ex art. 29, comma 1o, lettera b) si determina solo allo
scadere del sessantesimo giorno dalla notifica). È evidente perciò che la notifi‑
cazione‑procedimento assume in questo caso un preciso valore sul piano effet‑
tuale, ponendosi come condizione essenziale e non altrimenti surrogabile per la
produzione di un ventaglio di effetti giuridici i quali, all’incontro, giammai
potrebbero riconnettersi alla conoscenza effettiva del provvedimento.
2 0 1 2
125
Ora, se è già difficile ammettere che la conoscenza effetti‑
va della pretesa fiscale possa in qualche modo surrogare la
notificazione dell’atto che quella pretesa veicola all’esterno,
risulta ancor più arduo pensare che un simile regime possa
valere anche in relazione a quegli ulteriori effetti (che sono,
poi, quelli previsti dagli artt. 2910 c.c. e 474 c.p.c.), la cui
produzione è ex lege subordinata al perfezionamento del pro‑
cedimento notificatorio13.
Ne deriva che la proposizione del ricorso contro l’avviso di
accertamento esecutivo non potrebbe produrre alcun effetto
sanante del vizio di notifica.
Bisogna però considerare anche l’ipotesi estrema in cui il
contribuente non abbia proprio cognizione del provvedimento
impoesattivo (come può accadere nei casi di notificazione ine‑
sistente, o nelle più gravi ipotesi di notificazione nulla).
In quest’ultimo caso, qualora il primo atto ricevuto sia il
pignoramento, possono prospettarsi diverse soluzioni, per vero
nessuna del tutto appagante per l’interprete.
Escludendo l’opzione estrema del solve et repete14 e della
possibilità di una successiva azione risarcitoria (che, peraltro, in
tal caso non avrebbe più come destinatario l’agente della riscos‑
sione, ma l’ente impositore e sarebbe regolata dai principi gene‑
rali: art. 2043 ss. c.c.)15, le strade percorribili sono tre:
• il contribuente impugna il pignoramento dinanzi al giudice
tributario;
• il contribuente impugna dinanzi al giudice tributario l’avvi‑
so di accertamento non notificato;
• il contribuente propone opposizione esecutiva dinanzi al
giudice ordinario.
La prima opzione – che pure trova riscontro in alcune pro‑
nunzie di merito16– si infrange contro il dato testuale dell’art. 2
(da leggere in combinato disposto con l’art.19) del d.lgs. n. 546,
che esclude la giurisdizione delle commissioni per questo genere
di controversie.
Tenderei ad escludere anche la praticabilità della terza
opzione, vale a dire il ricorso alle opposizioni esecutive di cui
al codice di rito, non tanto ‑ o non solo ‑ perché vi osterebbe
il disposto dell’art. 57 d.p.r. n. 602 del 197317, quanto perché
13Tale regime è del resto coerente con la regola generale dell’art. 479 c.p.c. che
impone la notificazione al debitore del titolo esecutivo (e del precetto), oltre che
con le previsioni della legge n. 241 del 1990 (art. 21‑bis) che prescrivono l’ob‑
bligo di notifica per tutti i provvedimenti limitativi della sfera giuridica dei
privati. cfr. A. CARINCI, Prime considerazioni sull’avviso di accertamento
“esecutivo” ex d.l. n. 78/2010, in Riv. dir. trib., 2011, I, p. 168.
14 La regola del solve et repete, originariamente contenuta nella legge abolitrice del
contenzioso amministrativo fu dichiarata incostituzionale dalla Consulta nel
1961 (Corte Cost. 31 marzo 1961 n. 21 in Foro it., 1961, I, p.561). Ci si riferi‑
sce in questo caso alla possibilità di attivare l’ordinario procedimento di rim‑
borso previsto dall’art.21 d.lgs. 546 del 1992, che sarebbe ovviamente precluso
nell’ipotesi di definitività dell’atto impoesattivo validamente notificato.
15 La possibilità di coinvolgere nel giudizio risarcitorio il concessionario (oggi
agente) della riscossione, prevista dall’art. 59 d.p.r. n. 602 del 1973, si riferisce
infatti alle sole ipotesi in cui il vizio dal quale discende l’illegittimità dell’esecu‑
zione sia imputabile a tale soggetto (come ad es. nei casi di vizi concernenti la
cartella esattoriale o gli atti successivi), laddove, nel caso che ne occupa, l’azio‑
ne risarcitoria troverebbe titolo nella responsabilità esclusiva dell’ente imposi‑
tore che abbia omesso di notificare l’avviso di accertamento.
16 Comm. trib. prov. Treviso 4 marzo 2009 n. 23 in Fisco, 2009, p. 5371 e Comm.
trib. prov. Milano 27 ottobre 2009 n. 255 in Corr. trib. n. 48/2009 p. 3921,
con nota di A. Vozza, La giurisdizione sulle controversie relative all’illegittimi‑
tà del pignoramento, ove si afferma la ricorribilità di tale atto qualora unita‑
mente ad esso venga impugnata anche la cartella di pagamento non notifica‑
ta.
17 C. Glendi, op. loc. ult. cit. p. 505, pur riconoscendo che la materia è “scivo‑
losa”, tende ad ammettere questa possibilità di tutela nei soli casi di mancata
tributario
Gazzetta
126
d i r i t t o
in tal caso si chiederebbe al giudice ordinario di decidere una
controversia che nella sostanza resta tributaria. È evidente
infatti che se il giudizio tributario – secondo il costante inse‑
gnamento della S. C. – deve poter essere (in presenza di certe
condizioni) anche un giudizio sul rapporto e non solo sull’at‑
to18, sarebbe assurdo ritenere che laddove manchi un atto
impugnabile e laddove, oltretutto, questa mancanza sia pato‑
logica, perché dovuta ad un’omissione dell’ente impositore,
tale giudizio non possa efficacemente esplicarsi dinanzi al
giudice naturale19.
Così stando le cose, la soluzione più corretta sembra essere
la seconda: ammettere l’impugnazione dinanzi alla commissio‑
ne tributaria provinciale con la precisazione però che, in tal
caso, oggetto dell’impugnazione non è il pignoramento (atto
dell’esecuzione forzata), ma pur sempre l’atto impoesattivo non
notificato (o invalidamente notificato), impugnabile ai sensi
dell’ultimo comma dell’art. 1920. Il termine di sessanta giorni in
questo caso decorrerà dalla notifica del pignoramento, perché
da quel momento il contribuente sarà edotto dell’esistenza di
una pretesa impositiva ed avrà quindi il diritto (e l’onere) di
contestarla21.
In questo quadro si inserisce la recentissima modifica intro‑
dotta dall’art.8, comma 12o, d.l. n. 16 del 2012 (cd. “decreto
sulle semplificazioni fiscali” convertito in legge 26 aprile 2012
n. 44), che impone all’agente della riscossione l’obbligo di co‑
municare a mezzo raccomandata semplice (ossia senza avviso
di ricevimento) la presa in carico delle somme da riscuotere.
o inesistente notifica del titolo esecutivo, osservando che l’art.57 1o comma let‑
tera b) d.p.r. 602, nell’escludere le opposizioni ex art.617 c.p.c. relative alla
notificazione del titolo esecutivo postula che una notificazione vi sia comunque
stata, poiché, in mancanza, vi sarebbe soltanto un atto esecutivo privo di titolo
e perciò invalido. Pur apprezzando lo sforzo esegetico dell’A., animato dall’in‑
tento di individuare delle forme di tutela esperibili, non credo che la formula‑
zione della norma lasci molti spazi all’interprete. Da un lato, infatti, l’espres‑
sione “opposizioni relative alla notificazione del titolo esecutivo” è talmente
generica da ricomprendere tutte le ipotesi di vizi attinenti al procedimento
notificatorio, senza possibilità di distinguere tra notificazione nulla e/o inesi‑
stente (oltretutto assimilabili sul piano delle conseguenze, posto che si sta
parlando di atti recettizi). Dall’altro, occorre considerare che la mancata noti‑
ficazione dell’avviso di accertamento, ossia dell’atto contenente la pretesa tri‑
butaria, ricadrebbe nella più grave ipotesi di inesistenza del diritto a procedere
ad esecuzione, deducibile con il rimedio dell’opposizione all’esecuzione di cui
all’art. 615 c.p.c. in questo caso tuttavia precluso dal divieto di cui all’art. 57
comma 1 lettera a).
18 Per quanto detto supra in nota 8.
19 Profilandosi in tal caso una possibile lesione degli artt. 24, 111 e 113 cost.
20 Così F. Randazzo, Le problematiche di giurisdizione nei casi di riscossione
tributaria non preceduta da avviso di mora, in Riv. dir. trib., 2003, II, p. 923,
il quale osserva che il pignoramento è l’occasione per l’impugnazione dell’atto
processuale rilevante che esso presuppone.
21In questa prospettiva ermeneutica non va trascurato l’istituto della rimessione
in termini che, nell’attuale configurazione prevista dal secondo com‑
ma dell’art.153 c.p.c., è pacificamente applicabile anche al processo tributario
in forza del generale rinvio di cui all’art.1, comma 2o, d.lgs. n. 546 del 1992.
Sull’applicabilità di tale principio anche al termine di impugnazione del prov‑
vedimento amministrativo, in quanto termine processuale, vedi F. Randazzo,
Ricorso tributario tardivo e rimessione in termini dopo la riforma dell’art.153
c.p.c. in Riv. dir. trib. 2011, I, p. 219 nonché F. Tesauro, Riflessi sul processo
tributario delle recenti modifiche del codice di procedura civile, in Rass. Trib.,
2010, p. 966. Sotto altro profilo è stata ipotizzata la proponibilità di un ricor‑
so “al buio” con il quale il contribuente si limiti ad impugnare l’avviso di ac‑
certamento, per quanto risultante dal pignoramento, deducendo la nullità o
l’inesistenza della notifica e riservandosi la possibilità di avvalersi della facoltà
prevista dall’ultimo comma dell’art.19 nel caso in cui l’ufficio produca in giu‑
dizio l’atto presupposto. Così C. Glendi op. loc. ult. cit., p. 503, nota 48. Per
vero, in tale ipotesi non dovrebbe ritenersi preclusa al contribuente neppure la
facoltà di contestare il merito della pretesa fiscale, attraverso l’istituto della
integrazione dei motivi di ricorso, disciplinato dall’art. 24, comma 2o, d.lgs.
n. 546 del 1992.
t r i b u ta r i o
Gazzetta
F O R E N S E
Tale innovazione va accolta positivamente, nella misura in
cui offre al contribuente un’ulteriore possibilità di accesso alla
giurisdizione tributaria, tenuto conto che dal momento della
ricezione della raccomandata potrà farsi decorrere il termine di
sessanta giorni per adire la commissione tributaria provinciale
ex art.19 ult. comma d.lgs. 546.22
Analoghe considerazioni valgono per l’ipotesi in cui il vizio
astrattamente deducibile riguardi uno dei cd. atti impoesattivi
“secondari”, ossia gli atti successivi all’avviso di accertamento,
con i quali l’ufficio provvede alla riliquidazione delle somme
dovute (ad es. nel caso di riscossione frazionata ex art. 68 d.lgs.
546). Anche in tale ipotesi il contribuente potrebbe far valere il
vizio rappresentato dalla mancata (o invalida) notificazione di
tali atti con le stesse modalità già esaminate a proposito dell’av‑
viso di accertamento esecutivo23.
Qualora, invece, il contribuente intenda far valere un vizio
proprio del pignoramento o dei successivi atti esecutivi, torne‑
rebbero applicabili i rimedi del codice di rito, ma con le rigide
limitazioni di cui agli art. 57 e 58 d.p.r. 602, sicché riemergereb‑
be quel deficit di tutela giurisdizionale richiamato in premessa.
3. Ipotesi particolari e spunti ricostruttivi
Bisogna, a questo punto, dare conto di talune situazioni
specifiche che mettono ulteriormente in luce l’inadeguatezza
dell’assetto normativo vigente e la necessità di ricercare nuovi
approdi interpretativi.
1) Si consideri, ad esempio, l’ipotesi di un accertamento
esecutivo validamente notificato, ma privo di un requisito es‑
senziale ai fini della sua legittimità di titolo esecutivo (ad es.
carente dell’intimazione ad adempiere nei sessanta giorni dalla
notifica). Si tratta di capire se la mancanza di un simile requisi‑
to incida sulla funzionalità dell’atto impositivo o solo sulla
idoneità del medesimo a legittimare l’esecuzione forzata.
Si potrebbe osservare che, trattandosi di vizio che rende
l’atto inidoneo a legittimare l’esecuzione forzata, sino a quando
quest’ultima non venga intrapresa, il destinatario dell’avviso non
può subire alcun pregiudizio, di guisa che un’eventuale impu‑
gnazione immediata potrebbe essere dichiarata inammissibile
per carenza di interesse ad agire (art. 100 c.p.c.).
In realtà le cose non stanno così, per almeno due ragioni.
In primo luogo, si può concordare con quella dottrina che,
muovendo dalla natura complessa del nuovo avviso di accerta‑
mento – che assolve cioè la triplice funzione di atto impositivo,
titolo esecutivo e precetto – pone l’accento sul carattere unitario
ed inscindibile del provvedimento, il quale deve nascere comple‑
to di tutti i suoi elementi costitutivi, a pena di illegittimità24.
22I recenti arresti della giurisprudenza di legittimità, inclini ad ammettere un ac‑
cesso alla giurisdizione tributaria non più condizionato dall’elenco di atti
contenuto nell’art.19 d.lgs. 546, inducono a ritenere superato il problema
della individuazione dell’oggetto specifico dell’impugnazione. Peraltro, anche
senza arrivare ad ipotizzare un’autonoma impugnabilità di tale atto (non tanto
perché non ricompreso nell’elenco dell’art.19, quanto per la sua valenza pura‑
mente informativa e non provvedimentale), sembra ragionevole ammettere
anche in tale ipotesi l’applicazione del rimedio della rimessione in termini del
contribuente per l’impugnativa dell’atto presupposto non notificato.
23Sulla impugnabilità autonoma di questi atti non sussistono dubbi, atteso che
essi esprimono una pretesa definita, conformemente all’indirizzo corrente della
S. C.: cfr. tra le tante Cass. SS. UU. 10 agosto 2005, n. 16776, in Fisco, 2005,
p. 5862; Cass. SS. UU. 24 luglio 2007 n. 16293, in Fisco 2007, p. 6427.
24 Così C. Glendi, op. loc. ult. cit., 484 in nota 6, il quale osserva che le tre
funzioni sono così intimamente connesse da risultare pressoché inscindibili, di
guisa che un avviso di accertamento esecutivo che difetti della intimazione ad
F O R E N S E
l u g l i o • a g o s t o
Vi è poi una seconda considerazione da fare, che attiene ai
riflessi di tale impostazione sul diritto di difesa del contribuen‑
te: se quest’ultimo dovesse rinunziare a dedurre in prima battu‑
ta e cioè in sede di impugnazione dell’avviso di accertamento,
gli eventuali vizi concernenti le funzioni di titolo esecutivo e
precetto, riservandosi di denunciarli nella successiva fase esecu‑
tiva, correrebbe seriamente il rischio di trovarsi la strada sbar‑
rata dalle preclusioni di cui all’art. 57, comma 1o, lett. b) d.p.r.
n. 602 del 197325.
Per tali ragioni a me pare che la soluzione più equilibrata,
anche costituzionalmente, sia quella che cerca di salvaguardare
il diritto di difesa, consentendo l’impugnativa dell’avviso di
accertamento anche per ragioni che attengono alla regolarità
formale del titolo esecutivo o del precetto, in considerazione del
fatto che l’atto non è conforme al modello legale, ossia al mo‑
dello tipizzato nell’art. 29 d.l. n. 78 del 2010. Diversamente
opinando, è lecito dubitare della tenuta costituzionale del vigen‑
te assetto normativo.
2) Occorre poi considerare l’ipotesi in cui il vizio attenga
specificamente al pignoramento come può accadere, ad es., nel
caso in cui l’azione esecutiva sia stata avviata prima del decorso
del termine di trenta giorni fissato dalla legge per l’affidamento
dell’avviso all’agente della riscossione26. In tale ipotesi l’impro‑
cedibilità dell’esecuzione non potrebbe che essere dedotta con il
rimedio dell’opposizione all’esecuzione, il quale però, de lege
lata, è precluso dall’art. 5727.
In tal caso il deficit di tutela giurisdizionale è palese, difet‑
tando de jure condito un rimedio giurisdizionale nei confronti
di un atto che pure è immediatamente lesivo degli interessi del
contribuente sottoposto ad esecuzione28.
3) In dottrina è stato anche osservato che la nuova discipli‑
na non reca alcuna previsione specifica in ordine al tema della
riscossione nei confronti degli eventuali coobbligati, dal che
potrebbe discendere l’applicabilità dell’art. 25 d.p.r. n. 602 del
1973 che permette all’agente della riscossione di notificare al
coobbligato la cartella formata in base al ruolo intestato al de‑
adempiere, non solo non vale come titolo esecutivo o precetto, ma non vale
neppure come atto di imposizione, senza che si possa immaginare l’utilizzo
alternativo di una iscrizione a ruolo, oggi non più normativamente prevista.
25In questa prospettiva va sicuramente rimeditata l’impostazione seguita da
Cass. SS. UU. 6 novembre 2002 n. 15563, che rischia di compromettere ogni
possibile ipotesi di tutela dell’interesse del contribuente raggiunto dall’atto
impoesattivo. A questa conclusione perveniva a suo tempo F. RANDAZZO in
Le problematiche di giurisdizione, op. loc. cit., p. 918.
26 Poiché tale affidamento ai sensi dell’art.29 comma 1 lett. b) può avvenire solo
dopo che è decorso questo ulteriore termine, vuol dire che prima di ciò l’azione
esecutiva è improcedibile. Dubito invece che analoga conseguenza si produca
in ipotesi di mancata spedizione della raccomandata prescritta dal novellato
primo comma dell’art.29, trattandosi di un adempimento dalla cui omissione
la legge non fa derivare particolari conseguenze e che, pertanto, dovrebbe ri‑
flettersi solo sulla esigibilità degli interessi di mora e delle spese successive.
27Si pensi anche all’eventualità che l’esecuzione venga intrapresa dopo che è de‑
corso il termine di tre anni dal momento in cui l’accertamento è divenuto defi‑
nitivo (art.29 comma 1o, lett. e) come novellato dall’art.8 comma 12o d.l. n. 16
del 2012). Trattandosi di un termine prescritto a pena di decadenza, il suo de‑
corso dovrebbe determinare l’inesistenza del diritto a procedere ad esecuzione
e quindi un vizio del pignoramento astrattamente deducibile con il rimedio
dell’opposizione all’esecuzione (preclusa tuttavia dall’art.57).
28Non essendo esperibile la tutela cautelare di cui all’art.47 d.lgs. n. 546 del 1992
(per carenza di giurisdizione delle commissioni tributarie), l’unico rimedio
ipotizzabile sarebbe quello della sospensione di cui all’art. 60 d.p.r. 602 del
1973, la quale tuttavia presuppone l’ammissibilità dell’opposizione ex art. 57
e 58 (in aggiunta ai due requisiti previsti dalla norma stessa e cioè la sussisten‑
za di gravi motivi e di un fondato pericolo di danno grave ed irreparabile). In
tal caso la lesione degli artt. 24 e 113 Cost. appare evidente.
2 0 1 2
127
bitore principale29. Francamente non credo che tale interpreta‑
zione possa essere ragionevolmente sostenuta, se non altro
perché essa provocherebbe un’inaccettabile reviviscenza del
fenomeno della “supersolidarietà tributaria”30.
Non deve, infatti, sfuggire che l’avviso di accertamento
esecutivo non è solo titolo esecutivo e precetto, ma è anche, e
soprattutto, atto di imposizione, di guisa che la disciplina detta‑
ta con riferimento al ruolo è senz’altro recessiva rispetto a quel‑
la scolpita in tema di accertamento dal Giudice delle Leggi.
4. Conclusioni
In conclusione, mi pare che i tempi siano maturi per rime‑
ditare l’intero assetto delle tutele giurisdizionali avverso gli atti
dell’esecuzione esattoriale.
Due sono le strade: o si interviene legislativamente sugli
artt.57 e 58 d.p.r. n. 602 del 1973 ammettendo l’esistenza di
una giurisdizione ordinaria concorrente con quella tributaria,
ancorché limitata alle sole ipotesi di tutela contro gli atti esecu‑
tivi, ma comunque idonea ad assicurare ex artt. 24 e 113 cost.
una protezione piena ed effettiva degli interessi dei contribuen‑
ti esecutati, oppure – ed è questa la soluzione a mio avviso
preferibile sul piano sistematico – si modifica il testo degli artt. 2
e 19 del decreto n. 546 del 1992, facendo sì che tra gli atti au‑
tonomamente impugnabili dinanzi al giudice tributario siano
inclusi anche gli atti dell’esecuzione forzata tributaria31.
In alternativa a queste due soluzioni, entrambe de jure con‑
dendo, è senz’altro auspicabile un intervento della Consulta, cui
si chiede semplicemente di essere un po’ più coraggiosa nel sal‑
vaguardare i diritti dei contribuenti; quanto meno di esibire lo
stesso zelo manifestato in epoca recente allorquando si è tratta‑
to di proteggere l’interesse del Fisco (si pensi alle recenti pronun‑
zie in tema di Irap o di proroga dei termini di accertamento).
29 Accenna a tale possibilità, sia pure in forma dubitativa, A. Carinci, op. loc.
ult. cit., p. 178, osservando che l’avere subordinato l’efficacia esecutiva dell’ac‑
certamento alla sua notifica farebbe pensare che tale efficacia debba essere
circoscritta al destinatario della notificazione medesima (ed eventualmente agli
eredi ex art.477 c.p.c.).
30 Ci si riferisce al principio per cui l’avviso di accertamento, sebbene notificato ad
uno dei coobbligati, esplica la sua efficacia anche nei confronti degli altri. Que‑
sta concezione, già osteggiata dalla prevalente dottrina tributaristica, ebbe fine
con la storica sentenza della Corte Cost. 16 maggio 1968 n. 48, pubblicata in
Foro it., 1968, I, p.1968, che dichiarò, in chiave interpretativa, l’incostituziona‑
lità della norma (supposta) “per la quale dalla contestazione dell’accertamento
di maggiore imponibile nei confronti di uno solo dei coobbligati, decorrono i
termini per l’impugnazione giurisdizionale anche nei confronti degli altri”.
31In realtà basterebbe eliminare la previsione dell’ultima parte del primo com‑
ma dell’art. 2, se è vero che la più recente giurisprudenza di legittimità è incline
ad ammettere la ricorribilità dinanzi al giudice tributario di ogni atto idoneo
ad esprimere una ben individuata pretesa, senza necessità di attendere che essa
si vesta della forma autoritativa di uno dei provvedimenti di cui all’art.19.
Così tra le ultime Cass. SS. UU. 10 agosto 2005 n. 16776, Cass. sez. trib., 6
luglio 2010 n. 15946 (ord.); Cass. sez. trib., 15 giugno 2010 n. 14373. Proprio
sulla scorta di tale orientamento, da più parti si è affermato che l’elenco degli
atti di cui all’art.19 non sarebbe più una condizione di accesso alla giustizia
tributaria. In tal senso, anche se in termini critici vero il nuovo indirizzo esege‑
tico, S. Muscarà La giurisdizione (quasi) esclusiva delle Commissioni Tribu‑
tarie nella ricostruzione sistematica delle SS. UU. della Cassazione, in Riv. dir.
trib., 2006, II, p. 39, nonché A. Carinci, Dall’interpretazione estensiva dell’elen‑
co degli atti impugnabili al suo abbandono: le glissment progressif della Cassa‑
zione verso l’accertamento negativo nel processo tributario, in Riv. dir. trib.,
2010, II, p. 617, il quale osserva che il superamento del carattere tassativo
dell’elenco di cui all’art.19 determina, quale inevitabile corollario, l’abbandono
dello stesso modello processuale di impugnazione‑merito.
tributario
Gazzetta
Diritto internazionale
[ A cura di Francesco Romanelli ]
Rassegna di diritto comunitario A cura di Francesco Romanelli
131
F O R E N S E
●
Rassegna di diritto
comunitario
●
A cura di Francesco Romanelli
Avvocato e Specialista
di diritto ed economia delle Comunità europee
l u g l i o • a g o s t o
2 0 1 2
131
Codice doganale comunitario – Regolamento (CEE) n. 2913/92 –
Articolo 204, paragrafo 1, lettera a) – Regime del perfezionamen‑
to attivo – Sistema della sospensione – Nascita di un’obbligazione
doganale – Inadempienza dell’obbligo di presentazione del conto
di appuramento entro il termine prescritto
L’articolo 204, paragrafo 1, lettera a), del regolamento
(CEE) n. 2913/92 del Consiglio, del 12 ottobre 1992, che
istituisce un codice doganale comunitario, come modificato
dal regolamento (CE) n. 648/2005 del Parlamento europeo e
del Consiglio, del 13 aprile 2005, deve essere interpretato nel
senso che la violazione dell’obbligo di presentare il conto di
appuramento all’ufficio di controllo entro 30 giorni dalla
scadenza del termine per l’appuramento, previsto dall’artico‑
lo 521, paragrafo 1, primo comma, primo trattino, del rego‑
lamento (CEE) n. 2454/93 della Commissione, del 2 luglio
1993, che fissa talune disposizioni d’applicazione del regola‑
mento n. 2913/92, come modificato dal regolamento (CE)
n. 214/2007 della Commissione, del 28 febbraio 2007, com‑
porta il sorgere di un’obbligazione doganale per il complesso
delle merci di importazione da appurare, ivi comprese quelle
riesportate al di fuori del territorio dell’Unione europea,
qualora le condizioni di cui all’articolo 859, punto 9, del
suddetto regolamento n. 2454/93 siano considerate non sod‑
disfatte.
C.G.U.E., sez. III, 06.09.2012, Causa C262/10
La ricorrente principale ha importato concentrati di succo
di frutta che ha trasformato nell’ambito del regime del perfe‑
zionamento attivo nella forma del sistema della sospensione,
come le era consentito dall’autorizzazione a tal fine concessa‑
le. Conformemente a tale autorizzazione, il termine per l’ap‑
puramento di tale regime scadeva il quarto trimestre civile
successivo al vincolo delle merci non comunitarie al suddetto
regime, consentendole di immettere in libera pratica, senza
dichiarazione doganale, merci tal quali o prodotti compensa‑
tori. Sebbene il conto di appuramento dovesse essere presen‑
tato nei 30 giorni successivi all’appuramento del regime doga‑
nale, la Ricorrente principale omise di farlo ignorando la
diffida dello Hauptzollamt che reclamava tale conto entro un
termine fissato. In assenza di detto conto di appuramento, lo
Hauptzollamt contabilizzò i dazi all’importazione sul comples‑
so delle merci importate per le quali il termine per l’appura‑
mento era scaduto, fino a concorrenza del loro valore totale.
Successivamente alla scadenza del termine fissato nella diffida
dell’ufficio, la Ricorrente principale ha presentò il suo conto
di appuramento relativo alle merci oggetto del procedimento
principale, da cui risultava un importo di dazi all’importazio‑
ne, corrispondente ad un quantitativo di merci di importazio‑
ne non esportate entro i termini impartiti, inferiore rispetto a
quello preso in considerazione dallo Hauptzollamt. La Ricor‑
rente principale ha contestato la differenza tra l’importo dei
dazi all’importazione contabilizzato dallo Hauptzollamt e
quello risultante dal proprio conto di appuramento e, in segui‑
to al rigetto del suo reclamo, ha presentato ricorso dinanzi al
Finanzgericht Hamburg (Sezione tributaria del Tribunale di
Amburgo) al fine di ottenere lo sgravio dei dazi che riteneva
di non essere tenuta a pagare. Il Tribunale Federale Tributario
cui è stata sottoposta le controversia ha ritenuto dover effet‑
tuare un rinvio pregiudiziale alla CGUE per chiarire se l’arti‑
colo 204, paragrafo 1, lettera a), del codice doganale debba
essere interpretato nel senso che si applica anche al mancato
internazionale
Gazzetta
132
D i r i t t o
I n t e r n a z i o n a l e
assolvimento di quegli obblighi da adempiere solo successiva‑
mente all’appuramento del relativo regime doganale utilizza‑
to, cosicché il mancato assolvimento dell’obbligo di presenta‑
re il conto di appuramento all’ufficio doganale di controllo
entro 30 giorni dalla scadenza del termine stabilito per l’ap‑
puramento, in caso di merci di importazione che, nel quadro
di un regime di perfezionamento attivo nella forma del sistema
della sospensione, vengano in parte riesportate nel termine
stabilito, faccia sorgere un’obbligazione doganale per l’intero
quantitativo delle merci di importazione da appurare, laddo‑
ve non sussistano le condizioni di cui all’articolo 859, punto
9, del regolamento di esecuzione.
Convenzione europea dei diritti dell’Uomo – Violazione dell’art.
8 – Diritto al rispetto della vita privata e familiare – Danno mora‑
le – Indennizzo – Procreazione medicalmente assistita – L.
40/2004 – Divieto di diagnosi pre-impianto dell’embrione – Pro‑
porzionalità - esclusione»
Il divieto di diagnosi pre-impianto di cui alla legge italia‑
na n.40/2004 in materia di procreazione medicalmente assi‑
stita vìola il diritto al rispetto della vita privata e familiare
per inosservanza del principio di proporzionalità
C.E.D.U., sez. II, 28.08., 2012, Proc. n. 54270/10
La Corte europea ha dichiarato che il divieto di sottopor‑
re a diagnosi l’embrione di una coppia portatrice sana di fi‑
brosi cistica che aveva già dato alla luce un altro bambino
affetto da tale patologia costituisca una violazione del diritto
alla non interferenza dello Stato nella vita privata e familiare
dei cittadini. La Corte è arrivata a tale conclusione osservan‑
do l’evidente contraddizione dell’ordinamento italiano che
vieta in sede di inseminazione artificiale la diagnosi pre-im‑
pianto ma consente l’interruzione volontaria di gravidanza
nell’ipotesi in cui il feto sia affetto da gravi patologie eviden‑
ziabili prima dell’impianto dell’ovulo fecondato.
Il Governo italiano ha annunciato l’impugnazione della
sentenza in esame.
Libera prestazione dei servizi – Normativa tributaria – Deduzione
a titolo di spese professionali dei compensi corrisposti per retri‑
buire prestazioni di servizi – Compensi corrisposti ad un presta‑
tore di servizi stabilito in un altro Stato membro in cui non è as‑
soggettato all’imposta sui redditi o vi è assoggettato ad un regime
impositivo notevolmente più vantaggioso – Deducibilità subor‑
dinata all’obbligo di fornire la prova del carattere effettivo e ve‑
ritiero della prestazione nonché del carattere normale del corri‑
spettivo ad essa attinente – Ostacolo – Giustificazione – Lotta
Gazzetta
F O R E N S E
alla frode e all’evasione fiscale – Efficacia dei controlli fiscali –
Ripartizione equilibrata del potere impositivo tra gli Stati membri
– Proporzionalità
L’articolo 49 CE deve essere interpretato nel senso che
esso osta ad una normativa di uno Stato membro in forza
della quale i corrispettivi per prestazioni o servizi, versati da
un contribuente residente ad una società non residente, non
sono considerati spese professionali deducibili qualora
quest’ultima non sia assoggettata, nello Stato membro in cui
è stabilita, ad un’imposta sui redditi o vi sia assoggettata, per
i redditi in questione, ad un regime impositivo notevolmente
più vantaggioso di quello in cui rientrano tali redditi nel
primo Stato membro, a meno che il contribuente non dimo‑
stri che tali corrispettivi si riferiscono ad operazioni effettive
e veritiere e che essi non superano i limiti normali, mentre,
secondo la regola generale, siffatti corrispettivi sono deduci‑
bili a titolo di spese professionali allorché sono necessari per
realizzare o conservare i redditi imponibili ed il contribuente
ne dimostra l’effettività e l’importo.
C.G.U.E., sez. I, 05 luglio 2012, Causa C318/10
Una società di diritto belga, ricorrente nel procedimento
principale, costituì, in comune con un gruppo nigeriano, una
controllata per la coltivazione di palmeti, ai fini della produ‑
zione di olio di palma. Gli accordi tra le parti prevedevano,
da un lato, che la ricorrente avrebbe fornito servizi retribuiti
e venduto attrezzature alla controllata comune e, dall’altro,
che avrebbe corrisposto una parte degli utili realizzati da
quest’ultima, a titolo di commissioni di assistenza commer‑
ciale, alla capofila del gruppo nigeriano. Cessata la joint
venture, le parti si accordarono per il pagamento della somma
di USD 2 000 000 a titolo di liquidazione. Di conseguenza,
la ricorrente aveva iscritto come onere, nei suoi bilanci, un
importo pari a BEF 28 402 251 per il pagamento delle com‑
missioni dovute all’altra contraente. Atteso che la quest’ultima
godeva dello status di società holding, disciplinata dal diritto
lussemburghese del 31 luglio 1929 sul regime fiscale delle
società di partecipazioni finanziarie, e che essa non era dun‑
que assoggettata ad un’imposta analoga all’imposta belga
sulle società, l’amministrazione tributaria belga (in prosieguo:
l’«amministrazione tributaria»), in applicazione dell’articolo
54 del CIR 1992, ha respinto la deduzione della somma di
BEF 28 402 251 a titolo di spese professionali. La Corte di
Cassazione belga cui era finalmente giunta la cognizione
della controversia ha quindi proposto rinvio pregiudiziale
alla CGUE.
Questioni
Può la pubblica Amministrazione rifiutarsi di adempiere un contratto di appalto
nel caso in cui l'impresa aggiudicatrice, pur avendo eseguito
regolarmente la propria prestazione, versi in una condizione di irregolarità
ai fini del D.U.R.C.? / Elisa Asprone
135
Se ed entro che limiti si configura il reato di abuso d’ufficio ex art. 323 c.p. con riguardo all’attività discrezionale della Pubblica Amministrazione / Anna Sofia Sellitto 138
La tutela cautelare nel giudizio amministrativo alla luce delle novità
contenute nel codice del processo amministrativo:
ai fini della rapida definizione della controversia nel merito
è ammessa la tutela cautelare, oppure l’applicazione dell’art. 55
comma 10 del c.p.a. rappresenta un’alternativa rispetto
alla concessione dell’istanza cautelare? / Maria Teresa Della Vittoria Scarpati 141
questioni
[ A cura di Mariano Valente / Procuratore dello Stato ]
F O R E N S E
●
DIRITTO CIVILE Può la pubblica
Amministrazione rifiutarsi
di adempiere un contratto
di appalto nel caso in cui
l'impresa aggiudicatrice, pur
avendo eseguito regolarmente
la propria prestazione, versi in
una condizione di irregolarità
ai fini del D.U.R.C.?
● Elisa Asprone
Dottore in Giurisprudenza
La questione prende spunto dalla
sentenza n. 1167 del 28.5.2012, emessa
dall'Ufficio del Giudice di Pace di Bene‑
vento, in persona della Dott.ssa Anto‑
nella Pulcino, e offre l'opportunità di
affrontare l'interessante tematica ine‑
rente il Documento unico di regolarità
contributiva (c.d. D.U.R.C.), sopratutto
con riguardo agli effetti che un'eventua‑
le sua irregolarità riverbera sul piano
funzionale del rapporto contrattuale
instauratosi tra P.a. e privato.
Detta pronuncia, nella sua portata
innovativa, giunge ad affermare che la
sopravvenuta assenza o irregolarità del
D.U.R.C. incide sul sinallagma del rap‑
porto obbligatorio, in modo da giustifi‑
care l'esperibilità dell'exceptio inadem‑
plenti contractus ex art.1460 c.c.
Occorre, preliminarmente, soffer‑
marsi sulla natura del documento unico
di regolarità contributiva e sulle norme
che ne tratteggiano la struttura.
Com'è noto, la disciplina del certifi‑
cato di regolarità contributiva – che
attesta l'assolvimento da parte delle
imprese degli obblighi legislativi e con‑
trattuali nei confronti di Inps, Inail e
Casse edili – rinviene la sua fonte negli
artt. 2 del D.L. 25 settembre 2002,
n. 210, come modificato dalla legge di
conversione 22 novembre 2002, n. 266
e 86 comma 10 D.lgs. 10 settembre
2003, n. 276.
Tali norme demandano agli istituti
di previdenza – le cui certificazioni si
impongono alle stazioni appaltanti – la
verifica della regolarità contributiva
delle imprese partecipanti alle procedu‑
l u g l i o • a g o s t o
2 0 1 2
re di gara per l'aggiudicazione di appal‑
ti con la pubblica amministrazione.
Data l'inderogabilità della disciplina
de qua, nel caso in cui la lex specialis di
un appalto pubblico non preveda l'obbli‑
go per l'impresa aggiudicataria di presen‑
tare alla stazione appaltante la certifica‑
zione relativa alla regolarità contributiva,
la medesima deve ritenersi integrata, di
diritto, dalla prescrizione di tale obbligo
ex art. 2 D.L. 210 del 2002.
In materia di gare, dunque, l'impre‑
sa che si rende aggiudicataria di un
appalto deve non solo essere in regola
con gli obblighi previdenziali ed assi‑
stenziali gravanti sulla medesima fin dal
momento della presentazione della do‑
manda, ma deve conservarli, altresì, per
tutto lo svolgimento del rapporto con‑
trattuale.
L'art. 1, comma 1, del D.L. 25 set‑
tembre 2002 n. 210, convertito con
modificazioni in L. 22 novembre 2002,
n. 266, ha provveduto a sanzionare con
lo strumento della revoca dell'affida‑
mento la mancata presentazione di tale
documento alla stazione appaltante.
Di conseguenza, in giurisprudenza
si è sostenuto che l'eventuale accerta‑
mento di una pendenza di carattere
previdenziale e assistenziale in capo
all'impresa, pur dichiarata aggiudicata‑
ria dell'appalto, prodottosi anche in
epoca successiva alla scadenza del ter‑
mine per partecipare al procedimento
di scelta del contraente implica, a secon‑
da dei casi, l'impossibilità per l'ammi‑
nistrazione appaltante di stipulare il
contratto con l'impresa medesima, ov‑
vero la risoluzione dello stesso (ex mul‑
tis: Cons. St., Sez. IV, 12 marzo 2009,
n. 1458, pres. Vacirca – Est. De Felice
con commento di Francesco Bertini in
Urbanistica e Appalti 2009, n. 10 pag.
.
1214‑1223)
Opportuno è ancora rilevare la con‑
siderazione, ispirata da una logica di
economia dei mezzi giuridici, secondo
la quale si renderebbe doverosa l'esclu‑
sione dalla gara ogni qualvolta si evin‑
ca, a monte – in un momento cioè ante‑
cedente all'aggiudicazione ‑, che l'im‑
presa partecipante sia sprovvista del
Documento unico di regolarità contri‑
butiva, senza dover ravvisare la neces‑
sità, poi, a valle, di attivare lo strumen‑
to di autotutela previsto dalla norma.
L'art. 38, comma 1, lett. i) del Codi‑
ce dei contratti pubblici, nell'elencare i
requisiti soggettivi di ordine generale
135
per la partecipazione alle procedure di
affidamento delle concessioni e degli
appalti di lavori, servizi e forniture e per
la stipulazione dei relativi contratti,
provvede a comminare la sanzione
dell'esclusione nei confronti dei sogget‑
ti che “hanno commesso violazioni
gravi, definitivamente accertate, alle
norme in materia di contributi previ‑
denziali e assistenziali, secondo la legi‑
slazione italiana o dello stato in cui
sono stabiliti”.
A tal riguardo, si precisa che il re‑
cente intervento ad opera del decreto
sviluppo – D.L. n. 70 del 2011 – ha
comportato un'estensione del requisito
della gravità relativa alle violazioni
eventualmente commesse dal concor‑
rente alla gara, anche in ipotesi per le
quali, in precedenza, esso non era de‑
terminante ai fini della valutazione da
parte della stazione appaltante.
Il novellato comma 2 dell'art. 38
d.lgs. 163/2006, invero, stabilisce che si
intendono gravi le violazioni di cui alla
lett. i) che siano ostative al rilascio del
D.U.R.C., di cui al comma 2 dell'art.2,
L. 266 del 2002.
Il riferimento operato alla L. 266
non può prescindere dalle previsioni di
cui agli artt. 8 e 9 del Decreto del Mi‑
nistro del lavoro e della previdenza so‑
ciale 24 ottobre 2007, che elencano le
cause non ostative al rilascio del
D.U.R.C. regolare da parte degli enti
preposti.
Tale previsione interviene a dirime‑
re solo formalmente un contrasto inter‑
pretativo in ordine all'attività valutativa
della stazione appaltante riguardo alla
gravità delle violazioni in tema di con‑
tributi previdenziali e assistenziali.
Sulla base delle norme richiamate,
infatti, sembra potersi ritenere che l'at‑
tività valutativa delle stazioni appaltan‑
ti sia esercitata, prioritariamente, dagli
istituti a ciò deputati (Inail, Inps, Casse
edili). Tali enti sono tenuti ad accertare
se sussistono violazioni in ordine alla
regolarità contributiva dell'impresa e
dunque se si ravvisano i presupposti per
il rilascio del D.U.R.C..
Qualora, invece, venga in tale sede
riscontrata una irregolarità che giusti‑
fichi un diniego alla richiesta del
DU.R.C. effettuata dalle S. A., giusta la
presenza di gravi violazioni, quest'ulti‑
ma dovrebbe, per ciò solo, prenderne
atto e adottare i provvedimenti di esclu‑
sione dalla gara.
questioni
Gazzetta
136
Come si è detto, il richiamato con‑
trasto interpretativo appare solo for‑
malmente sopito dal recente intervento
legislativo, attesa la permanenza di ar‑
resti giurisprudenziali del tutto antite‑
tici in materia.
A fronte, infatti, di un orientamento
che propugna un'applicazione automa‑
tica di detti parametri, in forza della
quale l'esclusione dalla gara si giustifica
sulla base di una violazione contributi‑
va che superi i limiti di scostamento
(5% – 100 euro)(cfr. Cons.St. Sez V, 4
aprile 2011, n. 2100; Cons. St. Sez. IV,
12 marzo 2009, n. 1458; a sostegno del
filone formalistico si vedano anche:
Cons. St. sez V, 23 ottobre 2007,
n. 5575; Cons. St. Sez. V, 23 gennaio
2008, n. 147; T.A.R. Toscana 2 febbra‑
io 2009, n. 109; T.A.R. Trentino Alto
Adige, Trento, 21 gennaio 2008, n. 8;
T.A.R. Lazio, Roma, 12 febbraio 2009,
n. 1551), si contrappone il filone sostan‑
zialistico, minoritario, secondo il quale
i parametri che determinano l'irregola‑
rità contributiva non sono da conside‑
rarsi inderogabili, atteso che “la previ‑
sione di un'entità minima del debito
previdenziale, al di sotto del quale non
c'è irregolarità contributiva, ha lo sco‑
po di semplificare il procedimento di
rilascio del D.U.R.C., ma non esclude
che, se venga superato il limite anzidet‑
to, non debba la S. A. verificare la
(
gravità o meno del debito”. Cfr. Cons.
St. Sez. IV, 24 febbraio 2011, n. 2100;
a sostegno del filone sostanzialistico si
vedano anche: Cons.St. Sez. V, 11 mag‑
gio 2009, 2874, con commento di
Francesco Bertini in Urbanistica e Ap‑
palti 2009, n. 10 pag.
1214‑1223;
T. A .R . Veneto 26 maggio 20 0 9,
n. 1601; T.A.R. Emilia Romagna, Bo‑
logna, 19 giugno 2008, n. 716,
in
Foro Amm. CdS, 2008, 2, 565, la sen‑
tenza del T.A.R. Calabria, Reggio
Calabria 22 ottobre 2008, n. 537, in
ForoAmm T.A.R. 2008, 10, 2884 ed il
parere dell'Autorità di Vigilanza 8 no‑
vembre 2007, n. 102).
Occorre, a tal punto, soffermarsi ad
evidenziare il vero elemento di novità
della sentenza che qui si commenta,
rappresentato dalla possibilità, ricono‑
sciuta alla stazione appaltante, a fronte
della riscontrata irregolarità del
D.U.R.C. dell'impresa aggiudicataria,
di rifiutarsi di adempiere la propria
prestazione (il pagamento del prezzo),
servendosi dello strumento fornito
q u e s t i o n i
dall'art. 1460 c. c., giusta la qualifica‑
zione della posizione contributiva irre‑
golare dell'impresa parte del contratto
come un vero e proprio inadempimen‑
to.
Vale a ciò dar conto dell'indirizzo
della giurisprudenza, secondo il quale
“L'impresa che partecipa ad una gara
pubblica deve essere in regola con gli
obblighi previdenziali ed assistenziali
sulla stessa gravanti sin dal momento
della presentazione della domanda e
conservare la correttezza contributiva
per tutto lo svolgimento del rapporto
contrattuale: ne consegue che l'even‑
tuale accertamento di una pendenza di
carattere previdenziale o assistenziale
in capo all'impresa nel corso dell'esecu‑
zione del contratto ne determina la ri‑
soluzione.” Si sostiene, ancora, che “un
eventuale adempimento tardivo dell'ob‑
bligazione contributiva, quand'anche
ricondotto retroattivamente, quanto ad
efficacia, al momento della scadenza
del termine di pagamento gioverebbe
soltanto nell'ambito delle reciproche
relazioni di credito e di debito tra i
soggetti del rapporto obbligatorio”(Ex
multis, Cons. St. Sez. IV, 30 gennaio
2006, n. 288; T.A.R. Venezia Sez. I, 17
maggio 2007, n. 1507).
Sulla base di ciò, la sentenza che qui
si commenta ha rinvenuto nella posizio‑
ne dell'impresa sprovvista di un valido
DURC un vero comportamento ina‑
dempiente, tale da giustificare l'attiva‑
zione del rimedio contrattuale ex
art. 1460 c.c.
Nei contratti a prestazioni corri‑
spettive, infatti, tale norma offre la
possibilità alla parte (tenuta ad adem‑
piere cronologicamente per seconda) di
rifiutare la propria prestazione, allor‑
quando l'altra parte non adempia o non
offra di adempiere la propria (inadem‑
plenti non est adimplimendum).
L'eccezione consente, dunque, una
sospensione dell'adempimento, con lo
scopo di prevenire il rischio di uno
squilibrio contrattuale provocato
dall'inadempimento altrui.
Ancorando la sua ratio nell'alveo
dell'autotutela contrattuale, l'eccezione
di inadempimento ha carattere autono‑
mo, costituendo un rimedio a protezio‑
ne dell'interesse del creditore a non
eseguire il contratto a fronte dell'ina‑
dempimento dell'altra parte, assicuran‑
do in tal modo l'equilibrio contrattuale
nella posizione delle parti nell'esecuzio‑
Gazzetta
F O R E N S E
ne del contratto (Gorla, 154…<<perico‑
lo di uno squilibrio fra due patrimoni.
È questo squilibrio che la legge vuol
prevenire concedendosi l'exceptio inad.
contractus>>).
La parte che si avvale di tale rime‑
dio, cioè, si pone in una situazione di
inadempimento, ma tale adempimento
risulta giustificato e tollerato dall'ordi‑
namento, in quanto imputabile al credi‑
tore (trova, al riguardo, applicazione il
principio che pone a carico del credito‑
re le conseguenze pregiudizievoli deri‑
vanti dal suo fatto (Bianca, Dell'ina‑
dempimento, 135)).
Il fondamento riposa, dunque, senza
alcun dubbio nell'equità.
Come autorevole dottrina ha evi‑
denziato, “l'eccezione è un rimedio che
assicura il mantenimento dell'equili‑
brio contrattuale, ma l'idea dell'equili‑
brio non si sovrappone a quella
dell'equità, bensì si combina con essa
per renderla <<à la fois plus précise et
plus large>>”(Cassin, 422).
Presupposti per la sua attivazione
sono: a) la corrispettività delle presta‑
zioni; b) l'inadempimento della contro‑
prestazione.
Orbene, al fine di descrivere ed
analizzare la possibilità, riconosciuta
nella sentenza in argomento, di offrire
alla stazione appaltante la facoltà di
rifiutarsi di adempiere la propria presta‑
zione (il pagamento del corrispettivo), a
fronte della posizione irregolare in ma‑
teria di contributi assistenziali e previ‑
denziali dell'impresa aggiudicataria (o
concessionaria), occorre procedere
nell'esercizio di verificare la possibilità
di rinvenire nella fattispecie de qua i
presupposti idonei ad attivare il mecca‑
nismo di autotutela in questione.
E' da precisare, preliminarmente,
che l'attivazione di meccanismi contrat‑
tuali propri del diritto comune nell'al‑
veo di una procedura di affidamento di
concessioni e di appalti è pacificamente
riconosciuta.
Si rinviene, invero, nella stipulazio‑
ne del contratto pubblico il punto di
contatto tra la disciplina pubblicistica e
privatistica, la prima lasciando il posto
alla seconda.
Sulla scia di tale impostazione, la
giurisprudenza ordinaria ed ammini‑
strativa, avallata anche dalla Consulta
(cfr. Corte Cost., 23.11.2007, n. 401),
sostiene che l’attività contrattuale della
pubblica amministrazione si sostanzi in
F O R E N S E
un unico procedimento complesso a
struttura bifasica, ove ad un momento
tipicamente procedimentale di evidenza
pubblica ne segue uno di carattere pret‑
tamente negoziale. In particolare, si
individua una prima fase, disciplinata
da norme pubblicistiche, finalizzata
alla selezione della controparte del‑
la pubblica amministrazione attraverso
una rigida serie di atti procedimentali,
che si conclude con il provvedimento di
aggiudicazione definitiva (c.d. “confine
estremo della fase pubblicistica”).
A questa prima fase ne segue una
seconda, retta interamente dal diritto
privato, che ha inizio con la stipulazio‑
ne del contratto tra la pubblica ammi‑
nistrazione e il privato aggiudicatario e
che prosegue, poi, con l’esecuzione del
rapporto negoziale.
Orbene, nell'applicazione dei sum‑
menzionati requisiti è lapalissiano con‑
statare la ricorrenza del primo. Il contrat‑
to inerente la stazione appaltante e l'im‑
presa si qualifica, senza alcun dubbio, a
prestazioni corrispettive, essendo la S. A.
tenuta, a fronte dell'esecuzione della
prestazione ad opera dell'impresa aggiu‑
dicatrice, al pagamento del prezzo.
In secondo luogo, occorre verificare
se la sopravvenuta assenza del D.U.R.C.
o la sua irregolarità possa atteggiarsi
alla stregua di un inadempimento.
Ebbene, allorquando si ravvisi tale
assenza o irregolarità nel momento
antecedente la stipulazione, la S. A. avrà
a disposizione il rimedio offerto
dall'art. 38 lett.i) del codice dei contrat‑
ti pubblici ovvero, allorquando la man‑
canza del D.U.R.C. sopravvenga – de‑
terminando di fatto un mutamento
della situazione originaria – l'attivazio‑
ne, expressis verbis, del rimedio di au‑
totutela amministrativa (revoca del
provvedimento).
E' da evidenziare, ancora, che, data
la natura dell'obbligo inderogabile di
correttezza contributiva e assistenziale
gravante sull'impresa aggiudicataria
per tutta la durata del rapporto contrat‑
tuale, è giocoforza ritenere che anche
tale obbligo costituisca oggetto dell'ob‑
bligazione, tale da giustificare, allor‑
quando venga meno, la qualificazione
della posizione dell'impresa alla stregua
di un vero e proprio inadempimento.
Detta tesi è supportata dal richia‑
mato indirizzo del supremo consesso di
giustizia amministrativa () allorquando
qualifica, in termini espliciti, la viola‑
l u g l i o • a g o s t o
2 0 1 2
zione della regolarità contributiva come
un inadempimento e legittima, altresì,
la stazione appaltante all'attivazione del
rimedio della risoluzione (ex multis,
Cons. St. Sez. IV, 30 gennaio 2006,
n. 288; T.A.R. Venezia Sez. I, 17 mag‑
gio 2007, n. 1507).
Appare, dunque, abbastanza chiaro
che se si stratta di un inadempimento
contrattuale possono giocoforza appli‑
carsi i rimedi previsti dal codice civile
di reazione a tale posizione inadem‑
piente.
Orbene, anche se si voglia prescin‑
dere dalla ricorrenza, appena dimostra‑
ta, dei presupposti che permettono
l'attivazione dell'eccezione di inadempi‑
mento in parola, milita a favore della
positiva esperibilità dell'art. 1460 c.c.
nella fattispecie descritta, anche un'al‑
tra argomentazione di carattere logi‑
co‑giuridico.
Partendo dal dato normativo del
secondo comma dell'art.1460 c.c., oc‑
corre sottolineare che il rimedio in pa‑
rola non può attivarsi allorquando il
rifiuto sia contrario alla buona fede.
Ebbene si è osservato che ulteriore
requisito per l'attivazione del rimedio in
argomento è rappresentato dalla gravità
dell'inadempimento (C. 21 agosto 1985,
n. 4461; in dottrina si veda Persico,
144; Dalmartello, Eccezione di ina‑
dempimento, 357; Galasso, 296; Pille‑
bout, 221).
A detta della Corte di Cassazione,
infatti, “Quando una delle parti giusti‑
fica il proprio inadempimento con
l'ade mpimento dell'altra ai sensi
dell'art. 1460 c.c., occorre procedere
alla valutazione comparativa del com‑
portamento dei contraenti con riferi‑
mento non solo all'elemento cronologi‑
co delle rispettive inadempienze, ma
altresì ai rapporti di causalità e propor‑
zionalità delle stesse rispetto alla fun‑
zione economico‑sociale del contratto
al fine di stabilire se effettivamente il
comportamento di una parte giustifichi
il rifiuto dell'altra di eseguire la presta‑
zione dovuta, tenendo presente il prin‑
cipio che quando l'inadempimento di
una parte non sia grave, il rifiuto dell'al‑
tra non è di buona fede e quindi non è
giustificato”(Cass. n. 699 del 2000).
Seguendo detta tesi, che ritiene im‑
prescindibile per l'attivazione dell'ecce‑
zione inademplenti non est ademplen‑
dum anche la sussistenza del requisito
della gravità, deve convenirsi per l'espe‑
137
ribilità di tale eccezione in caso di un
D.U.R.C. irregolare.
Come innanzi accennato, il recente
decreto sviluppo ha evidenziato che le
violazioni ostative al rilascio del docu‑
mento unico di regolarità contributiva
di cui al D.L. 210 del 2002, devono ri‑
tenersi gravi, al fine di giustificare
l'esclusione del soggetto aggiudicatore.
In tal modo, seguendo l'orientamen‑
to prevalente che sottrae ogni valutazio‑
ne discrezionale alla S. A. riguardo al
requisito della gravità – concependo
una sorta di automatismo di esclusione
alla riscontrata violazione contributiva,
ad opera degli enti di previdenza e assi‑
stenza, che superi i limiti di scostamen‑
to – se ne deduce che l'assenza o l'irre‑
golarità del D.U.R.C. è expressis verbis
considerata grave dal legislatore, con‑
sentendo, in tal modo, di rinvenire nel
requisito de quo quel presupposto di
“gravità” cui subordinare l'attivazione
dell'eccezione di inadempimento.
Anche però a voler seguire l'orienta‑
mento che ritiene irrilevante la gravità
dell'inadempimento al fine di procedere
all'esperibilità dell'exceptio in esame, si
perverrebbe al medesimo risultato:
quello, cioè, di considerarla attivabile a
fronte di un D.U.R.C. irregolare.
Tale tesi, invero, si fonda sulla con‑
siderazione che la buona fede di cui è
parola nel secondo comma dell'art. 1460
c.c. non equivarrebbe a gravità, ma si
ancorerebbe a diversi parametri: a)
l'eccessiva onerosità delle conseguenze
che l'eccezione comporterebbe per il
debitore; b) l'estinzione dell'obbligazio‑
ne dell'una o dell'altra parte; c) viola‑
zione di un diritto fondamentale della
persona (Bianca, La responsabilità,
pag. 349).
Orbene, il ritenere che l'inadempi‑
mento di cui è parola nell'art. 1460 c.c.
debba qualificarsi come grave non co‑
glierebbe, a detta di tale tesi, il pro‑
prium dell'eccezione de qua, la quale è
un rimedio provvisorio che non estin‑
gue il contratto, ma anzi ne lascia aper‑
to l'adempimento, consentendo all'ina‑
dempiente di regolarizzare la propria
posizione. Essa è pertanto il rimedio
appropriato con riguardo alle inesattez‑
ze di lieve entità in quanto salvaguarda
la parte non inadempiente mentre non
preclude all'altra di rendere la propria
prestazione conforme al dovuto.
“La gravità dell'inadempimento è
infatti un presupposto specificamente
questioni
Gazzetta
138
previsto dalla legge in tema di risolu‑
zione e trova ragione nella radicalità e
definitività di tale rimedio, mentre
l'eccezione di inadempimento non
estingue il contratto, ma ne sospende
l'esecuzione, permettendo al debitore
di eliminare un'inesattezza della presta‑
zione che, per quanto lieve, lo esporreb‑
be comunque al risarcimento del dan‑
no” ( Bia nca, L a res pon sabilit à ,
pag.347; Cassin, 360, 362).
Quand'anche quindi, seguendo det‑
to indirizzo, si ritenga non indispensa‑
bile il requisito della gravità al fine di
attivare l'exceptio inademplenti con‑
tractus, in riferimento all'irregolarità o
assenza del D.U.R.C. tale eccezione
dovrebbe ritenersi praticabile.
Ed invero, ricostruita in tal modo la
funzione e la natura dell'exceptio in
esame, deve ritenersi che la stessa costi‑
tuisca un quid minus rispetto al rimedio
della risoluzione, differenziandosi ri‑
spetto a quest'ultima, seguendo tale tesi,
per la intensità dell'inadempimento.
Orbene, volendo rappresentare la
questione in esame sulla base di figure
geometriche che facilmente aiutano la
mente nell'opera di comprensione, può
pensarsi a dei cerchi concentrici: allor‑
quando si ammetta, come nell'ipotesi di
assenza o irregolarità del D.U.R.C.,
l'esperibilità del rimedio della risoluzio‑
ne – il cerchio maggiore‑ deve giocofor‑
za ammettersi la possibilità di esperire
il rimedio dell'exceptio inademplenti
contractus – il cerchio minore contenu‑
to in quello maggiore‑.
In conclusione, dunque, anche vo‑
lendo seguire filoni interpretativi diffe‑
renti e partendo dal dato di base, evi‑
denziato dal Consiglio di Stato (ex
multis, Cons. St. Sez. IV, 30 gennaio
2006, n. 288; T.A.R. Venezia Sez. I, 17
maggio 2007, n. 1507; Consiglio di
Stato, Sez. IV, 12 marzo 2009, n. 1458),
della qualificazione dell'assenza o irre‑
golarità del D.U.R.C. come un vero e
proprio inadempimento, si giunge al
medesimo risultato, peraltro fatto pro‑
prio dalla sentenza che qui si commenta:
l'esperibilità, da parte della stazione
appaltante, del rimedio di autotutela
contrattuale rappresentato dall'exceptio
inademplenti contractus ex 1460 c.c.
q u e s t i o n i
●
DIRITTO PENALE
Se ed entro che limiti si
configura il reato di abuso
d’ufficio ex art. 323 c.p. con
riguardo all’attività discrezionale
della Pubblica Amministrazione?
● Anna Sofia Sellitto
Dottoressa in Giurisprudenza
L’art. 323 c.p. punisce il pubblico
ufficiale o l’incaricato di pubblico servi‑
zio che, nello svolgimento delle funzioni
o del servizio, in violazione di norme di
legge o di regolamento, ovvero ometten‑
do di astenersi in presenza di un interes‑
se proprio o di un prossimo congiunto o
negli altri casi prescritti, intenzional‑
mente procura a sé o ad altri un ingiusto
vantaggio patrimoniale ovvero arreca
ad altri un danno ingiusto.
Tale fattispecie criminosa è stata
prima modificata dalla L. 86/1990, poi
dalla L. 234/1997: la disciplina vigente
mira a circoscrivere l’ambito e la porta‑
ta di tale norma, fornendo una esplica‑
zione più dettagliata e puntuale della
condotta illecita e ciò allo scopo di
porre fine agli interventi espansionistici
dell’Autorità giudiziaria rispetto ad una
precedente formulazione troppo ampia
e generica.
L’attuale versione dell’art. 323 c.p.,
come pure si ricava dai lavori prepara‑
tori, nel prevedere che la condotta del
pubblico ufficiale si caratterizzi per la
violazione di norme di legge o di rego‑
lamento, ha voluto evitare, quanto al
controllo del giudice penale, che questi,
ispirandosi ad esigenze di giustizia
espresse da principi quali l’uguaglianza,
l’imparzialità, il buon andamento, pos‑
sa sindacare i comportamenti che rien‑
trano nell’ambito di discrezionalità del
pubblico ufficiale, o sovrapponendo
alle scelte dell’amministratore proprie
scelte che ritiene più rispettose di cano‑
ni fondamentali, o apprezzando in via
sintomatica la violazione di legge, va‑
lendosi dei tradizionali strumenti del
sindacato di eccesso di potere, quali
l’irragionevolezza della motivazione
Gazzetta
F O R E N S E
addotta, l’inadeguatezza dell’istrutto‑
ria, la disparità di trattamento e via
dicendo.
Quanto appena detto, tuttavia, non
esclude ex se dall’area del penalmente
rilevante l’esercizio di poteri discrezio‑
nali. Il giudice è infatti chiamato ad
accertare una violazione di norme di
legge sulla base di tutti gli strumenti
ermeneutici coessenziali alla sua fun‑
zione.
Ma è allora configurabile il reato di
cui all’art. 323 c.p. laddove si tratti di
attività discrezionale della Pubblica
amministrazione, ad esempio allor‑
quando si tratti di fissare i requisiti di
ammissione alla gara d’appalto e dun‑
que le restrizioni alla possibilità di
prendervi parte siano rimesse, sia con
riferimento all’an che al quomodo, alla
discrezionalità della P.a.?
La questione prospettata trae spun‑
to da una recentissima sentenza del
12.06.2012 pronunciata dal Tribunale
penale di Santa Maria Capua Vete‑
re – Sez. II. Prima però di analizzarne il
contenuto sono opportune alcune pre‑
cisazioni preliminari intorno al reato in
questione.
Le indicazioni giurisprudenziali
ci rc a i l b ene g iu r id ico prote t to
dall'art. 323 c.p. abitualmente non
vanno oltre il richiamo all' HYPER‑
LIN K "http:// bd05.leggiditalia.it /
cgi‑bin/FulShow? TIPO=5&NOTXT=
1&K EY= 05AC0 0009837" art. 97
Cost. nel suo duplice scopo di tutela
dell'imparzialità e del buon andamento
della P.a. (HYPERLINK "http://bd44.
leggiditalia.it/cgi‑bin/FulShow?TIPO
=5&NOTXT=1&KEY=44MA000056
6257+o+44MA0000566258" Cass.,
Sez. V, 5.5.1999) benché venga in qual‑
che occasione sottolineato come la le‑
sione del buon andamento non sia di
per sé sufficiente a configurare l'abuso,
risultando invece essenziale la viola‑
zione di prescrizioni normative precise
e non generalissime o di principio.
Coerentemente, nell'ambito di questo
indirizzo, viene negato rilievo alle
violazioni di norme genericamente
strumentali alla regolarità dell'attività
a m m i n i s t r at iva (C a s s . , S e z . II ,
4.12.1997), oppure aventi carattere
meramente procedurale (HYPERLINK
"http://bd44.leggiditalia.it / cgi‑bin/
FulShow? TIPO=5&NOTXT=1&KEY
=44MA0000565450+ o+44MA000
0533374" Cass., Sez. VI, 1.3.1999).
F O R E N S E
La giurisprudenza della Suprema
Corte asserisce talora che la sola P.a.
riveste il ruolo di soggetto passivo
(HYPERLINK "http://bd44.leggidita‑
lia.it/cgi‑bin/FulShow?TIPO=5&NOT
X T=1& K EY= 4 4M A0 0 02 2 24855"
C ass., S ez . III , 14.4 ‑19. 5. 2010 ,
n. 18811), riproponendo in tal modo un
orientamento già emerso in relazione al
testo previgente (Cass., Sez. II, ord.,
4.12.1997, n. 3529) che considera il
privato solo come un civilmente dan‑
neggiato.
Più spesso, viene invece riconosciuta
la natura plurioffensiva dell'illecito in
quanto oggetto di tutela è anche l'inte‑
resse del privato a non essere turbato nei
propri diritti (HYPERLINK "http://
bd44.leggiditalia.it/cgi‑bin/FulShow?T
IPO=5&NOTXT=1&KEY=44MA000
0934803" Cass., Sez. VI, 22.3.2006,
n. 20399).
L'autore, che deve rivestire la quali‑
fica di pubblico ufficiale o di incaricato
di pubblico servizio, non risponde, ex
art. 323, del semplice abuso di qualità
e perciò, quando agisca del tutto al di
fuori dell'esercizio della funzione o del
servizio, il reato non è configurabile
(HYPERLINK "http://bd44.leggidita‑
lia.it/cgi‑bin/FulShow?TIPO=5&NOT
X T=1& K EY= 4 4M A0 0 0 08927 72"
Cass., Sez. II, 9.2.2006, n. 7600;
HYPERLINK "http://bd44.leggidita‑
lia.it/cgi‑bin/FulShow?TIPO=5&NOT
X T=1& K EY= 4 4M A0 0 0 053170 0"
Cass., Sez. VI, 25.2.1998, n. 5118).
La condotta consiste nella violazio‑
ne commissiva (HYPERLINK "http://
bd44.leggiditalia.it/cgi‑bin/FulShow?T
IPO=5&NOTXT=1&KEY=44MA000
0754690" Cass., Sez. VI, 26.3.2003,
n. 21432) od omissiva (HYPERLINK
"http://bd44.leggiditalia.it/cgi‑bin/Ful
Show?TIPO=5&NOTXT=1&KEY=44
M A0 0 0 0870307" Cass., Sez. VI ,
28.1‑5.5.2004, n. 21085) di prescrizio‑
ni normative di fonte legislativa statale
(Cass., Sez. VI, 10.7.2000), legislativa
regionale (C., Sez. VI, 18.10.1999) o di
fonte regolamentare (Cass., Sez. VI,
31.3.2000).
Fatta questa breve ricostruzione
necessaria in ordine al bene tutelato
dall’art. 323 c.p. e alla relativa condotta,
preme affrontare nel merito la questione
al fine di delimitare i limiti e confini
della configurabilità della ipotesi delit‑
tuosa nel caso di attività discrezionale
della Pubblica Amministrazione.
l u g l i o • a g o s t o
2 0 1 2
Come precedentemente accennato,
di frequente ricorrenza nell’attività del‑
la P.a. è l’ipotesi in cui questa si trovi a
dover stabilire quelle che sono le condi‑
zioni necessarie ed imprescindibili per
l’ammissione ad una gara d’appalto;
non v’è dubbio che si tratti di un potere
discrezionale, rispetto al cui esercizio la
valutazione dell’opportunità di prevede‑
re determinati requisiti è rimessa alla
pubblica amministrazione, chiamata ad
orientarsi nella prospettiva del soddisfa‑
cimento del pubblico interesse nel mi‑
glior modo possibile alla luce della si‑
tuazione di fatto esistente.
Come chiarito nella menzionata
sentenza del Tribunale di Santa Maria
Capua Vetere, la determinazione della
stazione appaltante deve essere motiva‑
ta con l’indicazione dei presupposti di
fatto e delle ragioni giuridiche e di op‑
portunità che hanno determinato la
decisione dell’amministrazione. Ag‑
giungasi che la P.a. deve esercitare il
suo potere in maniera ragionevole,
senza introdurre restrizioni alla con‑
correnza che siano sproporzionate ed
ingiustificabili rispetto all’oggetto
dell’appalto.
A tal riguardo, la Suprema Corte ha
stabilito che il delitto di abuso d'ufficio
è configurabile non solo quando la con‑
dotta si ponga in contrasto con il signi‑
ficato letterale o logico‑sistematico di
una norma di legge o di regolamento,
ma anche quando la stessa contraddica
lo specifico fine perseguito dalla norma,
concretandosi in uno “svolgimento
della funzione o del servizio” che oltre‑
passi ogni possibile scelta discrezionale
attribuita al pubblico ufficiale o all'in‑
caricato di pubblico servizio (HYPER‑
LIN K "http:// bd44.leggiditalia.it /
cgi‑bin/FulShow?TIPO=5&NOTXT=1
&KEY=44MA0002252730" Cass.,
Sez. V, 16.6.2010, n. 35501). Nello
stesso senso HYPERLINK "http://
bd44.leggiditalia.it/cgi‑bin/FulShow?T
IPO=5&NOTXT=1&KEY=44MA000
2313906" Cass., Sez. VI, 5.7‑30.9.2011,
n. 35597 che afferma che il contrasto tra
la norma attributiva del potere esercita‑
to e la condotta posta in essere dall'agen‑
te si realizza, ad esempio, quando il
pubblico ufficiale agisce per conseguire
uno scopo personale o comunque estra‑
neo alla P.A., che si concreta in uno
"sviamento" produttivo di una lesione
dell'interesse tutelato dalla norma incri‑
minatrice.
139
Le Sezioni Unite della Corte di Cas‑
sazione hanno, altresì, precisato che, ai
fini della configurabilità del reato di
abuso d'ufficio, sussiste il requisito
della violazione di legge non solo quan‑
do la condotta del pubblico ufficiale sia
svolta in contrasto con le norme che
regolano l'esercizio del potere, ma an‑
che quando la stessa risulti orientata
alla sola realizzazione di un interesse
collidente con quello per il quale il po‑
tere è attribuito, realizzandosi in tale
ipotesi il vizio dello sviamento di pote‑
re, che integra la violazione di legge
poiché lo stesso non viene esercitato
secondo lo schema normativo che ne
legittima l'attribuzione (HYPERLINK
"http://bd44.leggiditalia.it/cgi‑bin/Ful
Show?TIPO=5&NOTXT=1&KEY=44
M A0 0 0 2 33132 6" C a s s . , S . U . ,
29.9.2011‑10.1.2012, n. 155).
La giurisprudenza di legittimità ha
inoltre chiarito che, per pubblica fun‑
zione autoritativa, in tanto può parlarsi
di esercizio legittimo in quanto tale
esercizio sia diretto a realizzare lo scopo
pubblico in funzione del quale è attri‑
buita la potestà, che del potere costitu‑
isce la condizione intrinseca di legalità.
Si ha pertanto violazione di legge, rile‑
vante a norma dell’art. 323 c.p., non
solo quando la condotta del pubblico
ufficiale sia svolta in contrasto con le
norme che regolano l’esercizio del pote‑
re (profilo della disciplina), ma anche
quando difettino le condizioni funzio‑
nali che legittimano lo stesso esercizio
del potere (profilo dell’attribuzione), ciò
avendosi quando la condotta risulti
volta alla sola realizzazione di un inte‑
resse collidente con quello per il quale
il potere è conferito. Anche in questa
ipotesi si realizza un vizio della funzio‑
ne legale, che è denominato sviamento
di potere e che integra violazione di
legge perché sta a significare che la
potestà non è stata esercitata secondo
lo schema normativo che legittima l’at‑
tribuzione (ex multis Cass. pen. S. U. 29
settembre 2011, n. 155).
Va peraltro precisato che alcune
pronunce della Suprema Corte ritengo‑
no rilevante ai fini della configurabilità
della violazione di legge la norma di cui
all’art. 97 Cost., là dove prevede l’im‑
parzialità quale canone comportamen‑
tale cui deve ispirarsi l’amministrazione
pubblica. L’imparzialità a cui fa riferi‑
mento l’art. 97 Cost. consiste, infatti,
nel divieto di favoritismi, nell’obbligo
questioni
Gazzetta
140
cioè per la pubblica amministrazione di
trattare tutti i soggetti portatori di inte‑
ressi tutelati nella stessa maniera, con‑
formando logicamente i criteri oggettivi
di valutazione alle differenziate posizio‑
ni soggettive. In sostanza, il principio
d’imparzialità, se riferito all’aspetto
organizzativo della pubblica ammini‑
strazione, ha certamente una portata
programmatica e non rileva ai fini della
configurabilità del reato di abuso d’uf‑
ficio, in quanto detto principio generale
deve necessariamente essere mediato
dalla legge di attuazione. Lo stesso
principio, invece, se riferito all’attività
concreta della pubblica amministrazio‑
ne, che ha l’obbligo di non porre in es‑
sere favoritismi e di non privilegiare si‑
tuazioni personali che confliggono con
l’interesse generale della collettività,
assume i caratteri ed i contenuti precet‑
tivi richiesti dall’art. 323 c.p., in quanto
impone al pubblico ufficiale o all’inca‑
ricato di pubblico servizio una precisa
regola di comportamento di immediata
applicazione (v. da ultimo Cass. pen. 17
febbraio 2011, n. 27453).
Come afferma la suindicata senten‑
za del Tribunale di Santa Maria Capua
Vetere, alla luce di questi principi
espressi dalla Suprema Corte, emerge
con chiarezza che nelle ipotesi in esame
il dato decisivo per configurare la vio‑
lazione di legge viene individuato
nell’esercizio del potere per un fine di‑
verso da quello voluto dalla legge, ov‑
vero per uno scopo personale od egoi‑
stico, e, comunque, estraneo alla pub‑
blica amministrazione. Il giudice pena‑
le, compiendo il suddetto accertamento,
non si interessa del “formarsi dell’atto”,
ma del fatto concreto, quale risultato
della condotta del pubblico ufficiale,
senza interferire nell’autonomia della
pubblica amministrazione. Visto che le
caratteristiche delle norme prese in
considerazione sono tali per cui esse
non definiscono con precisione la linea
di condotta che l’amministrazione pub‑
blica avrebbe dovuto tenere, l’elemento
che consente di superare il rischio
dell’incursione del giudice penale
nell’ambito della discrezionalità ammi‑
nistrativa in sostanza è rappresentato
dalla finalità perseguita dall’autore del
reato, là dove essa evidenzi che l’eserci‑
zio del potere è avvenuto in vista del
conseguimento di interessi privati ec‑
centrici rispetto a quelli costituenti
causa delle sua attribuzione. Questo
q u e s t i o n i
aspetto colora di illiceità qualsiasi com‑
portamento della pubblica amministra‑
zione, quand’anche tenuto nell’esercizio
di poteri caratterizzati da margini più o
meno ampi di discrezionalità.
La pronunzia giurisprudenziale più
volte menzionata afferma, altresì, che
in casi simili la prova della violazione di
legge tende a coincidere con quella
dell’intenzionalità dell’evento necessa‑
rio per la configurabilità della fattispe‑
cie. A tal proposito, è bene ricordare che
in tema di abuso d’ufficio il dolo inten‑
zionale si sostanzia nella rappresenta‑
zione e nella volizione dell’evento come
conseguenza diretta e immediata della
condotta dell’agente e obiettivo prima‑
rio da costui perseguito. La prova
dell’elemento soggettivo esige, dunque,
il raggiungimento della certezza che la
volontà dell’imputato sia stata orientata
proprio a procurare il vantaggio patri‑
moniale o il danno ingiusto.
Prendendo in esame il caso specifico
oggetto della sentenza in questione, si
consideri la seguente fattispecie.
Tizio era imputato del reato di cui
all’art. 323 c.p. in quanto emanava un
bando di asta pubblica per l’“affidamen‑
to del servizio di refezione scolastica
agli alunni delle scuole materne e
dell’obbligo, […]” violando l’art. 14 D.
lgs. n. 157\95, art. 44 Direttiva CE
2004\18 del 31.3.2004 perché non rap‑
portava nel bando stesso i requisiti della
ditta aggiudicataria con l’oggetto dell’ap‑
palto; l’art. 1 comma 2 L. 241\90, per
aver previsto prescrizioni alla ditta ag‑
giudicataria inutile con ingiustificato
aggravio del procedimento; l’art. 3 L.
241\90, per non aver motivato l’atto
amministrativo e le scelte in esso conte‑
nute e violando ogni norma e principio
in tema di eguaglianza e di buona am‑
ministrazione (anche con riferimento
agli artt. 3 e 87 Cost); così, attestava
falsamente la tipologia dei requisiti con‑
cretamente necessari per partecipare
alla gara in relazione al reale oggetto del
servizio in via di affidamento, impeden‑
do ad altre ditte aventi i requisiti di fatto
(e conformi al reale servizio da espletare)
di partecipare alla gara al fine di favori‑
re intenzionalmente altra ditta.
Nel caso di specie, la sentenza di as‑
soluzione ritiene che non si è raggiunta la
prova che l’esercizio del potere discrezio‑
nale nella determinazione di requisiti
minimi per la partecipazione alla gara
fosse ispirato dalla finalità primaria di
Gazzetta
F O R E N S E
escludere potenziali concorrenti favoren‑
do l’impresa aggiudicataria dell’appalto.
Al riguardo, senza arrivare a sostenere
l’imprescindibilità di un accordo collusi‑
vo tra l’impresa ed il funzionario pubbli‑
co, sarebbe stato necessario verificare
l’esistenza di eventuali ragioni di interes‑
se pubblico che avevano portato la giunta
comunale da approvare un bando di gara
più restrittivo rispetto a quello relativo
all’affidamento del servizio di refezione
scolastica nel precedente biennio. Soltan‑
to l’assenza o l’assoluta irragionevolezza
di esse avrebbe consentito di dedurre che
il potere discrezionale dell’amministra‑
zione era stato esercitato in via primaria
in vista del perseguimento di interessi
privati, così conferendo alla ritenuta irra‑
gionevolezza del contenuto dell’atto am‑
ministrativo rispetto all’oggetto dell’ap‑
palto il carattere dell’illiceità penale e non
della semplice illegittimità rilevante sul
piano amministrativo. Si è invece preteso
che il Tribunale inferisse la sussistenza
della volontà di favorire il privato e, quin‑
di, dello sviamento del potere ammini‑
strativo rispetto alle finalità istituzionali
dalla sola irragionevolezza del contenuto
dell’atto. In sostanza, si è chiesto al Tri‑
bunale di sostituirsi all’amministrazione
pubblica nel valutare l’opportunità di
restringere la partecipazione alla gara
d’appalto in esame, facendo discendere da
detta valutazione la sussistenza o meno
del reato, in evidente contrasto con i
principi poc’anzi espressi.
La sentenza di assoluzione afferma,
dunque, che l’ipotizzata violazione di
legge non può ritenersi sussistente.
Prosegue, altresì, rispetto alla manca‑
ta espressione delle ragioni che avevano
indotto l’amministrazione a prevedere
indici minimi di capacità per poter parte‑
cipare alla gara d’appalto affermando che
va sottolineato che l’inosservanza da
parte del pubblico ufficiale del dovere
di motivazione del provvedimento è
astrattamente idonea ad integrare la vio‑
lazione di legge rilevante ai fini della
sussistenza del reato di cui all’art. 323
c.p. (v. Cass. Pen. 27 ottobre 1999
n. 13341).
Tuttavia, come per tutte le norme di
carattere procedimentale, in quanto
tali volte a disciplinare le modalità
dell’agere amministrativo in generale,
ma non a stabilire in che termini debba
essere esercitato un determinato potere,
è necessario verificare la sussistenza di
un nesso di derivazione logico‑causale
F O R E N S E
del danno o del vantaggio ingiusto
dalla violazione della specifica norma
procedimentale, pena un’applicazione
formalistica della fattispecie in esame
(v. Cass. pen. 24 febbraio 2000, no 4881
e 23 giugno 2006, no 22242). Anche in
queste ipotesi, peraltro, sul piano pro‑
batorio il dato che colora di illiceità una
difformità dell’azione amministrativa
rispetto al modello legale in sé ambigua
è peraltro rappresentato dalla finalità
privatistica perseguita.
Ebbene, nella stessa prospettazione
dell’accusa la violazione di legge che si
assume produttiva del vantaggio e del
correlativo danno non è rappresentata
dall’omessa motivazione del provvedi‑
mento, bensì dalla fissazione dei requi‑
siti minimi previsti per la partecipazi‑
one alla gara d’appalto. Anche in relazi‑
one a questo profilo, quindi, non è
configurabile la fattispecie oggettiva del
delitto di abuso d’ufficio.
●
DIRITTO AMMINISTRATIVO
La tutela cautelare nel giudizio
amministrativo alla luce
delle novità contenute nel codice
del processo amministrativo:
ai fini della rapida definizione
della controversia nel merito
è ammessa la tutela cautelare,
oppure l’applicazione dell’art. 55
comma 10 del c.p.a. rappresenta
un’alternativa rispetto
alla concessione dell’istanza
cautelare?
● Maria Teresa Della Vittoria Scarpati
Dottoressa in giurisprudenza
L’ordinanza del Consiglio di Stato
n. 171/2012 e la sentenza del Tar Cam‑
pania Napoli n. 2260/2012 offrono
l’occasione per trarre utili spunti di ra‑
gionamento in merito alle novità in
materia cautelare introdotte dal d.lgs.
n. 104/2010, istitutivo del Codice del
processo amministrativo (cd. cpa).
l u g l i o • a g o s t o
2 0 1 2
Preliminarmente pare opportuna
una breve ricostruzione del quadro
normativo precedente alla introduzione
del Codice, anche al fine di individuare
ciò che è rimasto invariato e ciò che
invece è stato oggetto di modifica e di
innovazione.
Prima della riforma realizzata dalla
l. 21 luglio 2000, n. 205 l'unico rimedio
a disposizione del ricorrente per blocca‑
re temporaneamente gli effetti pregiu‑
dizievoli dell’atto impugnato in attesa
della decisione di merito era l'istanza di
sospensione degli stessi. L'inadeguatez‑
za di tale tutela fu oggetto di rilievo ad
opera della Corte Costituzionale, sen‑
tenza del 25 giugno 1985, n. 190, la
quale dichiarò l'illegittimità costituzio‑
nale dell'originario art. 21, comma 7, l.
6 dicembre 1971, n. 1034, nella parte
in cui non consentiva al giudice ammi‑
nistrativo di adottare in via d'urgenza,
nelle controversie patrimoniali in mate‑
ria di pubblico impiego oggetto di giu‑
risdizione esclusiva, i provvedimenti
d’urgenza più idonei ad assicurare prov‑
visoriamente gli effetti della futura de‑
cisione sul merito.
La giurisprudenza amministrativa,
sulla scia tracciata dalla Consulta non‑
ché dalla giurisprudenza comunitaria
(sentenza della Corte di Giustizia Fac‑
tortame del 19 giugno 1990 in causa
C‑213/89 e sentenza Atlanta del 9 no‑
vembre 1995 in causa C‑465/93), ha
proceduto alla erosione della tutela
cautelare prevista dal richiamato
art. 21.
In questo quadro l’introduzione
dell’art. 3 della l. n. 205 del 2000 ha
rappresentato il primo strumento col
quale poteva considerarsi in maniera
precisa e puntuale la fattispecie ogget‑
to di esame. Il citato articolo aveva
introdotto il comma 8 dell’art.21 della
l. Tar e subordinato la sospensione
degli effetti del provvedimento impu‑
gnato al contestuale concorso delle
seguenti condizioni: a) l’idoneità del
provvedimento ad arrecare al suo de‑
stinatario un pregiudizio attuale, grave
ed irreparabile non necessariamente di
carattere patrimoniale, ma comunque
incidente su un bene della vita; b) il
fumus boni iuris, inteso come probabi‑
lità che, a conclusione del giudizio di
merito, il ricorso risultasse ammissibi‑
le e fondato. L’ordinanza collegiale che,
pronunciando sull’istanza di sospen‑
sione, l’accoglieva o la rigettava, dove‑
141
va essere motivata con l’indicazione,
seppure sommaria, delle ragioni sotte‑
se in fatto e in diritto alla determina‑
zione adottata.
Con l’introduzione del Codice rima‑
ne fermo il generale quadro di tutela
cautelare che la giurisprudenza e la
dottrina avevano fin qui elaborato: esso
conferma il carattere dell’interinalità e
della strumentalità funzionale delle
misure cautelari, con particolare riguar‑
do agli interessi pretesivi, attraverso la
pratica delle cc.dd. ordinanze cautelari
propulsive (o remand), con le quali si
ordina all’amministrazione di riprovve‑
dere tenendo conto delle indicazioni
giudiziali che costituiscono la rima
conformativa per la successiva azione
amministrativa, nonché mediante le
ordinanze cautelari positive o sostituti‑
ve, dalla portata conformativa del giu‑
dicato cautelare, sostituendosi così il
giudice della cautela all’amministrazio‑
ne ed ammettendo il privato allo svol‑
gimento dell’attività negata (Caringella,
Manuale di diritto amministrativo,
Dike, Roma, 2012, 1850 ss.).
Il Codice ha avuto il pregio di dedi‑
care ben 8 articoli (artt. 55‑62) alle
misure cautelari, peraltro ampiamente
diffusi e seriamente modificativi della
disciplina previgente, nella parte in cui
hanno attutito la profonda divaricazio‑
ne che sussisteva tra il processo caute‑
lare e il processo di merito. Oggi il
nesso di strumentalità tra cautela e
merito è particolarmente rafforzato nel
Codice, laddove, al comma 4 dell’art. 55
stabilisce espressamente l’improcedibi‑
lità della domanda cautelare fino a che
non sia stata presentata l’istanza di
fissazione dell’udienza di merito; allo
stesso scopo sono dettati gli artt. 56,
comma 4 e 61, comma 5 del cpa.
In linea generale il Codice offre tre
specie di misure cautelari: la prima è
quella prevista dall’art. 55 di competen‑
za del Collegio in presenza e nel presup‑
posto di un “pregiudizio grave ed irre‑
parabile” a seguito dell’esecuzione
dell’atto impugnato; la seconda è quella
che può adottare il Presidente del Tribu‑
nale amministrativo “in caso di estrema
gravità ed urgenza”; la terza è quella
anteriore alla causa “in caso di eccezio‑
nale gravità ed urgenza”.
È regola generale che, in ossequio ai
principi di effettività e di pienezza della
tutela giurisdizionale, di cui la tutela
interinale è espressione, il giudice am‑
questioni
Gazzetta
142
ministrativo possa adottare, nella pen‑
denza del giudizio di merito, le misure
cautelari necessarie, ai sensi dell’art. 55
del Codice del processo amministrativo,
al fine di impedire che, nelle more della
definizione del processo amministrati‑
vo, l’esercizio dell’attività oggetto di
impugnazione possa cagionare al terzo
un pregiudizio grave ed irreparabile.
In effetti l’art. 55, al comma 1 con‑
ferisce al non meglio precisato «pregiu‑
dizio» un rilievo esclusivo e sufficiente
agli effetti del richiesto intervento cau‑
telare, ed anche dal successivo comma 9
sembra emergere che il danno che giu‑
stifica la tutela cautelare debba essere
anche «ingiusto», e non fisiologicamen‑
te conseguente ad un provvedimento
legittimamente adottato dall’Ammini‑
strazione. Dal combinato disposto dei
due commi emerge che al giudice adito
non solo è richiesto di valutare l’esisten‑
za, la gravità e l’irreparabilità del pre‑
giudizio paventato dal ricorrente, ma di
indicare anche le ragioni di diritto (il
c.d. fumus boni juris) che, sia pure a
conclusione di una sommaria delibazio‑
ne, inducono ragionevolmente a preve‑
dere un determinato esito per il ricorso
allorché sarà esaminato nel merito.
L’intento del legislatore del 2010 era
quello di dare rilievo non solo al piano
della giustizia, che il Codice richiede sia
rapida ed esaustiva, ma anche a quello
dell’economia processuale, perché dal
testo dell’ordinanza collegiale le parti in
causa devono essere messe in condizio‑
ne anche di verificare la convenienza a
continuare a coltivare il ricorso ovvero
a resistere ad esso.
Orbene, il Codice del processo am‑
ministrativo ha avuto il pregio di preci‑
sare ed innovare i presupposti per la
concessione della tutela cautelare incen‑
trandola sul principio di effettività
scolpito nell’art. 24 Cost. e nell’art. 1
del Codice, alla cui stregua “la giurisdi‑
zione amministrazione assicura una
tutela piena ed effettiva secondo i prin‑
cipi della Costituzione e del diritto
europeo”.
Attualmente, per quanto concerne
la tematica oggetto di interesse ed in
ossequio ai principi richiamati ed al
particolare nesso di strumentalità tra
cautela e merito, la generale previsione
contenuta nel comma 10 dell’art. 55
rappresenta una reale alternativa rispet‑
to al modello generale di tutela cautela‑
re fin qui delineato. La norma stabilisce
q u e s t i o n i
che “Il tribunale amministrativo regio‑
nale, in sede cautelare, se ritiene che le
esigenze del ricorrente siano apprezza‑
bili favorevolmente e tutelabili adegua‑
tamente con la sollecita definizione del
giudizio nel merito, fissa con ordinanza
collegiale la data della discussione del
ricorso nel merito. Nello stesso senso
puo' provvedere il Consiglio di Stato,
motivando sulle ragioni per cui ritiene
di riformare l'ordinanza cautelare di
primo grado; in tal caso, la pronuncia
di appello e' trasmessa al tribunale
amministrativo regionale per la solleci‑
ta fissazione dell'udienza di merito”.
Ne deriva che, qualora il Tar apprez‑
zi favorevolmente le ragioni del ricor‑
rente e le ritenga meglio tutelabili in
sede di celere definizione del giudizio
non ha l’obbligo, ma solo la facoltà di
fissare l’udienza pubblica, senza alcuna
previsione del termine entro il quale
fissare l’udienza stessa.
Detta precisazione appare rilevante
nel raffronto con la disposizione conte‑
nuta nel comma 3 dell’art. 119, dedicato
ai riti abbreviati, il quale prevede che,
qualora il Tar ritenga ad un sommario
esame che sussistano profili di fondatez‑
za del ricorso e di un pregiudizio grave ed
irreparabile, provveda a fissare l’udienza
di trattazione alla “prima udienza suc‑
cessiva alla scadenza del termine di
trenta giorni dalla data di deposito
dell’ordinanza”. Quest’ultima rappresen‑
ta una nota caratteristica del rito abbre‑
viato che impone, al sorgere di determi‑
nati presupposti, la fissazione dell’udien‑
za di merito in tempi ravvicinati. Detti
termini hanno natura ordinatoria, in
quanto perseguono una finalità mera‑
mente acceleratoria del giudizio, e per‑
tanto il mancato rispetto degli stessi non
implica vizi della sentenza adottata.
L’accostamento delle due norme
consente di evidenziare che, non è pre‑
vista di regola la concessione dell’istan‑
za cautelare, anche ove si ritenga sussi‑
stano i presupposti del fumus boni juris
e del periculum in mora, in quanto
l’unico interesse del legislatore appare
d i re t to a l la sol le c it a f is sa z ione
dell’udienza di merito da parte del Tar.
Ciò determina l’auspicata concen‑
trazione della decisione cautelare in
quella di merito, nel presupposto che la
ravvicinata definizione del giudizio ed
il probabile esito favorevole per il ricor‑
rente, almeno in sede di prima valuta‑
zione nella fase cautelare, rendano non
Gazzetta
F O R E N S E
indispensabile la sospensione dell’effi‑
cacia degli atti impugnati (Codice del
Processo Amministrativo, a cura di
Mario Sanino, UTET, 2011, 525).
Tale interpretazione non è senz’altro
sorretta dalla formulazione letterale
della disposizione contenuta nel com‑
ma 10 dell’art.55 cpa, la quale non
esplicita se la misura cautelare sia data
o no; tuttavia, si ritiene che la fissazione
dell’udienza a breve rappresenti un’al‑
ternativa alla concessione della misura
e ne prenda il posto, ponendosi come
meccanismo idoneo a dare tutela imme‑
diata alle esigenze del ricorrente.
Pertanto, la celere definizione del
giudizio mediante l’immediata fissazio‑
ne dell’udienza di merito appare idonea
ad impedire il verificarsi degli effetti
irreversibili paventati in sede di ricorso.
Inoltre, analoghe considerazioni posso‑
no essere svolte in sede di appello cau‑
telare, laddove il Consiglio di Stato
gode di perfetta autonomia decisionale,
non essendo tenuto ad accordare la tu‑
tela cautelare stessa, ma dovendo limi‑
tarsi a ravvisare l’esistenza dei presup‑
post i per la sol lecit a f issa zione
dell’udienza di merito.
Vale la pena di precisare che la so‑
luzione contenuta nell’art. 55, com‑
ma 10 cpa è senza alcun dubbio diversa
dall’abbinamento della sospensiva al
merito prevista dall’art. 60 cpa.: in tale
ultimo caso il collegio può decidere
immediatamente la controversia, ancor‑
ché sia stato chiamato a pronunciarsi su
una domanda cautelare, emanando una
sentenza cd. in forma semplificata.
Dette considerazioni sono state
senz’altro oggetto di recepimento ad
opera del Consiglio di Stato, Sez. VI,
ordinanza n. 171/2012, il quale si è
espresso nei seguenti termini: “ritenuto,
sotto il profilo del periculum in mora,
che il ricorso meriti accoglimento al
solo fin e dell a c ele re fi ssazion e
dell’udienza di merito da parte del
T.a.r. ai sensi dell’art.55, comma 10,
cod.proc.amm.[…]”.
Pertanto, il Consiglio di Stato, in
applicazione della seconda parte del
comma 10 dell’art. 55 del cpa, ha rite‑
nuto di riformare l’impugnata ordinan‑
za cautelare del Tar Campania, nella
sola parte in cui quell’ordinanza (al di
là del fatto che respingeva l’istanza) non
fissava l’udienza di merito. Infatti, ad
u n a pr i m a le t t u ra del d isposto
dell’art. 55 comma 10 del c.p.a. appare
F O R E N S E
evidente come, secondo i giudici del
gravame, l’ordinanza del Tar Campania
dovesse essere riformata soltanto nella
parte in cui i giudici di prima istanza
non avrebbero considerato “le esigenze
del ricorrente […] apprezzabili favore‑
volmente e tutelabili adeguatamente
con la sollecita definizione del giudizio
nel merito”, con conseguente fissazione
mediante ordinanza collegiale del ricor‑
so nel merito.
L’art. 55 comma 10 dispone inoltre
che “Nello stesso senso puo' provve‑
dere il Consiglio di Stato, motivando
sulle ragioni per cui ritiene di riforma‑
re l'ordinanza cautelare di primo gra‑
do; in tal caso, la pronuncia di appello
e' trasmessa al tribunale amministra‑
tivo regionale per la sollecita fissazio‑
ne dell'udienza di merito”. Dunque,
non era affatto intendimento del Con‑
siglio di Stato svolgere una differente
valutazione rispetto a quella effettuata
dal Tribunale di prima istanza, in or‑
dine alla necessità di adottare un prov‑
vedimento di sospensione, atteso che
tale ultima possibilità pare essere
esclusa dalla lettera della norma e che
qualora il Consiglio di Stato avesse
voluto riformare l’ordinanza anche
nell’esito lo avrebbe fatto ai sensi di
l u g l i o • a g o s t o
2 0 1 2
quanto disposto dall’art. 62 comma 3
del c.p.a..
La sentenza del T.A.R. Campania,
n. 2260/2012 ha confermato le prece‑
denti considerazioni statuendo che “la
tutela cautelare riconosciuta dal giudi‑
ce amministrativo è consistita, ai sensi
dell’art. 55, co.10, c.p.a., unicamente
nella fissazione dell’udienza di merito
con priorità per la definizione della
controversia, senza alcuna sospensiva
degli atti impugnati con il ricorso intro‑
duttivo del giudizio”.
In conclusione, dalla disposizione
contenuta nell’art. 55 comma 10 emerge
che l’esigenza di immediata tutela giu‑
diziale degli interessi pretesivi e opposi‑
tivi trova in essa un ulteriore strumento
di risoluzione. Tale istituto offre, me‑
diante la sollecita decisione nel merito,
una più intensa efficacia conformativa,
ha portata generale ed è utilizzabile
tutte le volte in cui, a prescindere dalla
natura degli interessi azionati, si rende
necessaria, in sostituzione del provvedi‑
mento cautelare, la rapida definizione
della controversia nel merito.
Infine pare opportuno segnalare
l’orientamento di quanti, all’entrata in
vigore del Codice, hanno evidenziato i
profili di criticità dello stesso, determi‑
143
nati dal depotenziamento dello stru‑
mento della sentenza in forma semplifi‑
cata a favore di una decisione di merito
che allo stato delle cose difficilmente
potrebbe avvenire in tempi brevi. L’ef‑
fetto probabile, secondo detta parte
della dottrina, è rappresentato dall’ulte‑
riore sovraccarico dei ruoli mercè la
fissazione di udienze di merito, riguar‑
danti soprattutto le particolari materie
di cui all’art. 119 e 120 cpa, che si van‑
no ad aggiungere alle controversie ordi‑
narie, in ordine alle quali è prevista in
via automatica la fissazione dell’udienza
di merito in caso di accoglimento della
domanda cautelare. Il dubbio espresso
consiste nel chiedersi se il depotenzia‑
mento dello strumento della tutela cau‑
telare e della sentenza in forma sempli‑
ficata, sia stata una scelta consapevole
o non piuttosto l’effetto indesiderato del
tentativo (allo stato) velleitario di addi‑
venire alla rapida definizione di tutte le
cause nel merito (“La pronuncia caute‑
lare e l’immediatezza della tutela di
merito”, Giulio Castriota Scanderbeg,
Consigliere di Stato, Relazione svolta a
Lecce il 12 novembre 2010, in occasione
del Convegno su “Il Codice del processo
amministrativo”, www.giustizia‑ammi‑
nistrativa.it).
questioni
Gazzetta
Recensioni
Il principio di continuità di funzionamento degli organi nelle società di capitali,
Paolo Divizia, in Quaderni di Giurisprudenza commerciale n. 350, Milano, 2011
147
recensioni
Flora Caputo
F O R E N S E
●
Il principio di continuità di
funzionamento degli organi
nelle società di capitali,
Paolo Divizia, in Quaderni
di Giurisprudenza
commerciale n. 350,
Milano, 2011
● Flora Caputo
Avvocato
Nel sistema giuridico italiano il prin‑
cipio di continuità trova applicazione in
maniera trasversale, riguardando in
particolare l’ambito del diritto costitu‑
zionale ed amministrativo. La maggior
parte delle norme organizzative, infatti,
nel disciplinare la struttura dei soggetti
pubblici prevede, in riferimento ai sin‑
goli organi, congegni rivolti a garantire
l’ininterrotta presenza di un soggetto
preposto (in via stabile o provvisoria) ad
esercitare le proprie funzioni.
La stessa Carta costituzionale è
ricca di esempi al riguardo, basti pensa‑
re, tra gli altri, all’art. 61 ultimo comma
ove é dato leggere che: “finché non siano
riunite le nuove Camere sono proroga‑
ti i poteri delle precedenti”, ovvero
all’art. 85, ultimo comma ultima parte
in cui si precisa che, se le Camere sono
sciolte, “nel frattempo sono prorogati i
poteri del Presidente in carica”.
Nell’ambito dell’organizzazione
amministrativa, si suole tradizional‑
mente distinguere tra esigenza di conti‑
nuità formale e sostanziale degli organi,
intendendosi con la prima la necessità
di una costante copertura dell’organo
da parte di un titolare (primario o vica‑
rio), nonché, con la seconda, la necessi‑
tà della stabilità dei titolari (nominati a
tempo indeterminato) degli organi, e
cioè della durata per un periodo di tem‑
po sufficientemente lungo del medesimo
agente nell’ufficio cui è preposto.
Nella ricostruzione offerta, il princi‑
pio in esame è conosciuto anche a livello
comunitario, sia nell’ambito del funzio‑
namento degli organi/uffici sia nella
disciplina dei rapporti contrattuali.
Sotto il primo profilo, deve osser‑
l u g l i o • a g o s t o
2 0 1 2
varsi come il principio di continuità sia
preso in considerazione a livello genera‑
le dall’art. 3 Trattato istitutivo dell’Unio‑
ne Europea, ove si menziona espressa‑
mente il principio di continuità di fun‑
zionamento dell’azione amministrativa
comunitaria. Il principio de qua, inol‑
tre, è sovente richiamato nei provvedi‑
menti istitutivi di nuovi organi attraver‑
so cui si veicola l’azione comunitaria,
come avviene ex art.17 Regolamento
della Commissione Europea del 9 ago‑
sto 2007, n. 951 - rubricato proprio
Principio di continuità - che stabilisce
le misure di esecuzione dei programmi
di cooperazione transfrontaliera finan‑
ziati nel quadro del regolamento
dell’Unione Europea n. 1638/2006.
Sotto il secondo profilo, di matrice
contrattuale, può osservarsi come l’av‑
vento dell’Euro abbia posto – nei rap‑
porti commerciali pendenti – un proble‑
ma di garanzia di continuità, ed al ri‑
guardo può osservarsi come il principio
basilare che ha regolato l’ingresso nella
moneta unica sia costituito proprio dal‑
la continuità, principio codificato in
termini solenni e categorici dall’art. 3
del regolamento CE 1103/1997 in forza
del quale: ‘‘l’introduzione dell’Euro non
avrà l’effetto di modificare alcuno dei
termini di uno strumento giuridico, né
di sollevare o dispensare dall’adempi‑
mento di qualunque strumento giuridi‑
co, né di dare ad una parte il diritto di
modificare o porre fine unilateralmente
a tale strumento giuridico’’.
L’approfondita indagine monografi‑
ca di Paolo Divizia – Professore a con‑
tratto presso l’Università degli Studi di
Genova S.S.P.L. – muove da un sempli‑
ce interrogativo di fondo: esiste anche
nell’ordinamento societario italiano un
principio di continuità di funzionamen‑
to degli organi? O, per dirla diversa‑
mente, la medesima esigenza di conti‑
nuità di funzionamento degli organi e
di prevenzione di stasi operative di cui
si è detto è avvertita anche in ambito
societario? Ed assunto ciò, come è af‑
frontata dal legislatore?
La risposta agli interrogativi posti è
affermativa, e numerosi sono i riferi‑
menti normativi presenti in seno al
Codice Civile del 1942 e nelle pieghe
della riforma delle società del 2003 che
spingono verso tale soluzione; a partire
dalla legge delega n. 366 del 2001 fino
alla relazione di accompagnamento al
D.lgs. n. 6 del 2003 emerge una singo‑
147
lare ‘‘tensione’’ del legislatore verso la
predisposizione di meccanismi giuridici
volti ad assicurare la continuità di fun‑
zionamento dell’organismo societario.
Detta esigenza si estrinseca sia
nell’ottica interna - rappresentata dagli
interessi dei soci, sensibili al buon fun‑
zionamento delle singole componenti
societarie - sia nell’ottica esterna - cioè
della tutela dei terzi ed in particolare del
ceto creditorio, attento a prevenire la
disgregazione della ricchezza patrimo‑
niale e dell’avviamento della società.
Lo studio monografico di Paolo
Divizia si pone l’obiettivo di affrontare
l’indicato principio di continuità nelle
sue variegate manifestazioni, vaglian‑
done ad un tempo i profili di ordine
dogmatico e le applicazioni emergenti
nella prassi operativa. L’indagine si
sviluppa in modo organico ed analizza
i tratti peculiari dei due principali co‑
rollari applicativi del principio di conti‑
nuità, rappresentati dagli istituti della
prorogatio e della supplenza, analizzan‑
do sequenzialmente le forme di impiego
degli indicati istituti rispetto all’organo
amministrativo (Capitoli II e III), di
controllo (Capitoli IV e V) e di revisio‑
ne legale dei conti (Capitolo VII).
Come chiarito dall’Autore, secondo
una prima definizione, la prorogatio è
il meccanismo giuridico ‘‘in forza del
quale un organo, anche scaduto, ha la
possibilità di continuare ad esercitare,
sia pure limitatamente, i suoi poteri e
ciò non in base ad un atto speciale che
concede la proroga stessa, ma di dirit‑
to’’; è cioè un istituto teleologicamente
teso ad assicurare la continuità dell’eser‑
cizio delle funzioni. Durante la proro‑
gatio, dunque, la situazione in cui versa
il titolare – ormai cessato dalla carica
– è quella di chi conserva l’investitura e
la competenza in forza di legge, le cui
scadenze si pongono come fatto conser‑
vativo dell’ufficio, senza modifica o ri‑
duzione dei poteri ordinari.
L’Autore valuta caso per caso l’ope‑
ratività della prorogatio al cospetto delle
varie ipotesi di stasi di funzionamento
dell’organo, distinguendo fra ipotesi
“ordinarie” (quali la morte e la naturale
scadenza dell’incarico) ed ipotesi “più
problematiche” (quali le dimissioni dalla
carica, la decadenza e la revoca da parte
dell’assemblea), ponendosi dall’angolo
visuale della valutazione della preminen‑
za degli interessi, ora della società, ora
del singolo componente l’organo.
recensioni
Gazzetta
148
La supplenza, di contro, è intesa
come sostituzione temporanea del tito‑
lare di un organo o di un ufficio da
parte di un altro soggetto nell’esercizio
delle funzioni in tutti i casi di impedi‑
mento, assenza o temporanea vacanza.
Finalità tipica dell’istituto de quo è
quella di garantire la continuità
dell’azione dell’organo e prevenire le
conseguenze derivanti dalla mancanza,
anche solo temporanea, del titolare.
Carattere peculiare della supplenza è la
preventività, vale a dire l’individuazione
ab origine del supplente prima che si
verifichino i fatti legittimanti del suben‑
tro da parte del supplente al supplito.
La designazione preventiva del supplen‑
te porta con sé una evidente conseguen‑
za sul piano logico, ancor prima che
giuridico: essa attua una preposizione
in via straordinaria di un’altra persona
all’ufficio ordinario, creando una dupli‑
ce titolarità della carica.
Nel Capitolo V, inoltre, il tema del
ruolo del supplente all’interno del colle‑
gio sindacale è arricchito da numerosi
spunti di riflessione anche legati alla
figura del sindaco unico di recente in‑
troduzione nell’ordinamento italiano.
Con specifico riferimento all’ambito
societario, è proposta una distinzione
tecnica fra supplenza di persone e sup‑
plenza di organo: mentre nella prima si
ha la sostituzione del titolare impedito
o assente ad opera di un’altra persona,
conseguendo di tal fatta la continuità
funzionale della struttura, nella secon‑
da si ha, invece, uno spostamento – tem‑
poraneo o per quel singolo atto – delle
competenze, che diventano pertanto di
competenza dell’organo supplente.
La supplenza di persone è analizza‑
ta attraverso la disamina attenta del
contenuto e della portata degli artt.
2397 e 2401 c.c. relativi al collegio
sindacale, ed interessanti considerazioni
sono svolte, poi, sull’operatività della
clausola simul stabunt simul cadent,
sulla derogabilità pattizia del funziona‑
mento della stessa e sull’estensibilità
re c ens i on i
(poi negata) del meccanismo in parola
anche all’organo di controllo.
La supplenza di organo, invece,
appare più nascosta ed è ravvisata
dall’Autore nella dialettica organo am‑
ministrativo-organo di controllo, deli‑
neata dall’art. 2406 c.c. in forza del
quale: ‘‘In caso di omissione o di ingiu‑
stificato ritardo da parte degli ammini‑
stratori, il collegio sindacale deve con‑
vocare l’assemblea ed eseguire le pub‑
blicazioni prescritte dalla legge’’ e
dall’art. 2446 primo comma c.c. ove si
legge: ‘‘Quando risulta che il capitale é
diminuito di oltre un terzo in conse‑
guenza di perdite, gli amministratori o
il consiglio di gestione, e nel caso di
loro inerzia il collegio sindacale ovvero
il consiglio di sorveglianza, devono
senza indugio convocare l’assemblea
per gli opportuni provvedimenti’’.
Sempre in un’ottica di chiarezza
espositiva, l’analisi ha volutamente con‑
trapposto il regime legale di operatività
di prorogatio e supplenza con quelli che
sono i margini di intervento dell’auto‑
nomia statutaria al riguardo (in parti‑
colar modo nell’alveo della società a
responsabilità limitata); interessanti
sono, poi, le soluzioni operative (anche
redazionali) suggerite per i casi in cui il
problema debba essere affrontato
nell’ambito delle società di persone
(Titolo II del Capitolo III).
La monografia assume carattere tra‑
sversale in seno al Capitolo VI nel quale,
per oltre 50 pagine (arricchite da un
ampio corredo di note richiamanti dot‑
trina nazionale e francese), il problema
della prorogatio dei poteri è affrontato
con riferimento alle società pubbliche.
L’attenzione si concentra su tre macroaree: a) l’analisi della portata del novel‑
lato art. 2449 c.c. (anche alla luce dei
numerosi input comunitari); b) l’applica‑
bilità dello stesso articolo alle sempre più
diffuse società a responsabilità limitata
pubbliche; c) il carattere paradigmatico
della speciale disciplina di prorogatio
contenuta nella legge n. 444/1994.
Gazzetta
F O R E N S E
La monografia dimostra il suo am‑
pio respiro, poi, soprattutto nei Capito‑
li finali. Nel Capitolo VIII, ad esempio,
il tema della continuità di funzionamen‑
to degli organi è analizzato in riferi‑
mento alla fase di scioglimento e liqui‑
dazione, durante la quale muta la fina‑
lità stessa della continuità delle funzio‑
ni sia rispetto all’organo amministrati‑
vo, sia a quello liquidatorio e nella
quale assumono rilievo tratti pubblici‑
stici (quali, ad esempio, la tutela dei
creditori).
Nel Capitolo IX, invece, sono distin‑
te le ipotesi reali e le ipotesi “solo appa‑
renti” di prorogatio nel complesso con‑
testo della variazione dei sistemi di go‑
vernance, sotto la vigenza del novellato
art. 2380 c.c., ed una disamina specifica
è dedicata alla fattispecie di modifica
del sistema di governance adottata con‑
testualmente al perfezionamento di una
operazione straordinaria.
Dal punto di vista sistematico l’ope‑
ra - assolutamente innovativa nei conte‑
nuti e nelle soluzioni prospettate - ha
l’indiscusso pregio di indagare un terre‑
no poco battuto in precedenza dalla
dottrina, nonché di mirare sempre alla
ricerca di un giusto equilibrio fra profi‑
lo teorico e vaglio della prassi professio‑
nale, come è testimoniato dal richiamo
costante (e sovente critico) degli orien‑
tamenti maturati in questi ultimi anni
nei differenti Consigli Notarili di Mila‑
no, delle Tre Venezie, di Firenze e, da
ultimo, di Napoli.
Concludendo, può certamente affer‑
marsi che lo studio monografico di Pa‑
olo Divizia, per quanto denso di conte‑
nuti teorici ed ospitato in una Collana
di alta tradizione accademica quali sono
i Quaderni di Giurisprudenza commer‑
ciale editi dalla Giuffré e diretti da
Renzo Costi, offre anche numerose so‑
luzioni di taglio operativo per avvocati
e notai in esercizio (con la sola accor‑
tezza di ricercale nel corpo delle note,
per evitare, evidentemente, un eccessivo
appesantimento del corpo del testo).
Indice delle sentenze
Diritto e procedura civile
CORTE DI APPELLO
App. Napoli, sez. I, 12.07.2012, n. 3685 s.m.
CORTE DI CASSAZIONE
Cass. civ., sez. II, 07.08.2012, n. 14222 s.m.
Cass. civ., sez. II, 03.08.2012, n. 14107 s.m.
Cass. civ., sez. II, 24.07.2012, n. 12937 s.m.
Cass. civ., sez. II, 24.07.2012, n. 12923 s.m.
Cass. civ., sez. lav., 20.07.2012, n. 12693 s.m.
Cass. civ., sez. II, 17.07.2012, n. 12289 s.m.
Cass. civ., sez. un., 16.07.2012, n. 12103 s.m.
Cass. civ., sez. I, 11.07.2012, n. 11644 s.m.
Cass. civ., sez. un., 04.07.2012, n. 11135 s.m.
Cass. civ., sez. II, 10.04.2012, n.5692 (con nota di D’Alessandro)
TRIBUNALE
Trib. Nola, coll. A), 18.07.2012, n. 1974 s.m.
Trib. Nola, coll. B), 28.06.2012, n. 1743 s.m.
Trib. Nola, coll. B), 14.06.2012, n. 1571 s.m.
Trib. Nola, coll. B), 14.06.2012, n. 1568 s.m.
Trib. Nola, coll. B), 14.06.2012, n. 1566 s.m.
Trib. Nola, coll. A), 13.06.2012, n. 1559 s.m.
Trib. Nola, coll. D), 06.06.2012, n. 1483 s.m.
Trib. Nola, coll. C), 25.05.2012, n. 1356 s.m.
Trib. Nola, coll. B), 25.05.2012, n. 1355 s.m.
CORTE D’APPELLO
App. Potenza, sez. Lav., 09.03.2012, n. 170 (con nota di Sorrentino)
TRIBUNALE
Trib. Napoli, sez. VII, 19.06. 2012 s.m.
Trib. Napoli, sez. VIII , 07 giugno 2012, n. 6891 (con nota di Micillo)
Trib. Nola, sez. II, 04.06.2012 s.m.
Trib. Napoli, sez. I, 04.06.2012 s.m.
Trib. Napoli, sez. X, 01.06.2012 s.m.
Diritto e procedura penale
CORTE DI CASSAZIONE
Cass. pen., sez.un., 18.07.2012 n. 28997 (con nota di Pignatelli)
Cass. pen., sez.un., 17.07.2012, n. 28719 (con nota di Pignatelli)
Cass. pen., sez.un., 21.06.2012, n. 28717 (con nota di Pignatelli)
Cass. pen., sez.I, 19.06.2012, n. 25076 s.m.
Cass. pen., sez. III, ord. 13.06.2012, n. 25170 s.m.
Cass. pen., sez. I, 10.05.2012, n. 22643 s.m.
Cass. pen., sez. IV, 03.05.2012, n. 23155 s.m.
Cass. pen., sez. V, 27.04.2012, n. 24125 s.m. Cass. pen., sez. IV, 26.04.2012, n. 22338 s.m. Cass. pen., sez.un., 29.03.2012, n. 27996 s.m.
Cass. pen., sez.un., 29.03.2012, n. 25457 s.m.
Cass. pen., sez. V, 29.03.2012, n. 23091 s.m.
Cass. pen., sez. VI, 06.03.2012, n. 25120 s.m.
Cass. pen., sez. I, 11.01.2012, n. 25041 s.m.
g.i.p / g.u.p.
Trib. Nola, sent. 30.7.2012, n. 334 s.m.
Diritto amministrativo
CONSIGLIO DI STATO
Cons. Stato, Ad. Plen., 31.07.2012, n.31 s.m.
Cons. Stato, Ad. Plen., 26.07.2012, n.30 s.m.
Cons. Stato, Ad. Plen., 18.07.2012, n.27 s.m.
Cons. Stato, Ad. Plen., 05.07.2012, n.26 s.m.
Cons. Stato, Ad. Pl., 07.06.2012, n.21 s.m.
Cons. Stato, sez.V, 14.05.2012, n. 2745 s.m.
T.A.R.
T.a.r. Campania, Napoli, sez. I, 18.06.2012, n.3480 s.m.
Diritto internazionale
CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA
C.G.U.E., sez. I, 05.07.2012, Causa C318/10 (con nota di Romanelli)
C.G.U.E. , sez. III, 06. 09.2012, Causa C262/10 (con nota di Romanelli)
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
C.E.D.U., sez. II., 28.08.2012, proc. n. 54270/10 (con nota di Romanelli)
Scarica