Genealogia del corpo e corpo genealogico In “Alla ricerca delle in-formazioni perdute” a cura di F.Pergola,F.Angeli 2011 Notizie su Frida e sulla trasmissione generazionale nella sua famiglia, attraverso i dipinti. Poche notizie su Frida Kahlo, quelle necessarie per capire il motivo per cui utilizziamo un suo quadro nella ricerca sul transgenerazionale che portiamo avanti da anni. Nasce nel 1907 a Cayoacàn, sobborgo di Città del Messico, ma preferisce dichiarare di essere nata nel 1910, per far combaciare la sua nascita con la rivoluzione popolare: una bella invenzione! Peccato che qui ci dobbiamo occupare solo del dipinto che utilizziamo per il nostro lavoro, perché la vita stessa di Frida meriterebbe una riflessione su “come” la trasmissione psichica tra generazioni possa passare il testimone della creatività. Quando il legame inconscio annoda le generazioni attraverso un messaggio che può essere decifrato, la pulsione sessuale si fa spinta vitale all’espressione, qualunque sia la forma. Quando, come nel caso di Frida Kahlo, un trauma (nel suo caso un drammatico scontro tra l’autobus sul quale viaggiava e un tram) spezza il corpo proprio nella sua possibilità di generare, si interrompe la trasmissione carnale delle generazioni e si attiva quella immaginaria. Le immagini dipinte con il sangue dei tanti aborti avvenuti producono figli mai nati e mai dimenticati. Nel ’26 il padre ha ritratto Frida in una fotografia insieme alle sorelle, in cui non solo è vestita da uomo, ma ne ha l’autorevolezza. Terza di quattro sorelle tocca a lei essere il Fallo, il desiderio dell’Altro? Fermiamoci qui e passiamo alla descrizione dell’immagine presa in prestito per il nostro lavoro. Noi utilizziamo questo dipinto perché sembra illustrare il processo che porta l’artista dal proprio concepimento, indietro nel tempo, fino ad incontrare i nonni materni e quelli paterni. Il quadro mostra in maniera quasi didascalica ciò che da tanto tempo andiamo dicendo: ad ogni concepimento presiede un gruppo, composto da almeno sei persone, tre maschi e tre femmine; il concepimento si trasforma in nascita se un filo inconscio lega i tempi e gli spazi eterogenei delle generazioni, tempi e spazi che spesso, come nel caso di Frida, sono conflittuali. La terra accoglie e circonda tutta la messa in scena e sottolinea il fatto che la trasmissione avviene,in questa prima fase della vita, per via materna, come si mostra anche dall’altezza della rappresentazione della madre rispetto a quella del padre. Le nozze sono del 1898 e per lui sono le seconde, dopo la morte della prima moglie; come era avvenuto per suo padre, non genererà un figlio maschio. Così, alla generazione paterna spetta una piccola porzione di oceano. Il deserto e l’oceano qui raffigurati sono infatti simboli che alludono alle diverse eredità che abitano la pittrice, all’immagine della psiche “estesa”, di cui Freud scriveva in una lettera a Marie Bonaparte : “la psicoanalisi ci ha insegnato in effetti che la psiche è composta di istanze separate che siamo obbligati a rappresentare come esistenti nello spazio.” Nell’ereditare i luoghi di origine designati dallo spazio si ereditano anche le istanze psichiche che rappresentano? Il quadro1 è del 1936, quando Frida ha 29 anni, ed è intitolato: “I miei nonni, i miei genitori ed io”. Racconta del tempo in cui lo spermatozoo incontra l’ovulo e Frida viene concepita, terza figlia femmina, nella casa di Cayoacàn nella quale morirà. Nel quadro, Frida si rappresenta contemporaneamente a tre anni e nel ventre della madre, adagiata sul 1 Immagine n.1. I miei nonni, i miei genitori ed io. A colori bianco vestito materno, feto con un cordone ombelicale attaccato al nastro della cinta dell’abito. La cinta e l’essere incinta… Chissà se nella lingua messicana la parola che indica la gravidanza suona come la nostra: in-cinta? È come se le tappe temporali, apparentemente cronologiche, fossero: concepimento, embrione, bambina che tiene in mano il nastro che circonda la coppia dei genitori, per terminare nella rappresentazione dei nonni, i genitori della madre, accanto alla madre, e quindi di quelli paterni, accanto al padre. Gli spazi dipinti come sfondo, ma in realtà coprotagonisti, con i personaggi rappresentati, parlano di un conflitto insanabile: quello radicato nella civiltà india, nei deserti messicani con cactus e impollinazioni, con le generazioni del distante e freddo oceano che separa dalla Germania, paese nel quale era approdato il bisnonno paterno, ebreo ungherese. Abbiamo un’altra versione dello stesso albero genealogico, intitolato “Ritratto della famiglia di Frida”2, dipinto quando Frida è in ospedale e ormai avviata alla morte, che avverrà nel 1954. E’ presumibilmente del 1950/51, ed è incompiuto. Mostra il capovolgimento che nella vita si è compiuto rispetto all’universo rappresentato nel ’36. Ormai anche il padre e la madre sono morti e vanno a far parte, insieme ai nonni, del mondo dell’empireo. Il padre è ora raffigurato alla stessa altezza della madre e occupa il posto che nel primo dipinto occupava la madre con i suoi genitori, lo sguardo del padre è diretto verso sinistra: verso il fuori? il futuro? il passato ? Certamente è divergente. Non va dimenticato che è l’autrice del quadro ad autorizzare la direzione dello sguardo. Sono presenti le sorelle e i due nipoti. Il quadro è inquietante perché non finito, ma dimostra che le generazioni vanno avanti. La trasmissione è 2 Immagine n. 2. , Frida Kahlo, Ritratto della famiglia di Frida assicurata. Dopo quattordici anni, dopo gli aborti, le operazioni, la morte dei genitori, i tanti tradimenti del marito Diego, tra i quali, gravissimo, quello con la sorella Cristina, Frida si è messa di nuovo alla prova con lo stesso soggetto. Il quadro che ne è venuto fuori è meno celebrativo, meno narcisistico. Nel titolo è scomparso “l’io” e, in sua vece, appare il nome proprio: segno di un’in-scrizione nella genealogia attraverso il riconoscimento della fratria. Nel quadro, la madre di sua madre ha una mano che tocca l’orecchio: un gesto familiare, di vita. Sembra che i genitori e i nonni, gli antenati, siano più vivi e vitali delle nuove generazioni. Frida si rappresenta in un feto, simbolo di quel feto che ha potuto contenere ma anche espulso, e che sembra appartenere al padre. L’identificazione è con il padre, malato di epilessia ma che non smise mai di lavorare e che ebbe anche il coraggio di lottare contro il nazismo. Frida lo rappresenta in un dipinto del 1951, Ritratto di mio padre, che firma con una dedica: “sua figlia Frida Kahlo”. Sullo sfondo, la fecondazione. L’impossibilità organica a generare, l’incontro con Diego Rivera, che ha il doppio dei suoi anni, non portano ad un amore incestuoso? Ma torniamo al 1936, l’anno del quadro su cui abbiamo lavorato. Nel 1936, Freud è occupato nel rimaneggiare i primi due capitoli del Mosé. Ha ormai compiuto la sua “rivoluzione copernicana”, scoprendo che “l’Io non è più padrone in casa propria” e che nell’inconscio del soggetto le generazioni passate reclamano il loro spazio attraverso la sessualità, essendo l’individuo “l’appendice provvisoria e transeunte del pressoché immortale plasma germinale che gli è stato affidato dalla generazione” (Pulsioni e loro destini, Boringhieri,vol. 8 pag.21.) L’esperienza Ma è ora di andare alla nostra esperienza. Condizione di partenza è un gruppo. Si tratta di mostrare come, posto dinanzi alla stessa immagine, nel nostro caso il quadro di Frida, ciascuno ne faccia una rappresentazione estremamente personale, un ritratto della propria famiglia, una quadro delle proprie vicissitudini interne e dei legami transgenerazionali che lo hanno segnato. Ogni componente del gruppo si trova, senza esserne consapevole, ad occupare diverse posizioni : la posizione che occupa come figlio/a e come madre/padre; la posizione che la madre occupa rispetto alla coppia dei propri genitori, quella che il padre occupa rispetto ai propri genitori, la posizione che occupa il soggetto all’interno del corpo materno e all’esterno, la posizione nello spazio-ambiente che abita ogni personaggio all’interno e all’esterno della psiche e nella realtà esterna, la posizione nel tempo cronologico, nel tempo della ripetizione, nel tempo della ricostruzione. Ci soffermiamo in particolare, sulla posizione che si occupa all’interno del corpo materno di cui si conservano tracce ma non memoria. Si è parlati o pensati dalla madre come un peso, come una speranza, come un riscatto… E’ con questa colorazione emotiva ereditata che si nasce al trauma dell’uscita dal corpo materno. Il racconto materno diventa una sorta di ingiunzione destinale per il figlio: colpa, gratificazione, vergogna, vendetta…anticipazione, ritardo, si stabilisce il legame con il tempo non cronologico a partire dal romanzo familiare in cui ognuno si crea una famiglia e contratta la propria posizione nella linea delle generazioni. Si costruisce una genealogia fantasmatica che è soprattutto genealogia dei propri fantasmi. L’immagine pre-testo viene trasfigurata a partire da questo processo, immagine che si fa primo schermo, pagina bianca a partire dalla quale il pensiero può emergere separandosi dal suo oggetto, primo passaggio alla simbolizzazione. E’ in questa prima rete di relazioni, nel collettivo che precede, che accoglie o respinge il soggetto che si formano il modello dell’intersoggettività e le condizioni intersoggettive della formazione dell’inconscio. Torniamo all’esperienza. Il processo si rende possibile solo dopo aver creato un silenzio attivo, dopo che ci si è appellati ad una presenza che ha la qualità dell’ “esserci” e che per semplicità diciamo “senza memoria e senza desiderio”, citando Bion, per intendere: né spostati in avanti nel tempo né indietro, ma nel tempo del “qui e ora”, così difficile da sopportare. Il gruppo è così inteso nella sua dinamica psichica che si fa sogno (Anzieu 1966) attivando il processo dell’inconscio. I momenti nei quali articoliamo l’esperienza sono tre: la scrittura dell’occhio, il ricalco, il negativo. Ad essi segue poi lo psicodramma. Prima consegna. La “scrittura” dell’occhio. Ad ogni componente del gruppo viene consegnata una riproduzione in bianco e nero del quadro3, ma rovesciata, in modo che si veda solo la pagina bianca. Quando tutti i componenti del gruppo hanno di fronte a sé la fotocopia, girano contemporaneamente il foglio e ciascuno è invitato a registrare il percorso che l’occhio, sorpreso dall’immagine, fa sulla sua superficie: dove inizia a guardare, quale oggetto attrae e seduce l’occhio, che cosa viene lasciato cadere, la visione d’insieme ecc. Abbiamo così una sorta di “scrittura dell’occhio”, appunti veloci che testimoniano il rapporto che l’occhio stabilisce con l’oggetto, grazie alla quale si arriva, con il tempo, a rendersi conto della macchia dello sguardo, di ciò che è impossibile vedere, legato alla differenza tra ciò che l’occhio vede e lo sguardo (oggetto “a” causa del desiderio) costruisce. “Macchia che 3 Immagine n. 3. Frida Kahlo, I miei nonni ecc., riproduzione in bianco e nero segnala la preesistenza al visto di un dato-da-vedere…. Se la funzione della macchia è riconosciuta nella sua autonomia e identificata con quella dello sguardo, noi possiamo cercarne il percorso, il filo, la traccia a tutti i livelli della costituzione del mondo nel campo scopico:” (Lacan XI°) Sentiamo come una partecipante, A.R., descrive questa prima fase dell’esperienza. “La prima cosa che mi ha colpita è stato il vestito bianco, candido, della donna al centro della scena. Il vestito pieno di balze, articolato, un po’ datato. Successivamente colgo (particolare sfuggito inizialmente) il cordone ombelicale ed il bimbo in posizione fetale, il bambino in basso e l’albero ai suoi piedi. Mi viene in mente la nascita, la crescita e il bagaglio che, anche se piccoli, ci portiamo dietro. L’eredità che abbiamo acquistato nascendo, gli errori, gli sbagli, le soddisfazioni, le gioie che facciamo nostre ma che non lo sono. L’importanza delle nostre origini, delle nostre tradizioni. L’importanza di creare la nostra storia. La storia della storia”. È necessario lo scritto, pur sempre approssimativo, come avviene nel racconto del sogno, per documentare il percorso dell’occhio: il vestito, il candore, le balze che riportano ad altri tempi (di chi stiamo parlando?), il cordone, e, dopo, il bimbo-feto. Il bambino in basso e l’albero ai suoi piedi. Percorso che va dal centro verso il basso ignorando completamente l’alto, destra sinistra, alleandosi con l’artista che fa del bianco dell’abito materno la nota di colore su cui accorda tutti gli altri colori. Pur essendoci tanti bianchi apparenti, nessuno può superare la tonalità dell’abito. Nel passaggio dall’occhio allo sguardo, vengono tagliati fuori il padre, i nonni, le case, i paesaggi. L’occhio ha visionato tutta la scena ma lo sguardo è stato catturato non da ciò che è visibile, ma da ciò che il desiderio inconscio sostituisce ai personaggi del dipinto: il luogo, svuotato dalla presenza, si fa spazio della mancanza ad essere di chi ha fatto parte della sua vicenda ma ne è stato eliminato. Seconda consegna. Il “ricalco”e il percorso della mano Al percorso dell’occhio si aggiunge subito dopo il percorso della mano. Si passa ora a ciò che “vede” la mano, chiamata, con la carta trasparente messa sopra la fotocopia, a “ricalcare” l’immagine. Operazione semplicissima che ognuno ha sperimentato a scuola, quando poggiava sul vetro della finestra il disegno da ricopiare. Ci aspetteremmo che tutti i componenti del gruppo riproducano la stessa immagine, ma non è così. Ecco cosa succede quando è la mano a “vedere”. Il primo disegno di A.R. ha come titolo “la nascita”4. I personaggi sono ridotti a tre, ma nessuno ha un vero spessore; sono delle silhouette dalla linea di confine colorata: corpo della mamma e capelli della figlia bleu, corpo della bambina rosa come il volto e il fiore della mamma. Il feto, che per il colore è un alieno, non ha il cordone ombelicale attaccato. La mamma è impedita a toccare perché le mani non ci sono; la bambina tiene il nodo che interrompe due stradine con biforcazioni finali che portano al luogo dell’assenza. Cosa è accaduto? Lo sguardo ha creato, a partire dall’immagine offerta, un’immagine trasmessa dalle generazioni o che è, forse, il prodotto delle generazioni: un’operazione, questa, impensabile o comunque molto più difficile per la logica del discorso, per la parola. Sono cancellati tutti coloro che precedono; c’è l’appropriazione del corpo materno, di cui il proprio corpo è copia. Che ne è dell’Edipo? Che ci sia un attacco alle 4 Immagine n.4., Nascita, “ricalco” generazioni precedenti per una colpevolezza latente è indubbio, soprattutto verso la linea maschile, paterna. Il segno tracciato possiamo leggerlo come un “trasudamento del segreto”, ricalcato secondo modalità sensoriali. È come se si fondasse, a partire da lei, il tempo futuro. Il motto può essere: guardare in avanti. È possibile, sul modello del tempo dell’aprés-coup, formulare la categoria dell’avant-coup? Terza consegna. Il “negativo”e l’assenza Questo processo è ancora più evidente quando si passa al terzo momento. Tolta la riproduzione di partenza, si applica un secondo foglio trasparente sul primo (il “ricalco”), lasciando vuote tutte le parti dell’immagine precedentemente “ricalcata” e “riempiendo” tutti i vuoti. Abbiamo, così, una sorte di “negativo” fotografico dell’immagine ricalcata. Quel processo di capovolgimento del dato di partenza- l’immagine riprodotta in fotocopia- e di liberazione di immagini pre-consce o inconsce, già evidente nella fase del ricalco, diviene ora ancora più evidente. Non sappiamo se il termine che abbiamo scelto, “il negativo”, è il più appropriato. Non è il negativo della fotografia, basato sui rapporti tra luce e assenza di luce, tra bianco e nero. È solo per analogia che, dunque, parlavamo di questo. Non è “il rovescio” del primo disegno, ma è la ricerca di un’immagine assente che dice di un funzionamento della psiche che assegna all’assenza solo il dolore della perdita e non uno statuto di esistenza. Non possiamo non pensare al freudiano gioco del rocchetto, mirabile, perché il bambino che desidera ardentemente la madre assente, attraverso un oggetto qualunque ma che sostituisce la madre attraverso la parola e il movimento, entra in relazione con l’assenza e costruisce da e grazie a questa relazione una struttura psichica che è portante per l’essere umano, che nasce prematuro e alienato a se stesso. Abbiamo scelto il termine “negativo” perché gravido di questa relazione con l’assenza. Nel “nostro” disegno del “negativo”, ciò che era visibile diventa il buco, la forma tolta, e lascia uno spazio vuoto che ha però ben delineato il confine. Se l’oggetto per eccellenza è sempre la madre, al suo posto lasciato vuoto si sostituisce la possibilità che quel vuoto lasci trasparire la realtà sottostante, lasci parlare ciò che prima la presenza della madre rendeva muto e invisibile. Qual è il senso di questa operazione? Per noi occidentali ha importanza la forma, ciò che occupa uno spazio, il pieno. L’occhio non è proprio abituato a vedere il disegno del vuoto, dell’aria che circola tra un corpo e l’altro. Per “albero” intendiamo la forma dell’albero, non la forma del vuoto disegnato dai confini dell’albero con un altro albero o con i buchi che sono dentro l’albero che hanno forme e porzioni di cielo. Su questo problema si può leggere il bel libro di Hans Balting, I canoni dello sguardo. Il tema è descrivere culture diverse attraverso uno scambio di sguardi. Emerge così che l’occidente ha fondato la propria civiltà sul primato dell’occhio e sulla sovranità del soggetto osservatore, cioè sulla prospettiva, mentre la civiltà araba ha privilegiato la luce e il gioco dell’assenza di immagini. Nell’esperienza cui ci riferiamo abbiamo intrecciato “negativo” e “transgenerazionale”. Di quest’ultimo noi facciamo esperienza limitatamente, quando si è particolarmente fortunati fino ai bis-nonni. Il resto degli antenati, che sono una folla, è assenza pura: assenza di fotografie, assenza di notizie, assenza di memorie, eppure la nostra presenza è testimonianza certa della loro esistenza. L’immagine di J.Ensor, “Il mio ritratto con le maschere” (1899)5, forzandone il senso e prendendolo in prestito, può dare l’idea di quante “forme” negate ci sono dietro la forma del nostro volto. “ Ogni singolo è partecipe di molte anime collettive, di quella della sua razza, di quella del suo cèto, di quella della sua comunità religiosa, di quella della sua nazione ecc e, al di sopra di queste, può sollevarsi fino ad un minimo di autonomia e di originalità” (Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io, Boringhieri vol.IX). Avremmo potuto chiamare anche “sogno manifesto e sogno latente” questa operazione del secondo ricalco, per il suo riferimento alla forma della non forma, alla forma del vuoto, dell’assenza, del silenzio, ma il termine “il negativo” ci è parso più pregnante. Esso ci rimanda al saggio geniale su “La negazione” di Freud e, attraverso questo, a quella linea di storia del pensiero che si è costruita proprio su quel nucleo di pensabilità cui intendiamo fare riferimento, sulla consapevolezza cioè che capovolgere l’affermazione nella negazione significa liberarla dai limiti di una logica formale, affidandola alla libertà della contraddizione. È la via che da Hegel ci porta ad autori come Kojève e Bataille e, per quanto riguarda la nostra area di competenza,al Green de “Il lavoro del negativo”, pubblicato in Italia da Borla. Utilizziamo molto il lavoro del ricalco nella formazione dei terapeuti, perché abitua lo sguardo a vedere nell’immagine disegnata l’immagine negata. Tutto questo filone di pensiero relegato nell’irrazionalità, nell’impossibile, rende omaggio alle schiere degli antenati senza volto e senza forma di cui però, spesso, rimangono i nomi che si tramandano di padre in figlio. Ed è proprio ai nomi, alla nominazione che è affidata allora la memoria e il legame con l’Antenato. Citiamo, come esempio, il 5 Immagine n.5. Ensor, Il mio ritratto con le maschere caso –siamo in un convegno, nel momento dello psicodramma analiticodi un ragazzo che ha il nome del nonno paterno e che, mentre sta firmando un documento davanti al padre, scopre che la grafia della propria firma è la stessa di quella del nonno, morto da tanto tempo: praticamente indistinguibile. C’è un momento di sorpresa e di emozione per lo strano modo in cui l’identificazione salta una generazione e, attraverso il nome e il cognome, lega il maschile non solo anagraficamente, ma nella firma, luogo del simbolo per eccellenza, che fa della persona una storia condensata che va dal tempo dei tempi (è ciò che intendiamo per eternità?), attraversando spazi per gran parte ignoti: firma come marchio che testimonia la nascita, attraverso la dichiarazione dell’altro. La firma che testimonia sia la nascita sia la morte è sempre delegata all’Altro. Perché si arrivi alla propria firma occorre attraversare i territori che dall’identificazione portano all’identità. Chiudiamo questa parentesi e torniamo ancora, per comprendere meglio questo momento del “negativo”, alla nostra protagonista. Nel suo “secondo” disegno6, A.R. ricompone l’unità dei tre personaggi; le due donne, la figlia e la madre, qui si identificano dai capelli, mentre nel disegno precedente, il ricalco, erano in netto contrasto. Che cosa è successo? A.R. dà come titolo: “La famiglia”. Il conflitto, forse l’odio per i personaggi “fatti fuori”, si è trasferito ai bordi della scena. Madre, feto e figlia sono contenuti da una sorta di totem fatto di linee spezzate, di quel colore bilioso che caratterizzava, nel primo disegno, l’albero genealogico. Confine mai eguale a se stesso, linee verticali, orizzontali, diagonali, passaggi in cui l’arte astratta riconosce una grammatica dell’interiorità. Kandinsky, ad esempio, scrive: “una linea poliangolare può dunque constare di parti svariatissime, dalle più semplici ad altre 6 Immagine 6, La famiglia, “negativo” sempre più complesse.” E più avanti: “ la linea spezzata dev’essere considerata dunque come un elemento intermedio tra la retta e la curva: nascita-giovinezza-maturità”. E ancora: “ l’arte astratta che ha riconosciuto i suoi diritti e i suoi doveri, non si fonda più sull’involucro esterno dei fenomeni naturali.”(Kandinsky, Tutti gli scritti) Nel nostro disegno, sono scomparsi i nonni e il padre. Il negativo si fa linguaggio creativo, il vuoto del ricalco va letto come passaggio al tempo del futuro, dove non c’è più la linea retta ascendente che va dall’erede a colui che è causa dell’eredità. Le infinite direzioni assunte, gli infiniti angoli del contenitore, creano un nuovo paesaggio senza legami con il passato, senza la logica del discorso, ma aperto all’esterno attraverso linee ritmiche seriali, fatte di colori e direzioni diversi. Lo sguardo ha operato qui attraverso uno scarto, sia nel senso che ha scartato ciò di cui non ha bisogno, sia nel senso che è alla ricerca degli scarti di cui si nutre l’inconscio, sia nel senso che dallo scarto di una parte dell’immagine è nata una nuova immagine, come nel gioco della settimana enigmistica. Giochi, quelli dell’immagine, di cui parleremo, che derivano dal campo del preconscio ma che sono il serbatoio dell’inconscio. “ Nel nostro rapporto con le cose così come si è costituito attraverso la via della visione e ordinato nelle figure della rappresentazione, qualcosa scivola, passa, si trasmette di piano in piano, per esservi sempre eluso in qualche grado- ecco ciò che si chiama lo sguardo” (Lacan, Seminari, libro XI). Torniamo alla scarto come schisi, esitamento, fenditura dell’occhio Il senso dell’operazione del ricalcare Marion Milner, in “Non poter dipingere”, mentre racconta che “ le riproduzioni di alcuni disegni sono state realizzate ricalcando gli originali, (aggiunge) che questo sarebbe stato inaccettabile se si fosse trattato di opere d’arte, in quanto il processo di ricalco avrebbe cancellato quei dettagli delle linee dai quali dipende la vitalità di un disegno. Ma questi disegni (parla dei suoi disegni) non vengono presentati come opere d’arte: sono proposti per illustrare la graduale scoperta sia dei modi in cui il percorso creativo viene liberato, sia del contenuto delle idee inconsce che interferiscono con tale libertà”. La nostra proposta di ricalco, oltre che offrire uno strumento di indagine dell’inconscio, ha ancora un senso diverso. L’opera d’arte viene presa come pre-testo per indagare quel testo-immagine che sta all’origine dello stile di lettura del soggetto, diventa una specie di test proiettivo che permette ad ognuno, attraverso l’identificazione, di esprimere il contenuto inconscio su quel tema, molto simile alla proposta di gioco nello psicodramma, quando viene chiesto ai soggetti del gruppo di prestare il loro corpo e la loro psiche per rappresentare il vissuto dell’io narrante. Su questo tema ormai abbiamo un’esperienza pluriennale, avendo utilizzato il ricalco di diverse opere d’arte: Michelangelo, Caravaggio, Botticelli, anche di sculture come il Mosé di Michelangelo o la S.Teresa del Bernini. La riproduzione è scelta in base al contenuto da esplorare. In questo caso, desiderando approfondire come il transgenerazionale si manifesti e si rappresenti in ogni soggetto, abbiamo scelto l’opera di Frida Kahlo. Dunque l’esplorazione avviene attraverso le immagini accompagnate dalle parole. In alcuni casi la fotocopia viene manipolata; ad esempio, la riproduzione de “I miei nonni, i miei genitori ed io” in un gruppo è stata consegnata con i volti “sbanchettati”, per permettere a ognuno di utilizzare i volti come fotografie dei propri nonni, genitori… In realtà ci siamo resi conto che quest’operazione non serve, perché il passaggio sul piano soggettivo, inconscio, avviene comunque. Torniamo al racconto dell’esperienza, dando uno sguardo al percorso di un’altra partecipante al gruppo, R. Leggiamo quanto scrive sul “percorso dell’occhio”7. “La prima cosa i volti senza volto. Nitido il feto nel ventre della “dama bianca” maestosa presenza appena ammorbidita da quella mano poggiata sulle spalle di un marito/figlio. Mi sono soffermata sulla mano con l’indice che non può fare a meno di puntare-IndicareGiudicare. Regina e rea, gioco al massacro, gioco antico di andare avanti rimanendo fermi. Difficile staccare gli occhi da quel feto, cordone ombelicale che finisce in un fiocco. Un fiocco rosa per una bimba con il sesso segnato, alla destra del padre e non sul cuore. La casa confinante e senza tetto, difficile trovare riparo mentre il compito arduo è quello di tenere/tirare le fila delle generazioni. Orecchie tese, busti senza braccia. I fiori sul capo della madre e l’orecchino destro della nonna, vezzi di familiarità contrita. Il cravattino del padre e il fiocco della madre, gola e pancia impediti, eccolo il nesso. La barba forse incolta del nonno paterno, la riga in mezzo e i capelli crespi della nonna paterna. Sullo sfondo eppure ben presenti il nonno materno, quasi “normale”. Intorno meduse, cactus, esseri strani. Eppure dai piedi della bimba crescono fiori.” La scrittura mantiene la mobilità dello sguardo e trova l’unico nesso tra la gola del padre, luogo della parola, e la pancia della madre, luogo delle emozioni generative, entrambe impedite. 7 Immagine 7. Legàmi, , “ricalco” Quando andiamo a vedere il percorso della mano, troviamo che tutta la scena è fatta di pezzi, si è trasformata da figurativa in astratta, ed è come se R. avesse scelto per ogni personaggio la parte per il tutto: per i nonni materni un orecchio; fatte fuori le teste con il collo, rimangono le spalle. Per i nonni materni nemmeno l’orecchio, solo spalle per lei e colletto con cravattino per lui. Della madre è rimasto il fiore e il cordone ombelicale, la mano giudicante. Del padre entrambe le orecchie e il papillon. Della bambina, il volto, l’ombelico, il sesso, l’albero, il nodo del fiocco che lega le generazioni. Dell’ambiente è rimasto il perimetro della casa, l’impollinazione, la cellula fecondata, mentre a destra ci sono quattro fiori e la casetta. Il suo nome non è messo né all’inizio né alla fine, ma va a fare parte della scena. Bene in evidenza e a stampatello il titolo: legàmi. In realtà tutti questi oggetti raccontano una storia, dove l’unica cosa riconoscibile è la mano. Si racconta una storia fatta di tagli e di dispersione, una storia senza inizio e senza fine dove i personaggi fatti a pezzi perdono l’unità del legame. È l’odio, altra faccia dell’amore? È l’unico modo per slegarsi? Il passaggio dal ricalco al negativo8 mostra come la psiche nel concepire il pieno, concepisce in realtà il vuoto, e viceversa. Ci sono solo due vie d’uscita rispetto alla negatività per la frustrazione dovuta all’assenza della soddisfazione attesa dalla bambina da parte della madre: elaborarla o evacuarla. La nostra R., riempie tutto il vuoto facendo galleggiare gli oggetti, si rende conto di aver negato la consistenza ai soggetti che hanno scritto la sua storia. Il rischio del processo avvenuto è la scomparsa dell’Io stesso, un’auto-amputazione che si traduce in una non rappresentabilità. L’identificazione con una madre che esprime insoddisfazione verso la bambina, che diventa solo oggetto di possesso, 8 Immagine 8. La lunga strada verso casa, “negativo” aggrava la sofferenza perché è una presenza per se stessa , ma un’assenza per la bambina. Come è evidente dall’immagine del negativo, viene ribadita la frammentazione, ma gli oggetti misteriosi assumono la consistenza delle superfici. Il titolo è: “la lunga strada verso casa”; c’è solo una casetta in fondo in fondo, in attesa che la donna, trovata la sua identità, possa restituire ai pezzi, piccoli e autonomi oggetti lillipuziani, la propria creatività in cammino verso la libertà. Nel passaggio allo psicodramma si svela di che cosa l’inconscio parla. R. è la regista del gioco e rimane a guardare la scena. Chiama, per rappresentare se stessa, una donna che sente sola, come madre una donna “che ha molti segreti”, come padre uno psichiatra che chiude gli occhi, come nonno materno una donna dagli occhi dolci e smarriti, come nonna materna una donna scelta per i colori indossati. Come nonno paterno sceglie un uomo che sente dolce, tenero; altrettanto fa per la nonna materna. La sorpresa viene quando sceglie una donna “grigia e bianca” a rappresentare il cordone ombelicale. R. è al centro. Ha alla sua sinistra quattro donne: il cordone apre la serie, poi viene “lei”, la madre ripiegata sopra il cordone, la nonna materna. Alla sua destra ci sono il padre e il nonno. Perché fare del cordone ombelicale una donna grigia e bianca? Il cordone è la prima figura, situata verso l’esterno. Ancora una volta sembra che è essenziale non tanto il legame con il passato (il legàmi del titolo), ma soprattutto con il futuro. R. ha una figlia cui forse allude nella scelta di una donna a rappresentazione del cordone ombelicale. Il legàmi del titolo può, con uno spostamento dell’accento, divernire lègami: rivolto a chi? A quei pezzi sparpagliati? Che cos’è lo psicodramma analitico? Abbiamo introdotto lo psicodramma analitico in sequenza con l’immagine, come è avvenuto nell’esperienza, ma non l’abbiamo ancora presentato. Se il genealogico introduce il corpo nella storia psichica del soggetto, lo psicodramma analitico lo mette in gioco attraverso una rappresentazione. Al di là della narrazione dell’evento , è il corpo a farsi rappresentante del destino del soggetto e della prospettiva che questi tenta di prendere nella sua storia. Rappresentazione che partecipa della costruzione nel senso freudiano del termine: la messa in gioco da parte del soggetto che, nel corso della seduta, produce una prospettiva altra. Nello psicodramma, così come è stato messo a punto da G.e P.Lémoine, l’accento è posto sull’azione rappresentativa del gioco e del corpo “La partecipazione del corpo alla recitazione nello psicodramma – scrivono i due autori - occupa il posto dell’elaborazione dell’Es in psicoanalisi”, in quanto il gioco costringe gli investimenti pulsionali a legarsi in una scena storicizzabile e figurabile. Più precisamente, la scena psicodrammatica offre uno spazio di figurazione a ciò che del corpo pulsionale stagna nella ripetizione: parlare, in forma di gioco, sospende, per alcuni attimi, il tragitto quotidiano e prevedibile del pensiero, per inoltrarsi nell’imprevedibile del corpo. Il soggetto è chiamato a rappresentare il suo racconto al centro di un cerchio, sotto lo sguardo di altri. Quel vuoto che caratterizza il disegno del negativo nell’esperienza del ricalco, nello psicodramma assume il posto vuoto al centro della scena, spazio di un inesauribile dizionario di corpi e gesti, luogo dove rintracciare una geografia di gesti e volti scomparsi. Il corpo nell’atto della drammatizzazione diventa il punto sul quale si incrociano gli sguardi frantumando l’immagine nei molti significanti che ogni partecipante investe sul corpo dell’altro: lo sguardo, l’altezza, un’espressione, un movimento, tutto può prestarsi ad un gioco di proiezioni in cui ognuno vive l’altro per quella parte di sé che momentaneamente gli ha prestato. Non è lo stesso gioco che abbiamo visto nel ricalco dell’immagine? E’ proprio operando una tale frammentazione che ognuno mette in gioco il proprio fantasma rendendosi disponibile ad evocare, nell’immagine dell’altro, quanto di un rapporto più antico era andato perduto. Scrive M. Jousse, ne L’antropologia del gesto: “Le nostre parole sono incarnate profondamente nei nostri gesti tanto che per avere la parola dobbiamo fare il gesto” . Il gesto dice la forza della trasmissione, del travaso di generazione in generazione, dice il trascorrere del tempo come richiamo al transito delle generazioni. Nel gruppo avviene una creazione di scena che nulla concede all’azione della coreografia teatrale ma attraverso leggerissime pressioni, declinazioni dovute alla durata del gesto tenuto e lasciato sospeso in spostamenti apparentemente marginali, si fa azione parlante. Il corpo è fonte inesauribile di figure immerse nella densità del tempo che la trasmissione del gesto, nello psicodramma, declina in tutta la sua concreta evidenza. Nello psicodramma analitico si rappresentano scene della vita reale e sogni, non possono essere rappresentate fantasie o costruzioni immaginarie. L’animatore invita a mettere in scena, a “ giocare”, il racconto di un sogno o di un episodio già vissuto. Il soggetto sceglie tra i partecipanti al gruppo gli ego ausiliari, investiti del suo desiderio inconscio, come abbiamo visto nel caso di R. e come vedremo nel caso di E.D. Nello svolgimento del gioco può avvenire un cambio di ruolo tra il paziente, regista della propria scena, e uno degli io ausiliari. Il cambiamento avviene non solo per immedesimarsi empaticamente nel posto dell’altro ma per vedere sé stesso da un’ altro punto di vista , cambiare prospettiva produce un’ altra posizione soggettiva. Dunque, Il funzionamento di una seduta implica: l’elaborazione di una scena; una rappresentazione che include i rappresentanti del soggetto; un lavoro conseguente sul discorso, quindi una logica significante e un Altro cui indirizzarsi. A differenza del teatro si potrebbe dire che nello psicodramma c’è de-lusione dello scenario immaginario che viene allestito. Si esce dal gioco, attraverso un “taglio” del discorso deciso dall’animatore, con qualcosa di meno, si sottrae godimento. L’immaginario cambia statuto, diventa qualcosa con cui il soggetto non può più identificarsi. Da un lavoro basato sull’ il–lusione (ingresso nel gioco in senso etimologico) si passa ad un lavoro di de-lusione (uscita dal gioco); da un’immagine idealizzata e perciò illusoria ad un’immagine castrata, deludente ma più vicina alla realtà. Perciò la seduta termina con la parola dell’osservatore che puntualizza i significanti emersi dal discorso della seduta lasciandoli aperti alla rielaborazione personale e alla seduta successiva. L’osservazione non si sofferma sulla ricostruzione delle scene avvenute e del loro significato ma, cogliendo la punteggiatura nascosta al soggetto, ne disegna l’orizzonte di leggibilità tracciato dall’inconscio. Lo psicodramma e il genogramma. Avendo proposto l’esperienza del ricalco del quadro di Frida Kahlo ai nostri colleghi di Terapia Familiare (tra i quali R., sul cui lavoro ci siamo soffermati), ne è venuta fuori una riflessione particolare: dare corpo e voce, far dialogare le generazioni, ha creato un nuovo metodo di indagine della psiche rispetto al transgenerazionale, metodo che intreccia il genogramma e lo psicodramma analitico, e che abbiamo chiamato genodramma psicoanalitico. Che possa essere inserito come nuovo oggetto tra gli “oggetti fluttuanti” descritti da Philippe Caillé e Yveline Rey nel libro dallo stesso titolo? Il genodramma psicoanalitico restituisce all’albero genealogico la possibilità di dar vita allo schema e ai nomi, riprendendo un dialogo rimasto muto nel tempo. Una giovane collega attraverso lo psicodramma ha messo in scena la famiglia, dopo aver fatto il ricalco del quadro di Frida9. Come l’aveva rappresentata nel ricalco? Come un quadro da appendere alla parete della memoria. Solo la cornice rossa con il suo spessore dichiara la vitalità, ma del presente; sempre il rosso fa parlare concepimento, feto, bambina. Alle bocche è lasciata la possibilità di essere parlata dai genitori. In secondo piano i nonni, circondati da una pioggia malinconica. Che cosa ne è del trans-generazionale? Lo vediamo nello psicodramma. Mette in scena scegliendo tre nonne e un nonno, e i suoi genitori; elimina la sorella maggiore; per la nonna amata sceglie due donne. La scelta degli io ausiliari nello psicodramma, come abbiamo detto, rappresenta la proiezione di parti di sé sull’altro, investito dal desiderio inconscio. È per questo che si richiedono sempre i motivi della scelta. In questo caso c’è il trionfo del femminile. Dagli appunti scritti da E. dopo l’esperienza: “Ho scelto Veronica per nonno Rolando perché è quello che conosco meno, morto quando avevo quattordici anni, e gli dico: la cosa più intima che ricordo è quando ballavamo insieme nelle feste di Natale. Ero l’unica nipote che non si rifiutava di ballare con te. Per nonna Luisa ho scelto Luisa (un’altra collega), alla quale è morta la nonna pochi giorni fa; Silvia per zia Onietta; Alessandra per mia madre, perché le era stato 9 Immagine 9. Nasce dal caos, “ricalco” detto dal suo ex: ‘non sarai mai una buona madre’. Paola per mio padre, ha perso il padre anni fa e dice: ‘ho un complesso edipico grande come una casa’. Giorgia e Silvia per la nonna paterna. Dopo aver disposto la scena nello spazio mi viene chiesto di guardare e parlare: ‘mia madre è molto vicina ai suoi perché non si è mai veramente separata da loro. Papà è staccato da lei. Li guardo e questa volta l’emozione non la controllo; inizio a piangere di fronte a tutta la mia famiglia, mi avvicino lentamente e mi fermo di fronte ad ognuno e aspetto” È molto emozionante la scena dello psicodramma. C’è un grande silenzio perché dopo aver messo in scena tutti i personaggi della sua famiglia, si ferma di fronte ad ognuno e con lentezza, come se le parole fossero oggetti, parla con loro. Alla nonna materna: “hai fatto un sacco di casino”. L’animatore doppia: e non ti ho ancora perdonata. Continua: eri troppo distante e non mi sono mai sentita al sicuro. A nonna Rosa che ho dovuto esprimere con due donne sistemate come Giano bifronte, una di spalle all’altra, dico: “dopo la tua morte ti ho sognata che davi alla luce un bambino, è questo che mi porto di te, il coraggio e la vita, fino alla fine”. A zia: “siamo state tanto tempo insieme ma quando sei morta eri sola e io non c’ero. Non c’ero perché non ho voluto, avrei potuto ma pensavo di avere ancora tempo come le altre volte. L’animatore doppia: ‘Non me lo posso perdonare, ma forse tu mi hai perdonato’,. Parlo con i miei genitori: mamma, tu avresti potuto insegnarmi a separarmi… Papà, tu avresti potuto insegnarmi a difendermi da sola… invece, ancora una volta, devo difendermi…da voi! Si può fare solo una descrizione sommaria della scena, senza vedere i corpi, i gesti, lo spazio e il tempo della rappresentazione? Riprendiamo allora gli appunti di E.: “non ho scelto nemmeno un uomo per fare mio padre…perché COME LUI NON C’E’ NESSUNO. Rispetto a Giano Bifronte (la nonna paterna) ha trovato un modo geniale per tenere insieme passato e futuro. “Come lui non c’è nessuno”. Ci troviamo in un universo femminile che uccide il maschile e con questo la possibilità di trasmissione. Chi genera? Lui non c’è. Alcune considerazioni finali Mi sembra che raramente si possa parlare di generazioni che vadano oltre i nonni. È molto se si riesce ad esplorare il legame esistente tra i sei personaggi che presenziano al momento del concepimento (bel colpo per Pirandello, che riduce a sei il numero dei personaggi in cerca di autore!). Per questo è prezioso l’uso del quadro di Frida Kahlo, che gioca con il tempo e dà la possibilità, nel proiettare le proprie fantasie, di togliere o aggiungere. Già Ferenczi nel 1913 aveva potuto parlare del “complesso del nonno”, rifacendosi ai lavori di Abraham e di Jones, per evidenziare la doppia via che può prendere la relazione con il nonno paterno: un’autorità, una saggezza a cui il padre stesso è sottomesso e che il bambino può usare contro il padre, eleggendo il nonno a Ideale dell’Io; o il nonno malato, vecchio, vicino alla morte, che viene tenuto ai margini della famiglia -e allora si può desiderarne la morte, per regalare al padre sua madre, in modo che il bambino possa avere la propria tutta per sé. È Freud nel 1908, nel caso clinico del piccolo Hans, ad osservare: “tutto finisce bene. Il piccolo Edipo ha trovato una soluzione più felice di quella prescritta dal destino. Invece di togliere il padre di mezzo, gli accorda la stessa felicità che ambisce per sé: lo nomina nonno e fa sposare anche a lui la sua madre” I nostri “ricalchi” spesso permettono al soggetto di regredire fino ad immaginare il proprio concepimento, scena che senza uno stimolo visivo che possa autorizzare a farlo (è come tornare sul luogo del delitto!), è l’impossibile ad essere pensato. Non è un caso che molti, nel fare il ricalco, non abbiano proprio “visto” la scena della fecondazione Il lavoro che abbiamo esposto mostra come si possano ricavare spunti teorici sul trangenerazionale direttamente dall’esperienza, a partire da ciò che lo sguardo scrive con la libertà che abbiamo quando partiamo da un’immagine non nostra, di cui non abbiamo la responsabilità, e che proprio per questo spinge ad una nuova pensabilità. Ne vengono fuori, in modo quasi inaspettato, considerazioni interessanti sulle nuove generazioni, sui nostri giovani allievi che non hanno ancora figli e che sono situati tra i nonni e i genitori. Pensiamo anche alla fatica psichica di una paziente nell’elaborare l’odio profondo verso il nonno che aveva abusato di lei. Non è andata al suo funerale, dichiarando, a tutti coloro che non avevano voluto vedere, l’uccisione del legame di cui era stata vittima, ma quasi contemporaneamente è rimasta incinta! Torniamo alle nostre esperienze, drammatiche, ma non fino a questo punto. Notiamo che la maggior parte di questi ragazzi ha passato l’infanzia con i nonni, il che ha comportato nella psiche uno spostamento. Se, come Freud ci ha insegnato, è universale la fantasia di essere figli adottivi, i giovani di queste generazioni sentono di essere figli dei nonni, ricordando i pianti fatti quando i genitori venivano a riprenderli. Ricordiamo il sogno di E.D., in cui la nonna partorisce un bambino: si realizza il fantasma di essere figlia del proprio padre e della madre di suo padre, facendo fuori la madre e la madre di sua madre, alle quali viene imputato di non essersi mai separate. Ancora,l ciò che emerge dai “ricalchi” è che spesso le ragazze –e su questo occorrerebbe riflettere - non si sentono eredi di nessuno. Devono ammettere la presenza della madre che le ha partorite, ma essendo identificate l’una con l’altra, la figlia con la madre, si trovano dinanzi ad una legge divenuta materna. Il fantasma, latente, è quello dell’autogenerazione, presente in tanti miti dell’antichità e che oggi sembra sopravvivere nell’uccisione del maschile e del Nome del Padre. Sembra che le nuove generazioni non abbiano legami con quelle passate. Vogliono rinegoziare il contratto narcisistico che assegna al passato il posto dell’assenza, in una sorta di uccisione del cordone ombelicale, luogo simbolico della discendenza e della dipendenza, per fare di quella ferita del corpo a cui si allaccerà la nuova vita, il luogo della propria affermazione e della propria sicurezza.. La rottura dei processi di trasmissione con il tempo che ci precede e di cui, comunque la mettiamo, siamo eredi, costringe a introdurre nuovi pensieri nella concezione del tempo e dell’alterità. Così si esprime Kaes, nell’articolo “Il futuro in eredità”, pubblicato nel volume “Paura del futuro”: “ci spostiamo in una temporalità in cui coloro che ci hanno preceduto possono essere pensati da noi come soggetti davanti ad un avvenire e non solo come causa del nostro presente (…) Questa rivoluzione per il pensiero si scontra con un paradosso: si tratta di concepire allo stesso tempo il passato come il futuro di questo altro che mi precede, e il futuro come ciò che sarà diventato il passato per questo altro che io non sono e che mi succede e il cui futuro contribuisco a formare.” È proprio quello che ha espresso A.R. nei suoi ricalchi, nel momento in cui la madre si fa futuro nel feto che porta in grembo, con un passaggio al suo essere bambina del passato. È qui che c’è materia per pensare senza pregiudizi, con il desiderio di fare, della trasmissione, una creazione. L’esperienza ci ha messo in contatto con i disegni (più di un centinaio) fatti da colleghi di diverse scuole psicologiche e psicoanalitiche, di diversa età, sesso, provenienze, disegni accompagnati dalla scrittura, dalla lettura, dalla parola, dalla voce e dal corpo degli autori. Abbiamo usato una molteplicità di linguaggi, ciascuno con la propria struttura: la parola, la scrittura, il disegno manifesto e quello latente, lo psicodramma analitico, l’osservazione. Abbiamo così sollecitato la memoria e le emozioni stratificate, di modo che le “sopravvivenze del passato” potessero prendere forma. La gran parte del materiale prodotto non è riproducibile in un testo scritto, ma accompagna e rende di carne i disegni e le scritture. Alla ricerca di che cosa? Della presenza o, meglio, delle tracce lasciate nel soggetto dall’Altro che precede l’insediamento dell’Io; le tracce di un’eredità che disegna un’ombra sul concepimento e proietta il neonato nel futuro in maniera misteriosa ma con un ingombro. Che farne? Siamo dinanzi al mistero della trasmissione, di generazione in generazione, di un tempo senza tempo, di una memoria senza memoria, di una rappresentazione senza rappresentazione, che è il niente ma con uno statuto di esistenza. Paola Cecchetti Carmen Tagliaferri BIBLIOGRAFIA • D. Anzieu Il gruppo e l'inconscio Borla 1998 H.Balting, I canoni dello sguardo, Bollati Boringhieri, 2010 Caillé-Rey, Gli oggetti fluttuanti, Armando editore, 2005 S.Gaudé, De la Représentatio , Erès, 1998 A.Green, Il lavoro del negativo,Borla 1996 J.Guyotat, La struttura del legame di filiazione, in La filiazione problematica, Liguori 2002 M.Jousse, L’antropologia del gesto, Ed. Paoline 1979 R. 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