G R E C I A
sulle orme di san Paolo
Appunti di viaggio di Giovanni Perani
27 dicembre 2008 – 3 gennaio 2009
INTRODUZIONE
Sono appunti di un viaggio che ci riconduce verso luoghi, per gli appassionati della cultura greco
romana, ricchi di storia e di memoria non solo storico-geografica, ma soprattutto impregnati dello
spirito paolino, che di questi luoghi fu testimone oculare durante i suoi interminabili viaggi.
Il nostro vagabondare ci ha portato nella regione dell’Attica e del Peloponneso con la visita,
dapprima di Atene, e poi Epidauro, Micene, Corinto e Olimpia; per poi risalire verso il nord nella
Grecia Centrale, in Tessaglia, nella Macedonia Centrale e visitare Delfi, Salonicco, Filippi e
Naepolis. I viaggi di Paolo, il secondo e terzo, hanno seguito invece l’itinerario inverso, cioè da
nord a sud, toccando dapprima la Macedonia con sbarco a Neapolis e, percorrendo la “via Egnazia”,
a evangelizzare le varie città, come Filippi, Tessalonica (l’odierna Salonicco), Berea per poi
raggiungere la Grecia con Atene e quindi la comunità di Corinto; (secondo viaggio, dall’anno 49 al
52 d.C.). Nel terzo viaggio (dall’anno 58-63 d. C.), Paolo, attraverso la Galizia, la Frigia e la Lidia,
dopo avere raggiunto Efeso, dove si trattiene più di due anni, passa a fare visita alle comunità della
Macedonia e della Grecia ripercorrendo
l’itinerario del secondo viaggio e si ferma
qualche mese a Corinto. Nel ritorno si imbarca
a Filippi per ritornare a Gerusalemme.
E’ mio intendimento in questi appunti iniziare
a parlare, seguendo il nostro itinerario
quotidiano, dapprima di Paolo e del suo
peregrinare per comunicare il Vangelo con le
sue ansie e le sue gioie, per poi parlare
dettagliatamente dei luoghi dove Paolo è
transitato e ha dimorato e di quegli altri dove
non vi è stata nessuna presenza dell’Apostolo
della Genti.
Per facilitare la lettura della cronaca
quotidiana, dei miei commenti personali e la
narrazione dei vari luoghi e monumenti, ho
pensato di adottatare caratteri diversi.
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Bergamo/Milano/Atene
Sabato 27 dicembre 2008
Quest’anno il Centro Diocesano Pellegrinaggi di Bergamo ci porta in Grecia per seguire i passi
dell’Apostolo Paolo. Il gruppo è di 37 persone, oltre il responsabile Don Mario, e comprende molte
persone amiche conosciute nei precedenti pellegrinaggi (Terrasanta, Giordania, Turchia, Egitto e Siria).
Io raggiungo il gruppo a Linate che si imbarca con destinazione Atene che raggiungiamo nel
pomeriggio. Il tempo è brutto, il cielo coperto, pioviggina e fa freddo.
Finalmente eccomi ad Atene che in un primo momento si presenta come un mare di
cemento, pochissimo verde, traffico caotico. E’ un luogo che nell’immaginario di ciascuno
di noi è molto presente per la cultura classica che abbiamo assorbito nelle scuole
superiori, soprattutto per me che ho passato ore e ore a disegnare e imparare la storia
dell’arte greca. Ritorno ad Atene dopo 28 anni ma quello che avevo nei miei ricordi
purtroppo non è più. L’atmosfera che allora ricordavo, solo a tratti si manifesterà nascosta
oramai da quel dilagante turismo di massa che fa diventare tutto uguale e che ti toglie il
gusto dello scoprire.
In serata, forse perché attirati dall’ insistenza del responsabile greco dell’organizzazione, il sig.
Normann, ci siamo lasciati attirare da uno spettacolo folcloristico di balli e canti in un locale della
Plaka, un dedalo di straripanti piccoli negozi colmi di souvenir, di taverne, di ristoranti. Spettacolo e
locale alquanto scadente con una accompagnatrice di nome Elena di cui è meglio non parlare! Le
canzoni e il balletto entusiasma comunque alcuni di noi spettatori che in alcune danze vengono
coinvolti dai ballerini e ballerine. In verità la musica greca, a parte alcune belle musiche davvero
trascendenti, spesso presentano nenie super soporifere. Le danze infine terminano poi con il
classicissimo e notissimo sirtaki.
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A T E N E
Domenica 28 dicembre 2008
Atene e Paolo
Un po’ di storia
Antichissima è la storia di Atene, cantata da poeti e ricca di uomini illustri, conosciuta a tutti coloro
che hanno un minimo di cultura.
Atene fu la più importante città della Grecia, centro culturale, politico, artistico e religioso del
bacino orientale del Mediterraneo. Una storia che inizia circa 4000 anni fa.
I suoi influssi determinarono la storia di tantissime altre città e civiltà più o meno vicine.
Paolo non poteva ignorare tutto ciò, per questo ne fece la meta del suo secondo viaggio, anche se
con scarso successo.
Luoghi visitati
L’Acropoli con il Partenone, luogo di culto agli dei.
L’Areòpago, luogo “culturale” dove anche Paolo parlò.
L’Agorà ellenica e romana, sede del commercio.
Il Museo archeologico.
Mentre ad Atene aspetta Silvano e Timoteo, Paolo si sente solo, come mai prima era accaduto. Solo
ad Atene. Egli non era un barbaro e aveva imparato a farsi “greco con i greci”, perciò il suo spirito
non poteva rimanere insensibile a tanta bellezza che si offriva ai suoi occhi ad ogni passo. Tuttavia
la sua reazione più spontanea e immediata era quella di un ebreo che assolutamente non può
tollerare alcun idolo e che non disprezza la bellezza ma cerca soprattutto la verità. Paolo comunque
non si isolò ma, come sempre, cercò ogni occasione di dialogo. Nella sinagoga dialogava con gli
ebrei e i cercatori di Dio, e il dialogo si prolungava ogni giorno nell’Agorà con quelli che
incontrava. Volentieri accettava il “confronto” anche con alcuni filosofi, epicurei e stoici. In tutti
era nata una grande curiosità di sapere che cosa pretendeva insegnare quel “ciarlatano”. In
particolare erano colpiti da due termini (Gesù e
Resurrezione) sempre abbinati e ricorrenti nei discorsi di
Paolo, così da far pensare ad una nuova coppia di divinità
orientali. Per questo lo presero e lo condussero
all’Areòpago, collina rocciosa che sorge ai piedi
dell’Acropoli di Atene.
Il discorso di Paolo segna un momento culminante
nell’attività missionaria di Paolo. E’ evidente che Luca, nel
riferirlo, vi annette una grande importanza. E’ il primo
incontro del Vangelo con la filosofia greca ed è forse il
tentativo più alto di dialogo del Vangelo con la cultura.
Paolo, ebreo figlio di ebrei e rinato in Cristo, è un uomo di
fede, ma è anche un uomo di cultura. Egli, che aveva
assimilato il pensiero greco essendo nato a Tarso, non oscura
città della Cilicia, e centro ellenistico cosmopolita, rivela
una profonda conoscenza del contesto culturale su cui
intendeva innestare il germoglio evangelico e anche una
sincera simpatia, non improvvisata, per ogni uomo che cerca
Dio andando come a tentoni. Atene, in quel periodo, era pur
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sempre la capitale della sapienza, dell’arte e della democrazia, anche senza lo splendore dei secoli
V e VI a.C.
All’indignazione profetica di fronte agli idoli si associa in lui la simpatia per questa ricerca
testimoniata dall’Ara al dio ignoto ch’egli ha scoperto percorrendo le strade di Atene. Paolo vede e
apprezza la ricerca umana, che gli allarga il cuore, ma insieme denuncia l’ignoranza che soltanto la
rivelazione divina può dissipare. Non aveva parlato Socrate, nel Fedone, di una zattera alla quale
occorre affidarsi per compiere, non senza rischio, la difficile traversata, in attesa però di una nave
più sicura, cioè di una rivelazione divina? Nel suo discorso Paolo sottolinea ciò che unisce invece
di ciò che divide, insiste su ciò che appiana la via e non su ciò che la sbarra.
Alzando gli occhi dalla collina rocciosa dell’Areopago, dove pronunciava il suo discorso, Paolo
vedeva i robusti Propilei e il Partenone dominante lo spazio, come il pensiero umano domina e tiene
insieme tutti gli elementi. Egli certo ammirava quella armoniosa compattezza simbolo
dell’umanesimo greco, ma insieme ne coglieva il limita inesorabile. Paolo era perfettamente
convinto che l’uomo non basta a se stesso, anzi è destinato a smarrirsi, a perdersi, come documenta
la tragedia greca, se Dio non scende a salvarlo, come scese in Egitto a liberare Israele dalla
schiavitù.
L’incantesimo dell’Areòpago improvvisamente si rompe e nel sistema chiuso dell’uomo irrompe
una forza misteriosa che lo sconvolge. L’annuncio della Resurrezione è l’annuncio che Dio
interviene nella storia dell’uomo per dare inizio ad una
creazione nuova, ma tale annuncio provoca la rottura di
quell’armonia che fino a quel momento ha tenuto
sospeso e incantato l’ uditorio. “Appena sentirono
parlare di resurrezione dei morti, alcuni dei presenti
cominciarono a deridere Paolo. Altri invece gli dissero:
su questo punto ti sentiremo un’altra volta” (At. 17,32).
Paolo alzò la voce in mezzo all’Areopago. Un popolo
prudente e scaltrito ascoltava l’oratoria appassionata
dell’oratore che parlava così bene la “loro” lingua.
Ascoltavano per puro gusto, da intenditori. Scrive Luca
negli Atti: “Non avevano passatempo più gradito che
parlare e sentire parlare”…
Tuttavia l’eloquenza di Paolo non ebbe successo.
L’esordio sul tema dell’Ara al dio ignoto fu preso per
quello che era: un brillante espediente oratorio. Quando
poi toccò il tema della resurrezione dei morti, un
soprassalto di incredulità e di superstizione della platea
troncò l’intervento. Paolo non aveva mai incontrato, né
incontrerà, un uditorio così restio a farsi coinvolgere,
consumato com’era nel gustare i sofismi e le sottigliezze
dell’oratore più che con le sue ragioni. Se ne partì in
fretta. Meglio le percosse, la galera e il martirio
piuttosto che quell’assemblea smaliziata che lo ascoltava
lettera di Paolo agli Ateniesi
come un imbonitore fra i tanti.
Molto stimolante e pieno di significato è stato per me la lettura delle lettere di Paolo e
commentate da Don Mario in questo stesso luogo dove l’Apostolo delle genti le aveva
pronunciate. Il suo messaggio evangelico ai suoi contemporanei, pur rimanendo invariato
nella forma, è ancora attuale e valido anche per noi.
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il luogo
La collina dell’Acropoli è l’apoteosi della bellezza greca del V secolo a.C. che ancora oggi incanta
con la ricerca della perfezione, anche con l’assenza di colore, unico, fatale tributo pagato al
trascorrere dei secoli. Invero questa spettacolare bellezza in candido marmo, al tempo di Pericle e
Fidia era invece un tripudio di colore: metope, triglifi, statue variopinte facevano brillare, in mille
tonalità, la passione ateniese per l’arte.
Nei pressi dei Propilei, il grandioso ingresso all’intero complesso, vi è il tempio di Atena Nike,
costruito fra il 426 e il 421 e progettato da Callicrate per commemorare le vittorie degli ateniesi sui
persiani. L’edificio è stato usato sia come punto di osservazione sia come tempio della dea Vittoria,
Atena Nike, della quale si può osservare la statua sulla balaustra.
Attore protagonista dell’intera scena è
però il Partenone, uno degli edifici
più famosi del mondo, un tempio
costruito nel 447 dagli architetti
Callicrate e Ictino per ospitare la
statua di Athena Parthenos. Dopo
nove anni di costruzione il tempio fu
dedicato alla dea; nel corso dei secoli
fu più volte riadattato divenendo una
chiesa, una moschea e un arsenale e
subendo ingenti danni. Quello che
vediamo oggi, è purtroppo quanto
rimane dopo le folate della stupidità
umana che videro il loro apice nel
cannoneggiamento cui l’Acropoli fu
sottoposta da parte del Doge
veneziano
Francesco
Morosini,
ennesimo esempio della genialità che, da sempre, connota ogni azione militare.
Ancora oggi, però, l’edificio rappresenta la massima espressione della gloria dell’antica Grecia e
l’emblema della città di Atene. L’Acropoli è ancora affascinante nonostante le impalcature dovute
agli interminabili restauri. E’ affascinante per il valore storico e la bellezza senza tempo dei suoi
templi che si stagliano solenni contro il cielo di Atene.
Poco distante dal Partenone, ecco un altro capolavoro: l’Eretteo che, con la sua pianta inusuale i
cui volumi, su piani differenti,
rispettano la sacralità del luogo e
i
dislivelli
dell’Acropoli,
testimonia
l’incredibile
applicazione dell’arte ionica in
una struttura complessa, attenta
alla morfologia del terreno e
rispettosa della simbologia sacra.
Gli occhi vengono attratti dalla
loggetta sostenuta dalle Cariatidi
(si tratta di copie, le originali si
trovano nel museo), ma è l’intero
complesso, che la leggenda
vuole sorto sul luogo in cui il
tridente di Poseidone fece
zampillare una sorgente di acqua
salmastra, a lasciare senza
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parole. Il suo significato simbolico, con l’immancabile ulivo, erede di quello donato da Atena, è un
intrecciarsi di culti antichi e diversi.
Dopo la visita all’Aeròpago (vedi sopra), una veloce panoramica di alcuni “tesori” della città,
commentati esaurientemente dalla nostra capace guida: il tempio dedicato a Zeus, l’arco di Adriano,
l’Odeon di Erode Attico, lo stadio olimpico, il Palazzo del Parlamento e la tomba del milite ignoto a
piazza Sintagma con gli immancabili guardie nelle loro caratteristiche uniformi, gli Euzoni.
Visita veloce al Museo Archeologico Nazionale, inaugurato nel 1891, che raccoglie una collezione i
cui pezzi si trovavano precedentemente in diverse
zone della città . Tra le tantissime cose esposte e non
viste, non ci siamo persi però la Maschera di
Agamennone, maschera mortuaria d’oro che si
pensava appartenesse al leggendario re Agamennone.
Centro sociale, politico e commerciale dell’Antica
Atene, l’Agorà è il luogo in cui si “esercitava la democrazia”, dove fu condannato Socrate e dove si
perpetrava l’ostracismo. A partire dal 600 a.C., quest’area fu abbellita da una ricca serie di
monumenti che comprendevano templi, altari, edifici commerciali e di governo, odeon…Oggi,
dagli imponenti resti si eleva la ricostruzione della Stoà di Attalo, un raffinato edificio a porticato
coperto, che ospita il museo dell’Agorà (monete, giocattoli, sandali , vasi, un orologio idraulico per
misurare la lunghezza dei discorsi, statue, regoli e gli ostraca, i famosi cocci sul quale si scriveva il
nome del cittadino ateniese che si desiderava mandare in esilio). Tra gli edifici meglio conservati: il
possente tempio dorico detto Thesèion, dedicato ad Atena e a Efesto.
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Micene/Epidauro/Corinto/Olimpia
Lunedi 29 dicembre 2008
Corinto e Paolo
Un po’ di storia
Importantissimo centro navale e commerciale fin dai tempi più remoti, Corinto conobbe momenti
terribili nel periodo della guerra tra Atene e Sparta, di cui era alleata.
Era un città troppo ricca per non fare gola ai romani, che la assoggettarono nel 146 a.C. E’ famosa
perché fu sede dei “Giochi Istmici”, gare che assomigliavano a quelle di Olimpia.
Nei suoi pressi esisteva una strada lastricata che, con l’uso di appositi carrelli, serviva al trasporto
delle navi dal mare Ionio al mare Egeo e viceversa, evitando così la circumnavigazione del
Peloponneso. La costruzione dell’attuale Canale avvenne nel 1893, dopo 11 anni di lavoro.
A Corinto Paolo predicò a una popolazione famosa per la frivolezza e dissolutezza dei costumi.
Luoghi visitati
L’Agorà, centro commerciale e culturale della città.
Il Museo archeologico.
L’Acrocorinto, punto panoramico, dove sorgeva il tempio di Afrodite (da visitare)
Dopo il discorso sull’Areopago, contestato dagli intellettuali ateniesi, Paolo lasciò Atene per recarsi
a Corinto. Lo scarso successo non scoraggiò comunque Paolo che raggiunta Corinto, capitale della
provincia romana dell’Acaia, ancora più cosmopolita e corrotta di Atene, trova ospitalità presso i
coniugi cristiani Aquila e Priscilla facenti parte della numerosa comunità giudaica del luogo. Molto
prima di avvicinarsi alla città Paolo vide levarsi in alto fra i due mari, isolato e solenne,
l’Acrocorinto, sulla vetta del quale
Afrodite, patrona di Corinto, aveva
un tempio con mille sacerdotesse
pronte ad offrire il proprio corpo
agli innumerevoli pellegrini che
salivano verso il santuario. Appunto
per la pratica della prostituzione
sacra collegata al tempio di
Afrodite, Corinto si era guadagnata
la fama di città libertina.
Tanto più stupisce l’audacia di
Paolo che proprio ai Corinzi
propone l’ideale cristiano della
verginità consacrata, insegnò senza
esitazione: “Glorificate Dio nel
la strada del Lechaion, sullo sfondo l’Acrocorinto
vostro corpo” (1Cor 6,20) e,
soprattutto inculcò con singolare
fervore la “via” che sopra ogni altra si eleva, l’agàpe.
Il traffico intenso dei due porti riversava in città una folla immensa di marinai e soldati,
imprenditori e commercianti, tra i quali primeggiavano gli ebrei, e una incredibile moltitudine di
schiavi. Dal punto di vista sociale esisteva un forte squilibrio sociale tra i grandi possessori di
ricchezze e la massa dei diseredati e dei poveri. Come in tutte le città dell’epoca, circolavano retori,
filosofi e sofisti che sollecitavano le innata curiosità intellettuale dei greci, l’amore alla disputa e
l’inclinazione a distinguersi nell’eloquio e nella sapienza.
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Aquila, oriundo del Ponto era giunto da poco dall’Italia con la moglie Priscilla, dopo che
l’imperatore Claudio aveva espulso da Roma tutti gli ebrei. Paolo, trovata ospitalità presso questi
coniugi, rimase con loro e li aiutava a fabbricare tende. La loro casa divenne ben presto “domus
ecclesia”, cioè una delle prime chiese domestiche. Paolo lavorava per guadagnarsi da vivere, però
ogni sabato si recava nella
sinagoga, dove “attraverso il
dialogo cercava di convincere tutti,
ebrei e greci” (At 18,4). Paolo
“tessitore” conosceva bene l’arte
del dialogo, l’arte di tessere
rapporti umani e di annodare i fili
che passavano per le sue mani a
Colui che tiene insieme tutte le
cose e in cui tutto si compie, il
Cristo, che annunciava stando al
telaio nella bottega di Aquila e
Priscilla.
Quando giunsero dalla Macedonia
Corinto, pietra della sinagoga
Silvano e Timoteo, Paolo si dedicò
tutto alla predicazione, affermando davanti agli ebrei che Gesù è il Cristo, cioè il Messia inviato da
Dio. L’opposizione e il rifiuto degli ebrei lo costrinsero ancora una volta a lasciare la sinagoga per
rivolgersi ai pagani. Perciò si trasferì nella casa d’un tale chiamato Tizio Giusto, che onorava Dio,
la cui abitazione era accanto alla sinagoga. Tuttavia il capo stesso della sinagoga, Crispo, “credette
nel Signore insieme a tutta la sua famiglia, abbracciando la fede e si fece battezzare” (At 18,8).
Traspare da queste righe un’attività fervida e fruttuosa; con tutto ciò l’animo di Paolo è ancora
depresso. Pesa ancora su di lui l’insuccesso di Atene ed è alla ricerca di un metodo missionario più
consono al messaggio evangelico.
Anche se l’ambiente di Corinto è diverso da quello di Atene, Paolo ormai sa che “gli ebrei chiedono
miracoli e i greci cercano la sapienza, mentre il suo compito è predicare Cristo crocefisso,
scandalo per gli ebrei e stoltezza per i pagani” (1Cor 1,22-23). Paolo maturò questa scelta, non
senza interno travaglio, proprio a Corinto. Per sostenerlo e incoraggiarlo su questa via ardua, una
notte il Signore gli apparve in sogno e gli disse: “Non avere paura! Continua a predicare e non
tacere, perché io sono con te! Nessuno potrà farti del male. Anzi, molti abitanti di questa città
appartengono già al mio popolo” (At 18,9-10). Ben presto gli ebrei insorsero in massa contro
Paolo, lo presero e lo trascinarono davanti al tribunale, dicendo: “Quest’uomo cerca di convincere
la gente ad adorare Dio in modo contrario alla legge” (At 18,12-13). Ma il proconsole Gallione
(fratello del filosofo Seneca), dimostrò larghezza di spirito dichiarandosi incompetente a giudicare
una causa religiosa. Così li fece uscire dal tribunale. Ne andò di mezzo lo stesso capo della
sinagoga, addirittura percosso dalla sua gente.
Dopo qualche tempo, probabilmente nell’autunno del 52, Paolo lasciò la città, salpando dal porto di
Cencre verso la Siria in compagnia di Aquila e Priscilla. Partendo da Corinto, lasciava una
comunità fiorente e numerosa, formata in massima parte da pagani convertiti. Era la prima
comunità chiamata a vivere in un contesto culturale assolutamente nuovo rispetto a quello ove la
fede era nata. La difficoltà di inserirsi e di esprimersi in un mondo nuovo, come era quello
grecoromano, era accresciuta dagli ebrei presenti in gran numero nella comunità e legati alle
venerate tradizioni dei padri.
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il viaggio e i luoghi
Sveglia alle 6:45, messa in hotel, colazione e partenza per il Peloponneso. Non può mancare una sosta
al noto canale di Corinto, straordinaria opera di ingegneria realizzata tra il 1882 e il 1893, lungo 6.243
metri, largo 24,6 metri e profondo 8 metri. Gli argini che lo fiancheggiano, nel punto più alto
raggiungono i 79,5 metri. Già in epoca arcaica era
stato progettato il suo taglio. Il tentativo più
ambizioso fato nell’antichità fu quello intrapreso
da Nerone nel 67 d.C. L’Istmo è stato sempre
l’unico ponte naturale che metteva in
collegamento la Grecia continentale con il
Peloponneso, penisola più grande di tutta la
Grecia centrale. Breve sosta per le immancabili
fotografie e per bere un caffè nel bar vicino. Da
segnalare un fatto valido per tutta la Grecia: il
prezzo del caffè espresso che va da 2 a 5 euro
mentre quello tradizionale greco (uguale a quello
turco) costa invece un po’ di meno, tra 1 e 2 euro.
Si riprende il viaggio direzione Micene ed Epidauro; il panorama è molto bello, colline di pietra,
tante piante di arance e viti. Poche abitazioni ma abbastanza verde. Raggiungiamo Micene
racchiusa dalle “mura ciclopiche” (1500 a.C. circa), realizzate con massi grezzi non tagliati con
spessori tra i 3 e gli 8 metri. Furono dette “Ciclopide” perché ritenute opera dei leggendari Ciclopi.
Micene (o Mikìnes) è uno dei luoghi più evocativi al mondo: è il centro nevralgico della Grecia
eroica che ha ispirato i drammaturghi ellenici ed è la sede dei monumenti, scoperti da Schliemann
nel XIX secolo, che hanno 3000 anni di storia.
L’ingresso principale è la Porta dei Leoni (o delle
Leonesse, come afferma la nostra dotta guida) che si
apre in cima a una rampa. Sopra i due battenti poggia
l’architrave che è un enorme monolito; per alleggerire
l’architrave dal peso della sovrastruttura, risulta il
“triangolo
di
scarico”,
tratto
caratteristico
dell’architettura micenea. Questo triangolo, per ragioni
estetiche, ma anche pratiche, viene colmato con una
sottile lastra di calcare duro, che reca, in rilievo, la
rappresentazione che ha dato il nome alla porta: due
leoni (o leonesse) rampanti tesi a respingere gli influssi
malefici. Sui piccoli altari, fra le due belve, è ritta una
colonna che sostiene il soffitto di un edificio. Sulla faccia laterale dei montanti stessi, due fori
quadrangolari ricevevano le estremità di una sbarra di legno quadrata, che assicurava la chiusura
della porta. Altri fori, due per ciascun montante, dovevano accogliere le maniglie dei battenti, in
modo che la porta potesse aprirsi per l’intera sua larghezza. Interessanti le rovine delle tombe reali
(Circolo funerario A) dove furono rinvenuti scheletri delle famiglie reali di Agamennone e del suo
seguito, con maschere d’oro sul volto e offerte funerarie ricche di metalli preziosi; il Palazzo e la
salita verso l’Acropoli, collina rocciosa, isolata da ogni parte, fortezza naturale e nel contempo un
osservatorio sulla piana argolica. Ai piedi della cittadella si apre il Circolo funerario B di 28 metri
di diametro che contiene 24 tombe a fossa. Di ritorno verso il pullman ci fermiamo per la visita del
tesoro di Atreo, capolavoro dell’architettura micenea, che un tempo si credeva appartenesse ad
Agamennone. Risale al XIV sec. a.C. ed è caratterizzato da una tomba a tholos (struttura a cupola)
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alla quale si accede attraverso un suggestivo corridoio. Il vano è circolare e comunica con una
stanza più piccola che un tempo doveva custodire il famoso tesoro.
Percorrendo strade panoramiche in una alternanza di colline coperte da pinete e oliveti e paesini, si
giunge a Epidauro. Non fu una vera città ma solo la sede del tempio di Esculapio, dio della
medicina (500 a.C.), la cui notorietà valicò i confini del mondo ellenico. La zona archeologica è
molto diversa dalle altre località dell’Argolide perché, a differenza di Micene e Tirinto, Epidauro fu
immune da ostilità, fedele solo alla sacra missione di guarire i malati. La natura sembrava
adeguarsi, con acque abbondanti e limpide, una vegetazione ricca e varia e un clima mite. Qui i
popoli dell’antichità pregavano il dio Esculapio perché alleviasse le sofferenze con la guarigione e
il conforto dell’anima; l’aspetto mistico fu affiancato più tardi dalla presenza di medici e sacerdoti.
Quali siano le origini del suo culto, Esculapio presenta a Epidauro tutte le caratteristiche
fondamentali di un dio associato al ciclo annuale della natura. Suo simbolo è il serpente, animale
che, per gli antichi, viveva al tempo stesso sopra e dentro la terra. D’altra parte, il dono di guarire,
che lo caratterizza, è un attributo proprio alle
divinità ctonie (del suolo), come risulta dalla loro
familiarità con la vegetazione in generale e le
piante curative in particolare, e dal loro potere
sulle potenze infere, che comunicano con i viventi
in modo misterioso, magico, influenzando la loro
condizione e la loro evoluzione. I malati, dopo
solenni riti di purificazione, passavano la notte in
uno speciale edificio, il portico d’incubazione,
dove il dio appariva loro durante il sonno,
indicando il trattamento che essi dovevano seguire. Senza escludere
completamente gli interventi chirurgici e le cure farmaceutiche, la terapia di
Esculapio era soprattutto fondata sull’esperienza sconvolgente del malato,
messo a diretto contatto col soprannaturale, metodo che doveva avere risultati
immediati e impressionanti, particolarmente nel caso di malattie
psicosomatiche.
Visitiamo poi il museo ricco di strumenti di medicina e chirurgia, ex voto,
statue.
Di notevole interesse i frammenti della porta della tholos (struttura a cupola)
con la sua decorazione a rosette e il soffitto a cassettoni del peristilio con la sua
mirabile decorazione a fiori, piena di vigore e di morbidezza. Sono esempi di una sensibilità
plastica che ne fa uno dei più splenditi ornati architettonici greci.
Il teatro è il più grande della Grecia
antica e il meglio conservato. Costruito
nel III secolo a.C. e ampliato nel II,
accoglieva 14.000 spettatori. L’acustica
perfetta consentiva alle file più distanti, a
20 metri di altezza, di udire i sussurri
sulla scena. Delle 55 file, la prima aveva
sedili bassi per collocarvi i cuscini; fra
una fila l’altra si distinguevano gli
incavi per i piedi. Al centro della
orchestra circolare l’altare di Dioniso
ricordava
la
sacralità
delle
rappresentazioni. Del palcoscenico,
rialzato, si conservano le fondamenta;
tavole girevoli erano usate come fondali.
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Corinto, come già detto all’inizio, ha una storia lunga 5000 anni. I romani che avevano cominciato
a interessarsi delle vicende politiche greche, si impadronirono di Corinto, sede della lega achea e se
ne vendicarono distruggendola completamente nel 146 a.C. Cento anni più tardi Giulio Cesare
progettò un piano di ricostruzione della città distrutta mediante la fondazione di colonie da
assegnare a veterani e alle popolazioni indigenti delle grandi città romane. Corinto era compresa in
questo piano e la sua costruzione cominciò nel 44 a.C. Cesare fu assassinato nello stesso anno, ma i
lavori continuarono e terminarono sotto Augusto.
L’agorà, fulcro della vita politica e pubblica, era una grande piazza circondata da colonnati e
botteghe. A sud, la Stoà (portico) si sviluppava su due piani con due file di 33 botteghe, forse
osterie poiché ognuna aveva un pozzo di 12 metri alimentato dalla fontana di Pirene. Il
monumentale tempio di Apollo (540 a.C.) domina tutto il golfo di Corinto. Fra i più venerati del
mondo greco, sorge sui resti di un tempio del VII sec. a.C. E’ uno dei primi esempi di stile dorico,
con 38 colonne ricavate da un solo blocco.
Da qui il mio sguardo si sofferma spesso verso il lontano Acrocorinto, sede del tempio di Afrodite
con le sue mille sacerdotesse…e penso ai pellegrini che seguivano le ancelle che avevano come
richiamo un nastrino rosa legato alla caviglia, come per dire follow me, follow me.
tempio di Apollo
Attraverso una strada che scorre da est a ovest e parallela al mare del golfo di Corinto, raggiungiamo
Olimpia dopo circa tre ore di viaggio sistemandoci all’albergo Amalia.
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Olimpia/Delfi
Martedi 30 dicembre 2008
il viaggio e i luoghi
Dopo la messa e la colazione nell’Hotel Amalia raggiungiamo in pochi minuti di pullman Olimpia, che
vuol dire Sacro Altis (Bosco). Il tempo è molto bello con sole e il cielo molto sereno.
Siamo rimasti tutti costernati e impressionati vedendo i danni ambientali causati da un incendio che ha
devastato l’intero patrimonio boschivo della zona, avvenuto nell’estate 2007, proprio qui a Olimpia, a
ridosso del sito archeologico.
Nel 776 a.C. venne svolta la prima Olimpiade e per tutte le successive edizioni fu proclamata una
“tregua sacra” per la durata dei giochi, che impediva l’accesso alle truppe armate e proclamava
l’inviolabilità dei pellegrini mentre i popoli di stirpe greca dimenticavano le discordie nel nome
dell’ellenismo. Da notare che in età classica Olimpia non era un centro abitato ma solo un luogo di
culto.
Visitiamo la città dei giochi olimpici; passiamo dal Ginnasio e dalla Palestra, luoghi dove si
esercitavano gli atleti ad ambienti di culto come il Theokòleon dove alloggiavano i sacerdoti, al
Bouleutérion, residenza dei membri della commissione olimpica, alle terme, ai magazzini, agli
alloggi per gli ospiti, ai locali per contenere gli ex-voto, al grande Tempio di Zeus (470-456 a.C.),
distrutto da un sisma nel VI secolo a.C. L’edificio, realizzato in conglomerato, fu decorato con
statue di bronzo e teste di leone. All’interno vi era la scultura più celebre dell’antichità, la statua di
Zeus Assiso, opera di Fidia alta quasi 13 metri, in legno rivestito di oro e avorio. Infine allo Stadio
dove si celebravano i giochi. In questo stadio, ricostruito come l’originale del IV secolo a.C., è
visibile la pista con il traguardo e la linea di partenza. L’ippodromo lo si è intravisto in lontananza.
Prima di passare a descrivere dettagliatamente alcune opere all’interno del Museo, vorrei precisare
cosa significasse per gli antichi Olimpia:
- il luogo di culto panellenico, luogo di tregua sacra della guerra che si manifesta come sfida di
prestazione fisica regolata sotto la garanzia di Zeus,
- autoconoscenza del proprio corpo, la gioia dell’ effimera vittoria della gloria, l’accettazione leale
della sconfitta e dei propri limiti,
- la valorizzazione della fatica umana che è sfida e lotta continua che libera lo spazio umano dai
mostri selvaggi come fa Ercole rappresentato nelle metope del Tempio di Zeus e lo prepara per la
civiltà operosa,
- istituzione di ordine e di regole del vivere civile, educazione al loro rispetto come vuole Apollo
che sul frontone del Tempio sostiene l’istituzione sacra del matrimonio di Piritoo contro i centauri
selvaggi e senza legge,
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- lotta che non distrugge e che conosce la misura del Logos.
Nel Museo, che espone splendidi esempi dell’antica arte scultorea greca, si trovano i frontoni del
tempio di Zeus. Come dice la nostra guida ognuno di noi vuole quel senso di giustizia e di
protezione che gli dei ci devono e possono garantire. Sul frontone est è infatti scolpito la scena della
gara di Pelope (Giustizia) e sul frontone ovest la battaglia dei Centauri (Protezione).
Frontone est – GIUSTIZIA
(al vertice della composizione Zeus, alla sua destra Pelope e Strope, la moglie; alla sua sinistra
Enomao e Ippodamia)
Sfida tra Pelope ed Enomao
Pelope, figlio di Tantalo, aveva deciso di stabilirsi in una nuova sede con la immensa schiera dei
suoi seguaci, dopo essere stato cacciato dalle terre di suo padre dai barbari. Ma prima volle chiedere
la mano di Ippodamia, figlia del re di Enomao d’Arcadia, il quale regnava su Pisa e sull’Elide. Non
si sa con certezza se Enomao fosse stato avvertito da un oracolo che suo genero l’avrebbe ucciso,
oppure se egli si innamorò di Ippodamia. In ogni caso escogitò una strano mezzo per impedire a
Ippodamia di sposarsi: sfidava infatti ciascun pretendente a misurasi con lui in un percorso, tra Pisa,
che sorge sulle rive del fiume Alfeo, di fronte a Olimpia, fino all’altare di Poseidone sull’istmo di
Corinto. Enomao pretendeva che Ippodamia salisse sul cocchio del pretendente, per distrarre la sua
attenzione, ma gli concedeva un vantaggio di mezz’ora mentre egli stesso sacrificava un ariete
sull’altare di Zuss a Olimpia. Ambedue i cocchi si sarebbero poi lanciati verso l’istmo e il
pretendente, se sorpassato da Enomao, doveva morire; se invece avesse vinto, Ippodamia sarebbe
stata sua, ed Enomao sarebbe morto. Enomao non mancò mai di vincere perché le sue cavalle,
abilmente guidate da Mirtilo che era figlio di Ermes, nate dal vento e donate da suo padre Ares,
erano di gran lunga le migliori di tutta la Grecia. In tal modo Enomao eliminò dodici principi e
inchiodò le loro teste e le loro membra alle porte del palazzo.
Pelope arrivò a Pisa con un carro leggerissimo che poteva correre sul mare senza che si bagnassero i
mozzi delle ruote ed era trainato da una coppia di instancabili, alati e immortali cavalli regalati da
Poseidone. Ippodamia frattanto si era innamorata di Pelope e, lungi dall’ostacolare la corsa, promise
di ricompensare generosamente Mirtilo se con qualche mezzo fosse riuscito a mettere in scacco suo
padre. Mirtilo allora rimosse i chiodi dai mozzi delle ruote di Enomao e li sostituì con altri fatti di
cera. Quando i cocchi raggiunsero l’estremità dell’istmo ed Enomao, lanciato all’inseguimento,
afferrò la lancia, preparandosi a colpire Pelope alla schiena, le ruote si staccarono dal suo carro ed
egli morì travolto dai suoi stessi cavalli. Pelope riuscì quindi a vincere e, non avendo nessuna
intenzione di mantenere la promessa fatta a Mirtilo unitamente a Ippodamia di una ricompensa
generosa, gettò l’auriga in mare. Sul punto di morire, Mirtilo lanciò una maledizione contro Pelope
e tutto il suo casato.
Tutto questo è rappresentato in modo mirabile con sculture umane ed equestri sul frontone. La
nostra ottima guida Antonio ci ha narrato succintamente questo mito che ho poi ampliato e che
continua qui di seguito…
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…quando divenne re succedendo al trono di Enomao, ben presto conquistò quasi tutta la regione e
la chiamò Peloponneso che significa “isola di Pelope”, dal proprio nome. Accumulò ricchezze e
onori, ma i suoi discendenti, vittime della maledizione degli dei, erano destinati tutti a non
conoscere mai la pace, sebbene Pelope avesse tentato di conciliarsi i favori di Zeus istituendo le
Olimpiadi. Atreo e Tiste, figli di Pelope e Ippodamia, si videro offrire il trono di Micene, perché un
oracolo aveva ingiunto ai suoi abitanti di pretendere come re un discendente di Pelope. I due fratelli
andarono a Micene e attesero la scelta del popolo. Al bestiame che Atreo e Tieste avevano ereditato
da Pelope, Ermes aggiunse un agnello dal vello d’oro, sapendo che la sua presenza avrebbe
provocato tra i due fratelli una disputa atroce. In qualità di primogenito, Atreo pretese non solo
l’agnello dal vello d’oro, ma anche il trono di Micene. Sacrificò ad Artemide l’agnello ma tenne
con sé il prezioso vello, prova della sua sovranità. Tieste nel frattempo aveva sedotto Erope, moglie
di Atreo, e l’aveva convinta a rubare il vello d’oro per darlo a lui. Arrivò infine il giorno in cui gli
anziani di Micene dovevano proclamare la loro scelta. Quando Tieste dimostrò di essere in possesso
del vello d’oro, il trono venne accordato a lui. Atreo, costernato, supplicò gli dei di venirgli in aiuto
e Zeus rivelò sia il furto di cui Tieste si era reso colpevole, sia l’infedeltà della moglie. Il trono andò
allora ad Atreo mentre Tieste prendeva la fuga. Una volta re di Micene, Atreo cercò il modo di
vendicarsi dl fratello. Uccise Erope e poi mandò a Tieste un messaggio assicurandolo del suo
perdono e chiedendogli di dividere il trono con lui. Poi si impadronì dei figli del fratello. Tieste
l’accolse calorosamente e lo invitò ad un banchetto per celebrare il suo ritorno. Tieste fece onore al
pranzo, ma quando chiese notizie dei figli Atreo gli mostrò le loro teste e gli rivelò che gliene
aveva servito la carne durante il banchetto. Folle di dolore, Tieste maledisse Atreo. Consultò
l’oracolo di Delfi che gli consigliò di generare un figlio dalla propria figlia, Pelopia, unica
sopravvissuta della sua prole. Tieste si recò quindi a Sicione, dove la fanciulla era sacerdotessa di
Atena e pupilla del re Tesproto. Tieste trovò Pelopia intenta a sacrificare, nottetempo, ad Atena
Colocasia, e poiché non voleva partecipare ai riti si nascose in una vicina grotta. Accadde che
Pelopia, mentre guidava la danza rituale, scivolasse nella pozza del sangue sgorgato dalla gola della
vittima, una pecora nera, macchiandosi la tunica. Subito essa corse allo stagno che vi era presso il
tempio, si lavò la tunica e stava per lavare la macchia quando Tieste balzò fuori dalla grotta e la
violentò. Pelopia non lo riconobbe perché egli aveva il volto coperto da una maschera, ma riuscì a
rubargli la spada e la portò con sé al tempio dove la nascose sotto il piedestallo della statua di
Atena. Tieste, quando trovò il fodero vuoto, temette di essere scoperto e fuggì in Lidia, la terra dei
suoi padri. Intanto anche Atreo oppresso dal rimorso di avere ucciso i figli del fratello, andò a
consultare l’oracolo di Delfi, che gli ordinò di fare ritornare Tieste dall’esilio. Quando Atreo arrivò
a Sicione Tieste aveva già lasciato la città. Atreo rimase quindi un po’ di tempo alla corte del re
Tesproto e si innamorò di Pelopia, che egli credeva fosse la figlia del re, e le nozze ebbero subito
luogo. A tempo debito Pelopia diede alla luce il figlio generato in lei da Tieste e lo abbandonò sulla
montagna; ma i pastori di capre lo soccorsero e lo fecero allattare da una capra (donde il nome
Egisto, ossia “che ebbe forza da una capra”). Atreo pensò che Tieste fosse fuggito da Sicione
all’annuncio del suo arrivo, che il bimbo fosse suo, e che Pelopia fosse stata colpita dalla
temporanea pazzia che a volte affligge le donne dopo il parto. Egli allora ricuperò Egisto tra i
pastori e lo allevò come suo proprio erede. Una serie di sventure si abbatté su Micene: i raccolti
vennero a mancare, le greggi furono decimate e, disperato, Atreo chiese ai suoi figli, Agamennone e
Menelao, di partire alla ricerca di Tieste. Contro ogni attesa, essi lo scoprirono a Delfi e lo
portarono di forza a Micene. Rivedendo il fratello, Atreo non riuscì a vincere il suo odio per lui,
dimenticò le raccomandazioni dell’oracolo e fece rinchiudere Tieste in una segreta, deciso a farlo
morire. Una sera, mentre dormiva nelle sua prigione Tieste si svegliò vedendo davanti a sé un
bambino di sette anni che lo minacciava con una spada. Era Egisto che uccidendo Tieste, sperava di
avere l’approvazione del proprio supposto padre, Atreo. Tieste non fece nessuna fatica a disarmare
il fanciullo e a riconoscere la propria spada. Era giunto il momento di prendersi la rivincita su
Atreo, sebbene Pelopia avesse messo fine ai propri giorni appena aveva saputo chi era in realtà il
padre del proprio figlio. Tieste convinse Egisto a rivolgere la sua arma contro Atreo e a svelar la sua
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paternità. Micene conobbe allora un periodo di pace. Tieste ne era il re ed Egisto il principe
ereditario, ma gli effetti della maledizione si fecero sentire di nuovo sulla casa di Pelope.
Agamennone, il primogenito di Ateo, non tardò a rivoltarsi contro lo zio. Riuscì a cacciar Tieste da
Micene e fece sua l’eredità di Egisto. In seguito Agamennone sposò Clitennestra e divenne re di
Argo, poi partì per stringere d’assedio Troia, ma il destino tragico dei discendenti di Pelope non finì
lì perché Egisto attendeva l’ora della vendetta…
Tieste giace sepolto lungo la strada che conduce da Micene ad Argo e sulla sua tomba c’è la statua
di pietra di un ariete. La tomba di Atreo e il tesoro, che si trova in una cripta sotterranea, si
mostrano ancora ai visitatori tra le rovine di Micene. (Visitata lunedi 29 dicembre).
Nella iconografia classica Pelope è raffigurato sempre in relazione alla gara sul carro. La sua statua
nel tempio di Zeus lo presenta nudo mentre si prepara alla gara. La spalla d’avorio (o il braccio) era
in realtà il simbolo della sua regalità. Infatti successivamente venne identificato come uno scettro
che passò ad Agamennone.
Frontone ovest – PROTEZIONE
(al vertice della composizione Apollo)
Lotta tra Lapiti e Centauri (Centauromachia)
In occasione delle nozze tra Piritoo, il Lapita e Didamia furono invitati alle nozze tutti gli olimpi
compresi i Centauri, cugini di Piritoo. Questi ultimi sedettero a tavola con i principi tessalici in una
vasta grotta in quanto il palazzo non poteva più ospitare i convitati poiché erano più di quanto ne
poteva accogliere. I Centauri non erano avvezzi a bere il vino e, quando ne fiutarono l’aroma,
respinsero il latte acido che stava loro dinanzi e corsero con i loro corni d’argento ad attingere vino
dagli otri. Nella loro ignoranza bevvero il vino schietto, senza allungarlo con l’acqua e si
ubriacarono in tal modo che quando la sposa apparve sulla soglia della caverna per salutare gli
ospiti il Centauro Eurizione balzò dallo sgabello, rovesciò il tavolo e la trascinò via per i capelli.
Subito gli altri Centauri seguirono il suo vergognoso esempio, agguantando bramosi le donne e i
fanciulli che capitavano loro a tiro. Piritoo e altri Lapiti accorsero in aiuto di Didamia, amputarono
il naso e le orecchie di Eurizione e gettarono i Centauri fuori dalla caverna. Si scatenò una lotta
furibonda che si prolungò fino al calar della notte; così ebbe origine l’antica inimicizia tra i
Centauri e i loro vicini Lapiti. Apollo e l’eroe Teseo aiutarono Piritoo e i suoi Lapiti imponendo il
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rispetto delle regole civili. I Centauri, metà cavalli e metà uomini, rappresentano l’umanità ancora
ferina, che non rispetta e non conosce le regole civili e quelle che istituiscono la famiglia. Questa
interpretazione cominciò a essere mediata dall’influenza del pensiero filosofico, la battaglia tra i
Lapiti e i Centauri fu vista come una allegoria della lotta interiore tra gli istinti selvaggi dell’uomo e
l’educazione basata sulla civiltà, rappresentata dalla giusta comprensione da parte dei Lapiti
dell’uso che andava fatto del vino donato dagli dei, che deve essere allungato con acqua e bevuto
senza abbandonarsi agli eccessi. Gli scultori greci della scuola di Fidia concepirono questa battaglia
come una lotta tra l’umanità contro mostri maligni che simbolicamente rappresentava il conflitto tra
la civile Grecia e i barbari dell’impero Persiano.
Questa scultura è rappresentata proprio sul frontone del tempio di Zeus a Olimpia, nel luogo dove i
Greci in sostituzione della lotta senza regole istituiscono la competizione che rispetta le regole sacre
sotto la garanzia di Zeus.
Le fatiche di Ercole
Nello stesso Museo, si trova questa metopa che
rappresenta una delle dodici fatiche di Ercole.
L’undicesima fatica, imposta da Euristeo, fu di
cogliere i frutti aurei di un melo, dono di nozze
della Madre Terra a Era, e che la dea aveva
tanto gradito da piantarlo nel proprio giardino.
Questo giardino si trovava sulle pendici del
monte Atlante. Quando Era si accorse che le
Esperidi, figlie di Atlante, cui essa aveva
affidato il sacro albero, stavano cogliendone le
mele, ordinò al sempre vigile Ladone di
arrotolarsi attorno al tronco e di fare attenta
guardia.
Ercole, che non sapeva quale direzione prendere
per giungere al giardino delle Esperidi,
camminò sino a quando ottenne da Prometeo le
informazioni che desiderava. Ercole era stato
consigliato di non cogliere le mele con le
proprie mani, ma di servirsi di Atlante,
alleggerendolo nel frattempo dell’enorme peso che gravava sulle sue spalle. Appena giunto al
giardino delle Esperidi, Ercole chiese dunque ad Atlante di fargli questo favore. Atlante avrebbe
fatto qualsiasi cosa pur di avere un’ora di respiro, ma Ladone incuteva paura. Allora Ercole uccise il
drago scoccando una freccia al di sopra del muro del giardino: poi chinò le spalle per accogliere il
peso del globo celeste. Atlante si allontanò e ritornò poco dopo con tre mele colte dalle sue figlie.
Atlante assaporava la gioia della recuperata libertà. “Porterò io stesso le mele a Euristeo”, disse, “se
tu reggerai il cielo sulle tue spalle per due o tre mesi ancora.” Ercole finse di acconsentire, ma
poiché era stato avvisato di non accettare una simile proposta, pregò Atlante di sostenere il globo
per pochi minuti soltanto, affinché potesse fasciarsi il capo. Atlante, tratto in inganno, posò a terra
le mele e riprese il suo carico; subito Ercole raccattò i frutti e si allontanò con un ironica saluto.
Ercole rappresenta l’umanità che con la lotta assoggetta la natura ostile e la rende vivibile, e che
comunque per espiare una colpa deve faticare. La sua protettrice è Atena che si vede nella metopa
sorreggere con la mano il globo celeste per dare sollievo a Ercole
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Una nota sui miti greci e in generale su tutti gli altri miti delle antiche civiltà.
Il mito è sempre stato presente nella vita dei greci, prima ancora della scienza. Un modo
fantasioso di spiegare l’origine delle cose e degli uomini, gli usi, i costumi e le leggi.
Le gesta degli dei e dei semidei, o eroi, sono costantemente ricondotte alla nostra misura
umana immerse come sono nella quotidianità delle genti dell’antica Grecia. Questi dei non
solo compiono prodigi e grandi imprese, ma sono anche afflitti da acciacchi, perseguitati
dalla sfortuna, si concedono scappatelle, ecc…L’uomo può quindi riconoscersi in ogni
momento della sua vita negli aspetti umani di vicende mitologiche e quindi questo aspetto
trascendentale può dare sostegno e forza alla vita di tutti i giorni.
Il mito serve quindi per spiegare la realtà, a superare e risolvere una contraddizione della
natura, è la spiegazione di un rito, di un atto formale (Invocazione della pioggia) che
corrisponde a esigenze della tribù. Questi protagonisti (gli dei e i semidei) sembrano
imitare il comportamento umano, ma insegnano anche a dare uno spessore morale e
psicologico degli avvenimenti
Ermes e Dioniso
Dioniso è il dio figlio di Zeus e di Semele. Era, sorella e moglie di Zeus, era gelosa, e, assunte le
sembianze di una vecchia vicina, suggerì a Semele, già incinta di sei mesi, di fare una singolare
richiesta al suo amante: che egli cioè cessasse di ingannarla, rivelandosi a lei nella sua vera forma e
natura. Altrimenti essa avrebbe potuto sospettare che si trattasse di un mostro. Semele seguì quel
consiglio e, quando Zeus rifiutò di accondiscendere, gli negò il suo letto. Il dio allora, furibondo, le
apparve tra tuoni e folgori e Semele ne morì. Ma Ermes salvò il bambino: lo cucì infatti nella coscia
di Zeus dove egli potè maturare per altri tre mesi, e a tempo debito venne alla luce. Ecco perché
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Dioniso è detto “nato due volte” o anche “il fanciullo della doppia porta”. Zeus dovette però
sottrarlo alla persecuzione di Era affidandolo a Ermes perché lo portasse lontano.
La statua, opera originale di Prassitele,
esposta in una sala particolare del Museo,
raffigura Ermes che riposa in una pausa del
viaggio per portare in salvo il piccolo
Dioniso.
Questa statua può rappresentare anzitutto la
costruzione organica della figura umana
nello spazio e l’equilibrata aderenza tra
l’immagine artistica e la realtà. Arte greca
che ha influenzato non solo quella romana
(insieme alla quale forma l’”arte classica”),
ma anche, in modo più o meno evidente nei
diversi periodi storici, di tutta l’arte europea.
luogo delle feste di Olimpia
Rapimento di Ganimede
Zeus non amò soltanto donne. Ganimede era un bellissimo adolescente figlio di un re troiano: Zeus
se ne invaghì e lo rapì (o lo fece rapire dalla sua aquila, o fu lui stesso in forma di aquila). Lo portò
sull’Olimpo e lo fece coppiere alla mensa degli dei. Questo mito fu molto popolare in Grecia e a
Roma perché offriva una giustificazione religiosa
all’amore di un uomo adulto per un giovanetto.
Questa, a destra, è la statua lignea di epoca arcaica che
raffigura il rapimento.
corazza incisa del VII sec.
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Nike
Dea o personificazione della vittoria, appartenente al novero delle
divinità preolimpiche; nota ai romani come Vittoria. Nike non
determinava la vittoria o la sconfitta, ma si limitava a trasmettere
la vittoria dagli dei. Gli ateniesi la misero in relazione soprattutto
con Atena, che è appunto soprannominata “Nike”.
Quella raffigurata qui a sinistra è opera di Peonio di Mende che i
messeni innalzarono a Olimpia dopo le loro vittoria sugli
spartani: Nike sembra scendere dolcemente dal cielo.
A Patrasso ci fermiamo ad ammirare il nuovo ponte Rion-Antirion che collega il Peloponneso alla
Grecia continentale. Si trova in una posizione strategica, situandosi all’intersezione di due arterie
autostradali importanti E’ stato aperto al traffico il 12 agosto 2004, con l’inaugurazione, avvenuta
l’8 agosto e celebrata durante lo svolgimento di giochi olimpici di Atene. E’ dimensionato per
resistere a terremoti superiori a 7 sulla scala Richter, trasformandosi in una gigantesca altalena nel
caso di scossa maggiore. Il fondale del golfo di Corinto è costituito da terreni compatti (argilla,
limo, sabbia fine) e la roccia si trova a più di 1.000 metri. Inoltre, la profondità dell’acqua
raggiunge i 66 metri. Le fondamenta di ognuna delle quattro torri sono state costruite in bacino di
carenaggio e rimorchiate in galleggiamento prima di essere definitivamente immerse una volta che
la loro costruzione ha raggiunto i 60 metri d’altezza. Riprendiamo e percorriamo un bel tratto di
costa orientale del mare Egeo, selvaggio e maestoso, con begli scorci di mare, di costa frastagliata,
di piccoli villaggi, di vegetazione intensa e di colline rocciose. Sullo sfondo, verso occidente, le
maestose montagne dell’Epiro.
La strada che ci conduce a Delfi attraversa splendidi scenari costituiti da montagne aspre e
selvagge. Ci si rende già conto, prima di arrivare, dello sforzo compiuto dalle antiche civiltà nel
costruire un sito così importante in questo territorio. Svoltiamo poi verso l’interno della montagna
per salire al paese montuoso di Delfi (573 metri) ai piedi dl Monte Parnaso.
Arriviamo all’Hotel Amalia verso le 18:00. Ci sistemiamo e poi facciamo un giretto nel piccolo paese
per veder i pochi negozi aperti e a comperare regalini. Ma fa buio e troppo freddo per cui si rientra
subito in hotel.
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Delfi/Ossios Lucas/Kalambaka
Mercoledi 31 dicembre 2008
il viaggio e i luoghi
Sveglia alle 7:15 e con le valige riprendiamo il pullman che ci porta verso le
imponenti rovine di quello che nell’antichità veniva definito il “centro del
mondo”, distante circa 1 chilometro dal paese. Passando col pullman nel
centro del paese ho notato numerosi ristoranti tipici, praticamente tutti
allineati sulla via principale, con terrazze a strapiombo sulla vallata e magnifici
panorami.
Una pietra scolpita, l’omphalos, ne attestava l’importanza. Delfi è incastonato in un ambiente
affascinante, con splendide vedute panoramiche da dove lo sguardo giunge fino al mare.
Anche se avevo visto Delfi anni fa resto ancora conquistato dal suo suggestivo fascino. Il panorama
offre la visione di un “mare di ulivi”, circa 400.000 alberi, lungo il declivo che raggiunge il mare.
Fu Zeus a scegliere la sua localizzazione a Delfi: gli fece volare due aquile attorno alla terra in
direzioni opposte, il punto in cui si incontrarono fu Delfi.
L’oracolo di Apollo è forse il più famoso tra quelli della Grecia antica, dove era diffusa la pratica
della divinazione per entrare in contatto con gli dei e conoscerne, almeno parzialmente, la volontà.
Nel mondo greco esistevano due diversi tipi di divinazione, quella attraverso i segni (volo degli
uccelli, visceri degli animali sacrificati, fiamma dell’altare…) e quella orale, che però necessitava
comunque di una interpretazione. All’inizio a Delfi le consultazioni avvenivano una sola volta
all’anno, ma in età classica esse assunsero scadenza mensile, salvo la possibilità di consultazioni
straordinarie.
Prima della consultazione era necessario fare delle offerte: in
primo luogo il pelanos, in origine in natura, che poi divenne una
tassa, variabile a seconda della consultazione, destinata agli
abitanti di Delfi per le spese del culto. Vi è poi un sacrificio
preliminare, la cui vittima, generalmente una capra deve esser
fatta tremar con l’aspersione di acqua fredda come segnale di
assenso.
Le offerte servivano al mantenimento del personale permanente
del santuario: i profeti, che vigilavano sull’oracolo ma
soprattutto la pizia, incaricata di trasmettere la parola del dio.
La sacerdotessa di Delfi veniva scelta a vita tra le donne di
Delfi, senza limite d’età; unici obblighi che le erano richiesti
serano la purezza rituale e la continenza. Ci potevano essere
anche più pizie contemporaneamente. La tradizione descrive il
momento del vaticino vero e proprio come un atto di mania
profetica in cui la pizia è invasata dal dio mentre, seduta su un
tripode, aspira il vapore che esce da una fessura nel suolo, forse
masticando vegetali allucinogeni come l’alloro. L’effetto dei
fumi si limitava a indurre un delirio durante il quale la pizia
pronunciava suoni e parole sconnesse che venivano
accuratamente trascritte e successivamente interpretate e
comunicate all’interrogante.
l’Auriga di Delfi
Si visita dapprima il museo per ammirarne i Tesori: la statua
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dell’Auriga, la Sfinge Alata, l’omphalos.
La sala dell’Auriga di Delfi contiene uno dei capolavori dell’arte greca antica. Questo auriga era
soltanto una parte dell’ex voto costituito anche da una quadriga. Il carro nascondeva la parte
inferiore del corpo dell’auriga, ed è perciò che ora sembra di un’altezza sproporzionata rispetto a
quella superiore. E’ vestito con un lungo chitone cerimoniale cinto in alto da due fasce. Il ricco
drappeggio sul petto contrasta con l’austerità delle pieghe verticali al di sotto della cintura. Nessun
gesto momentaneo, nessun sentimento passeggero, ma la serenità olimpica dell’immortalità.
La sala V contiene capolavori unici della scultura ionica delle isole dell’Egeo. Il più importante e
famoso è la colossale Sfinge dei Nassi in marmo. Ha una testa femminile, petto e ali di uccello,
corpo e zampe di leone. I particolari erano accentuati dal colore.
Nel 1939, sotto il lastricato della Via Sacra, a una profondità di
appena 20 metri, furono rinvenuti due depositi sacri carboni e ceneri. Il deposito più grande
conteneva frammenti di tre rare statue crisoelefantine di grandezza naturale. Nella vetrina, sempre
della sala V, si possono vedere tre parti di queste statue. Nelle figure qui sopra stampate si vede la
testa in avorio di Apollo, con capelli in lamina dorata e con due ciocche d’oro che scendono sul
petto; l’altra figura rappresenta la testa di Artemide restaurata e integrata con orecchini d’oro a
forma di rosetta su avorio. Entrambe le due figure portano un diadema d’oro.
Dopo il museo percorriamo la Via Sacra dove venivano poste le offerte e gli ex voto di che si
prestava a consultare l’oracolo. Nel
superare l’entrata del santuario è
indispensabile prendere coscienza non
solo della sacralità del luogo, ma anche
della necessità di soffermarsi, ad ogni
passo, a guardare davanti, a destra e a
sinistra, ma anche dietro. Perché ad
ogni passo bisogna richiamare alla
memoria l’immagine differente che
offrivano al visitatore i capolavori, nel
loro insieme e separatamente. Mai sulla
terra si sono viste raccolte in uno
spazio così piccolo tante opere d’arte
originali
nel loro vero ambiente.
Ciascuna di esse era destinata a essere
la gioia del dio, di cui per primo
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godeva il dio e poi i mortali. Il Tesoro degli Ateniesi è uno dei ex voto più famosi di Delfi,
soprattutto dopo il suo restauro, ed è forse il monumento più famoso del Santuario di Apollo. Lì
vicino, si nota una roccia nota come roccia della Sibilla. Nell’antichità si credeva che lì sedesse la
prima Sibilla, venuta da Troia, e che da lì avesse iniziato a pronunciare gli oracoli. Si passa oltre per
vedere il cosiddetto muro di analemma poligonale, con i suoi giunti ricurvi. Vi sono incise circa 800
iscrizioni, di cui la maggior parte sono atti di affrancamento di schiavi. Poco dopo si incontrano le
maestose rovine del tempio di Apollo. Sui muri del pronao vi erano incise iscrizioni con le massime
dei Sette Saggi della Grecia antica, come “Conosci te stesso” e “Non eccedere”. La nostra guida
parla anche di un’altra iscrizione: “Niente di più” che si può intendere come o “non dare garanzia”
o “non sei proprietario della terra” (ma solo affittuario).
Proseguendo sempre in salita sulle pendici della montagna si raggiunge il grandioso anfiteatro del
IV secolo a.C. L’ultimo edificio che si incontra è lo
Stadio, considerato uno dei meglio conservati, dove si
svolgevano i celebri giochi pitici.
Vediamo velocemente la fonte Castalia, dove la Pizia
si purificava, per poi fermaci poco oltre presso una
piazzuola per ammirare il famoso Tholos, la
costruzione più spettacolare di Delfi. Le rovine stesse,
unite all’ambiente maestoso, creano grande
suggestione. Si tratta di un tempio circolare
parzialmente ricostruito con un peristilio di venti
colonne doriche e da dieci colonne corinzie più
interne.
Ripartiamo, con un senso di nostalgia per questo luogo incantevole avvolto ancora da un alone di
mistero. Anche il tempo ci favorisce concedendoci una meravigliosa giornata di sole e azzurro.
Sparso tra le montagne che segnano il
confine tra Beozia e Focide mai si
penserebbe di trovare uno dei più importanti
monumenti bizantini (490 metri) della
Grecia e uno dei siti tutelati dall’UNESCO.
Eppure, questo luogo così isolato, immerso
in un paesaggio dove regnano gli ulivi,
parve ideale a Luca lo Stiriota, che lo scelse
per ritirar visi in eremitaggio e morirvi nel
953. Da subito la sua tomba divenne meta di
pellegrinaggi, mentre solo a cavallo tra ‘200
e ‘300 arrivarono i cistercensi, conquistati
dal carattere solitario della zona. Si
limitarono a intitolare il complesso alla
Vergine, lasciando le strutture e le decorazioni così come le avevano create i Bizantini.
Meno rispetto ebbero invece i terremoti e i bombardamenti della seconda guerra mondiale. Sembra
di avvicinarsi a una struttura fortificata più che a un luogo di meditazione. L’edificio è
caratterizzato all’esterno dal tipico parametro greco in pietra e corsi di mattoni e dalle aperture
multiple, raggruppate sotto archi di scarico a tutto sesto. La decorazione interna risale in gran parte
all’XI secolo; solo i dipinti murali hanno sostituito, nel XVI-XVII secolo, alcuni mosaici
danneggiati o distrutti. I marmi policromi che ricoprono le pareti e i pilastri, i diaspri e il porfido
del pavimenti, le delicate sculture che ornano l’iconostasi e soprattutto gli straordinari mosaici che
arricchiscono le volte costituiscono uno spettacolo unico.
23
Ben diversa dalla sua vicina, la chiesa della Theotòkos che risale per alcuni al X sec., per altri
all’XI. In realtà, anche de l’oratorio di san Luca si trovava senza dubbio in questo punto, sembra
che l’edificio sia stato costruito nel XIII sec. dai cistercensi, come suggeriscono alcuni indizi:
portico con volte a crociera che funge da passaggio verso gli edifici monastici, navate laterali
navate, abside sporgenti terminate da un capocroce piatto all’esterno, sagoma degli archi e
semplicità degli ornamenti. Ammirevoli le vaste proporzioni del nartece, le cui volte sono sostenute
da due colonne con capitelli corinzi, e l’elevazione della cupola poggiante su quattro colonne in
granito dai bei capitelli scolpiti.
Osserviamo il panorama dalle terrazze,
panorama di monti ricoperti di neve, di valli
quasi prive di vegetazione e poche abitazioni.
**Due parole per spiegare il significato
dell’architettura della chiesa ortodossa, così
diversa da quella cattolica romana.
L’altare è racchiuso da una parete che
sorregge alcune icone: è l’iconostasi. Nella
parte centrale dell’iconostasi si situa una
porta con due battenti che si affaccia
direttamente sull’altare. Sui due lati della
porta si trovano delle icone. A destra quella di
Cristo, a sinistra quella della Theotokos
(Genitrice di Dio). Tale porta può essere superata solo dai celebranti. A destra dell’altare è
disposta una tavola di piccole dimensioni per la preparazione dei Santi Doni: la protesi. Prima
della celebrazione della Liturgia il calice e la patena sono disposti sulla protesi. Il celebrante
riempie il calice di vino e taglia, da un piccolo pane predisposto, il pezzo che sarà consacrato
appoggiandolo sulla patena.
Al di fuori del santuario, i fedeli e il coro dei cantori stanno nella navata. Il nartece è un vestibolo
tra la navata centrale e l’esterno della chiesa. In esso stanno i penitenti e un tempo i catecumeni.
Infine, all’esterno, si trova un peristilio, una sorta di grande sagrato con, a volte, una fontana.
Nella costruzione di una chiesa, la sua altezza deve sempre rispettare armonicamente la sua pianta
in modo che le proporzioni siano gradevoli alla percezione umana affinchè il fedele possa sentirsi
bene come a casa sua ispirandogli quel senso di elevazione dello spirito. Sopra la navata si trova,
nella maggiore parte delle chiese ortodosse, la cupola. Vi è dipinto un Cristo Pantocratore, ossia
“sovrano dell’universo”. La maggior parte delle pareti sono ornate e dipinte con affreschi
seguendo la stessa tecnica pittorica delle icone. Essi rappresentano scene tratte dalla vita di Cristo
e immagini di santi. Il fedele si trova in tal modo circondato da una folla di testimoni della fede.
Tutto questo ha l’immenso vantaggio di creare, per la sua stessa profusione, un clima psicologico
particolarmente propizio alla preghiera e alla pace interiore. Inoltre i colori utilizzati per questi
affreschi uniti ai giochi di luce particolarmente studiati nella costruzione dell’edifico,
contribuiscono anch’essi a creare un’inesprimibile ambientazione per la liturgia ortodossa.**
Riprendiamo il pullman per percorrere dapprima una strada di montagna e poi una nuova autostrada
che ci porta, attraverso la pianura della Tessaglia, a Kalambaka. L’hotel prescelto è l’Antoniadis, forse il
più scadente tra tutti gli altri frequentati qui in Grecia; ma si sa che nel vocabolario orientale in genere
non esiste la parola manutenzione! Alle 20:00 Don Mario celebra in hotel la messa di ringraziamento
dell’ultimo dell’anno. Anche noi, dopo avere chiacchierato per un po’ con gli amici prima di mezzanotte
ci ritiriamo.
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Meteore/Salonicco
Giovedi 1 gennaio 2009
la visita e il viaggio
Dopo colazione e uno scambio veloce di auguri con tutti alle 9:00 partiamo dall’albergo in una giornata
splendida con sole e molto freddo.
La pianura e soprattutto la zona montagnosa è coperta di neve, ghiacciata nelle zone d’ombra.
Lasciata la cittadina imbocchiamo una strada in salita che penetra tra i maestosi pilastri di roccia di
colore grigio scuro sulle cui sommità sono arroccati i monasteri. Un luogo davvero incredibile!
Durante la salita si notano vecchie scale di legno, oramai semidistrutte, che sporgono dalle scarse
crepe di queste rocce variopinte, rilevando la presenza di eremiti in anni più remoti. Fino al secolo
scorso i monasteri erano raggiungibili solo con scale o con sistemi a carrucola, ora ci sono scale in
muratura o scavate nella roccia la cui salita è impegnativa ma non faticosa. E’ da brivido pensare
che i monaci prima del 1922 scalavano le rocce delle Meteore per mezzo di una serie di impalcature
sostenute da travi fissate nella roccia. Più tardi questo sistema fu sostituito da lunghissime e
vertiginose scale di corda. Quelli che non osavano servirsene erano tirati su, chiusi in un sacco di
rete, da un argano fino a una torre strapiombo. La salita durava parecchio, con momenti di angoscia
di chi era sospeso nella rete che girava in cerchio nel vuoto.
La morfologia del luogo e in particolare delle torri ha avuto origine con l’erosione dell’arenaria.
Molto probabilmente l’erosione è iniziata ad opera di un fiume che copriva l’attuale pianura della
Tessaglia. Questo fiume, attraverso l’apertura di Tempo, riversò le acque della laguna chiusa nel
mar Egeo. In tal modo si formò un’area che venne abitata molto più tardi. Poi i rilievi sono stati
modellati dall’acqua e dal vento, giungendo alla formazione di gruppi di torri alta fino a 400 metri.
Dei vari monasteri ne visitiamo solo due: il monastero
di Ognissanti Varlaam e quello di santo Stefano.
Varlaam. Risale al 1350 e deve il proprio nome al
monaco Varlaam che qui costruì alcune celle e una
chiesa, dopo avere conquistato la propria posizione
ascetica attraverso un complesso e traballante sistema
di impalcature fissate su travi incastrate nella parete
rocciosa. Oggi è comodamente raggiungibile tramite
una larga e spettacolare scalinata di poco meno di 200
gradini scavata letteralmente sul fianco del pinnacolo.
giorno del giudizio
Il Katholikon (cioè la spaziosa e imponente chiesa
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centrale del monastero) è a pianta greca con cupola e quattro colonne, riccamente affrescata con
figure plastiche che presentano repentini contrasti di luce e di ombra. Si visita anche la cappella dei
Tre Gerarchi (Basilio il Grande, Gregorio il Teologo e Giovanni Crisostomo), anch’essa affrescata.
Moltissime le reliquie conservate, crocefissi, icone, paramenti sacri, manoscritti e codici miniati.
Santo Stefano. E’ uno dei più grandi e visitati che ospita
un ordine di monache (le donne devono indossare la
gonna). Risale al 1192, ospita il Katholikon, l’edificio
sacro centrale dedicato a san Caralambo e la semplice
struttura in legno dell’antica santo Stefano. Il Katholikon
è naturalmente a croce greca ma non è affrescato;
possiede però un ciborio in legno intarsiato di elevato
valore al pari della Cortina che presenta temo naturalistici
intrecciati a figure di Santi e alla rappresentazione
dell’ultima Cena. Oggi nel monastero vengono coltivate
epitaffio ricamato in oro
l’iconografia e la musica bizantina. Monache si occupano
dello scrivere, mentre altre con cultura universitaria si
occupano soprattutto dell’aspetto sociale del monachesimo. In questo modo il Monastero di santo
Stefano costituisce un centro spirituale che offre, in questa incerta epoca, una ricca opera sociale e
cristiano-ortodossa.
Tra i due monasteri un breve sentiero porta a un punto panoramico incredibile: qui siamo proprio in
cima a un pinnacolo e l’ultima roccia è posta senza alcuna protezione a strapiombo sulla vallata, da
capogiro! La vista a 360° è a dir poco emozionante: si vedono cinque monasteri in fila e le rocce
più incredibili di tutta la zona. L’unico pericolo era la strada e le rocce sdrucciolevoli per il ghiaccio
scivoloso.
Raggiungiamo poi Salonicco, seconda città e secondo porto della Grecia, alle 18:30 con messa all’hotel
Capsis (quattro stelle).
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Salonicco/Escursione Filippi/Neapolis (Kavàla)
Venerdi 2 gennaio 2009
Filippi e Paolo
Un po’ di storia
Il nome “Filippi” le deriva da Filippo II (356 a.C.) re della Macedonia. Questa regione era molto
ricca di miniere d’oro. In epoca romana, la città fu sede di una colonia di carattere prevalentemente
agricolo e militare. Filippi doveva la maggiore parte della sua importanza alla Via Egnazia,
un’arteria di 1.500 chilometri, che collegava Durazzo (Albania) a Bisanzio (Turchia).
Dopo la famosa battaglia del 42 a.C., vinta da Antonio e Ottaviano contro Cassio e Bruto (uccisori
di Cesare), Filippi ricevette nuovi coloni, che contribuirono alla sua fortuna e al suo sviluppo. Oggi
rimangono molti e suggestivi resti di quel periodo.
L’apostolo Paolo fece a Filippi la sua prima predicazione evangelica sul suolo europeo.
Luoghi visitati
La Basilica paleocristiana con il battistero a forma di croce.
La Strada a portici, che sbocca sulla via Egnazia.
Suggestivi pure il Foro, la Palestra.
Si può visitare anche quella che comunemente è ritenuta la prigione di Paolo.
Lo sbarco in Europa di Paolo avvenne nel suo secondo viaggio missionario. Dopo avere
oltrepassata la Siria e la Cilicia, rivide la città di Listra, dove accolse con sé Timoteo (figura molto
importante della Chiesa nascente, figlio di un’ebrea e di un pagano) e lo fece circoncidere**,
attraversò l’Anatolia centrale e raggiunse la città di Troade sulla costa settentrionale del mare Egeo.
Durante la notte Paolo ha una visione misteriosa: gli stava davanti un Macedone che lo supplica:
“Passa in Macedonia e aiutaci!”. Paolo, cittadino romano educato nella sapienza greca, era stato
“afferrato” da Cristo e da lui è stato lanciato sulle strade del mondo, per annodare Atene e Roma a
Gerusalemme, per “ricapitolare” in Cristo tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra. Roma
con le armi aveva conquistato la Grecia, ma la Grecia conquistata a sua volta conquistò Roma con
le arti (Graecia capta ferum victorem cepit). Da Roma venne la forza e il diritto, dalla Grecia la
sapienza e la bellezza, ma da Gerusalemme uscì la parola del Signore capace di fare nuove tutte le
cose.
Neapolis (oggi Kavàla), il porto dove Paolo sbarcò, si trovava sulla via Egnazia, la via che
collegava l’occidente con l’oriente. Da Neapolis Paolo raggiunse Filippi accompagnato, oltre che da
Luca, da Silvano e da Timoteo. Gli ebrei, poco numerosi, non avevano a Filippi una sinagoga e si
riunivano fuori della porta della città lungo il fiume, che si prestava per le abluzioni rituali. Era un
sabato quando i missionari, usciti fuori della porta, rivolsero la parola alle donne riunite per la
preghiera lungo la riva del fiume. Non si deve dimenticare che se Filippi fu il primo luogo in
Europa evangelizzato da Paolo, la prima parola fu rivolta alle donne. Il fatto che l’assemblea fosse
composta esclusivamente di donne, significa che quella riunione di preghiera non era di tipo
sinagogale, per la quale era indispensabile la presenza di almeno dieci uomini.
C’era ad ascoltare Paolo una donna di nome Lidia, commerciante di porpora e originaria di Tiatira,
in Asia Minore, famosa per la produzione e l’esportazione dei tessuti di porpora. Lidia apparteneva
alle donne dell’alta società, alle quali era rivolta di preferenza la propaganda giudaica. Mediante
queste simpatie gli ebrei della diaspora si assicuravano un’influenza di prim’ordine sul commercio:
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naturalmente veniva privilegiato il commercio di tessuti pregiati, com’era quello della porpora cui
Lidia attendeva. Lidia apparteneva alla categoria degli “adoratori di Dio”. Questo gruppo, pur
accettando il monoteismo e l’etica fondamentale della sinagoga, escludeva tuttavia la circoncisione
e le osservanze rituali, praticate
invece dai “proseliti”.
Lidia chiede il battesimo
“insieme alla sua casa”. Come
farà il carceriere di Paolo che si
farà battezzare “con tutti i suoi”
e farà grande festa per avere
creduto in Dio. Risulta chiaro,
fin dall’inizio, che non si diventa
discepoli
di
Cristo
individualmente e isolatamente,
ma insieme con altri, e che la
prima espressione di Chiesa è
quella “domestica”; nasce la
“domus ecclesia”, la chiesa in
miniatura come germe della
la prigione di Paolo
Chiesa universale.
A Filippi c’era una giovani
schiava dotata di spirito divinatorio: Luca chiama lo spirito profetico di questa schiava “pitone”,
termine che richiama il mitico serpente Pitone in cui prendeva corpo l’oracolo di Delfi e che fu
ucciso da Apollo. La schiava di Filippi era, per così dire, un oracolo di Delfi ambulante,
procacciando così molto guadagno ai suoi padroni. Come Gesù, Paolo rifiuta la testimonianza che
viene dallo spirito della menzogna e nel nome di Cristo rende libera la schiava. I padroni, toccati
nell’interesse, reagiscono trascinando Paolo e Silvano davanti al tribunale romano con l’accusa di
sovvertitori dell’ordine pubblico, facendo leva sui sentimenti nazionali e antisemitici della folla che
insorge contro di loro, mentre i pretori ordinano di flagellarli e di metterli in prigione. Nottetempo
li libera dalle catene un terremoto. Temendo la punizione da parte dei magistrati, il disperato
carceriere tenta il suicidio, ma Paolo lo dissuade e lo battezza con tutta la sua famiglia. Saputo poi
che Paolo e Silvano sono cittadini romani, le autorità li rimettono in libertà. A Filippi crescerà una
bella comunità cristiana, a cui
l’Apostolo invierà da un’altra
prigione la lettera della gioia e
dell’affetto, quello appunto ai
Filippesi.
Visitando Filippi si rimane
ammirati dei resti gloriosi
romani e bizantini (vedi oltre).
Due
cose
hanno
attirato
maggiormente la mia attenzione
(però a mala pena intravisti): il
corso d’acqua dove Paolo
incontrò le donne in preghiera e
quanto rimane del carcere in cui
egli fu rinchiuso. E’ sfiorato dal
tracciato della via Egnazia, che
la via Egnazia
conserva ancora qualche pietra
di quelle che Palo passò uscendo
dal carcere.
28
** La questione della circoncisione.
Ad Antiochia Paolo e Barnaba non avevano imposto la “circoncisione” ai credenti in Cristo che
provenivano dal paganesimo, mentre alcuni giudei divenuti cristiani, venuti dalla Palestina, ne
sostenevano la necessità. Nel concetto di “circoncisione” stava non solo l’aspetto fisico chirurgico
riguardante i maschi della comunità ebraica, ma anche tutta l’educazione connessa: le regole
ebraiche, le sue tradizioni, la sua lingua…un patrimonio complesso che andava dalla “Legge di
Mosè” fino a tradizioni spicciole quali alimenti proibiti e usi di casa. In virtù della circoncisione,
Gesù era l’ultimo tassello di tutto quello che era successo prima. Ma in realtà non è così, e Paolo
lo ribadisce con forza: Gesù Cristo è la chiave di lettura e il senso di tutto ciò che è stato prima,
che è ora e che sarà in futuro (Rm 11,36). Quindi la “vera circoncisione” è l’incontro e la
conoscenza della persona di Gesù e niente altro. Ne seguì una notevole discussione che portò
necessariamente ad un raduno degli apostoli e dei primi discepoli; questo raduno si tenne a
Gerusalemme nel 49 d.C. e viene definito “Concilio di Gerusalemme”. In esso si diede ragione a
Paolo e Barnaba, dichiarando i convertiti dal paganesimo esenti da passare dalla legge ebraica di
Mosè (At 15,5-29).
il viaggio e i luoghi
Sveglia alle 7:00 con partenza alle 9:00, direzione Filippi in Macedonia. Il tempo è brutto e piove a
intermittenza con nevischio e fa freddo.
Dopo la visita a Filippi
riprendiamo la strada di
ritorno,
ma
prima
passiamo da Kavàla
(l’antica Naepolis) per
il
pranzo
e
una
brevissima visita della
città. Si dice che è una
città magica, disposta
ad
anfiteatro
e
considerata la Signora
della Mecedonia. Si
visita il porto dove
sbarcò Paolo dove
scattiamo delle foto
perché nel frattempo era
uscito il sole.
Lungo la strada che ci
porta
a
Salonicco
costeggiando il mare si
vedono coste frastagliate, insenature, cale, piccole spiagge, porticcioli, e questo è piacevole per chi
ama il mare. Salonicco ha un aspetto in prevalenza moderno dovuto alla ricostruzione fatta dopo il
disastroso incendio del 1917 e al forte terremoto del 1978 che danneggiarono la maggior parte dei
monumenti della storia antica. Prima di rientrare in albergo, noi del gruppo, raggiungiamo a piedi il
centro cittadino che si trova nell’ampia e bella piazza Aristotele, aperta sul mare, dalle quale si
dipartono i viali della città che, oltre a negozi di lusso, fanno scoprire chiese bizantine.
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Peccato che essendo venerdi e abbastanza tardi non abbiamo potuto visitare nessun grande mercato e
le numerose bancarelle che espongono frutta, verdure, tantissimo pesce, granaglie, abbigliamento e altro
che fanno da contorno a questo. I negozi hanno, per noi, degli strani orari di apertura: in effetti soltanto
due o tre giorni alla settimana sono aperti nel pomeriggio.
Salonicco ha un problema simile a quello di Roma: appena si comincia a scavare c’è lavoro per gli
archeologi. Questa è una delle ragioni per la quale la città nemmeno oggi ha una metropolitana, ma che
comunque la si sta costruendo pian piano, naturalmente con gli inconvenienti del traffico difficoltoso.
30
Salonicco/Milano
Sabato 3 gennaio 2009
Tessalonica (ora Salonicco) e Paolo
Un po’ di storia
La città di Tessalonica fu fondata nel 315 a.C. da Cassandro, che le dette il nome della sua sposa
(Tessalonikè), forse una sorella di Alessandro Magno.
La sua posizione marittima e la via Egnazia le assicurarono una grande prosperità.
Quando la Macedonia fu conquistata dai romani (146 a.C.), ben presto Tessalonica divenne una
metropoli e crocevia di svariate culture. Fu anche un grande centro intellettuale, scelto anche da
Cicerone, quando dovette andare in esilio (58 a.C.)
Paolo vi predicò e fece nascere una comunità cristiana per la quale ebbe una particolare
predilezione.
Luoghi visitati
L’Agorà, con il doppio porticato.
L’Acropoli e il sottostante panorama su Tessalonica.
Le chiese di Santa Sofia, di San Giorgio e di San Demetrio, con i loro stupendi mosaici.
L’Arco di Galerio costruito dall’imperatore nel 303 d.C.
Paolo aveva dovuto lasciare Filippi prima del tempo. Proseguì direttamente fino a Tessalonica
percorrendo la via Egnazia che dal Bosforo portava direttamente fino a Durazzo sulla costa
adriatica.
Tessalonica, situata nell’insenatura del golfo Termaico e colonia romana fin dal 146 a.C., era un
grosso centro commerciale grazie al suo porto attivissimo, e perciò aveva attirato un gran numero di
ebrei. Come sempre, il primo obiettivo di Paolo fu la sinagoga: vi parlò per tre sabati consecutivi. E
gli altri giorni che faceva? Appena arrivava in un luogo il suo primo pensiero era quello di cercarsi
lavoro, avendo come regola quella di vivere del lavoro e aiutare i bisognosi. Proprio ai
Tessalonicesi egli richiamerà con forza la regola che si era prefissa: “Noi non abbiamo vissuto
oziosamente tra voi, né abbiamo mangiato il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato con fatica e
sforzo notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi”. Tutto riconduceva a questo principio
elementare: “Chi non vuol lavorare neppure mangi” (2Ts 3,7-10). Anche seduto al telaio, mentre
faceva correre la spola, esponeva le vie del Signore.
L’importanza strategica e commerciale di Tessalonica con i suoi collegamenti spiega la
straordinaria risonanza che ebbe l’annunzio del Vangelo. Siamo agli inizi dell’anno 50 e sulle spalle
di Paolo e Silvano sono ancora evidenti i segni delle battiture inflitte dai littori di Filippi in seguito
all’accusa di lesa maestà e propaganda sovversiva. Ma la preoccupazione non ha scoraggiato i
missionari di Cristo che, giunti a Tessalonica, prendono ad annunciare coraggiosamente il Vangelo
con molto ardore. Paolo si rivolse agli ebrei con la Bibbia alla mano: “spiegava le profezie e
dimostrava che il Messia doveva soffrire e poi risorgere dai morti” (At 17,3).
L’annuncio di Paolo non fu solo a parole “ma anche con la forza e l’aiuto dello Spirito Santo” (1Ts
1,5). Parola e Spirito appaiono inseparabilmente uniti fin dall’inizio del racconto degli Atti, ed è
sempre lo Spirito che feconda la Parola. La Parola viene annunciata in mezzo a molte tribolazioni,
ma se all’esterno abbondano le tribolazioni, lo Spirito inonda di gioia i cuori. Inoltre si manifesta
chiaramente lo stile missionario di Paolo: egli rinuncia a far valere la sua autorità di apostolo, ma si
fa piccolo in mezzo ai suoi fedeli, si comporta con dolcezza, con tenerezza materna, proprio “come
una madre che riscalda al suo seno le proprie creature”. E insiste: “Mi sono affezionato a voi e vi
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ho voluto bene al punto che vi avrei dato non solo il messaggio di salvezza ch viene da Dio, ma
anche la mia vita” (1Ts 2,7-8).
Il successo della predicazione paolina a Tessalonica fu grandissimo, ma esasperò in maniera feroce
l’animo dei giudei, che per invidia prezzolarono alcuni facinorosi di piazza - quei subrostrani di
cui parla Cicerone – la cui attività principale era quella di turbare la quiete pubblica. Con il loro
aiuto provocarono un tumulto e andarono a cercare Paolo e Silvano a casa di Giasone, ma quando vi
arrivarono i due missionari erano fuggiti altrove. Sentitisi beffati, i giudei afferrarono Giasone e
altri fratelli e li condussero dinanzi ai “politarchi”, accusandoli di avere dato ospitalità a dei
sediziosi che mettevano a soqquadro tutto il mondo e andavano predicando dottrine contrarie alle
istituzioni romane. Ancora una volta i giudei cercarono di procurare dei guai a Paolo con accuse
false, ma certamente efficaci presso le autorità greco-romane.
Paolo e Silvano, fatti partire in fretta dai cristiani di Tessalonica durante la notte, raggiunsero la
città di Berea. Gli ebrei di questa città erano migliori di quelli di Tessalonica accogliendo la loro
predicazione con grande entusiasmo. “Ogni giorno esaminavano le Scritture per vedere se le cose
stavano come Paolo diceva” (At 17,11).
Molti ebrei di Berea accolgono la testimonianza delle Scritture, cioè si convincono che in Gesù di
Nazaret si sono compiute le profezie contenute nella Bibbia, e diventano credenti. Ma subito gli
ebrei di Tessalonica accorrono a Berea per sobillare la folla e aizzarla contro Paolo. L’ostilità
implacabile degli ebrei di Tessalonia ferisce profondamente l’animo di Paolo che reagisce con
severità e amarezza: “Sono quegli stessi ebrei che hanno ucciso il Signore Gesù e che hanno
perseguitato anche noi; essi vanno contro la volontà di Dio e sono nemici di tutti gli uomini.
Vogliono impedirci di predicare ai pagani e di portarli alla salvezza così, essi, non fanno altro che
completare la serie dei loro peccati, e oramai il castigo di Dio è arrivato sopra di loro” (1Ts 2,1516).
I cristiani di Berea fecero partire subito Paolo verso il mare, mentre Silvano e Timoteo restarono in
città. Quelli che accompagnavano Paolo andarono con lui fino ad Atene.
il luogo e il viaggio di ritorno
A Salonicco cristiani, ebrei e mussulmani hanno convissuto per secoli. Fino al 1943 quando tutti gli
ebrei della città vennero deportati, soprattutto ad Auschwiz. Prima, sotto il dominio ottomano, la
città fu colpita da epidemie e carestie e nel suo affollato bazar il popolo parlava una mezza dozzina
di lingue. Era un modo in cui le religioni convivevano e si incontravano. Tra le botteghe, il bazar e i
fondachi, trafficavano mercanti egiziani e schiavi ucraini, rabbini fuggiti dalla Spagna cacciati dai
sovrani Ferdinado II e Isabella la Cattolica, pellegrini ortodossi diretti al vicino Monte Athos e
briganti albanesi. Però man mano diminuiva la potenza turca s’infiammavano i nazionalismi: i
mussulmani diventarono turchi, gli ortodossi greci. Proprio a Salonicco, dove nel 1881 vi nacque
Kemal Atatùrk destinato in seguito a diventare il primo presidente della Repubblica Turca, sarebbe
stato fondato il movimento politico destinato a rifondare un’intera nazione: i Giovani Turchi.
Per inciso e per curiosità, essendo noi in questa città posta nelle regione della Macedonia, ci hanno
spiegato che il termine “macedonia” non era riferito
originariamente a una mescolanza di diversi frutti fra
di loro, ma al fatto che la cucina macedone era
caratterizzata da diverse tradizioni gastronomiche che
nei secoli si sono aggiunte a quelle originali (come la
cucina ebraica, turca con ricette persiane, armena e
araba, ecc.).
In mattinata visitiamo le chiese bizantine della città.
Piove e fa alquanto freddo. Dapprima vediamo l’arco
di Galerio (governatore della regione compresa tra il
Danubio e i Balcani) eretto per celebrare la vittoria
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contro il re persiano Narsete. E’ raffigurato Galerio in vari momenti della battaglia: ora mentre è a
cavallo e calpesta i soldati di Narsete, ora mentre offre un sacrificio agli dei per ingraziarli della
vittoria, ora mentre entra in una città. E’ una struttura pesante e c’è pesantezza espressiva. La chiesa
o rotonda di san Giorgio è poco distante. Quest’ultima in origine era il mausoleo di Galerio. E’ una
immensa rotonda coperta da cupola emisferica con otto nicchie all’intorno. E’ in restauro e c’è poca
luce per cui i bellissimi mosaici di cui era rivestita non si possono ammirare. I mosaici che
adornano le pareti che sorreggono la cupola
sono considerati un capolavoro dell’arte
paleocristiana per la brillantezza dei loro
colori e per i loro motivi che riproducono
piante stilizzate o forme geometriche come
era già in voga nell’arte tardo-romana. I
mosaici della cupola si dividono in tre livelli.
In basso stanno le raffigurazioni di santi
martiri sullo sfondo di tempietti stilizzati.
Purtroppo molti mosaici andarono distrutti
con il crollo parziale della cupola nel XIX
secolo e furono rimpiazzati da affreschi
eseguiti dall’artista italiano Rossi nel 1889.
basilica di san Demetrio
Nella basilica di san Demetrio, patrono della
città
di
cui
conserva le reliquie, si celebrava una funzione religiosa, per cui scendiamo a visitar la cripta
costituita da tre porticati intorno a un emiciclo. Demetrio era un proconsole romano della Grecia
sotto l’imperatore massi miniano, martirizzato nell’odierna Serbia.
Da qui usciamo a piedi e ci dirigiamo verso l’Agorà, piazza rettangolare attraversata da un
acquedotto, doppio portico con negozi e parte del pavimento a mosaico. Ritorniamo quindi a san
Demetrio, basilica a cinque navate, ricostruita fedelmente dopo l’incendio del 1917. Importanti
mosaici e affreschi. passiamo poi a visitare piccola chiesa dei fabbri e della madre di Dio
(Theotokos), capolavoro dell’arte bizantina matura, a croce greca con abside e cupola centrale e due
piccole laterali. Si vedono gli affreschi della dormizione della vergine e la vita di Cristo. Ci sono
poi due colonne con un superbo capitello corinzio che divide la chiesa in tre parti. Da ultimo
visitiamo la chiesa di santa Sofia, molto grande con pianta a croce greca fusa con le caratteristiche
della pianta a tre navate. Le navate sono divise da pilastri e colonne con capitelli corinzi detti a
“foglie di vento” (foglie d’acanto molto staccate). Belli i mosaici nella cupola (l’Ascensione) e
quello della Vergine con il Bambino.
Finite le visite partiamo verso l’aeroporto di Salonicco, poco distante dalla città e dopo ringraziamenti
vicendevoli e mance ci salutiamo da Antonio, la nostra dotta guida e da Costantino l’autista. La nostra
Agenzia ha dato preferenza alla Olympic Airway che può assicurare non solo collegamenti con Atene e
l’Italia ma anche il volo interno fino a Salonicco.
In questi viaggi di gruppo, lo stare insieme per molto tempo, sottostare a regole e rispettare i
programmi sono condizioni che, a volte, possono fare nascer delle incomprensioni e tensioni che
devono essere superate con la buona volontà. Comunque ancora una volta abbiamo incontrato persone
amiche e conosciute già dai nostri sei viaggi di pellegrinaggi precedenti e iniziati nel 2003/04 per cui
non c’è stato nessun problema di affiatamento e tensioni.
Chérete Ellas! Arrivederci Grecia!
Al prossimo viaggio…
33
Bibliografia
Sofia Souli, Mitologia greca, Edizioni M. Toumbis, Atene 1995
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