G R E C I A sulle orme di san Paolo Appunti di viaggio di Giovanni Perani 27 dicembre 2008 – 3 gennaio 2009 INTRODUZIONE Sono appunti di un viaggio che ci riconduce verso luoghi, per gli appassionati della cultura greco romana, ricchi di storia e di memoria non solo storico-geografica, ma soprattutto impregnati dello spirito paolino, che di questi luoghi fu testimone oculare durante i suoi interminabili viaggi. Il nostro vagabondare ci ha portato nella regione dell’Attica e del Peloponneso con la visita, dapprima di Atene, e poi Epidauro, Micene, Corinto e Olimpia; per poi risalire verso il nord nella Grecia Centrale, in Tessaglia, nella Macedonia Centrale e visitare Delfi, Salonicco, Filippi e Naepolis. I viaggi di Paolo, il secondo e terzo, hanno seguito invece l’itinerario inverso, cioè da nord a sud, toccando dapprima la Macedonia con sbarco a Neapolis e, percorrendo la “via Egnazia”, a evangelizzare le varie città, come Filippi, Tessalonica (l’odierna Salonicco), Berea per poi raggiungere la Grecia con Atene e quindi la comunità di Corinto; (secondo viaggio, dall’anno 49 al 52 d.C.). Nel terzo viaggio (dall’anno 58-63 d. C.), Paolo, attraverso la Galizia, la Frigia e la Lidia, dopo avere raggiunto Efeso, dove si trattiene più di due anni, passa a fare visita alle comunità della Macedonia e della Grecia ripercorrendo l’itinerario del secondo viaggio e si ferma qualche mese a Corinto. Nel ritorno si imbarca a Filippi per ritornare a Gerusalemme. E’ mio intendimento in questi appunti iniziare a parlare, seguendo il nostro itinerario quotidiano, dapprima di Paolo e del suo peregrinare per comunicare il Vangelo con le sue ansie e le sue gioie, per poi parlare dettagliatamente dei luoghi dove Paolo è transitato e ha dimorato e di quegli altri dove non vi è stata nessuna presenza dell’Apostolo della Genti. Per facilitare la lettura della cronaca quotidiana, dei miei commenti personali e la narrazione dei vari luoghi e monumenti, ho pensato di adottatare caratteri diversi. 2 Bergamo/Milano/Atene Sabato 27 dicembre 2008 Quest’anno il Centro Diocesano Pellegrinaggi di Bergamo ci porta in Grecia per seguire i passi dell’Apostolo Paolo. Il gruppo è di 37 persone, oltre il responsabile Don Mario, e comprende molte persone amiche conosciute nei precedenti pellegrinaggi (Terrasanta, Giordania, Turchia, Egitto e Siria). Io raggiungo il gruppo a Linate che si imbarca con destinazione Atene che raggiungiamo nel pomeriggio. Il tempo è brutto, il cielo coperto, pioviggina e fa freddo. Finalmente eccomi ad Atene che in un primo momento si presenta come un mare di cemento, pochissimo verde, traffico caotico. E’ un luogo che nell’immaginario di ciascuno di noi è molto presente per la cultura classica che abbiamo assorbito nelle scuole superiori, soprattutto per me che ho passato ore e ore a disegnare e imparare la storia dell’arte greca. Ritorno ad Atene dopo 28 anni ma quello che avevo nei miei ricordi purtroppo non è più. L’atmosfera che allora ricordavo, solo a tratti si manifesterà nascosta oramai da quel dilagante turismo di massa che fa diventare tutto uguale e che ti toglie il gusto dello scoprire. In serata, forse perché attirati dall’ insistenza del responsabile greco dell’organizzazione, il sig. Normann, ci siamo lasciati attirare da uno spettacolo folcloristico di balli e canti in un locale della Plaka, un dedalo di straripanti piccoli negozi colmi di souvenir, di taverne, di ristoranti. Spettacolo e locale alquanto scadente con una accompagnatrice di nome Elena di cui è meglio non parlare! Le canzoni e il balletto entusiasma comunque alcuni di noi spettatori che in alcune danze vengono coinvolti dai ballerini e ballerine. In verità la musica greca, a parte alcune belle musiche davvero trascendenti, spesso presentano nenie super soporifere. Le danze infine terminano poi con il classicissimo e notissimo sirtaki. 3 A T E N E Domenica 28 dicembre 2008 Atene e Paolo Un po’ di storia Antichissima è la storia di Atene, cantata da poeti e ricca di uomini illustri, conosciuta a tutti coloro che hanno un minimo di cultura. Atene fu la più importante città della Grecia, centro culturale, politico, artistico e religioso del bacino orientale del Mediterraneo. Una storia che inizia circa 4000 anni fa. I suoi influssi determinarono la storia di tantissime altre città e civiltà più o meno vicine. Paolo non poteva ignorare tutto ciò, per questo ne fece la meta del suo secondo viaggio, anche se con scarso successo. Luoghi visitati L’Acropoli con il Partenone, luogo di culto agli dei. L’Areòpago, luogo “culturale” dove anche Paolo parlò. L’Agorà ellenica e romana, sede del commercio. Il Museo archeologico. Mentre ad Atene aspetta Silvano e Timoteo, Paolo si sente solo, come mai prima era accaduto. Solo ad Atene. Egli non era un barbaro e aveva imparato a farsi “greco con i greci”, perciò il suo spirito non poteva rimanere insensibile a tanta bellezza che si offriva ai suoi occhi ad ogni passo. Tuttavia la sua reazione più spontanea e immediata era quella di un ebreo che assolutamente non può tollerare alcun idolo e che non disprezza la bellezza ma cerca soprattutto la verità. Paolo comunque non si isolò ma, come sempre, cercò ogni occasione di dialogo. Nella sinagoga dialogava con gli ebrei e i cercatori di Dio, e il dialogo si prolungava ogni giorno nell’Agorà con quelli che incontrava. Volentieri accettava il “confronto” anche con alcuni filosofi, epicurei e stoici. In tutti era nata una grande curiosità di sapere che cosa pretendeva insegnare quel “ciarlatano”. In particolare erano colpiti da due termini (Gesù e Resurrezione) sempre abbinati e ricorrenti nei discorsi di Paolo, così da far pensare ad una nuova coppia di divinità orientali. Per questo lo presero e lo condussero all’Areòpago, collina rocciosa che sorge ai piedi dell’Acropoli di Atene. Il discorso di Paolo segna un momento culminante nell’attività missionaria di Paolo. E’ evidente che Luca, nel riferirlo, vi annette una grande importanza. E’ il primo incontro del Vangelo con la filosofia greca ed è forse il tentativo più alto di dialogo del Vangelo con la cultura. Paolo, ebreo figlio di ebrei e rinato in Cristo, è un uomo di fede, ma è anche un uomo di cultura. Egli, che aveva assimilato il pensiero greco essendo nato a Tarso, non oscura città della Cilicia, e centro ellenistico cosmopolita, rivela una profonda conoscenza del contesto culturale su cui intendeva innestare il germoglio evangelico e anche una sincera simpatia, non improvvisata, per ogni uomo che cerca Dio andando come a tentoni. Atene, in quel periodo, era pur 4 sempre la capitale della sapienza, dell’arte e della democrazia, anche senza lo splendore dei secoli V e VI a.C. All’indignazione profetica di fronte agli idoli si associa in lui la simpatia per questa ricerca testimoniata dall’Ara al dio ignoto ch’egli ha scoperto percorrendo le strade di Atene. Paolo vede e apprezza la ricerca umana, che gli allarga il cuore, ma insieme denuncia l’ignoranza che soltanto la rivelazione divina può dissipare. Non aveva parlato Socrate, nel Fedone, di una zattera alla quale occorre affidarsi per compiere, non senza rischio, la difficile traversata, in attesa però di una nave più sicura, cioè di una rivelazione divina? Nel suo discorso Paolo sottolinea ciò che unisce invece di ciò che divide, insiste su ciò che appiana la via e non su ciò che la sbarra. Alzando gli occhi dalla collina rocciosa dell’Areopago, dove pronunciava il suo discorso, Paolo vedeva i robusti Propilei e il Partenone dominante lo spazio, come il pensiero umano domina e tiene insieme tutti gli elementi. Egli certo ammirava quella armoniosa compattezza simbolo dell’umanesimo greco, ma insieme ne coglieva il limita inesorabile. Paolo era perfettamente convinto che l’uomo non basta a se stesso, anzi è destinato a smarrirsi, a perdersi, come documenta la tragedia greca, se Dio non scende a salvarlo, come scese in Egitto a liberare Israele dalla schiavitù. L’incantesimo dell’Areòpago improvvisamente si rompe e nel sistema chiuso dell’uomo irrompe una forza misteriosa che lo sconvolge. L’annuncio della Resurrezione è l’annuncio che Dio interviene nella storia dell’uomo per dare inizio ad una creazione nuova, ma tale annuncio provoca la rottura di quell’armonia che fino a quel momento ha tenuto sospeso e incantato l’ uditorio. “Appena sentirono parlare di resurrezione dei morti, alcuni dei presenti cominciarono a deridere Paolo. Altri invece gli dissero: su questo punto ti sentiremo un’altra volta” (At. 17,32). Paolo alzò la voce in mezzo all’Areopago. Un popolo prudente e scaltrito ascoltava l’oratoria appassionata dell’oratore che parlava così bene la “loro” lingua. Ascoltavano per puro gusto, da intenditori. Scrive Luca negli Atti: “Non avevano passatempo più gradito che parlare e sentire parlare”… Tuttavia l’eloquenza di Paolo non ebbe successo. L’esordio sul tema dell’Ara al dio ignoto fu preso per quello che era: un brillante espediente oratorio. Quando poi toccò il tema della resurrezione dei morti, un soprassalto di incredulità e di superstizione della platea troncò l’intervento. Paolo non aveva mai incontrato, né incontrerà, un uditorio così restio a farsi coinvolgere, consumato com’era nel gustare i sofismi e le sottigliezze dell’oratore più che con le sue ragioni. Se ne partì in fretta. Meglio le percosse, la galera e il martirio piuttosto che quell’assemblea smaliziata che lo ascoltava lettera di Paolo agli Ateniesi come un imbonitore fra i tanti. Molto stimolante e pieno di significato è stato per me la lettura delle lettere di Paolo e commentate da Don Mario in questo stesso luogo dove l’Apostolo delle genti le aveva pronunciate. Il suo messaggio evangelico ai suoi contemporanei, pur rimanendo invariato nella forma, è ancora attuale e valido anche per noi. 5 il luogo La collina dell’Acropoli è l’apoteosi della bellezza greca del V secolo a.C. che ancora oggi incanta con la ricerca della perfezione, anche con l’assenza di colore, unico, fatale tributo pagato al trascorrere dei secoli. Invero questa spettacolare bellezza in candido marmo, al tempo di Pericle e Fidia era invece un tripudio di colore: metope, triglifi, statue variopinte facevano brillare, in mille tonalità, la passione ateniese per l’arte. Nei pressi dei Propilei, il grandioso ingresso all’intero complesso, vi è il tempio di Atena Nike, costruito fra il 426 e il 421 e progettato da Callicrate per commemorare le vittorie degli ateniesi sui persiani. L’edificio è stato usato sia come punto di osservazione sia come tempio della dea Vittoria, Atena Nike, della quale si può osservare la statua sulla balaustra. Attore protagonista dell’intera scena è però il Partenone, uno degli edifici più famosi del mondo, un tempio costruito nel 447 dagli architetti Callicrate e Ictino per ospitare la statua di Athena Parthenos. Dopo nove anni di costruzione il tempio fu dedicato alla dea; nel corso dei secoli fu più volte riadattato divenendo una chiesa, una moschea e un arsenale e subendo ingenti danni. Quello che vediamo oggi, è purtroppo quanto rimane dopo le folate della stupidità umana che videro il loro apice nel cannoneggiamento cui l’Acropoli fu sottoposta da parte del Doge veneziano Francesco Morosini, ennesimo esempio della genialità che, da sempre, connota ogni azione militare. Ancora oggi, però, l’edificio rappresenta la massima espressione della gloria dell’antica Grecia e l’emblema della città di Atene. L’Acropoli è ancora affascinante nonostante le impalcature dovute agli interminabili restauri. E’ affascinante per il valore storico e la bellezza senza tempo dei suoi templi che si stagliano solenni contro il cielo di Atene. Poco distante dal Partenone, ecco un altro capolavoro: l’Eretteo che, con la sua pianta inusuale i cui volumi, su piani differenti, rispettano la sacralità del luogo e i dislivelli dell’Acropoli, testimonia l’incredibile applicazione dell’arte ionica in una struttura complessa, attenta alla morfologia del terreno e rispettosa della simbologia sacra. Gli occhi vengono attratti dalla loggetta sostenuta dalle Cariatidi (si tratta di copie, le originali si trovano nel museo), ma è l’intero complesso, che la leggenda vuole sorto sul luogo in cui il tridente di Poseidone fece zampillare una sorgente di acqua salmastra, a lasciare senza 6 parole. Il suo significato simbolico, con l’immancabile ulivo, erede di quello donato da Atena, è un intrecciarsi di culti antichi e diversi. Dopo la visita all’Aeròpago (vedi sopra), una veloce panoramica di alcuni “tesori” della città, commentati esaurientemente dalla nostra capace guida: il tempio dedicato a Zeus, l’arco di Adriano, l’Odeon di Erode Attico, lo stadio olimpico, il Palazzo del Parlamento e la tomba del milite ignoto a piazza Sintagma con gli immancabili guardie nelle loro caratteristiche uniformi, gli Euzoni. Visita veloce al Museo Archeologico Nazionale, inaugurato nel 1891, che raccoglie una collezione i cui pezzi si trovavano precedentemente in diverse zone della città . Tra le tantissime cose esposte e non viste, non ci siamo persi però la Maschera di Agamennone, maschera mortuaria d’oro che si pensava appartenesse al leggendario re Agamennone. Centro sociale, politico e commerciale dell’Antica Atene, l’Agorà è il luogo in cui si “esercitava la democrazia”, dove fu condannato Socrate e dove si perpetrava l’ostracismo. A partire dal 600 a.C., quest’area fu abbellita da una ricca serie di monumenti che comprendevano templi, altari, edifici commerciali e di governo, odeon…Oggi, dagli imponenti resti si eleva la ricostruzione della Stoà di Attalo, un raffinato edificio a porticato coperto, che ospita il museo dell’Agorà (monete, giocattoli, sandali , vasi, un orologio idraulico per misurare la lunghezza dei discorsi, statue, regoli e gli ostraca, i famosi cocci sul quale si scriveva il nome del cittadino ateniese che si desiderava mandare in esilio). Tra gli edifici meglio conservati: il possente tempio dorico detto Thesèion, dedicato ad Atena e a Efesto. 7 Micene/Epidauro/Corinto/Olimpia Lunedi 29 dicembre 2008 Corinto e Paolo Un po’ di storia Importantissimo centro navale e commerciale fin dai tempi più remoti, Corinto conobbe momenti terribili nel periodo della guerra tra Atene e Sparta, di cui era alleata. Era un città troppo ricca per non fare gola ai romani, che la assoggettarono nel 146 a.C. E’ famosa perché fu sede dei “Giochi Istmici”, gare che assomigliavano a quelle di Olimpia. Nei suoi pressi esisteva una strada lastricata che, con l’uso di appositi carrelli, serviva al trasporto delle navi dal mare Ionio al mare Egeo e viceversa, evitando così la circumnavigazione del Peloponneso. La costruzione dell’attuale Canale avvenne nel 1893, dopo 11 anni di lavoro. A Corinto Paolo predicò a una popolazione famosa per la frivolezza e dissolutezza dei costumi. Luoghi visitati L’Agorà, centro commerciale e culturale della città. Il Museo archeologico. L’Acrocorinto, punto panoramico, dove sorgeva il tempio di Afrodite (da visitare) Dopo il discorso sull’Areopago, contestato dagli intellettuali ateniesi, Paolo lasciò Atene per recarsi a Corinto. Lo scarso successo non scoraggiò comunque Paolo che raggiunta Corinto, capitale della provincia romana dell’Acaia, ancora più cosmopolita e corrotta di Atene, trova ospitalità presso i coniugi cristiani Aquila e Priscilla facenti parte della numerosa comunità giudaica del luogo. Molto prima di avvicinarsi alla città Paolo vide levarsi in alto fra i due mari, isolato e solenne, l’Acrocorinto, sulla vetta del quale Afrodite, patrona di Corinto, aveva un tempio con mille sacerdotesse pronte ad offrire il proprio corpo agli innumerevoli pellegrini che salivano verso il santuario. Appunto per la pratica della prostituzione sacra collegata al tempio di Afrodite, Corinto si era guadagnata la fama di città libertina. Tanto più stupisce l’audacia di Paolo che proprio ai Corinzi propone l’ideale cristiano della verginità consacrata, insegnò senza esitazione: “Glorificate Dio nel la strada del Lechaion, sullo sfondo l’Acrocorinto vostro corpo” (1Cor 6,20) e, soprattutto inculcò con singolare fervore la “via” che sopra ogni altra si eleva, l’agàpe. Il traffico intenso dei due porti riversava in città una folla immensa di marinai e soldati, imprenditori e commercianti, tra i quali primeggiavano gli ebrei, e una incredibile moltitudine di schiavi. Dal punto di vista sociale esisteva un forte squilibrio sociale tra i grandi possessori di ricchezze e la massa dei diseredati e dei poveri. Come in tutte le città dell’epoca, circolavano retori, filosofi e sofisti che sollecitavano le innata curiosità intellettuale dei greci, l’amore alla disputa e l’inclinazione a distinguersi nell’eloquio e nella sapienza. 8 Aquila, oriundo del Ponto era giunto da poco dall’Italia con la moglie Priscilla, dopo che l’imperatore Claudio aveva espulso da Roma tutti gli ebrei. Paolo, trovata ospitalità presso questi coniugi, rimase con loro e li aiutava a fabbricare tende. La loro casa divenne ben presto “domus ecclesia”, cioè una delle prime chiese domestiche. Paolo lavorava per guadagnarsi da vivere, però ogni sabato si recava nella sinagoga, dove “attraverso il dialogo cercava di convincere tutti, ebrei e greci” (At 18,4). Paolo “tessitore” conosceva bene l’arte del dialogo, l’arte di tessere rapporti umani e di annodare i fili che passavano per le sue mani a Colui che tiene insieme tutte le cose e in cui tutto si compie, il Cristo, che annunciava stando al telaio nella bottega di Aquila e Priscilla. Quando giunsero dalla Macedonia Corinto, pietra della sinagoga Silvano e Timoteo, Paolo si dedicò tutto alla predicazione, affermando davanti agli ebrei che Gesù è il Cristo, cioè il Messia inviato da Dio. L’opposizione e il rifiuto degli ebrei lo costrinsero ancora una volta a lasciare la sinagoga per rivolgersi ai pagani. Perciò si trasferì nella casa d’un tale chiamato Tizio Giusto, che onorava Dio, la cui abitazione era accanto alla sinagoga. Tuttavia il capo stesso della sinagoga, Crispo, “credette nel Signore insieme a tutta la sua famiglia, abbracciando la fede e si fece battezzare” (At 18,8). Traspare da queste righe un’attività fervida e fruttuosa; con tutto ciò l’animo di Paolo è ancora depresso. Pesa ancora su di lui l’insuccesso di Atene ed è alla ricerca di un metodo missionario più consono al messaggio evangelico. Anche se l’ambiente di Corinto è diverso da quello di Atene, Paolo ormai sa che “gli ebrei chiedono miracoli e i greci cercano la sapienza, mentre il suo compito è predicare Cristo crocefisso, scandalo per gli ebrei e stoltezza per i pagani” (1Cor 1,22-23). Paolo maturò questa scelta, non senza interno travaglio, proprio a Corinto. Per sostenerlo e incoraggiarlo su questa via ardua, una notte il Signore gli apparve in sogno e gli disse: “Non avere paura! Continua a predicare e non tacere, perché io sono con te! Nessuno potrà farti del male. Anzi, molti abitanti di questa città appartengono già al mio popolo” (At 18,9-10). Ben presto gli ebrei insorsero in massa contro Paolo, lo presero e lo trascinarono davanti al tribunale, dicendo: “Quest’uomo cerca di convincere la gente ad adorare Dio in modo contrario alla legge” (At 18,12-13). Ma il proconsole Gallione (fratello del filosofo Seneca), dimostrò larghezza di spirito dichiarandosi incompetente a giudicare una causa religiosa. Così li fece uscire dal tribunale. Ne andò di mezzo lo stesso capo della sinagoga, addirittura percosso dalla sua gente. Dopo qualche tempo, probabilmente nell’autunno del 52, Paolo lasciò la città, salpando dal porto di Cencre verso la Siria in compagnia di Aquila e Priscilla. Partendo da Corinto, lasciava una comunità fiorente e numerosa, formata in massima parte da pagani convertiti. Era la prima comunità chiamata a vivere in un contesto culturale assolutamente nuovo rispetto a quello ove la fede era nata. La difficoltà di inserirsi e di esprimersi in un mondo nuovo, come era quello grecoromano, era accresciuta dagli ebrei presenti in gran numero nella comunità e legati alle venerate tradizioni dei padri. 9 il viaggio e i luoghi Sveglia alle 6:45, messa in hotel, colazione e partenza per il Peloponneso. Non può mancare una sosta al noto canale di Corinto, straordinaria opera di ingegneria realizzata tra il 1882 e il 1893, lungo 6.243 metri, largo 24,6 metri e profondo 8 metri. Gli argini che lo fiancheggiano, nel punto più alto raggiungono i 79,5 metri. Già in epoca arcaica era stato progettato il suo taglio. Il tentativo più ambizioso fato nell’antichità fu quello intrapreso da Nerone nel 67 d.C. L’Istmo è stato sempre l’unico ponte naturale che metteva in collegamento la Grecia continentale con il Peloponneso, penisola più grande di tutta la Grecia centrale. Breve sosta per le immancabili fotografie e per bere un caffè nel bar vicino. Da segnalare un fatto valido per tutta la Grecia: il prezzo del caffè espresso che va da 2 a 5 euro mentre quello tradizionale greco (uguale a quello turco) costa invece un po’ di meno, tra 1 e 2 euro. Si riprende il viaggio direzione Micene ed Epidauro; il panorama è molto bello, colline di pietra, tante piante di arance e viti. Poche abitazioni ma abbastanza verde. Raggiungiamo Micene racchiusa dalle “mura ciclopiche” (1500 a.C. circa), realizzate con massi grezzi non tagliati con spessori tra i 3 e gli 8 metri. Furono dette “Ciclopide” perché ritenute opera dei leggendari Ciclopi. Micene (o Mikìnes) è uno dei luoghi più evocativi al mondo: è il centro nevralgico della Grecia eroica che ha ispirato i drammaturghi ellenici ed è la sede dei monumenti, scoperti da Schliemann nel XIX secolo, che hanno 3000 anni di storia. L’ingresso principale è la Porta dei Leoni (o delle Leonesse, come afferma la nostra dotta guida) che si apre in cima a una rampa. Sopra i due battenti poggia l’architrave che è un enorme monolito; per alleggerire l’architrave dal peso della sovrastruttura, risulta il “triangolo di scarico”, tratto caratteristico dell’architettura micenea. Questo triangolo, per ragioni estetiche, ma anche pratiche, viene colmato con una sottile lastra di calcare duro, che reca, in rilievo, la rappresentazione che ha dato il nome alla porta: due leoni (o leonesse) rampanti tesi a respingere gli influssi malefici. Sui piccoli altari, fra le due belve, è ritta una colonna che sostiene il soffitto di un edificio. Sulla faccia laterale dei montanti stessi, due fori quadrangolari ricevevano le estremità di una sbarra di legno quadrata, che assicurava la chiusura della porta. Altri fori, due per ciascun montante, dovevano accogliere le maniglie dei battenti, in modo che la porta potesse aprirsi per l’intera sua larghezza. Interessanti le rovine delle tombe reali (Circolo funerario A) dove furono rinvenuti scheletri delle famiglie reali di Agamennone e del suo seguito, con maschere d’oro sul volto e offerte funerarie ricche di metalli preziosi; il Palazzo e la salita verso l’Acropoli, collina rocciosa, isolata da ogni parte, fortezza naturale e nel contempo un osservatorio sulla piana argolica. Ai piedi della cittadella si apre il Circolo funerario B di 28 metri di diametro che contiene 24 tombe a fossa. Di ritorno verso il pullman ci fermiamo per la visita del tesoro di Atreo, capolavoro dell’architettura micenea, che un tempo si credeva appartenesse ad Agamennone. Risale al XIV sec. a.C. ed è caratterizzato da una tomba a tholos (struttura a cupola) 10 alla quale si accede attraverso un suggestivo corridoio. Il vano è circolare e comunica con una stanza più piccola che un tempo doveva custodire il famoso tesoro. Percorrendo strade panoramiche in una alternanza di colline coperte da pinete e oliveti e paesini, si giunge a Epidauro. Non fu una vera città ma solo la sede del tempio di Esculapio, dio della medicina (500 a.C.), la cui notorietà valicò i confini del mondo ellenico. La zona archeologica è molto diversa dalle altre località dell’Argolide perché, a differenza di Micene e Tirinto, Epidauro fu immune da ostilità, fedele solo alla sacra missione di guarire i malati. La natura sembrava adeguarsi, con acque abbondanti e limpide, una vegetazione ricca e varia e un clima mite. Qui i popoli dell’antichità pregavano il dio Esculapio perché alleviasse le sofferenze con la guarigione e il conforto dell’anima; l’aspetto mistico fu affiancato più tardi dalla presenza di medici e sacerdoti. Quali siano le origini del suo culto, Esculapio presenta a Epidauro tutte le caratteristiche fondamentali di un dio associato al ciclo annuale della natura. Suo simbolo è il serpente, animale che, per gli antichi, viveva al tempo stesso sopra e dentro la terra. D’altra parte, il dono di guarire, che lo caratterizza, è un attributo proprio alle divinità ctonie (del suolo), come risulta dalla loro familiarità con la vegetazione in generale e le piante curative in particolare, e dal loro potere sulle potenze infere, che comunicano con i viventi in modo misterioso, magico, influenzando la loro condizione e la loro evoluzione. I malati, dopo solenni riti di purificazione, passavano la notte in uno speciale edificio, il portico d’incubazione, dove il dio appariva loro durante il sonno, indicando il trattamento che essi dovevano seguire. Senza escludere completamente gli interventi chirurgici e le cure farmaceutiche, la terapia di Esculapio era soprattutto fondata sull’esperienza sconvolgente del malato, messo a diretto contatto col soprannaturale, metodo che doveva avere risultati immediati e impressionanti, particolarmente nel caso di malattie psicosomatiche. Visitiamo poi il museo ricco di strumenti di medicina e chirurgia, ex voto, statue. Di notevole interesse i frammenti della porta della tholos (struttura a cupola) con la sua decorazione a rosette e il soffitto a cassettoni del peristilio con la sua mirabile decorazione a fiori, piena di vigore e di morbidezza. Sono esempi di una sensibilità plastica che ne fa uno dei più splenditi ornati architettonici greci. Il teatro è il più grande della Grecia antica e il meglio conservato. Costruito nel III secolo a.C. e ampliato nel II, accoglieva 14.000 spettatori. L’acustica perfetta consentiva alle file più distanti, a 20 metri di altezza, di udire i sussurri sulla scena. Delle 55 file, la prima aveva sedili bassi per collocarvi i cuscini; fra una fila l’altra si distinguevano gli incavi per i piedi. Al centro della orchestra circolare l’altare di Dioniso ricordava la sacralità delle rappresentazioni. Del palcoscenico, rialzato, si conservano le fondamenta; tavole girevoli erano usate come fondali. 11 Corinto, come già detto all’inizio, ha una storia lunga 5000 anni. I romani che avevano cominciato a interessarsi delle vicende politiche greche, si impadronirono di Corinto, sede della lega achea e se ne vendicarono distruggendola completamente nel 146 a.C. Cento anni più tardi Giulio Cesare progettò un piano di ricostruzione della città distrutta mediante la fondazione di colonie da assegnare a veterani e alle popolazioni indigenti delle grandi città romane. Corinto era compresa in questo piano e la sua costruzione cominciò nel 44 a.C. Cesare fu assassinato nello stesso anno, ma i lavori continuarono e terminarono sotto Augusto. L’agorà, fulcro della vita politica e pubblica, era una grande piazza circondata da colonnati e botteghe. A sud, la Stoà (portico) si sviluppava su due piani con due file di 33 botteghe, forse osterie poiché ognuna aveva un pozzo di 12 metri alimentato dalla fontana di Pirene. Il monumentale tempio di Apollo (540 a.C.) domina tutto il golfo di Corinto. Fra i più venerati del mondo greco, sorge sui resti di un tempio del VII sec. a.C. E’ uno dei primi esempi di stile dorico, con 38 colonne ricavate da un solo blocco. Da qui il mio sguardo si sofferma spesso verso il lontano Acrocorinto, sede del tempio di Afrodite con le sue mille sacerdotesse…e penso ai pellegrini che seguivano le ancelle che avevano come richiamo un nastrino rosa legato alla caviglia, come per dire follow me, follow me. tempio di Apollo Attraverso una strada che scorre da est a ovest e parallela al mare del golfo di Corinto, raggiungiamo Olimpia dopo circa tre ore di viaggio sistemandoci all’albergo Amalia. 12 Olimpia/Delfi Martedi 30 dicembre 2008 il viaggio e i luoghi Dopo la messa e la colazione nell’Hotel Amalia raggiungiamo in pochi minuti di pullman Olimpia, che vuol dire Sacro Altis (Bosco). Il tempo è molto bello con sole e il cielo molto sereno. Siamo rimasti tutti costernati e impressionati vedendo i danni ambientali causati da un incendio che ha devastato l’intero patrimonio boschivo della zona, avvenuto nell’estate 2007, proprio qui a Olimpia, a ridosso del sito archeologico. Nel 776 a.C. venne svolta la prima Olimpiade e per tutte le successive edizioni fu proclamata una “tregua sacra” per la durata dei giochi, che impediva l’accesso alle truppe armate e proclamava l’inviolabilità dei pellegrini mentre i popoli di stirpe greca dimenticavano le discordie nel nome dell’ellenismo. Da notare che in età classica Olimpia non era un centro abitato ma solo un luogo di culto. Visitiamo la città dei giochi olimpici; passiamo dal Ginnasio e dalla Palestra, luoghi dove si esercitavano gli atleti ad ambienti di culto come il Theokòleon dove alloggiavano i sacerdoti, al Bouleutérion, residenza dei membri della commissione olimpica, alle terme, ai magazzini, agli alloggi per gli ospiti, ai locali per contenere gli ex-voto, al grande Tempio di Zeus (470-456 a.C.), distrutto da un sisma nel VI secolo a.C. L’edificio, realizzato in conglomerato, fu decorato con statue di bronzo e teste di leone. All’interno vi era la scultura più celebre dell’antichità, la statua di Zeus Assiso, opera di Fidia alta quasi 13 metri, in legno rivestito di oro e avorio. Infine allo Stadio dove si celebravano i giochi. In questo stadio, ricostruito come l’originale del IV secolo a.C., è visibile la pista con il traguardo e la linea di partenza. L’ippodromo lo si è intravisto in lontananza. Prima di passare a descrivere dettagliatamente alcune opere all’interno del Museo, vorrei precisare cosa significasse per gli antichi Olimpia: - il luogo di culto panellenico, luogo di tregua sacra della guerra che si manifesta come sfida di prestazione fisica regolata sotto la garanzia di Zeus, - autoconoscenza del proprio corpo, la gioia dell’ effimera vittoria della gloria, l’accettazione leale della sconfitta e dei propri limiti, - la valorizzazione della fatica umana che è sfida e lotta continua che libera lo spazio umano dai mostri selvaggi come fa Ercole rappresentato nelle metope del Tempio di Zeus e lo prepara per la civiltà operosa, - istituzione di ordine e di regole del vivere civile, educazione al loro rispetto come vuole Apollo che sul frontone del Tempio sostiene l’istituzione sacra del matrimonio di Piritoo contro i centauri selvaggi e senza legge, 13 - lotta che non distrugge e che conosce la misura del Logos. Nel Museo, che espone splendidi esempi dell’antica arte scultorea greca, si trovano i frontoni del tempio di Zeus. Come dice la nostra guida ognuno di noi vuole quel senso di giustizia e di protezione che gli dei ci devono e possono garantire. Sul frontone est è infatti scolpito la scena della gara di Pelope (Giustizia) e sul frontone ovest la battaglia dei Centauri (Protezione). Frontone est – GIUSTIZIA (al vertice della composizione Zeus, alla sua destra Pelope e Strope, la moglie; alla sua sinistra Enomao e Ippodamia) Sfida tra Pelope ed Enomao Pelope, figlio di Tantalo, aveva deciso di stabilirsi in una nuova sede con la immensa schiera dei suoi seguaci, dopo essere stato cacciato dalle terre di suo padre dai barbari. Ma prima volle chiedere la mano di Ippodamia, figlia del re di Enomao d’Arcadia, il quale regnava su Pisa e sull’Elide. Non si sa con certezza se Enomao fosse stato avvertito da un oracolo che suo genero l’avrebbe ucciso, oppure se egli si innamorò di Ippodamia. In ogni caso escogitò una strano mezzo per impedire a Ippodamia di sposarsi: sfidava infatti ciascun pretendente a misurasi con lui in un percorso, tra Pisa, che sorge sulle rive del fiume Alfeo, di fronte a Olimpia, fino all’altare di Poseidone sull’istmo di Corinto. Enomao pretendeva che Ippodamia salisse sul cocchio del pretendente, per distrarre la sua attenzione, ma gli concedeva un vantaggio di mezz’ora mentre egli stesso sacrificava un ariete sull’altare di Zuss a Olimpia. Ambedue i cocchi si sarebbero poi lanciati verso l’istmo e il pretendente, se sorpassato da Enomao, doveva morire; se invece avesse vinto, Ippodamia sarebbe stata sua, ed Enomao sarebbe morto. Enomao non mancò mai di vincere perché le sue cavalle, abilmente guidate da Mirtilo che era figlio di Ermes, nate dal vento e donate da suo padre Ares, erano di gran lunga le migliori di tutta la Grecia. In tal modo Enomao eliminò dodici principi e inchiodò le loro teste e le loro membra alle porte del palazzo. Pelope arrivò a Pisa con un carro leggerissimo che poteva correre sul mare senza che si bagnassero i mozzi delle ruote ed era trainato da una coppia di instancabili, alati e immortali cavalli regalati da Poseidone. Ippodamia frattanto si era innamorata di Pelope e, lungi dall’ostacolare la corsa, promise di ricompensare generosamente Mirtilo se con qualche mezzo fosse riuscito a mettere in scacco suo padre. Mirtilo allora rimosse i chiodi dai mozzi delle ruote di Enomao e li sostituì con altri fatti di cera. Quando i cocchi raggiunsero l’estremità dell’istmo ed Enomao, lanciato all’inseguimento, afferrò la lancia, preparandosi a colpire Pelope alla schiena, le ruote si staccarono dal suo carro ed egli morì travolto dai suoi stessi cavalli. Pelope riuscì quindi a vincere e, non avendo nessuna intenzione di mantenere la promessa fatta a Mirtilo unitamente a Ippodamia di una ricompensa generosa, gettò l’auriga in mare. Sul punto di morire, Mirtilo lanciò una maledizione contro Pelope e tutto il suo casato. Tutto questo è rappresentato in modo mirabile con sculture umane ed equestri sul frontone. La nostra ottima guida Antonio ci ha narrato succintamente questo mito che ho poi ampliato e che continua qui di seguito… 14 …quando divenne re succedendo al trono di Enomao, ben presto conquistò quasi tutta la regione e la chiamò Peloponneso che significa “isola di Pelope”, dal proprio nome. Accumulò ricchezze e onori, ma i suoi discendenti, vittime della maledizione degli dei, erano destinati tutti a non conoscere mai la pace, sebbene Pelope avesse tentato di conciliarsi i favori di Zeus istituendo le Olimpiadi. Atreo e Tiste, figli di Pelope e Ippodamia, si videro offrire il trono di Micene, perché un oracolo aveva ingiunto ai suoi abitanti di pretendere come re un discendente di Pelope. I due fratelli andarono a Micene e attesero la scelta del popolo. Al bestiame che Atreo e Tieste avevano ereditato da Pelope, Ermes aggiunse un agnello dal vello d’oro, sapendo che la sua presenza avrebbe provocato tra i due fratelli una disputa atroce. In qualità di primogenito, Atreo pretese non solo l’agnello dal vello d’oro, ma anche il trono di Micene. Sacrificò ad Artemide l’agnello ma tenne con sé il prezioso vello, prova della sua sovranità. Tieste nel frattempo aveva sedotto Erope, moglie di Atreo, e l’aveva convinta a rubare il vello d’oro per darlo a lui. Arrivò infine il giorno in cui gli anziani di Micene dovevano proclamare la loro scelta. Quando Tieste dimostrò di essere in possesso del vello d’oro, il trono venne accordato a lui. Atreo, costernato, supplicò gli dei di venirgli in aiuto e Zeus rivelò sia il furto di cui Tieste si era reso colpevole, sia l’infedeltà della moglie. Il trono andò allora ad Atreo mentre Tieste prendeva la fuga. Una volta re di Micene, Atreo cercò il modo di vendicarsi dl fratello. Uccise Erope e poi mandò a Tieste un messaggio assicurandolo del suo perdono e chiedendogli di dividere il trono con lui. Poi si impadronì dei figli del fratello. Tieste l’accolse calorosamente e lo invitò ad un banchetto per celebrare il suo ritorno. Tieste fece onore al pranzo, ma quando chiese notizie dei figli Atreo gli mostrò le loro teste e gli rivelò che gliene aveva servito la carne durante il banchetto. Folle di dolore, Tieste maledisse Atreo. Consultò l’oracolo di Delfi che gli consigliò di generare un figlio dalla propria figlia, Pelopia, unica sopravvissuta della sua prole. Tieste si recò quindi a Sicione, dove la fanciulla era sacerdotessa di Atena e pupilla del re Tesproto. Tieste trovò Pelopia intenta a sacrificare, nottetempo, ad Atena Colocasia, e poiché non voleva partecipare ai riti si nascose in una vicina grotta. Accadde che Pelopia, mentre guidava la danza rituale, scivolasse nella pozza del sangue sgorgato dalla gola della vittima, una pecora nera, macchiandosi la tunica. Subito essa corse allo stagno che vi era presso il tempio, si lavò la tunica e stava per lavare la macchia quando Tieste balzò fuori dalla grotta e la violentò. Pelopia non lo riconobbe perché egli aveva il volto coperto da una maschera, ma riuscì a rubargli la spada e la portò con sé al tempio dove la nascose sotto il piedestallo della statua di Atena. Tieste, quando trovò il fodero vuoto, temette di essere scoperto e fuggì in Lidia, la terra dei suoi padri. Intanto anche Atreo oppresso dal rimorso di avere ucciso i figli del fratello, andò a consultare l’oracolo di Delfi, che gli ordinò di fare ritornare Tieste dall’esilio. Quando Atreo arrivò a Sicione Tieste aveva già lasciato la città. Atreo rimase quindi un po’ di tempo alla corte del re Tesproto e si innamorò di Pelopia, che egli credeva fosse la figlia del re, e le nozze ebbero subito luogo. A tempo debito Pelopia diede alla luce il figlio generato in lei da Tieste e lo abbandonò sulla montagna; ma i pastori di capre lo soccorsero e lo fecero allattare da una capra (donde il nome Egisto, ossia “che ebbe forza da una capra”). Atreo pensò che Tieste fosse fuggito da Sicione all’annuncio del suo arrivo, che il bimbo fosse suo, e che Pelopia fosse stata colpita dalla temporanea pazzia che a volte affligge le donne dopo il parto. Egli allora ricuperò Egisto tra i pastori e lo allevò come suo proprio erede. Una serie di sventure si abbatté su Micene: i raccolti vennero a mancare, le greggi furono decimate e, disperato, Atreo chiese ai suoi figli, Agamennone e Menelao, di partire alla ricerca di Tieste. Contro ogni attesa, essi lo scoprirono a Delfi e lo portarono di forza a Micene. Rivedendo il fratello, Atreo non riuscì a vincere il suo odio per lui, dimenticò le raccomandazioni dell’oracolo e fece rinchiudere Tieste in una segreta, deciso a farlo morire. Una sera, mentre dormiva nelle sua prigione Tieste si svegliò vedendo davanti a sé un bambino di sette anni che lo minacciava con una spada. Era Egisto che uccidendo Tieste, sperava di avere l’approvazione del proprio supposto padre, Atreo. Tieste non fece nessuna fatica a disarmare il fanciullo e a riconoscere la propria spada. Era giunto il momento di prendersi la rivincita su Atreo, sebbene Pelopia avesse messo fine ai propri giorni appena aveva saputo chi era in realtà il padre del proprio figlio. Tieste convinse Egisto a rivolgere la sua arma contro Atreo e a svelar la sua 15 paternità. Micene conobbe allora un periodo di pace. Tieste ne era il re ed Egisto il principe ereditario, ma gli effetti della maledizione si fecero sentire di nuovo sulla casa di Pelope. Agamennone, il primogenito di Ateo, non tardò a rivoltarsi contro lo zio. Riuscì a cacciar Tieste da Micene e fece sua l’eredità di Egisto. In seguito Agamennone sposò Clitennestra e divenne re di Argo, poi partì per stringere d’assedio Troia, ma il destino tragico dei discendenti di Pelope non finì lì perché Egisto attendeva l’ora della vendetta… Tieste giace sepolto lungo la strada che conduce da Micene ad Argo e sulla sua tomba c’è la statua di pietra di un ariete. La tomba di Atreo e il tesoro, che si trova in una cripta sotterranea, si mostrano ancora ai visitatori tra le rovine di Micene. (Visitata lunedi 29 dicembre). Nella iconografia classica Pelope è raffigurato sempre in relazione alla gara sul carro. La sua statua nel tempio di Zeus lo presenta nudo mentre si prepara alla gara. La spalla d’avorio (o il braccio) era in realtà il simbolo della sua regalità. Infatti successivamente venne identificato come uno scettro che passò ad Agamennone. Frontone ovest – PROTEZIONE (al vertice della composizione Apollo) Lotta tra Lapiti e Centauri (Centauromachia) In occasione delle nozze tra Piritoo, il Lapita e Didamia furono invitati alle nozze tutti gli olimpi compresi i Centauri, cugini di Piritoo. Questi ultimi sedettero a tavola con i principi tessalici in una vasta grotta in quanto il palazzo non poteva più ospitare i convitati poiché erano più di quanto ne poteva accogliere. I Centauri non erano avvezzi a bere il vino e, quando ne fiutarono l’aroma, respinsero il latte acido che stava loro dinanzi e corsero con i loro corni d’argento ad attingere vino dagli otri. Nella loro ignoranza bevvero il vino schietto, senza allungarlo con l’acqua e si ubriacarono in tal modo che quando la sposa apparve sulla soglia della caverna per salutare gli ospiti il Centauro Eurizione balzò dallo sgabello, rovesciò il tavolo e la trascinò via per i capelli. Subito gli altri Centauri seguirono il suo vergognoso esempio, agguantando bramosi le donne e i fanciulli che capitavano loro a tiro. Piritoo e altri Lapiti accorsero in aiuto di Didamia, amputarono il naso e le orecchie di Eurizione e gettarono i Centauri fuori dalla caverna. Si scatenò una lotta furibonda che si prolungò fino al calar della notte; così ebbe origine l’antica inimicizia tra i Centauri e i loro vicini Lapiti. Apollo e l’eroe Teseo aiutarono Piritoo e i suoi Lapiti imponendo il 16 rispetto delle regole civili. I Centauri, metà cavalli e metà uomini, rappresentano l’umanità ancora ferina, che non rispetta e non conosce le regole civili e quelle che istituiscono la famiglia. Questa interpretazione cominciò a essere mediata dall’influenza del pensiero filosofico, la battaglia tra i Lapiti e i Centauri fu vista come una allegoria della lotta interiore tra gli istinti selvaggi dell’uomo e l’educazione basata sulla civiltà, rappresentata dalla giusta comprensione da parte dei Lapiti dell’uso che andava fatto del vino donato dagli dei, che deve essere allungato con acqua e bevuto senza abbandonarsi agli eccessi. Gli scultori greci della scuola di Fidia concepirono questa battaglia come una lotta tra l’umanità contro mostri maligni che simbolicamente rappresentava il conflitto tra la civile Grecia e i barbari dell’impero Persiano. Questa scultura è rappresentata proprio sul frontone del tempio di Zeus a Olimpia, nel luogo dove i Greci in sostituzione della lotta senza regole istituiscono la competizione che rispetta le regole sacre sotto la garanzia di Zeus. Le fatiche di Ercole Nello stesso Museo, si trova questa metopa che rappresenta una delle dodici fatiche di Ercole. L’undicesima fatica, imposta da Euristeo, fu di cogliere i frutti aurei di un melo, dono di nozze della Madre Terra a Era, e che la dea aveva tanto gradito da piantarlo nel proprio giardino. Questo giardino si trovava sulle pendici del monte Atlante. Quando Era si accorse che le Esperidi, figlie di Atlante, cui essa aveva affidato il sacro albero, stavano cogliendone le mele, ordinò al sempre vigile Ladone di arrotolarsi attorno al tronco e di fare attenta guardia. Ercole, che non sapeva quale direzione prendere per giungere al giardino delle Esperidi, camminò sino a quando ottenne da Prometeo le informazioni che desiderava. Ercole era stato consigliato di non cogliere le mele con le proprie mani, ma di servirsi di Atlante, alleggerendolo nel frattempo dell’enorme peso che gravava sulle sue spalle. Appena giunto al giardino delle Esperidi, Ercole chiese dunque ad Atlante di fargli questo favore. Atlante avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di avere un’ora di respiro, ma Ladone incuteva paura. Allora Ercole uccise il drago scoccando una freccia al di sopra del muro del giardino: poi chinò le spalle per accogliere il peso del globo celeste. Atlante si allontanò e ritornò poco dopo con tre mele colte dalle sue figlie. Atlante assaporava la gioia della recuperata libertà. “Porterò io stesso le mele a Euristeo”, disse, “se tu reggerai il cielo sulle tue spalle per due o tre mesi ancora.” Ercole finse di acconsentire, ma poiché era stato avvisato di non accettare una simile proposta, pregò Atlante di sostenere il globo per pochi minuti soltanto, affinché potesse fasciarsi il capo. Atlante, tratto in inganno, posò a terra le mele e riprese il suo carico; subito Ercole raccattò i frutti e si allontanò con un ironica saluto. Ercole rappresenta l’umanità che con la lotta assoggetta la natura ostile e la rende vivibile, e che comunque per espiare una colpa deve faticare. La sua protettrice è Atena che si vede nella metopa sorreggere con la mano il globo celeste per dare sollievo a Ercole 17 Una nota sui miti greci e in generale su tutti gli altri miti delle antiche civiltà. Il mito è sempre stato presente nella vita dei greci, prima ancora della scienza. Un modo fantasioso di spiegare l’origine delle cose e degli uomini, gli usi, i costumi e le leggi. Le gesta degli dei e dei semidei, o eroi, sono costantemente ricondotte alla nostra misura umana immerse come sono nella quotidianità delle genti dell’antica Grecia. Questi dei non solo compiono prodigi e grandi imprese, ma sono anche afflitti da acciacchi, perseguitati dalla sfortuna, si concedono scappatelle, ecc…L’uomo può quindi riconoscersi in ogni momento della sua vita negli aspetti umani di vicende mitologiche e quindi questo aspetto trascendentale può dare sostegno e forza alla vita di tutti i giorni. Il mito serve quindi per spiegare la realtà, a superare e risolvere una contraddizione della natura, è la spiegazione di un rito, di un atto formale (Invocazione della pioggia) che corrisponde a esigenze della tribù. Questi protagonisti (gli dei e i semidei) sembrano imitare il comportamento umano, ma insegnano anche a dare uno spessore morale e psicologico degli avvenimenti Ermes e Dioniso Dioniso è il dio figlio di Zeus e di Semele. Era, sorella e moglie di Zeus, era gelosa, e, assunte le sembianze di una vecchia vicina, suggerì a Semele, già incinta di sei mesi, di fare una singolare richiesta al suo amante: che egli cioè cessasse di ingannarla, rivelandosi a lei nella sua vera forma e natura. Altrimenti essa avrebbe potuto sospettare che si trattasse di un mostro. Semele seguì quel consiglio e, quando Zeus rifiutò di accondiscendere, gli negò il suo letto. Il dio allora, furibondo, le apparve tra tuoni e folgori e Semele ne morì. Ma Ermes salvò il bambino: lo cucì infatti nella coscia di Zeus dove egli potè maturare per altri tre mesi, e a tempo debito venne alla luce. Ecco perché 18 Dioniso è detto “nato due volte” o anche “il fanciullo della doppia porta”. Zeus dovette però sottrarlo alla persecuzione di Era affidandolo a Ermes perché lo portasse lontano. La statua, opera originale di Prassitele, esposta in una sala particolare del Museo, raffigura Ermes che riposa in una pausa del viaggio per portare in salvo il piccolo Dioniso. Questa statua può rappresentare anzitutto la costruzione organica della figura umana nello spazio e l’equilibrata aderenza tra l’immagine artistica e la realtà. Arte greca che ha influenzato non solo quella romana (insieme alla quale forma l’”arte classica”), ma anche, in modo più o meno evidente nei diversi periodi storici, di tutta l’arte europea. luogo delle feste di Olimpia Rapimento di Ganimede Zeus non amò soltanto donne. Ganimede era un bellissimo adolescente figlio di un re troiano: Zeus se ne invaghì e lo rapì (o lo fece rapire dalla sua aquila, o fu lui stesso in forma di aquila). Lo portò sull’Olimpo e lo fece coppiere alla mensa degli dei. Questo mito fu molto popolare in Grecia e a Roma perché offriva una giustificazione religiosa all’amore di un uomo adulto per un giovanetto. Questa, a destra, è la statua lignea di epoca arcaica che raffigura il rapimento. corazza incisa del VII sec. 19 Nike Dea o personificazione della vittoria, appartenente al novero delle divinità preolimpiche; nota ai romani come Vittoria. Nike non determinava la vittoria o la sconfitta, ma si limitava a trasmettere la vittoria dagli dei. Gli ateniesi la misero in relazione soprattutto con Atena, che è appunto soprannominata “Nike”. Quella raffigurata qui a sinistra è opera di Peonio di Mende che i messeni innalzarono a Olimpia dopo le loro vittoria sugli spartani: Nike sembra scendere dolcemente dal cielo. A Patrasso ci fermiamo ad ammirare il nuovo ponte Rion-Antirion che collega il Peloponneso alla Grecia continentale. Si trova in una posizione strategica, situandosi all’intersezione di due arterie autostradali importanti E’ stato aperto al traffico il 12 agosto 2004, con l’inaugurazione, avvenuta l’8 agosto e celebrata durante lo svolgimento di giochi olimpici di Atene. E’ dimensionato per resistere a terremoti superiori a 7 sulla scala Richter, trasformandosi in una gigantesca altalena nel caso di scossa maggiore. Il fondale del golfo di Corinto è costituito da terreni compatti (argilla, limo, sabbia fine) e la roccia si trova a più di 1.000 metri. Inoltre, la profondità dell’acqua raggiunge i 66 metri. Le fondamenta di ognuna delle quattro torri sono state costruite in bacino di carenaggio e rimorchiate in galleggiamento prima di essere definitivamente immerse una volta che la loro costruzione ha raggiunto i 60 metri d’altezza. Riprendiamo e percorriamo un bel tratto di costa orientale del mare Egeo, selvaggio e maestoso, con begli scorci di mare, di costa frastagliata, di piccoli villaggi, di vegetazione intensa e di colline rocciose. Sullo sfondo, verso occidente, le maestose montagne dell’Epiro. La strada che ci conduce a Delfi attraversa splendidi scenari costituiti da montagne aspre e selvagge. Ci si rende già conto, prima di arrivare, dello sforzo compiuto dalle antiche civiltà nel costruire un sito così importante in questo territorio. Svoltiamo poi verso l’interno della montagna per salire al paese montuoso di Delfi (573 metri) ai piedi dl Monte Parnaso. Arriviamo all’Hotel Amalia verso le 18:00. Ci sistemiamo e poi facciamo un giretto nel piccolo paese per veder i pochi negozi aperti e a comperare regalini. Ma fa buio e troppo freddo per cui si rientra subito in hotel. 20 Delfi/Ossios Lucas/Kalambaka Mercoledi 31 dicembre 2008 il viaggio e i luoghi Sveglia alle 7:15 e con le valige riprendiamo il pullman che ci porta verso le imponenti rovine di quello che nell’antichità veniva definito il “centro del mondo”, distante circa 1 chilometro dal paese. Passando col pullman nel centro del paese ho notato numerosi ristoranti tipici, praticamente tutti allineati sulla via principale, con terrazze a strapiombo sulla vallata e magnifici panorami. Una pietra scolpita, l’omphalos, ne attestava l’importanza. Delfi è incastonato in un ambiente affascinante, con splendide vedute panoramiche da dove lo sguardo giunge fino al mare. Anche se avevo visto Delfi anni fa resto ancora conquistato dal suo suggestivo fascino. Il panorama offre la visione di un “mare di ulivi”, circa 400.000 alberi, lungo il declivo che raggiunge il mare. Fu Zeus a scegliere la sua localizzazione a Delfi: gli fece volare due aquile attorno alla terra in direzioni opposte, il punto in cui si incontrarono fu Delfi. L’oracolo di Apollo è forse il più famoso tra quelli della Grecia antica, dove era diffusa la pratica della divinazione per entrare in contatto con gli dei e conoscerne, almeno parzialmente, la volontà. Nel mondo greco esistevano due diversi tipi di divinazione, quella attraverso i segni (volo degli uccelli, visceri degli animali sacrificati, fiamma dell’altare…) e quella orale, che però necessitava comunque di una interpretazione. All’inizio a Delfi le consultazioni avvenivano una sola volta all’anno, ma in età classica esse assunsero scadenza mensile, salvo la possibilità di consultazioni straordinarie. Prima della consultazione era necessario fare delle offerte: in primo luogo il pelanos, in origine in natura, che poi divenne una tassa, variabile a seconda della consultazione, destinata agli abitanti di Delfi per le spese del culto. Vi è poi un sacrificio preliminare, la cui vittima, generalmente una capra deve esser fatta tremar con l’aspersione di acqua fredda come segnale di assenso. Le offerte servivano al mantenimento del personale permanente del santuario: i profeti, che vigilavano sull’oracolo ma soprattutto la pizia, incaricata di trasmettere la parola del dio. La sacerdotessa di Delfi veniva scelta a vita tra le donne di Delfi, senza limite d’età; unici obblighi che le erano richiesti serano la purezza rituale e la continenza. Ci potevano essere anche più pizie contemporaneamente. La tradizione descrive il momento del vaticino vero e proprio come un atto di mania profetica in cui la pizia è invasata dal dio mentre, seduta su un tripode, aspira il vapore che esce da una fessura nel suolo, forse masticando vegetali allucinogeni come l’alloro. L’effetto dei fumi si limitava a indurre un delirio durante il quale la pizia pronunciava suoni e parole sconnesse che venivano accuratamente trascritte e successivamente interpretate e comunicate all’interrogante. l’Auriga di Delfi Si visita dapprima il museo per ammirarne i Tesori: la statua 21 dell’Auriga, la Sfinge Alata, l’omphalos. La sala dell’Auriga di Delfi contiene uno dei capolavori dell’arte greca antica. Questo auriga era soltanto una parte dell’ex voto costituito anche da una quadriga. Il carro nascondeva la parte inferiore del corpo dell’auriga, ed è perciò che ora sembra di un’altezza sproporzionata rispetto a quella superiore. E’ vestito con un lungo chitone cerimoniale cinto in alto da due fasce. Il ricco drappeggio sul petto contrasta con l’austerità delle pieghe verticali al di sotto della cintura. Nessun gesto momentaneo, nessun sentimento passeggero, ma la serenità olimpica dell’immortalità. La sala V contiene capolavori unici della scultura ionica delle isole dell’Egeo. Il più importante e famoso è la colossale Sfinge dei Nassi in marmo. Ha una testa femminile, petto e ali di uccello, corpo e zampe di leone. I particolari erano accentuati dal colore. Nel 1939, sotto il lastricato della Via Sacra, a una profondità di appena 20 metri, furono rinvenuti due depositi sacri carboni e ceneri. Il deposito più grande conteneva frammenti di tre rare statue crisoelefantine di grandezza naturale. Nella vetrina, sempre della sala V, si possono vedere tre parti di queste statue. Nelle figure qui sopra stampate si vede la testa in avorio di Apollo, con capelli in lamina dorata e con due ciocche d’oro che scendono sul petto; l’altra figura rappresenta la testa di Artemide restaurata e integrata con orecchini d’oro a forma di rosetta su avorio. Entrambe le due figure portano un diadema d’oro. Dopo il museo percorriamo la Via Sacra dove venivano poste le offerte e gli ex voto di che si prestava a consultare l’oracolo. Nel superare l’entrata del santuario è indispensabile prendere coscienza non solo della sacralità del luogo, ma anche della necessità di soffermarsi, ad ogni passo, a guardare davanti, a destra e a sinistra, ma anche dietro. Perché ad ogni passo bisogna richiamare alla memoria l’immagine differente che offrivano al visitatore i capolavori, nel loro insieme e separatamente. Mai sulla terra si sono viste raccolte in uno spazio così piccolo tante opere d’arte originali nel loro vero ambiente. Ciascuna di esse era destinata a essere la gioia del dio, di cui per primo 22 godeva il dio e poi i mortali. Il Tesoro degli Ateniesi è uno dei ex voto più famosi di Delfi, soprattutto dopo il suo restauro, ed è forse il monumento più famoso del Santuario di Apollo. Lì vicino, si nota una roccia nota come roccia della Sibilla. Nell’antichità si credeva che lì sedesse la prima Sibilla, venuta da Troia, e che da lì avesse iniziato a pronunciare gli oracoli. Si passa oltre per vedere il cosiddetto muro di analemma poligonale, con i suoi giunti ricurvi. Vi sono incise circa 800 iscrizioni, di cui la maggior parte sono atti di affrancamento di schiavi. Poco dopo si incontrano le maestose rovine del tempio di Apollo. Sui muri del pronao vi erano incise iscrizioni con le massime dei Sette Saggi della Grecia antica, come “Conosci te stesso” e “Non eccedere”. La nostra guida parla anche di un’altra iscrizione: “Niente di più” che si può intendere come o “non dare garanzia” o “non sei proprietario della terra” (ma solo affittuario). Proseguendo sempre in salita sulle pendici della montagna si raggiunge il grandioso anfiteatro del IV secolo a.C. L’ultimo edificio che si incontra è lo Stadio, considerato uno dei meglio conservati, dove si svolgevano i celebri giochi pitici. Vediamo velocemente la fonte Castalia, dove la Pizia si purificava, per poi fermaci poco oltre presso una piazzuola per ammirare il famoso Tholos, la costruzione più spettacolare di Delfi. Le rovine stesse, unite all’ambiente maestoso, creano grande suggestione. Si tratta di un tempio circolare parzialmente ricostruito con un peristilio di venti colonne doriche e da dieci colonne corinzie più interne. Ripartiamo, con un senso di nostalgia per questo luogo incantevole avvolto ancora da un alone di mistero. Anche il tempo ci favorisce concedendoci una meravigliosa giornata di sole e azzurro. Sparso tra le montagne che segnano il confine tra Beozia e Focide mai si penserebbe di trovare uno dei più importanti monumenti bizantini (490 metri) della Grecia e uno dei siti tutelati dall’UNESCO. Eppure, questo luogo così isolato, immerso in un paesaggio dove regnano gli ulivi, parve ideale a Luca lo Stiriota, che lo scelse per ritirar visi in eremitaggio e morirvi nel 953. Da subito la sua tomba divenne meta di pellegrinaggi, mentre solo a cavallo tra ‘200 e ‘300 arrivarono i cistercensi, conquistati dal carattere solitario della zona. Si limitarono a intitolare il complesso alla Vergine, lasciando le strutture e le decorazioni così come le avevano create i Bizantini. Meno rispetto ebbero invece i terremoti e i bombardamenti della seconda guerra mondiale. Sembra di avvicinarsi a una struttura fortificata più che a un luogo di meditazione. L’edificio è caratterizzato all’esterno dal tipico parametro greco in pietra e corsi di mattoni e dalle aperture multiple, raggruppate sotto archi di scarico a tutto sesto. La decorazione interna risale in gran parte all’XI secolo; solo i dipinti murali hanno sostituito, nel XVI-XVII secolo, alcuni mosaici danneggiati o distrutti. I marmi policromi che ricoprono le pareti e i pilastri, i diaspri e il porfido del pavimenti, le delicate sculture che ornano l’iconostasi e soprattutto gli straordinari mosaici che arricchiscono le volte costituiscono uno spettacolo unico. 23 Ben diversa dalla sua vicina, la chiesa della Theotòkos che risale per alcuni al X sec., per altri all’XI. In realtà, anche de l’oratorio di san Luca si trovava senza dubbio in questo punto, sembra che l’edificio sia stato costruito nel XIII sec. dai cistercensi, come suggeriscono alcuni indizi: portico con volte a crociera che funge da passaggio verso gli edifici monastici, navate laterali navate, abside sporgenti terminate da un capocroce piatto all’esterno, sagoma degli archi e semplicità degli ornamenti. Ammirevoli le vaste proporzioni del nartece, le cui volte sono sostenute da due colonne con capitelli corinzi, e l’elevazione della cupola poggiante su quattro colonne in granito dai bei capitelli scolpiti. Osserviamo il panorama dalle terrazze, panorama di monti ricoperti di neve, di valli quasi prive di vegetazione e poche abitazioni. **Due parole per spiegare il significato dell’architettura della chiesa ortodossa, così diversa da quella cattolica romana. L’altare è racchiuso da una parete che sorregge alcune icone: è l’iconostasi. Nella parte centrale dell’iconostasi si situa una porta con due battenti che si affaccia direttamente sull’altare. Sui due lati della porta si trovano delle icone. A destra quella di Cristo, a sinistra quella della Theotokos (Genitrice di Dio). Tale porta può essere superata solo dai celebranti. A destra dell’altare è disposta una tavola di piccole dimensioni per la preparazione dei Santi Doni: la protesi. Prima della celebrazione della Liturgia il calice e la patena sono disposti sulla protesi. Il celebrante riempie il calice di vino e taglia, da un piccolo pane predisposto, il pezzo che sarà consacrato appoggiandolo sulla patena. Al di fuori del santuario, i fedeli e il coro dei cantori stanno nella navata. Il nartece è un vestibolo tra la navata centrale e l’esterno della chiesa. In esso stanno i penitenti e un tempo i catecumeni. Infine, all’esterno, si trova un peristilio, una sorta di grande sagrato con, a volte, una fontana. Nella costruzione di una chiesa, la sua altezza deve sempre rispettare armonicamente la sua pianta in modo che le proporzioni siano gradevoli alla percezione umana affinchè il fedele possa sentirsi bene come a casa sua ispirandogli quel senso di elevazione dello spirito. Sopra la navata si trova, nella maggiore parte delle chiese ortodosse, la cupola. Vi è dipinto un Cristo Pantocratore, ossia “sovrano dell’universo”. La maggior parte delle pareti sono ornate e dipinte con affreschi seguendo la stessa tecnica pittorica delle icone. Essi rappresentano scene tratte dalla vita di Cristo e immagini di santi. Il fedele si trova in tal modo circondato da una folla di testimoni della fede. Tutto questo ha l’immenso vantaggio di creare, per la sua stessa profusione, un clima psicologico particolarmente propizio alla preghiera e alla pace interiore. Inoltre i colori utilizzati per questi affreschi uniti ai giochi di luce particolarmente studiati nella costruzione dell’edifico, contribuiscono anch’essi a creare un’inesprimibile ambientazione per la liturgia ortodossa.** Riprendiamo il pullman per percorrere dapprima una strada di montagna e poi una nuova autostrada che ci porta, attraverso la pianura della Tessaglia, a Kalambaka. L’hotel prescelto è l’Antoniadis, forse il più scadente tra tutti gli altri frequentati qui in Grecia; ma si sa che nel vocabolario orientale in genere non esiste la parola manutenzione! Alle 20:00 Don Mario celebra in hotel la messa di ringraziamento dell’ultimo dell’anno. Anche noi, dopo avere chiacchierato per un po’ con gli amici prima di mezzanotte ci ritiriamo. 24 Meteore/Salonicco Giovedi 1 gennaio 2009 la visita e il viaggio Dopo colazione e uno scambio veloce di auguri con tutti alle 9:00 partiamo dall’albergo in una giornata splendida con sole e molto freddo. La pianura e soprattutto la zona montagnosa è coperta di neve, ghiacciata nelle zone d’ombra. Lasciata la cittadina imbocchiamo una strada in salita che penetra tra i maestosi pilastri di roccia di colore grigio scuro sulle cui sommità sono arroccati i monasteri. Un luogo davvero incredibile! Durante la salita si notano vecchie scale di legno, oramai semidistrutte, che sporgono dalle scarse crepe di queste rocce variopinte, rilevando la presenza di eremiti in anni più remoti. Fino al secolo scorso i monasteri erano raggiungibili solo con scale o con sistemi a carrucola, ora ci sono scale in muratura o scavate nella roccia la cui salita è impegnativa ma non faticosa. E’ da brivido pensare che i monaci prima del 1922 scalavano le rocce delle Meteore per mezzo di una serie di impalcature sostenute da travi fissate nella roccia. Più tardi questo sistema fu sostituito da lunghissime e vertiginose scale di corda. Quelli che non osavano servirsene erano tirati su, chiusi in un sacco di rete, da un argano fino a una torre strapiombo. La salita durava parecchio, con momenti di angoscia di chi era sospeso nella rete che girava in cerchio nel vuoto. La morfologia del luogo e in particolare delle torri ha avuto origine con l’erosione dell’arenaria. Molto probabilmente l’erosione è iniziata ad opera di un fiume che copriva l’attuale pianura della Tessaglia. Questo fiume, attraverso l’apertura di Tempo, riversò le acque della laguna chiusa nel mar Egeo. In tal modo si formò un’area che venne abitata molto più tardi. Poi i rilievi sono stati modellati dall’acqua e dal vento, giungendo alla formazione di gruppi di torri alta fino a 400 metri. Dei vari monasteri ne visitiamo solo due: il monastero di Ognissanti Varlaam e quello di santo Stefano. Varlaam. Risale al 1350 e deve il proprio nome al monaco Varlaam che qui costruì alcune celle e una chiesa, dopo avere conquistato la propria posizione ascetica attraverso un complesso e traballante sistema di impalcature fissate su travi incastrate nella parete rocciosa. Oggi è comodamente raggiungibile tramite una larga e spettacolare scalinata di poco meno di 200 gradini scavata letteralmente sul fianco del pinnacolo. giorno del giudizio Il Katholikon (cioè la spaziosa e imponente chiesa 25 centrale del monastero) è a pianta greca con cupola e quattro colonne, riccamente affrescata con figure plastiche che presentano repentini contrasti di luce e di ombra. Si visita anche la cappella dei Tre Gerarchi (Basilio il Grande, Gregorio il Teologo e Giovanni Crisostomo), anch’essa affrescata. Moltissime le reliquie conservate, crocefissi, icone, paramenti sacri, manoscritti e codici miniati. Santo Stefano. E’ uno dei più grandi e visitati che ospita un ordine di monache (le donne devono indossare la gonna). Risale al 1192, ospita il Katholikon, l’edificio sacro centrale dedicato a san Caralambo e la semplice struttura in legno dell’antica santo Stefano. Il Katholikon è naturalmente a croce greca ma non è affrescato; possiede però un ciborio in legno intarsiato di elevato valore al pari della Cortina che presenta temo naturalistici intrecciati a figure di Santi e alla rappresentazione dell’ultima Cena. Oggi nel monastero vengono coltivate epitaffio ricamato in oro l’iconografia e la musica bizantina. Monache si occupano dello scrivere, mentre altre con cultura universitaria si occupano soprattutto dell’aspetto sociale del monachesimo. In questo modo il Monastero di santo Stefano costituisce un centro spirituale che offre, in questa incerta epoca, una ricca opera sociale e cristiano-ortodossa. Tra i due monasteri un breve sentiero porta a un punto panoramico incredibile: qui siamo proprio in cima a un pinnacolo e l’ultima roccia è posta senza alcuna protezione a strapiombo sulla vallata, da capogiro! La vista a 360° è a dir poco emozionante: si vedono cinque monasteri in fila e le rocce più incredibili di tutta la zona. L’unico pericolo era la strada e le rocce sdrucciolevoli per il ghiaccio scivoloso. Raggiungiamo poi Salonicco, seconda città e secondo porto della Grecia, alle 18:30 con messa all’hotel Capsis (quattro stelle). 26 Salonicco/Escursione Filippi/Neapolis (Kavàla) Venerdi 2 gennaio 2009 Filippi e Paolo Un po’ di storia Il nome “Filippi” le deriva da Filippo II (356 a.C.) re della Macedonia. Questa regione era molto ricca di miniere d’oro. In epoca romana, la città fu sede di una colonia di carattere prevalentemente agricolo e militare. Filippi doveva la maggiore parte della sua importanza alla Via Egnazia, un’arteria di 1.500 chilometri, che collegava Durazzo (Albania) a Bisanzio (Turchia). Dopo la famosa battaglia del 42 a.C., vinta da Antonio e Ottaviano contro Cassio e Bruto (uccisori di Cesare), Filippi ricevette nuovi coloni, che contribuirono alla sua fortuna e al suo sviluppo. Oggi rimangono molti e suggestivi resti di quel periodo. L’apostolo Paolo fece a Filippi la sua prima predicazione evangelica sul suolo europeo. Luoghi visitati La Basilica paleocristiana con il battistero a forma di croce. La Strada a portici, che sbocca sulla via Egnazia. Suggestivi pure il Foro, la Palestra. Si può visitare anche quella che comunemente è ritenuta la prigione di Paolo. Lo sbarco in Europa di Paolo avvenne nel suo secondo viaggio missionario. Dopo avere oltrepassata la Siria e la Cilicia, rivide la città di Listra, dove accolse con sé Timoteo (figura molto importante della Chiesa nascente, figlio di un’ebrea e di un pagano) e lo fece circoncidere**, attraversò l’Anatolia centrale e raggiunse la città di Troade sulla costa settentrionale del mare Egeo. Durante la notte Paolo ha una visione misteriosa: gli stava davanti un Macedone che lo supplica: “Passa in Macedonia e aiutaci!”. Paolo, cittadino romano educato nella sapienza greca, era stato “afferrato” da Cristo e da lui è stato lanciato sulle strade del mondo, per annodare Atene e Roma a Gerusalemme, per “ricapitolare” in Cristo tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra. Roma con le armi aveva conquistato la Grecia, ma la Grecia conquistata a sua volta conquistò Roma con le arti (Graecia capta ferum victorem cepit). Da Roma venne la forza e il diritto, dalla Grecia la sapienza e la bellezza, ma da Gerusalemme uscì la parola del Signore capace di fare nuove tutte le cose. Neapolis (oggi Kavàla), il porto dove Paolo sbarcò, si trovava sulla via Egnazia, la via che collegava l’occidente con l’oriente. Da Neapolis Paolo raggiunse Filippi accompagnato, oltre che da Luca, da Silvano e da Timoteo. Gli ebrei, poco numerosi, non avevano a Filippi una sinagoga e si riunivano fuori della porta della città lungo il fiume, che si prestava per le abluzioni rituali. Era un sabato quando i missionari, usciti fuori della porta, rivolsero la parola alle donne riunite per la preghiera lungo la riva del fiume. Non si deve dimenticare che se Filippi fu il primo luogo in Europa evangelizzato da Paolo, la prima parola fu rivolta alle donne. Il fatto che l’assemblea fosse composta esclusivamente di donne, significa che quella riunione di preghiera non era di tipo sinagogale, per la quale era indispensabile la presenza di almeno dieci uomini. C’era ad ascoltare Paolo una donna di nome Lidia, commerciante di porpora e originaria di Tiatira, in Asia Minore, famosa per la produzione e l’esportazione dei tessuti di porpora. Lidia apparteneva alle donne dell’alta società, alle quali era rivolta di preferenza la propaganda giudaica. Mediante queste simpatie gli ebrei della diaspora si assicuravano un’influenza di prim’ordine sul commercio: 27 naturalmente veniva privilegiato il commercio di tessuti pregiati, com’era quello della porpora cui Lidia attendeva. Lidia apparteneva alla categoria degli “adoratori di Dio”. Questo gruppo, pur accettando il monoteismo e l’etica fondamentale della sinagoga, escludeva tuttavia la circoncisione e le osservanze rituali, praticate invece dai “proseliti”. Lidia chiede il battesimo “insieme alla sua casa”. Come farà il carceriere di Paolo che si farà battezzare “con tutti i suoi” e farà grande festa per avere creduto in Dio. Risulta chiaro, fin dall’inizio, che non si diventa discepoli di Cristo individualmente e isolatamente, ma insieme con altri, e che la prima espressione di Chiesa è quella “domestica”; nasce la “domus ecclesia”, la chiesa in miniatura come germe della la prigione di Paolo Chiesa universale. A Filippi c’era una giovani schiava dotata di spirito divinatorio: Luca chiama lo spirito profetico di questa schiava “pitone”, termine che richiama il mitico serpente Pitone in cui prendeva corpo l’oracolo di Delfi e che fu ucciso da Apollo. La schiava di Filippi era, per così dire, un oracolo di Delfi ambulante, procacciando così molto guadagno ai suoi padroni. Come Gesù, Paolo rifiuta la testimonianza che viene dallo spirito della menzogna e nel nome di Cristo rende libera la schiava. I padroni, toccati nell’interesse, reagiscono trascinando Paolo e Silvano davanti al tribunale romano con l’accusa di sovvertitori dell’ordine pubblico, facendo leva sui sentimenti nazionali e antisemitici della folla che insorge contro di loro, mentre i pretori ordinano di flagellarli e di metterli in prigione. Nottetempo li libera dalle catene un terremoto. Temendo la punizione da parte dei magistrati, il disperato carceriere tenta il suicidio, ma Paolo lo dissuade e lo battezza con tutta la sua famiglia. Saputo poi che Paolo e Silvano sono cittadini romani, le autorità li rimettono in libertà. A Filippi crescerà una bella comunità cristiana, a cui l’Apostolo invierà da un’altra prigione la lettera della gioia e dell’affetto, quello appunto ai Filippesi. Visitando Filippi si rimane ammirati dei resti gloriosi romani e bizantini (vedi oltre). Due cose hanno attirato maggiormente la mia attenzione (però a mala pena intravisti): il corso d’acqua dove Paolo incontrò le donne in preghiera e quanto rimane del carcere in cui egli fu rinchiuso. E’ sfiorato dal tracciato della via Egnazia, che la via Egnazia conserva ancora qualche pietra di quelle che Palo passò uscendo dal carcere. 28 ** La questione della circoncisione. Ad Antiochia Paolo e Barnaba non avevano imposto la “circoncisione” ai credenti in Cristo che provenivano dal paganesimo, mentre alcuni giudei divenuti cristiani, venuti dalla Palestina, ne sostenevano la necessità. Nel concetto di “circoncisione” stava non solo l’aspetto fisico chirurgico riguardante i maschi della comunità ebraica, ma anche tutta l’educazione connessa: le regole ebraiche, le sue tradizioni, la sua lingua…un patrimonio complesso che andava dalla “Legge di Mosè” fino a tradizioni spicciole quali alimenti proibiti e usi di casa. In virtù della circoncisione, Gesù era l’ultimo tassello di tutto quello che era successo prima. Ma in realtà non è così, e Paolo lo ribadisce con forza: Gesù Cristo è la chiave di lettura e il senso di tutto ciò che è stato prima, che è ora e che sarà in futuro (Rm 11,36). Quindi la “vera circoncisione” è l’incontro e la conoscenza della persona di Gesù e niente altro. Ne seguì una notevole discussione che portò necessariamente ad un raduno degli apostoli e dei primi discepoli; questo raduno si tenne a Gerusalemme nel 49 d.C. e viene definito “Concilio di Gerusalemme”. In esso si diede ragione a Paolo e Barnaba, dichiarando i convertiti dal paganesimo esenti da passare dalla legge ebraica di Mosè (At 15,5-29). il viaggio e i luoghi Sveglia alle 7:00 con partenza alle 9:00, direzione Filippi in Macedonia. Il tempo è brutto e piove a intermittenza con nevischio e fa freddo. Dopo la visita a Filippi riprendiamo la strada di ritorno, ma prima passiamo da Kavàla (l’antica Naepolis) per il pranzo e una brevissima visita della città. Si dice che è una città magica, disposta ad anfiteatro e considerata la Signora della Mecedonia. Si visita il porto dove sbarcò Paolo dove scattiamo delle foto perché nel frattempo era uscito il sole. Lungo la strada che ci porta a Salonicco costeggiando il mare si vedono coste frastagliate, insenature, cale, piccole spiagge, porticcioli, e questo è piacevole per chi ama il mare. Salonicco ha un aspetto in prevalenza moderno dovuto alla ricostruzione fatta dopo il disastroso incendio del 1917 e al forte terremoto del 1978 che danneggiarono la maggior parte dei monumenti della storia antica. Prima di rientrare in albergo, noi del gruppo, raggiungiamo a piedi il centro cittadino che si trova nell’ampia e bella piazza Aristotele, aperta sul mare, dalle quale si dipartono i viali della città che, oltre a negozi di lusso, fanno scoprire chiese bizantine. 29 Peccato che essendo venerdi e abbastanza tardi non abbiamo potuto visitare nessun grande mercato e le numerose bancarelle che espongono frutta, verdure, tantissimo pesce, granaglie, abbigliamento e altro che fanno da contorno a questo. I negozi hanno, per noi, degli strani orari di apertura: in effetti soltanto due o tre giorni alla settimana sono aperti nel pomeriggio. Salonicco ha un problema simile a quello di Roma: appena si comincia a scavare c’è lavoro per gli archeologi. Questa è una delle ragioni per la quale la città nemmeno oggi ha una metropolitana, ma che comunque la si sta costruendo pian piano, naturalmente con gli inconvenienti del traffico difficoltoso. 30 Salonicco/Milano Sabato 3 gennaio 2009 Tessalonica (ora Salonicco) e Paolo Un po’ di storia La città di Tessalonica fu fondata nel 315 a.C. da Cassandro, che le dette il nome della sua sposa (Tessalonikè), forse una sorella di Alessandro Magno. La sua posizione marittima e la via Egnazia le assicurarono una grande prosperità. Quando la Macedonia fu conquistata dai romani (146 a.C.), ben presto Tessalonica divenne una metropoli e crocevia di svariate culture. Fu anche un grande centro intellettuale, scelto anche da Cicerone, quando dovette andare in esilio (58 a.C.) Paolo vi predicò e fece nascere una comunità cristiana per la quale ebbe una particolare predilezione. Luoghi visitati L’Agorà, con il doppio porticato. L’Acropoli e il sottostante panorama su Tessalonica. Le chiese di Santa Sofia, di San Giorgio e di San Demetrio, con i loro stupendi mosaici. L’Arco di Galerio costruito dall’imperatore nel 303 d.C. Paolo aveva dovuto lasciare Filippi prima del tempo. Proseguì direttamente fino a Tessalonica percorrendo la via Egnazia che dal Bosforo portava direttamente fino a Durazzo sulla costa adriatica. Tessalonica, situata nell’insenatura del golfo Termaico e colonia romana fin dal 146 a.C., era un grosso centro commerciale grazie al suo porto attivissimo, e perciò aveva attirato un gran numero di ebrei. Come sempre, il primo obiettivo di Paolo fu la sinagoga: vi parlò per tre sabati consecutivi. E gli altri giorni che faceva? Appena arrivava in un luogo il suo primo pensiero era quello di cercarsi lavoro, avendo come regola quella di vivere del lavoro e aiutare i bisognosi. Proprio ai Tessalonicesi egli richiamerà con forza la regola che si era prefissa: “Noi non abbiamo vissuto oziosamente tra voi, né abbiamo mangiato il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato con fatica e sforzo notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi”. Tutto riconduceva a questo principio elementare: “Chi non vuol lavorare neppure mangi” (2Ts 3,7-10). Anche seduto al telaio, mentre faceva correre la spola, esponeva le vie del Signore. L’importanza strategica e commerciale di Tessalonica con i suoi collegamenti spiega la straordinaria risonanza che ebbe l’annunzio del Vangelo. Siamo agli inizi dell’anno 50 e sulle spalle di Paolo e Silvano sono ancora evidenti i segni delle battiture inflitte dai littori di Filippi in seguito all’accusa di lesa maestà e propaganda sovversiva. Ma la preoccupazione non ha scoraggiato i missionari di Cristo che, giunti a Tessalonica, prendono ad annunciare coraggiosamente il Vangelo con molto ardore. Paolo si rivolse agli ebrei con la Bibbia alla mano: “spiegava le profezie e dimostrava che il Messia doveva soffrire e poi risorgere dai morti” (At 17,3). L’annuncio di Paolo non fu solo a parole “ma anche con la forza e l’aiuto dello Spirito Santo” (1Ts 1,5). Parola e Spirito appaiono inseparabilmente uniti fin dall’inizio del racconto degli Atti, ed è sempre lo Spirito che feconda la Parola. La Parola viene annunciata in mezzo a molte tribolazioni, ma se all’esterno abbondano le tribolazioni, lo Spirito inonda di gioia i cuori. Inoltre si manifesta chiaramente lo stile missionario di Paolo: egli rinuncia a far valere la sua autorità di apostolo, ma si fa piccolo in mezzo ai suoi fedeli, si comporta con dolcezza, con tenerezza materna, proprio “come una madre che riscalda al suo seno le proprie creature”. E insiste: “Mi sono affezionato a voi e vi 31 ho voluto bene al punto che vi avrei dato non solo il messaggio di salvezza ch viene da Dio, ma anche la mia vita” (1Ts 2,7-8). Il successo della predicazione paolina a Tessalonica fu grandissimo, ma esasperò in maniera feroce l’animo dei giudei, che per invidia prezzolarono alcuni facinorosi di piazza - quei subrostrani di cui parla Cicerone – la cui attività principale era quella di turbare la quiete pubblica. Con il loro aiuto provocarono un tumulto e andarono a cercare Paolo e Silvano a casa di Giasone, ma quando vi arrivarono i due missionari erano fuggiti altrove. Sentitisi beffati, i giudei afferrarono Giasone e altri fratelli e li condussero dinanzi ai “politarchi”, accusandoli di avere dato ospitalità a dei sediziosi che mettevano a soqquadro tutto il mondo e andavano predicando dottrine contrarie alle istituzioni romane. Ancora una volta i giudei cercarono di procurare dei guai a Paolo con accuse false, ma certamente efficaci presso le autorità greco-romane. Paolo e Silvano, fatti partire in fretta dai cristiani di Tessalonica durante la notte, raggiunsero la città di Berea. Gli ebrei di questa città erano migliori di quelli di Tessalonica accogliendo la loro predicazione con grande entusiasmo. “Ogni giorno esaminavano le Scritture per vedere se le cose stavano come Paolo diceva” (At 17,11). Molti ebrei di Berea accolgono la testimonianza delle Scritture, cioè si convincono che in Gesù di Nazaret si sono compiute le profezie contenute nella Bibbia, e diventano credenti. Ma subito gli ebrei di Tessalonica accorrono a Berea per sobillare la folla e aizzarla contro Paolo. L’ostilità implacabile degli ebrei di Tessalonia ferisce profondamente l’animo di Paolo che reagisce con severità e amarezza: “Sono quegli stessi ebrei che hanno ucciso il Signore Gesù e che hanno perseguitato anche noi; essi vanno contro la volontà di Dio e sono nemici di tutti gli uomini. Vogliono impedirci di predicare ai pagani e di portarli alla salvezza così, essi, non fanno altro che completare la serie dei loro peccati, e oramai il castigo di Dio è arrivato sopra di loro” (1Ts 2,1516). I cristiani di Berea fecero partire subito Paolo verso il mare, mentre Silvano e Timoteo restarono in città. Quelli che accompagnavano Paolo andarono con lui fino ad Atene. il luogo e il viaggio di ritorno A Salonicco cristiani, ebrei e mussulmani hanno convissuto per secoli. Fino al 1943 quando tutti gli ebrei della città vennero deportati, soprattutto ad Auschwiz. Prima, sotto il dominio ottomano, la città fu colpita da epidemie e carestie e nel suo affollato bazar il popolo parlava una mezza dozzina di lingue. Era un modo in cui le religioni convivevano e si incontravano. Tra le botteghe, il bazar e i fondachi, trafficavano mercanti egiziani e schiavi ucraini, rabbini fuggiti dalla Spagna cacciati dai sovrani Ferdinado II e Isabella la Cattolica, pellegrini ortodossi diretti al vicino Monte Athos e briganti albanesi. Però man mano diminuiva la potenza turca s’infiammavano i nazionalismi: i mussulmani diventarono turchi, gli ortodossi greci. Proprio a Salonicco, dove nel 1881 vi nacque Kemal Atatùrk destinato in seguito a diventare il primo presidente della Repubblica Turca, sarebbe stato fondato il movimento politico destinato a rifondare un’intera nazione: i Giovani Turchi. Per inciso e per curiosità, essendo noi in questa città posta nelle regione della Macedonia, ci hanno spiegato che il termine “macedonia” non era riferito originariamente a una mescolanza di diversi frutti fra di loro, ma al fatto che la cucina macedone era caratterizzata da diverse tradizioni gastronomiche che nei secoli si sono aggiunte a quelle originali (come la cucina ebraica, turca con ricette persiane, armena e araba, ecc.). In mattinata visitiamo le chiese bizantine della città. Piove e fa alquanto freddo. Dapprima vediamo l’arco di Galerio (governatore della regione compresa tra il Danubio e i Balcani) eretto per celebrare la vittoria 32 contro il re persiano Narsete. E’ raffigurato Galerio in vari momenti della battaglia: ora mentre è a cavallo e calpesta i soldati di Narsete, ora mentre offre un sacrificio agli dei per ingraziarli della vittoria, ora mentre entra in una città. E’ una struttura pesante e c’è pesantezza espressiva. La chiesa o rotonda di san Giorgio è poco distante. Quest’ultima in origine era il mausoleo di Galerio. E’ una immensa rotonda coperta da cupola emisferica con otto nicchie all’intorno. E’ in restauro e c’è poca luce per cui i bellissimi mosaici di cui era rivestita non si possono ammirare. I mosaici che adornano le pareti che sorreggono la cupola sono considerati un capolavoro dell’arte paleocristiana per la brillantezza dei loro colori e per i loro motivi che riproducono piante stilizzate o forme geometriche come era già in voga nell’arte tardo-romana. I mosaici della cupola si dividono in tre livelli. In basso stanno le raffigurazioni di santi martiri sullo sfondo di tempietti stilizzati. Purtroppo molti mosaici andarono distrutti con il crollo parziale della cupola nel XIX secolo e furono rimpiazzati da affreschi eseguiti dall’artista italiano Rossi nel 1889. basilica di san Demetrio Nella basilica di san Demetrio, patrono della città di cui conserva le reliquie, si celebrava una funzione religiosa, per cui scendiamo a visitar la cripta costituita da tre porticati intorno a un emiciclo. Demetrio era un proconsole romano della Grecia sotto l’imperatore massi miniano, martirizzato nell’odierna Serbia. Da qui usciamo a piedi e ci dirigiamo verso l’Agorà, piazza rettangolare attraversata da un acquedotto, doppio portico con negozi e parte del pavimento a mosaico. Ritorniamo quindi a san Demetrio, basilica a cinque navate, ricostruita fedelmente dopo l’incendio del 1917. Importanti mosaici e affreschi. passiamo poi a visitare piccola chiesa dei fabbri e della madre di Dio (Theotokos), capolavoro dell’arte bizantina matura, a croce greca con abside e cupola centrale e due piccole laterali. Si vedono gli affreschi della dormizione della vergine e la vita di Cristo. Ci sono poi due colonne con un superbo capitello corinzio che divide la chiesa in tre parti. Da ultimo visitiamo la chiesa di santa Sofia, molto grande con pianta a croce greca fusa con le caratteristiche della pianta a tre navate. Le navate sono divise da pilastri e colonne con capitelli corinzi detti a “foglie di vento” (foglie d’acanto molto staccate). Belli i mosaici nella cupola (l’Ascensione) e quello della Vergine con il Bambino. Finite le visite partiamo verso l’aeroporto di Salonicco, poco distante dalla città e dopo ringraziamenti vicendevoli e mance ci salutiamo da Antonio, la nostra dotta guida e da Costantino l’autista. La nostra Agenzia ha dato preferenza alla Olympic Airway che può assicurare non solo collegamenti con Atene e l’Italia ma anche il volo interno fino a Salonicco. In questi viaggi di gruppo, lo stare insieme per molto tempo, sottostare a regole e rispettare i programmi sono condizioni che, a volte, possono fare nascer delle incomprensioni e tensioni che devono essere superate con la buona volontà. Comunque ancora una volta abbiamo incontrato persone amiche e conosciute già dai nostri sei viaggi di pellegrinaggi precedenti e iniziati nel 2003/04 per cui non c’è stato nessun problema di affiatamento e tensioni. Chérete Ellas! Arrivederci Grecia! Al prossimo viaggio… 33 Bibliografia Sofia Souli, Mitologia greca, Edizioni M. Toumbis, Atene 1995 Nikos Papahatzis, Corinto antica, Ekdotike Athenon, Atene 1979 S.E. Iakovidis, Micene-Epidauro, Ekdotike Athenon, Atene 1980 Manolis Andronicos, Delphi, Ekdotike Athenon, Atene 1980 Photis M. Petsas, Delfi, Edizioni Krini, Atene 2007 Theocharis M. Provatakis, Meteora, Edizioni M. Toumbis, Atene 1991 Rinaldo Fabris, Paolo di Tarso, Paoline Editoriale Libri, Milano 2008 Emilio Gandolfo, Sui passi di san Paolo, Edizioni Istituto San Gaetano, Vicenza 1997 Robert Graves, I Miti greci, Longanesi, Milano1955 James George Frazer, Il ramo d’oro, Grandi Tascabili Economici Newton, Roma 1992 Joseph Cambell, The masks of God, Penguin Series Hans Biedermann, Enciclopedia dei Simboli, Garzanti, Milano 1991 Roberto Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia, Adelphi Edizioni, Milano 1991 Navitours, Grecia, Ulysse Network, Milano 2007 34