ABUSO DEL DIRITTO ED ELUSIONE FISCALE (Convegno ANTI 20 ottobre 2008) Bozza dell’intervento di Ivan Vacca al Convegno del 10 luglio 2008 su “Elusione Tributaria: l’abuso del diritto tra norma comunitaria e norma interna” (in corso di pubblicazione) 1. Ormai da più parti si mette l’accento su un malessere evidente del nostro ordinamento fiscale: la sua mancanza di affidabilità e di stabilità, una sua certa opacità che potrebbe compromettere nel tempo non solo i valori di equità e democrazia, ma anche un’efficace competizione internazionale e l’attrattiva per gli investitori esteri. Soprattutto, per quel che concerne l’imposizione delle attività d’impresa – dove la pianificazione degli investimenti richiede tempi lunghi – ciò che si lamenta è la mancanza di regole sostanziali o procedimentali conoscibili per tempo, chiare e inequivocabili, relativamente stabili. I motivi di questo malessere sono di varia natura: un peso importante va attribuito, sicuramente, a una produzione normativa che è in continuo divenire, prevalentemente per esigenze di gettito (fatto questo che ha indotto ad introdurre regole impositive non sempre sistematicamente coordinate, con efficacia spesso immediata, se non retroattiva), oltre che a una attività interpretativa della pubblica amministrazione sollecitata dagli interpelli dei contribuenti altrettanto pletorica, spesso indirizzata al caso specifico e non sempre inquadrabile a sistema (1). 1 ) Come già rilevato da Assonime nell’audizione del 19 luglio 2006 presso la Commissione consultiva sulla imposizione fiscale della società (c.d. Commissione Biasco) all’epoca istituita dal Ministro dell’Economia e delle Finanze, la proliferazione degli interpelli ‐ anche quelli a carattere ordinario, estranei all’applicazione della norma antielusiva – sta creando una casistica interpretativa estremamente variegata con soluzioni volte al caso concreto e non sempre riconducibili ad una impostazione sistematica; sicché soluzioni che pure possono risultare soddisfacenti per il contribuente istante, talvolta sottendono interpretazioni non accettabili come principio generale per gli altri contribuenti. 1 Ma al di là di questa sorta di “polverizzazione” delle regole, un impatto rilevante su queste tematiche, e in un senso non certo rassicurante, sta assumendo la questione dell’abuso del diritto, “alias” del contrasto all’elusione fiscale. 2. L’“elusione” come è noto è quella zona grigia – non meglio definita – in cui l’Amministrazione Finanziaria viene abilitata dall’ordinamento a difendersi non da un semplice nascondimento del reddito (dall’evasione “tout court”), ma dall’uso improprio da parte dei contribuenti delle norme che predeterminano la fattispecie impositiva a fini ingiustamente vantaggiosi: a difendersi, cioè, da quelle operazioni che non dissimulano il reddito, anzi rispettano anche formalmente i canoni della fattispecie legale e, pur tuttavia, attraverso l’uso combinato degli elementi oggettivi della fattispecie legale, realizzano effetti impositivi contrari alla “ratio legis” e dunque non in linea con la corretta attuazione del principio di capacità contributiva; effetti, in definitiva, discordanti con le finalità del sistema o del sottosistema in cui si colloca l’istituto fiscale del quale il contribuente invoca l’applicazione. Siamo in presenza, dunque, di quella linea di confine che separa le regole scritte dai principi metagiuridici. Il rischio è evidente: o che lo Stato non riesca a reagire con sufficiente forza a questa tipologia di operazioni, realizzate, per la verità, in modo sempre più sofisticato e con collegamenti transnazionali, ovvero, al contrario che la reazione sia eccessiva o scomposta, tale da compromettere il fondamentale principio di legalità del nostro sistema tributario, il principio di predeterminazione della fattispecie impositiva, quale regola di rilevanza anche costituzionale ed espressione imprescindibile della natura “civil law” del nostro ordinamento giuridico. È proprio quest’ultima la preoccupazione, evidenziata da più parti, in ordine alle posizioni recentemente assunte in materia dall’Amministrazione finanziaria e dalla giurisprudenza. L’accusa è chiara: nell’ambito dell’Amministrazione finanziaria e della giurisprudenza stanno maturando interpretazioni che sembrano consentire al fisco di disapplicare “ad nutum” le regole impositive scritte sulla base di un 2 giudizio caso per caso dell’esistenza o meno di valide ragioni economiche “extrafiscali”; di un giudizio, oltretutto, non definito o definibile in base a regole precise e pertanto suscettibile di dar luogo di volta in volta ad interpretazioni soggettive e disparate dell’organo amministrativo o dell’organo giudicante. In altri termini se è pur vero che è un preciso potere-dovere dell’Amministrazione contrastare il contribuente che si sottragga al dovere costituzionale di contribuzione (art. 3 e 53 della Cost.), vuoi “evadendo” vuoi “eludendo” le norme fiscali, è altrettanto vero che la riserva di legge (art. 23 Cost.) è un principio di matrice costituzionale “che non svolge una funzione ornamentale o decorativa del sistema, ma lo plasma in modo da garantire ai soggetti passivi non soltanto la democraticità delle scelte impositive (non certamente demandabili al giudice) ma anche la certezza (del diritto) nei rapporti con l’Amministrazione finanziaria (2). 3. Prima di scendere più nel dettaglio di questa tematica, merita prendere atto della complessità della situazione che si è venuta, in concreto, a creare. Un primo aspetto, dell’Amministrazione su cui finanziaria riflettere, riguarda nell’esplicazione il “modus della sua operandi” attività di accertamento. E’ noto che agli uffici finanziari vengono assegnati precisi obiettivi nel compimento delle verifiche, obiettivi di efficienza, di razionalizzazione dell’azione accertativa, di suo coordinamento sul territorio nazionale e all’estero, di indirizzo delle verifiche per gruppi economici, per settore produttivo, per tipologia di fattispecie etc.. In questo contesto, non sono indifferenti anche gli obiettivi di budgets sul numero degli accertamenti annuali da eseguire e sull’entità dei recuperi potenziali. E’ chiaro, però, che quest’ultimo aspetto potrebbe condizionare – volente o nolente – non poco la prospettiva in cui gli accertamenti vengono in concreto condotti, nel senso che si potrebbe determinare una spinta (sia pur inconsapevole) a “stressare” la pretesa impositiva, fino ad arrivare ad 2 ) Il testo virgolettato è ripreso da “Note critiche a proposito di un recente orientamento giurisprudenziale incentrato sulla diretta applicazione, in campo domestico, del principio comunitario di divieto di abuso del diritto” (nota a Cass., sez. trib., n. 8772/2008; Cass., sez. trib. n. 10257/2008) di BEGHIN in Rivista di Diritto Tributario vol. XVIII luglio-agosto 2008, 465 e ss. 3 accertamenti non dico pretestuosi, ma dalle motivazioni quantomeno discutibili. Ed è proprio nel campo dell’“elusione” che trova facile sviluppo questo “modus operandi” – e in particolare, nelle verifiche di operazioni di riorganizzazione aziendale che costituiscono il cuore, se vogliamo, della fattispecie elusiva indicata nell’art. 37 bis del d.p.r. n. 600 del 1973 – poiché in questa materia il disconoscimento degli effetti delle operazioni (considerate le dimensioni che, di regola, esse assumono) possono ingenerare recuperi di una certa entità e, soprattutto, perché la costruzione della motivazione della pretesa impositiva, ove si accetti l’impostazione sopra evidenziata (quella cioè di far riferimento sic et simpliciter alla presunta mancanza di valide ragioni economiche) si presenta in termini oggettivamente più semplici. Non è da escludere, quindi, che proprio questa situazione sia stata, sia pur indirettamente, una fra le varie cause che ha in qualche modo favorito, quanto meno presso l’Amministrazione, lo sviluppo della linea interpretativa sul concetto di elusione dianzi ricordata; linea interpretativa che, per altro, è seguita e convalidata – giova ribadirlo – anche dalla recente giurisprudenza. Comunque, a prescindere da queste illazioni, sta di fatto che questa tipologia di accertamenti – accertamenti, cioè, volti alla contestazione del fenomeno elusivo – sono divenuti, a quanto consta, preponderanti e ripetitivi, per lo meno nei confronti delle medie e grosse organizzazioni d’impresa. 4. Un altro aspetto che non può essere trascurato riguarda le scelte legislative che sono state compiute in materia tributaria. La ricerca di competitività, di modernità del nostro sistema fiscale, di comparabilità con gli altri ordinamenti, ha indotto il legislatore, soprattutto in questi ultimi anni, ad introdurre una serie di istituti e di modelli di operazioni che pur perseguendo risultati economici a volte similari a quelli di altre operazioni sottoposte ad imposizione ordinaria, sono caratterizzati da regimi differenziati, da regimi spesso di favore. Mi riferisco ad esempio alle operazioni di fusione, scissione e conferimenti di azienda, assistite tradizionalmente dalla disciplina di neutralità fiscale sulle plusvalenze dei beni trasferiti, in ciò differenziandosi dalle liquidazioni societarie o dalla vendita di aziende che hanno, invece, carattere 4 realizzativo. Mi riferisco al regime di consolidamento fiscale degli imponibili che consente la compensazione di utili e perdite delle società appartenenti allo stesso gruppo, ma che opera solo per le società del gruppo sottoposte a controllo di diritto (richiedendo quindi che i legami partecipativi siano strutturati in un determinato modo) e ancora, al regime di detassazione delle plusvalenze su partecipazioni societarie che consente indirettamente, attraverso appunto il trasferimento di tali partecipazioni, la circolazione di complessi aziendali in neutralità fiscale (rectius parziale neutralità al 95 per cento) laddove, invece, la cessione diretta degli assets aziendali è sottoposta ad imposizione ordinaria etc.. Tutti questi regimi sono stati, peraltro, ricondotti con espressa disposizione di legge nell’alveo applicativo della norma antielusiva dell’art. 37 bis del d.p.r. n. 600 del 1973, nel senso che per la loro applicazione il legislatore ha consentito, anzi ha imposto all’Amministrazione finanziaria di esercitare il suo potere dovere di controllo sull’eventuale esistenza, caso per caso, di forme di abuso. Ciò induce ad almeno due riflessioni. Innanzitutto, la norma antielusiva dell’art. 37 bis del d.p.r. n. 600 nata, come disposizione relativa a talune fattispecie, è divenuta sostanzialmente di portata generale nell’ambito del reddito d’impresa, caratterizzando l’applicazione di quasi tutti i regimi fondamentali di determinazione dell’imponibile e tende, a quanto consta, ulteriormente ad espandersi. Sicché la risalente diatriba se la clausola antielusiva abbia valenza generale o meno nel sistema tributario, ha perso sostanzialmente di significato, per lo meno nell’ambito dell’imposizione diretta. In questo senso il percorso legislativo sta giungendo di fatto e per via parallela ad un risultato sostanzialmente non dissimile da quello cui perviene in via interpretativa la Corte di Cassazione che fonda il suo approccio – come è noto – sulla diretta e generale applicabilità al nostro ordinamento domestico del principio di matrice comunitaria dell’abuso del diritto (3). Ma c’è anche un altro aspetto che non può essere trascurato. 3 ) Naturalmente, questa analogia è riscontrabile solo con riguardo alla progressiva estensione dell’ambito di applicazione dell’art. 37 bis del d.p.r. n. 600 del 1973. L’abuso del diritto - così come ricostruito dalla Cassazione - e la disciplina antielusiva dell’art. 37 bis, per il resto, presentano rilevanti differenze, tra le quali spicca l’assenza, nel caso di abuso, della garanzia di un contraddittorio preventivo con l’Amministrazione; contraddittorio che, come è noto, è invece obbligatorio in base citato art. 37 bis. 5 La scelta del legislatore in ordine alle fattispecie dianzi ricordate – conferimenti, fusioni, scissioni, cessioni di partecipazioni fruenti di esenzione etc. – sono chiare ed inequivocabili, nel senso che, per motivi di strategia fiscale di varia natura (e che non è il caso qui di sindacare), sono stati previsti per esse regimi impositivi differenziati, spesso più vantaggiosi rispetto ad operazioni produttive di effetti “latu sensu” similari. E tali regimi, nell’assetto globale del sistema fiscale, sono stati concepiti non come meramente temporanei o eccezionali, ma come strutturali alla natura giuridico-formale di tali operazioni, le quali quindi, proprio in aderenza alla volontà del legislatore, non possono che essere individuate evidentemente se non in base ai corretti criteri ermeneutici che attengono alla loro disciplina civilistica. In prima battuta, quindi, non appare razionale, sotto un profilo sistematico, l’idea che molti manifestano – e che è fonte di vari equivoci – secondo cui l’imposizione deve tendenzialmente attuarsi secondo il modello impositivo più oneroso; tesi che porterebbe a ricondurre, là ove possibile, gli atti negoziali anzidetti agli archetipi – per natura e per qualificazione – di operazioni negoziali produttive di effetti similari ma sottoposte a regime impositivo meno vantaggiosi. E’ vero tendenzialmente, anzi, il contrario. La fusione non è una liquidazione anche se condivide con la liquidazione il fatto che una società possa scomparire e i suoi assets essere trasferiti alla società socia; così come un conferimento d’azienda è un negozio avente causa giuridicoformale diversa dalla cessione per compravendita della azienda medesima; e ancora la cessione di partecipazione costituisce fenomeno negoziale non assimilabile alla vendita diretta della azienda societaria, ancorché l’una e l’altra operazione consente di attuare la circolazione del bene azienda e di realizzarne i plusvalori latenti. E il legislatore, ben consapevole di questa distinzione giuridico-formale, ha inteso introdurre regimi differenziati. Se il nostro sistema avesse voluto perseguire l’effetto contrario, avrebbe dovuto imboccare, evidentemente, la via esattamente opposta. Ad esempio, nell’ambito dei principi contabili internazionali, il superamento delle forme giuridico-negoziali per addivenire ad un trattamento unitario delle operazioni gestionali dell’impresa che risultino produttive di 6 risultati economici equivalenti, costituisce uno dei capisaldi di tale sistema volto a realizzare, come è noto, come principale obiettivo la comparabilità dei bilanci delle imprese a prescindere dagli ordinamenti giuridici in cui operano e a beneficio di una informazione omogenea degli investitori. Così a titolo esemplificativo, l’IFRS 3 accomuna in un’unica disciplina i conferimenti e le cessioni di aziende, le fusioni, le scissioni, i trasferimenti di partecipazioni che determinino il trasferimento del controllo dell’impresa o di parte di essa (4). E’ di tutta evidenza, tuttavia, che questo tipo di interpretazione non può essere “sic et simpliciter” “importato” in un ordinamento di “civil law”, quale il nostro, che ha il suo fondamento, al contrario, nella predeterminazione della fattispecie legale; soprattutto non può essere valido strumento interpretativo della nostra attuale legislazione fiscale che – ripetiamo – ha espressamente distinto i regimi impositivi proprio in ragione delle differenti fattispecie legali. Sia allora il legislatore eventualmente a revocare queste scelte, ma attraverso disposizioni specifiche in tal senso. Quanto detto non mi pare – in prima battuta – possa essere revocato in dubbio neanche facendo leva sulla clausola elusiva che, come accennato, accompagna l’applicazione di questi regimi. In linea generale quando un ordinamento mette a disposizione strumenti operativi aventi trattamenti fiscali alternativi, è chiaro che i contribuenti si ritengono abilitati ad optare a buon diritto per quelli che, caso per caso, risultano più rispondenti alla loro pianificazione fiscale. Censurare questa loro scelta solo perché fondata su motivi di convenienza fiscale appare in un certo senso una petizione di principio rispetto alla statuizione normativa e, comunque, un surrettizio superamento del principio del legittimo affidamento sulle indicazioni poste dalla stessa norma. L’elusione va ricercata e la conseguente reazione all’elusione va fatta scattare non per contrastare i risultati voluti dal legislatore ma per impedire il verificarsi di quelli non voluti, contrari in qualche modo alla “ratio” del sistema o dell’istituto fiscale invocato dal 4 ) La tematica del diverso approccio dei principi contabili internazionali nella rappresentazione contabile delle operazioni di aggregazione aziendale è sviluppata nella circolare Assonime n.51 del 2008 sulla nuova disciplina dei conferimenti, fusioni e scissioni così come risultante dalle modifiche apportate dalla legge n.244 del 2007 (finanziaria per il 2008). 7 contribuente. Ci vuole, insomma, qualcosa di più perché possa ravvisarsi un fenomeno elusivo. Sott’altro profilo, occorre anche aggiungere che i regimi fiscali differenziati di cui si discute non sono frutto di iniziative legislative avventurose: nel perseguire nelle fattispecie in esame finalità di politica economica, sono state adottate anche opportune cautele a difesa in qualche modo delle basi imponibili. Così ad esempio, per le operazioni di fusione, scissione e conferimento di azienda il regime di neutralità del trasferimento dei cespiti aziendali si accompagna al principio di continuità dei loro valori fiscali, sicché la pretesa del fisco si conserva intatta e potrà esercitarsi in occasione delle successive vicende reddituali di tali cespiti presso la società beneficiaria. Per tali operazioni, semmai, il problema principale è di evitare l’utilizzo improprio della compensazione delle perdite fiscali, il c.d. commercio delle “bare”: un aspetto, cioè, patologico di un istituto che di per sé sarebbe riguardato con favore dallo stesso legislatore se la compensazione avviene nel gruppo economicamente unitario, ma che assume evidentemente connotati inaccettabili se si trasforma in un “commercio” di “bare fiscali” fra realtà imprenditoriali diverse (5). E così ancora, il trasferimento dell’azienda tramite la cessione delle partecipazioni sociali fruenti di esenzione, consente senz’altro al soggetto cedente di beneficiare della non tassazione, nell’immediato, delle relative plusvalenze, diversamente da quanto accade nel trasferimento diretto dei relativi “assets”, ma a ciò si accompagnano specifici meccanismi di recupero di questo beneficio presso l’acquirente delle partecipazioni. In particolare tale soggetto, diversamente che nell’acquisizione diretta dei cespiti aziendali, non può trasferire i maggiori costi sostenuti per l’acquisto delle partecipazioni sugli anzidetti cespiti che continuano, di conseguenza, ad assumersi fiscalmente ai valori precedenti. Il legislatore, in altri termini, sembra aver consapevolmente consentito che l’obbligazione tributaria possa essere 5 ) Al riguardo, occorre tuttavia ricordare che l’art. 84, comma 3, del TUIR, per contrastare il commercio di bare fiscali realizzato attraverso l’acquisto di società in perdita e la modificazione della loro attività subordina il riporto delle perdite della società acquisita al superamento di un test di vitalità; test cui andavano esenti le società acquisite all’interno dello stesso gruppo. L’art. 36 comma 12 del decreto-legge n. 223 del 2006 ha abolito questa esimente, lasciando prima facie intendere che il commercio delle bare fiscali possa realizzarsi anche tra società già soggette al medesimo controllo. Per una approfondita analisi del significato e delle conseguenze di questa modifica e si rinvia alla circolare Assonime n. 31 del 31 maggio 2007. 8 indifferentemente assolta, secondo lo strumento negoziale in concreto scelto dalle parti, dal cedente l’azienda nell’“asset deal” o dal cessionario nello “share deal” (6). E gli esempi potrebbero proseguire. In estrema sintesi, quello che mi sembra opportuno ribadire è che della clausola antielusiva indubbiamente c’è bisogno nell’ordinamento fiscale, così come c’è bisogno in qualsiasi ordinamento ispirato alla predeterminazione della fattispecie impositiva e che può presentare proprio per questo “modus operandi” dei “varchi” non voluti, delle zone c.d. oscure, ma questa clausola deve servire a colpire quello che è sfuggito al sistema delle norme scritte: deve colpire gli effetti indesiderati in quanto contrari più o meno palesemente alla “ratio” del sistema, alla logica o alle logiche degli istituti impositivi così come positivamente disciplinati, non ciò che il legislatore ha realmente e fondatamente perseguito. In questo senso, la clausola antielusiva è una norma non scritta di chiusura del sistema, non uno strumento per porre costantemente nel nulla le regole scritte. 5. Venendo dall’Amministrazione più nel dettaglio finanziaria e all’esame dalla delle giurisprudenza, posizioni può assunte facilmente constatarsi che si tratta di posizioni molto vicine: sostanzialmente esse incentrano il fenomeno elusivo, come accennato, sull’assenza di valide ragioni economiche a supporto dell’operazione o delle operazioni poste in essere dai contribuenti. Si tratta di tesi che sono sviluppate, peraltro, in ambiti diversi: l’Amministrazione finanziaria ha assunto tale posizione in sede di applicazione della disposizione antielusiva prevista dall’art. 37 bis, d.p.r. n. 600 ai fini delle imposte dirette; la giurisprudenza, e segnatamente l’Alta Corte di Cassazione trae questo assunto dal concetto di abuso del diritto di matrice comunitaria, così come interpretato 6 ) Nella circolare Assonime n. 32 del 2004 già veniva sottolineata l’equivalenza sul piano sistematico delle due opzioni confrontando l’ipotesi di un conferimento in neutralità seguito dalla cessione di partecipazione in regime di participation exemption (share deal) e quello di cessione diretta dei beni aziendali (asset deal). Nella prima ipotesi il regime di neutralità comporta che i plusvalori dell’azienda rimangano in stato di latenza anche presso il soggetto cessionario, sul quale, dunque, si conserveranno intatte le pretese del Fisco ad un successivo recupero a tassazione delle plusvalenze stesse allorché troveranno manifestazione. Viceversa, nell’ipotesi di cessione realizzativa di plusvalenze imponibili, l’applicazione del regime impositivo ordinario permette una corrispondente lievitazione dei costi dei beni ceduti presso l’impresa ricevente. Conseguentemente il sistema, senza dar luogo a salti d’imposta o a duplicazioni, viene a rimettere alle parti che pongono in essere queste operazioni la scelta di chi tra di esse debba assumere la posizione di contribuente sui plusvalori dei beni di primo grado. 9 dalla Corte di Giustizia e sulla presunta valenza generale di tale principio anche nell’ambito della nostra legislazione domestica e, dunque, a prescindere dalle previsioni dell’art. 37 bis che verrebbe in quest’ottica ad essere superato. Giova, dunque, esaminare distintamente queste posizioni. Per quanto riguarda l’art. 37 bis del d.p.r. n. 600 molto sinteticamente ricordo che fino agli anni novanta si riteneva del tutto assente all’ordinamento tributario una clausola generale antielusiva e ciò in virtù del rigoroso rispetto del principio costituzionale di predeterminazione dell’obbligazione tributaria: la reazione all’elusione veniva affidata ad una moltitudine di norme antielusive specifiche che predefinivano la fattispecie da considerare elusiva e di cui disconoscere gli effetti. Fu, dunque, una novità l’introduzione di una nozione generale di elusione ad opera dell’art. 10, della Legge n. 408/90, il quale, pur limitandone l’applicazione solo a particolari fattispecie – quali le operazioni di aggregazione azienda e di riduzione del capitale – definì come elusive le operazioni poste in essere allo scopo esclusivo di ottenere fraudolentemente un risparmio d’imposta. Le innovazioni introdotte successivamente sul finire degli anni novanta con la riformulazione di questa nozione nel nuovo art. 37 bis, del d.p.r. n. 600, non intendevano in alcun modo modificare questo approccio, ma chiarire il concetto di fraudolenza che nella precedente norma aveva dato luogo a dubbi interpretativi, definendone meglio – per lo meno nelle intenzioni del legislatore – i caratteri oggettivi: la frode fiscale secondo questa nuova definizione non deve necessariamente rispondere ad un concetto penalistico di fraudolenza, non si articola cioè, nell’impiego di artifizi o raggiri per ottenere vantaggi tributari; essa va più semplicemente colta in quegli atti, fatti e negozi anche collegati fra loro, privi di valide ragioni economiche, che risultano diretti ad aggirare obblighi e divieti previsti dall’ordinamento tributario al fine di ottenere riduzioni di imposte o rimborsi altrimenti indebiti. E’ evidente l’intenzione di individuare in questo modo una disciplina ai fini tributari simile a quella che in sede civilistica detta l’art. 1344 c.c. sul contratto in frode alla legge. Non nel senso di trasferire “sic et simpliciter” questa disciplina civilistica in campo tributario – trattandosi, anzi, di regimi differenti nelle 10 intenzioni e nelle reazioni alla frode (7) – quanto nel proporre ai fini fiscali un “modus operandi” parallelo a quello della norma del codice. Così come in sede civile costituisce negozio in frode alla legge quello che si pone come mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa – il negozio, cioè, che secondo una accreditata dottrina (anche se non l’unica) veste con causa negoziale tipica un rapporto che nel caso di specie realizza viceversa una causa reale vietata, utilizzando non la simulazione ma la combinazione in vario modo degli stessi elementi oggettivi del modello negoziale regolato dalla norma (si conclude, ad esempio, formalmente un atto di liberalità ma la combinazione degli eventi è tale per cui siamo, in realtà, in presenza di vendita di beni non commercializzabili) così pure in sede fiscale costituisce operazione in frode alle regole di imposizione quella che non viola direttamente ma aggira obblighi e divieti, ottenendo in questo modo vantaggi che altrimenti sarebbero stati indebiti: l’esistenza in questo contesto delle varie ragioni economiche sembra dunque posta dal legislatore non come diretto (ed unico) sintomo dell’elusione, ma al contrario come possibilità per il contribuente di superare la configurazione elusiva della fattispecie. Ed in questo senso si esprime chiaramente la relazione governativa al provvedimento di legge che ha introdotto l’art. 37 bis in parola. Due considerazioni emergono da questa ricostruzione interpretativa. La prima è che, così come in sede civile la disciplina dell’art. 1344 c.c. costituisce una norma di chiusura e dunque di applicazione non ricorrente di un sistema che resta legalistico e cioè basato su fattispecie determinate dalla norma, così pure il regime fiscale dell’elusione dovrebbe avere la medesima valenza, cioè 7 ) Come è noto, in dottrina sono state avanzate diverse ricostruzioni riguardo alla possibilità di invocare l’art. 1344 cc come strumento di contrasto dei fenomeni elusivi. Una serie di autori propende per la tesi negativa in quanto l’art. 1344 cc sarebbe posto a presidio dell’aggiramento di norme imperative di natura proibitiva, laddove invece le disposizioni fiscali, lungi dallo stabilire se un negozio possa essere stipulato o meno, si limiterebbero a disciplinarne gli effetti (Cfr. FANTOZZI , Il diritto tributario, Utet, 2003, 161; TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, parte generale, Milano 2006, 251). Altri autori hanno osservato che gli atti negoziali non rileverebbero in quanto tali ai fini tributari, bensì regredirebbero a meri elementi della fattispecie, con la conseguenza che l’elusione della legge tributaria non potrebbe essere arginata con il ricorso al rimedio civilistico dell’art. 1344 cc (LUPI, Usufrutto di azioni: una norma antielusione non si può inventare, in Rass trib. 1995, 1936). A diversa conclusione giunge invece la dottrina che ha sostenuto l’applicabilità dell’art. 1344 cc in materia tributaria, ravvisando nell’elusione tributaria una violazione del dovere solidaristico alla contribuzione di cui all’art. 53 Cost. e prospettando che l’operatività dello schema della frode alla legge sul piano tributario dovrebbe risolversi non nella nullità civilistica, ma nell’irrilevanza fiscale dell’atto elusivo (GALLO, Prime riflessioni su alcune recenti norme antielusione, in Dir. e prat. trib. 1992, 1767 e ss). 11 dovrebbe porsi come norma di chiusura di un sistema anch’esso basato, forse a maggior ragione, sul principio legale della predeterminazione della obbligazione tributaria. La seconda considerazione è che nel regime antielusivo della norma fiscale costituisce elemento essenziale della frode, prima ancora dell’analisi delle ragioni economiche dell’operazione, l’accertamento di un effettivo aggiramento di obblighi e divieti, cioè l’acclaramento di un effettiva violazione della ratio del sistema fiscale o del sottosistema dalla quale scaturisca un’applicazione della norma in modo non corretto rispetto alla esatta esplicazione della capacità contributiva. Occorre, cioè, che risultino violati i principi fondamentali dell’ordinamento, quali il divieto di doppia deduzione dei costi, il divieto di salto di imposizione, il commercio di bare fiscali, il commercio, cioè, di perdite non realizzate nel gruppo ma acquisite appositamente da società inattive per trarne vantaggi dalla compensazione con i propri imponibili (8). Ma soprattutto emerge da questa ricostruzione – e il punto è esplicitamente sottolineato dalla relazione governativa all’art. 37 bis – che non possono essere considerate elusive le scelte fra regimi impositivi alternativi messi a disposizione dallo stesso ordinamento senza limiti o condizioni e ciò anche quando le operazioni che beneficiano di tali regimi producano risultati economici, in tutto o in parte, equivalenti ad altre operazioni diversamente trattate (9). Ad esempio, è nella libertà dei contribuenti: insediare un’attività economica all’estero tramite stabili organizzazioni o tramite la costituzione di subsideries con tutto ciò che ne consegue per ciò che concerne il differente trattamento delle perdite riportabili; ottenere un finanziamento o un capitale di apporto per attuare gli investimenti di impresa; scegliere di fruire o meno dell’applicazione di imposte sostitutive; acquisire o spostare partecipazioni per rientrare nel range del consolidato fiscale; scegliere di cedere l’attività d’impresa della società partecipata trasferendo i relativi assets con effetti 8 ) Cfr. la precedente nota 4. 9 ) In questo senso si veda anche la circolare del Ministero delle finanze n. 320/e del 19 dicembre 1997, che, tra l’altro, richiama la relazione nella parte in cui chiarisce che “non c'è aggiramento fintanto che il contribuente si limita a scegliere tra due alternative che in modo strutturale e fisiologico l'ordinamento gli mette a disposizione”. 12 impositivi o, viceversa, cedere le partecipazioni fruenti di detassazione, e così via (10). Nonostante queste premesse, l’evoluzione interpretativa non ha seguito questa linea. Forse l’art. 37 bis esprimeva concetti dal contenuto semantico non chiaramente individuabile o comunque non radicato nella tradizione giuridica, quale in effetti potrebbe risultare la nozione di “aggiramento di divieti o obblighi” normativi; forse ha influito la preoccupazione dell’amministrazione di limitare l’efficacia fiscale di operazioni sempre più complesse di cui non si capiva appieno il contenuto. Sta di fatto che sotto il profilo teorico si sono sviluppate tesi che hanno attribuito poca valenza al problema dell’aggiramento della ratio del sistema fiscale e alla distinzione di questo profilo rispetto alla legittima scelta del risparmio di imposte: mi riferisco a quelle tesi che individuano il fenomeno elusivo nella semplice esistenza di operazioni definite come “insolite” o “inutilmente complesse e articolate” rispetto agli strumenti tipici a disposizione, in quella sorta di “abuso delle forme giuridiche adoperate” (11). Sotto il profilo della prassi amministrativa si è giunti – forse come risultato pragmatico di questo tipo di approccio – a depotenziare completamente il riferimento della norma all’aggiramento di obblighi e divieti e ad attribuire esclusiva valenza alla esistenza o meno di motivazioni economiche extra tributarie a supporto dell’operazione. Più precisamente si è realizzata, interpretativamente, una sorta di equivalenza fra l’assenza di finalità extra tributarie dell’operazione “sub iudice” e il presunto perseguimento attraverso tali operazioni, e proprio per questa assenza di finalità extra-tributarie, di vantaggi fiscali indebiti. 10 ) Vedasi, in questo senso, la lucida analisi di LUPI, Manuale giuridico professionale di diritto tributario, Milano, Ipsoa, 2001 e, da ultimo, le condivisibili considerazioni di STEVANATO, Trasformazione in s.r.l. agricola ed elusione tributaria: è davvero aggirato lo spirito della legge? in Corr. Trib. 2008, 1719 e ss. 11 ) Cfr. RUSSO, Brevi note in tema di disposizioni antielusive, in Rass. trib. 1999, 72 e TESAURO, Compendio di diritto tributario, UTET, 2002, le cui definizioni del fenomeno elusivo pongono l’accento sull’anomalia delle scelte negoziali rispetto a quelle a disposizione per ottenere i medesimi effetti economici, lasciando in secondo piano la coerenza di tali scelte con quelle del legislatore. 13 Questa semplificazione interpretativa ha determinato una svolta enorme, un cambiamento radicale della visione del problema. L’effetto più rilevante è stato che ha perso di qualsiasi significato la circostanza che il regime fiscale di favore di una determinata operazione sia previsto ex lege. In altri termini il semplice fatto che un’operazione trattata in un certo modo dal legislatore produca – da sola o in combinazione con altri - un risultato in tutto o in parte equivalente ad altra operazione avente differente e più oneroso regime fiscale, abiliterebbe l’amministrazione a sottoporre tale operazione al sindacato di elusività. Ci sarebbe dunque, una sorta di modello di riferimento da assumere acriticamente come modello principale, per il solo fatto di comportare conseguenze impositive più onerose e rispetto al quale l’operazione alternativa meno onerosa fiscalmente dovrebbe essere sempre (e per questo solo fatto) sottoposta a giudizio di elusività. Ad esempio, il regime di neutralità della fusione è sindacabile per il solo fatto che l’operazione conduce ad una estinzione di una delle società che vi partecipa in alternativa alla liquidazione della società medesima, che produrrebbe invece, effetti impositivi (12). Analogamente una scissione che serva a distinguere un ramo industriale da un ramo immobiliare per cedere le partecipazioni del primo ad acquirenti interessati e conservare le partecipazioni del secondo, sarebbe tacciabile di elusività perché consentirebbe di realizzare il trasferimento del ramo industriale con la disciplina della cessione delle partecipazioni che si presenta più favorevole rispetto alla cessione diretta degli assets dell’azienda industriale (13): come dire che se fin dall’origine il gruppo fosse stato composto da una società che gestiva l’azienda industriale e una società che gestiva il ramo immobiliare, la cessione delle partecipazioni del ramo industriale poteva legittimamente essere operata, mentre invece, tale legittimazione non ci sarebbe se la società nella fattispecie gestisce unitariamente tanto il ramo industriale quanto quello immobiliare e per operare la cessione del primo venga fatta la scissione. E ancora è stata tacciata di elusività una 12 ) Si veda, in questo senso, il parere del Comitato consultivo per l’applicazione delle norme antielusive n. 27 del 21 settembre 2005. 13 ) Il Comitato si è espresso per l’elusività delle scissioni proporzionali del ramo immobiliare nei pareri n. 24 del 25 luglio 2006, n. 27 e 28 del 4 ottobre 2006 pur avendone avallato la validità in altre occasioni (cfr. parere n. 19 del 21 settembre 2005 e n. 40 del 14 ottobre 2005). 14 trasformazione di una società per azioni in una società a responsabilità limitata, perché nella fattispecie il regime impositivo dell’azienda agricola gestita nella forma di s.p.a. era diverso, e, per certi versi più oneroso di quello previsto per la gestione dell’azienda agricola da parte di una s.r.l. (14). Come dire che una volta eletta una forma societaria a cui il legislatore attribuisce un determinato regime impositivo non è più possibile scegliere una diversa forma di gestione dell’azienda (pur se del tutto legittima sotto il profilo civilistico e pur se non vietata espressamente dal legislatore fiscale), solo perché a questa seconda forma il legislatore riconduce l’applicazione di altro regime impositivo e tale forma non è stata scelta fin dall’origine. Non c’è da stupirsi in una logica di questo genere, che se un gruppo ha una composizione partecipativa che non gli permette di attivare lo strumento del consolidato fiscale e ricolloca le partecipazioni in modo tale da realizzare i presupposti voluti dalla norma per attivare il consolidato, ciò possa far considerare anche questa un’operazione suscettibile di essere tacciata di elusività a motivo del fatto che l’operazione riorganizzativa sarebbe ispirata da esclusive motivazioni fiscali e cioè dall’esigenza di poter usufruire di una scelta impositiva messa a disposizione dal legislatore fiscale erga omnes. Ora al di là della evidente constatazione che posizioni del genere conducono alla configurazione di una legislazione tributaria che opererebbe sulla base di una sorta di “diritto elettivo” – nel senso che l’organizzazione d’impresa che è nata in un certo modo, ha una determinata configurazione giuridica, può accedere a determinati regimi tributari e quella che, non avendo questa configurazione, pone in essere le modificazioni necessarie per realizzarla si troverebbe comunque sbarrata la strada all’accesso al corrispondente regime tributario – sta di fatto che questo approccio interpretativo contrasta proprio con quanto è stato osservato nel precedente paragrafo 4. Non si può, a mio avviso, tacciare di “potenziale” elusività la scelta del contribuente di adottare operazioni produttive di effetti economici similari ad altre, sol perché le une hanno una disciplina fiscale di maggior favore 14 ) Il riferimento è alla risoluzione dell’Agenzia delle entrate n. 177/e del 28 aprile 2008 in Corr. trib. 2008, 1719 e ss. che ha ritenuto elusiva la trasformazione di una s.p.a in s.r.l diretta ad accedere all’opzione per il regime di tassazione catastale previsto dall’art. 1, comma 1093 della legge finanziaria 2007. 15 rispetto alle altre. Si finirebbe in questo modo, ripeto, per contrastare una precisa volontà legislativa di riferire “quel” determinato regime fiscale a “quella” determinata operazione avente le caratteristiche giuridico-formali indicate dalla norma. E ciò si risolve sostanzialmente – ripeto – in una petizione di principio, oltre che in un surrettizio superamento dell’affidamento alle indicazioni normative. Fondare il concetto di “elusione” nella assenza di valide ragioni economiche “extra-fiscali” conduce proprio a questo risultato. Obiezioni sostanzialmente simili mi sembra che possano muoversi anche alle posizioni assunte dalla Corte di Cassazione. Come è noto, la Suprema Corte ha abbandonato la linea argomentativa che aveva sviluppato nel 2005 e che si incentrava sulla nullità per difetto di cause o per causa illecita dei contratti conclusi per finalità fiscali (il riferimento era, in particolare, ai contratti “dividend washing” e “dividend stripping”) (15). Oggi le posizioni sono diverse e si fondono sulla presunta valenza, come accennato, del principio di abuso del diritto affermato dall’Alta Corte di Giustizia in materia di IVA – segnatamene nel caso Halifax (16) – anche ai fini della nostra legislazione interna. Da più parti sono state mosse ampie critiche sulla effettiva possibilità che tale principio, affermato per l’applicazione di disposizioni comunitarie, possa estendere la sua applicazione anche ai tributi non armonizzati (17). Prescindendo comunque da questa questione, quel che mi preme semplicemente segnalare in questa sede è che il concetto di “abuso del diritto” che la Corte di Cassazione trae dalle conclusioni raggiunte dall’Alta Corte di Giustizia nel caso di Halifax, è tutt’altro che conforme a queste conclusioni. Come è stato 15 ) Si vedano le sentenze della Cassazione 21 ottobre 2005 n. 20398 e 14 novembre 2005 n. 22932 e, anche in merito alla successiva evoluzione, la nota di LOVISOLO, Il principio di matrice comunitaria dell’abuso del diritto entra nell’ordinamento giuridico italiano:norma antielusiva di chiusura o clausola generale antielusiva? L’evoluzione della giurisprudenza della Suprema Corte, in Dir. e prat. Trib, 2007, II, 723 e ss. 16 ) Corte di Giustizia, sentenza 21 febbraio 2006 nella causa C-255/02, in GT, Riv. Giur. Trib.,n. 5/2006, 377. 17 ) Così, tra gli altri, SALVINI, L’elusione IVA nella giurisprudenza nazionale e comunitaria, in Corr. Trib. 2006, 3097e ss.; TESAURO, Divieto comunitario di abuso del diritto (fiscale) e vincolo da giudicato esterno incompatibile con il diritto comunitario, in Giur., It. 2008, 1029 e ss.; ZIZZO, L’abuso del diritto in GT, Riv. Giur. Trib., 2008, 465; GIANONCELLI, Abuso del diritto nelle imposte dirette, in Giur. It. 2008, 1297 e ss. 16 efficacemente evidenziato in dottrina (18), l’Alta Corte individua l’abuso in quelle operazioni che sono conformi all’“applicazione formale delle condizioni previste dalle pertinenti disposizioni della VI direttiva e dalla legislazione nazionale che le traspone” e tuttavia conducono ad un vantaggio fiscale contrario “all’obiettivo perseguito da quelle stesse disposizioni”. Dunque, adotta un tipo di interpretazione molto simile a quello fatto proprio nella nostra legislazione dall’art. 37 bis del d.p.r. n. 600 (ove interpretato – beninteso – nel senso sopra auspicato e conformemente al testo letterale della norma, non così come secondo la prassi dell’Amministrazione finanziaria). Non si intende, infatti, colpire qualsiasi vantaggio fiscale ma solo quelli non giustificabili in quanto contrari alla “ratio” dell’istituto fiscale di cui si invoca l’applicazione (19). Molto chiara in questo senso è l’affermazione di principio che l’Alta Corte fà secondo cui in nessun modo può essere impedito al contribuente di scegliere, fra regimi alternativi previsti dal legislatore, quello a lui più favorevole. La Suprema Corte di Cassazione invece traduce questo concetto di abuso nel senso di identificarlo, come accennato, sic et simpliciter nelle operazioni “compiute essenzialmente per il perseguimento di un vantaggio fiscale”, senza alcuna distinzione fra vantaggio legittimo e vantaggio non legittimo. Bisogna, dunque, dare atto che l’Alta Corte di Giustizia adotta una impostazione più garantista del principio di legalità nella determinazione della obbligazione tributaria di quanto non lo faccia la Corte di Cassazione che pur si pone come interprete di un diritto – quello domestico – che fa di tale principio un caposaldo costituzionale (art. 23 Cost.). 6. Il tema merita ancora una riflessione. 18 ) Cfr., al riguardo, BEGHIN, Note critiche cit., 473 e ss.; ZIZZO, L’abuso cit., 465. 19 ) In questo senso, la Corte di giustizia concepisce l’assenza di ragioni extrafiscali semplicemente come un indicatore della possibile esistenza di un abuso, il cui presupposto è costituito fondamentalmente dal conseguimento di un vantaggio contrario agli obiettivi della Direttiva. La valutazione della sussistenza delle ragioni economiche, cioè, rileva, in quanto - come si legge nella parte conclusiva della sentenza C-255/02 “deve altresì risultare da un insieme di elementi obiettivi che le dette operazioni hanno essenzialmente lo scopo di ottenere un vantaggio fiscale” in contrasto con il diritto comunitario. 17 E’ chiaro da quanto fin qui detto che la individuazione delle valide ragioni economiche “extra-fiscali” non è un aspetto essenziale per coloro che, come me, intravedono l’elusione o l’abuso del diritto in quegli atti ed operazioni che pur rispettando formalmente i canoni della fattispecie legale o tributaria realizzano effetti impositivi contrari alla loro “ratio” o finalità e per questo risultano non conformi alla corretta attuazione del principio di capacità contributiva. In effetti, la “ratio” “tradita” non sempre si coglie di primo acchitto; spesso più che di una singola “ratio” occorre parlare di diverse “rationes” in relazione ai vari sotto sistemi in cui si articola l’ordinamento tributario e questo può rendere più arduo il compito dell’interprete. Comunque, ove si aderisca a questa impostazione, la dimostrazione dell’esistenza di valide ragioni può eventualmente aver rilievo, caso per caso, come elemento sintomatico della bontà dell’operazione, laddove ci fossero dubbi sulla sua aderenza alla “ratio legis”, ma – ripeto – non è un punto focale per far scattare o meno la disciplina antielusiva. Per i sostenitori dell’altra impostazione, viceversa, la verifica dell’esistenza o meno delle valide ragioni economiche è un punto essenziale, anzi – per essere chiari – è l’unico elemento regolatore della fattispecie elusiva, l’unico canone normativo. E su quali siano queste valide ragioni economiche e come vadano individuate, si è sviluppata una letteratura tanto ampia quanto fantasiosa. Ad esempio, è stata negata dal Comitato antielusivo l’esistenza di queste valide ragioni economiche nell’ipotesi di una fusione societaria motivata dalla necessità di accorciare la catena partecipativa eliminando una sub-holding. Ciò in quanto, nella fattispecie, l’operazione realizzava un risparmio di costi del gruppo e dunque un interesse della società capogruppo in qualità di socio e non un interesse organizzativo-imprenditoriale delle società partecipanti alla fusione (20). E ancora in tema di scissione non proporzionale è stato ravvisato un interesse meritevole di tutela (e dunque, l’operazione ha avuto riconoscimento ai fini fiscali) in una fattispecie in cui la scissione era volta a risolvere un conflitto gestionale insanabile della compagine sociale (si trattava nel caso di specie di fratelli) (21), 20 ) Cfr. la nota 11. 21 ) Cfr. il parere n. 22 del 29 settembre 2004 del Comitato consultivo per l’applicazione delle norme antielusive. 18 mentre, invece, queste ragioni non sono state ritenute valide, come abbiamo già visto, nell’ipotesi di scissione attuata per dividere il ramo industriale dell’azienda da quello immobiliare al fine di destinare l’uno alla vendita (in favore di compratori interessati ad acquisire solo tale ramo), continuando la gestione dell’altro (22). E ancora è stata censurata una fusione perché la ragione economica più importante non era extrafiscale. L’operazione, infatti, interamente realizzata nella fattispecie fra società appartenenti al medesimo gruppo, mirava a rendere fruibili in compensazione da parte della società incorporante le perdite della società incorporata che erano in scadenza e che quindi rischiavano di divenire non più utilizzabili; e questa presa di posizione sulla presunta assenza di valide ragioni economiche è stata adottata ancorché fossero rispettate, nella fattispecie, le condizioni di vitalità e di patrimonializzazione previste dall’art. 172 del t.u.i.r. e, dunque, non si trattasse affatto di un commercio di bare fra imprese appartenenti a gruppi diversi (23). In un altro caso similare il motivo era stato ravvisato nel fatto che le perdite appartenevano ad una holding che per effetto della riforma fiscale del 2003 non aveva più redditi imponibili (24) (essendo stata introdotta la detassazione dei dividendi e delle plusvalenze su partecipazioni) sicché l’operazione serviva a far transitare queste perdite sulla società operativa (figurante come incorporante nella fusione) per poter essere utilizzate in compensazione con il proprio reddito imponibile. E gli esempi potrebbero continuare. In definitiva, ci troviamo davanti ad una sorta di creazione del concetto di valide ragioni economiche affidate all’“estro”, di volta in volta, dell’organo accertatore o dell’organo giudicante. E’ chiaro, infatti, che se guardiamo all’archetipo civilistico di queste operazioni – archetipo che come abbiamo visto (par. 4) è stato preso espressamente a riferimento dal legislatore fiscale per regolarne il regime ai fini tributari – non c’è 22 ) Si vedano, sul punto, i pareri del Comitato già ricordati nella nota 12. 23 ) In terminis, la risoluzione dell’Agenzia delle entrate n. 116 del 24 ottobre 2006 con nota di LUPISTEVANATO in Dialoghi di diritto trib. 2007, 110 e ss. 24 ) Così il parere del Comitato consultivo per l’applicazione delle norme antielusive n. 2 del 19 gennaio 2005. 19 nessun motivo per distinguere una fusione realizzata per risparmiare i costi della catena societaria o per rendere più efficiente l’organizzazione produttiva della società operativa; così come non c’è alcun motivo per distinguere una scissione fatta per risolvere conflitti personali dei soci o per venire incontro alle esigenze di un acquirente interessato a un ramo di azienda e non all’altro. Si tratta di operazioni perfettamente valide e perfettamente coerenti – nell’uno e nell’altro caso – con la causa giuridico-formale del negozio di fusione e del negozio di scissione. Così come anche sotto il profilo fiscale non si riscontra neanche un “simulacro” di norma che canonizzi in un ottica, sia pur esclusivamente tributaria, il concetto di valide ragioni economiche. In definitiva, anche esaminando la questione sotto questa angolatura, appare chiaro che la tesi di ancorare l’accertamento dell’elusione – o dell’abuso del diritto, che dir si voglia – all’esistenza di valide ragioni extra-fiscale porta non solo a sconfessare il principio di legalità e di certezza del diritto che connota intimamente il nostro ordinamento giuridico e segnatamente il sistema tributario, ma la stessa democraticità dell’imposizione – valore, come accennato, di rilevanza anch’esso costituzionale – non potendo la determinazione dell’obbligazione tributaria essere affidata ad un’intuizione soggettiva, anche se risultasse di buon senso, di un verificatore o di un giudice. 7. Conclusivamente, possono formularsi le seguenti considerazioni: - non c’è dubbio che il nostro ordinamento fiscale, come gli ordinamenti degli altri stati, deve essere in grado di reagire ai comportamenti elusivi dei contribuenti, tanto più che questi comportamenti stanno assumendo forme e contenuti sempre più sofisticati; - è necessario, tuttavia, che questa reazione non si trasformi in una disapplicazione “ad nutum” delle regole impositive scritte, sulla base di giudizi soggettivi affidati all’amministrazione finanziaria o all’organo giudicante; - questo rischio è concretamente presente nell’impostazione interpretativa seguita dall’Amministrazione finanziaria, in sede di applicazione dell’art. 37 bis del d.p.r. n. 600 e in quella fatta propria recentemente dalla Suprema 20 corte di Cassazione che ha ritenuto applicabile al nostro ordinamento interno il concetto di abuso di diritto di stampo comunitario, così come definito dall’Alta Corte di Giustizia e interpretato dalla stessa Cassazione; - entrambe le accennate posizioni convergono sul fatto che l’elusione o abuso del diritto è ravvisabile nelle operazioni poste in essere dai contribuenti mancanti sostanzialmente di valide ragioni economiche extra-fiscali; - questa tesi può compromettere non poco il principio di predeterminazione “ex lege” dell’obbligazione tributaria e, dunque, di certezza del diritto e di democraticità dell’imposizione, per almeno due ordini di considerazioni: innanzitutto, perché il nostro ordinamento fiscale è costellato di regimi alternativi in ragione delle diverse tipologie formali-giuridiche delle operazioni, sicché questa distinzione di trattamenti fiscali risponde ad una precisa scelta del legislatore che verrebbe sistematicamente disattesa sulla base di un ordine di considerazioni – il giudizio appunto sulle valide ragioni economiche – affidato “ex post” al verificatore o all’organo giudicante, ciò risolvendosi in una sorta di petizione di principio e di superamento dell’affidamento sulle indicazioni della norma; e inoltre perché – aspetto, questo, strettamente connesso al primo – non esistono indicazioni normative e canoni ermeneutici sulla definizione di questo concetto di “valide ragioni economiche” sicché esso è rimesso caso per caso alla intuizione – a volte di buon senso, a volte no – del verificatore o dell’organo giudicante; - meglio sarebbe, dunque, ricondurre la individuazione dell’elusione o dell’abuso del diritto alla distinzione fra le scelte che il contribuente può lecitamente compiere perché rispondenti ad opzioni espressamente messe a disposizioni dal legislatore e quelle che, invece, non può compiere perché violano la “ratio” dell’istituto e degli istituti di cui si invoca l’applicazione. In particolare, occorre a questi fini analizzare il contenuto complessivo dell’operazione, che proprio perché elusiva si presenta di regola conforme alle applicazioni formali della norma, ma sostanzialmente produce vantaggi contrari ai suoi obiettivi. Questo approccio, d’altra parte, è in linea sia con esplicite prescrizioni dell’art. 37 bis del d.p.r. n. 600 (che pone riferimento 21 all’aggiramento di obblighi e divieti per ottenere vantaggi altrimenti indebiti) sia con le indicazioni dell’Alta Corte di Giustizia che – diversamente dalla interpretazione che ne da la Corte di Cassazione - ravvisa l’abuso non in qualsiasi vantaggio fiscale ma in quello contrario, appunto, alla “ratio legis”. Ivan Vacca 22