Le tradizioni popolari di Busachi

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Le tradizioni popolari di Busachi
Relazione del Prof. Salvatore Sini
Conservare uno stretto rapporto con il territorio in cui si è nati, mantenere
ben salde le proprie radici, anzi farle espandere ancor più in profondità, è
una dote importante per ognuno di noi ed è essenziale per poter cogliere il
significato profondo delle tradizioni popolari.
Nonostante i miei studi siano stati indirizzati sul versante storico, e
specificatamente sulla storia della Sardegna, mi hanno sempre interessato
gli approfondimenti riferiti alla lingua sarda e alle tradizioni popolari: non a
caso la mia prima fatica è intitolata “Flora del territorio di Busachi e sua
utilizzazione secondo la tradizione popolare”. Risale agli anni ’80 e
rappresenta l’avvio di un lavoro di ricerca che proseguirà nel tempo.
Ricordo la motivazione con cui mi venne assegnata una medaglia d’oro al
Circolo della Stampa di Milano, “quale esempio di ricerca etnobotanica di
un territorio ancora ricco di tradizioni degne di essere rivalutate”.
Il nostro territorio è veramente ricco di tradizioni di cui dobbiamo essere
fieri: bisogna attivarsi, perciò, affinché vengano conosciute e apprezzate.
Che Busachi e il Barigadu fossero luoghi di particolare interesse sotto il
profilo della conservazione di antiche tradizioni, si accorsero i numerosi
viaggiatori dell’Ottocento che approdarono in Sardegna assetati di
conoscere gli usi e i costumi di una terra arcaica e affascinante.
Da Gaston Vuillier a Valery, da Lawrence a Padre Bresciani, da Wagner ad
Alberto della Marmora, tutti arrivarono a Busachi e ciascuno colse un
aspetto particolare degli usi, dei costumi, delle tradizioni e delle credenze
di questa comunità paesana. Parlano soprattutto dei riti magici propiziatori
e di quegli esseri che popolano i giorni e le notti dell’immaginario
collettivo.
Tra i riti magici propiziatori possiamo ricordare “ su nennere”, il frumento
nei giochi festosi delle ragazze busachesi; l’olivo e i riti di Capodanno; il
verbasco e i suoi oracoli dati alle ragazze da marito, per la festa di San
Giovanni. Tra gli esseri legati all’immaginario collettivo ricordiamo:
“s’ammutadora” , “sa coga”, “ Maria Farranca” e “Maschinganna”.
“Su nennere” è un rito magico propiziatorio diffuso in molte località della
Sardegna: era praticato a Busachi fino agli anni ’50 del secolo scorso. Vi
partecipavano solo le ragazze: c’era una ragazza organizzatrice che con
l’aiuto delle amiche del vicinato provvedeva a preparare tutto per bene.
Circa due settimane prima del solstizio d’estate, seminava grano, orzo e
lino in un barattolo o in un vaso di terracotta e lo innaffiava spesso
tenendolo sotto il letto perché l’oscurità conferisse ai germogli il
caratteristico colore giallo. Quando “su nennere” era ben alto, cominciava
la cerimonia. Le ragazze mettevano sulla testa una corona fatta con fil di
ferro e carta di caramelle e cioccolatini; una impersonava “sa Madallena”
lasciando fluenti i capelli e adornandoli con un lungo fiocco colorato,
un’altra impersonava San Giovanni e portava un’alta croce greca fatta di
canne e decorata con larghi fiocchi pendenti. La ragazza organizzatrice
portava in testa “su nennere”e, seguita da un lungo corteo, procedeva verso
“su Pont’e sas Nughese”. Tutte cantavano:
“ A su nennere meu
a chedd’iscruccurare
a su Pont’e sas Nughese
su para Fra Mereu
a su nennere meu…”
Arrivati al ponte lo si buttava giù tra le grida dei presenti; meste le ragazze
tornavano a casa cantando:
“ Nennere meu coro
nontesta crocca sollu,
ca non ch’è s’ammorau
nennere iscruccurau…”
A casa si teneva l’invito e una festa con canti e balli. E’ ormai accettato
dagli studiosi che il rito è il residuo delle feste che un tempo si svolgevano
presso i Greci e i Romani in onore di Adone; il primo giorno il Dio veniva
pianto per la sua morte, poi si festeggiava la sua resurrezione. Come il Dio,
i cereali nascono e vengono recisi al momento della raccolta per poi
rinascere nell’annata agraria successiva.
In Siria al rito erano preposte le vergini tra i 10 e i 12 anni.
Forse per questo al gioco festoso partecipavano solo le ragazze.
Successivamente
il
Cristianesimo
aggiunse
nuovi
personaggi
(la
Maddalena e San Giovanni), e nuovi simboli ( la croce greca, testimonianza
che da noi la prima cristianizzazione fu di tipo bizantino).
Nei riti di Capodanno celebrati a Busachi rivestivano particolare
importanza l’ulivo e “sa tunda”.
L’ulivo è pianta tipica dei paesi del Mediterraneo ed aveva carattere
augurale già presso gli antichi Romani. “ Sa tunda” è un grosso pane
bianco di forma rotonda preparato per Capodanno e decorato con elementi
del mondo agricolo: la spiga, il grano, il giogo dei buoi guidati dal
contadino. L’ulivo era benedetto da tre Marie, a casa delle quali i bambini
portavano i ramoscelli. Serviva per chiedere “sos candelladorese”, i doni di
Capodanno, quali pane bianco, mandorle, fichi secchi, castagne, pere e
dolci. Serviva anche per “bettare sos ispososo” vicino al focolare e fare i
pronostici sui futuri sposi del vicinato. La notte di Capodanno il contadino
tagliava a fette “ sa tunda”: la prima fetta spettava ai buoi, la seconda
veniva immersa nell’olio conservato per la provvista, mentre le altre fette
venivano messe da parte per i bambini che sarebbero passati per chiedere
“sos candelladorese”.
I buoi, mangiata la fetta di pane, dialogavano con il contadino,
chiedendogli che cosa avesse preparato per cena la padrona di casa. Se
aveva preparato “fregulla”, l’annata successiva sarebbe stata ricca di messi;
se aveva preparato carne, l’annata avrebbe riservato una grave moria di
bestiame. Per questo a Busachi nella notte di Capodanno si cenava con un
piatto di “fregulla” che per forma richiama il chicco di grano e
rappresentava il buon augurio.
Siamo chiaramente di fronte ad una società agropastorale
arcaica che sente l’esigenza di propiziarsi le forze della natura con riti di
buon auspicio per la successiva annata agraria. Le ragazze busachesi in età
da marito si rivolgevano a “sa trivodda”, il verbasco, per trarre auspici
sull’occupazione e sulla condizione sociale dell’uomo che le avrebbe
chieste in spose. Il pomeriggio del vespro di San Giovanni andavano in
gruppo in campagna, ciascuna in cerca del suo verbascooracolo. Trovatolo,
tagliavano le foglie basali, le disponevano per terra e scuotendo la pianta,
vi facevano cadere sopra i fiori. Ricoprivano poi il tutto con altre foglie
della stessa pianta. L’indomani mattina ritornavano sul posto e trepidanti
rimuovevano le foglie, in cerca degli animaletti che vi avevano trovato
riparo e cibo costituito dai fiori di verbasco. Se c’era la formica avrebbero
avuto per marito “ su massaiu”, l’agricoltore, se c’era “sa mariolla”, la
coccinella, avrebbero avuto per marito un ricco signore. Così ciascuna
riceveva il desiderato responso. Subito dopo bagnavano le mani “in s’abba
e sa cannaupre” nell’acqua raccolta nelle foglie a rosetta del cardo dei
lanaioli, e le passavano ripetutamente sul viso per rendere la pelle più liscia
e morbida.
Portavano a casa un bel mazzo di “ brundajolla”, il galium verum, il caglio
o presuola, e la bollivano con maggiorana e menta per lavare i capelli
nell’acqua di cottura. Si sarebbero rese belle per andar ai balli in piazza,
nella speranza d’incontrare l’uomo annunciato dagli oracoli del verbasco.
“S’ammutadora” è una strega che riesce ad entrare nelle case quando le
persone dormono: si getta su di esse comprimendole all’altezza del petto (
ddas carrigada), fino a togliere il fiato, immobilizzandole a lungo finchè
non si svegliano di soprassalto.
Richiama un po’ la Trud tirolese e ladina, una strega che entra nelle case
dal buco della serratura e si getta sulle persone che si sono coricate supine,
addormentandosi senza farsi il segno della croce; essa si siede sul petto fino
a togliere il respiro. L’incubo finisce quando la persona, svegliandosi,
riesce a farsi il segno della croce.
“Sa coga” richiama un po’ “s’ammutadora”, ma presenta peculiarità tutte
sue: è un essere al femminile e prende l’aspetto di persone conosciute,
riesce ad entrare nelle case senza farsi vedere o dal comignolo o dal buco
della serratura molestando le persone che dormono, soprattutto le puerpere,
e succhiando il sangue ai loro bambini. Opprime anche gli adulti
immobilizzandoli e lasciando segni evidenti di morsi e lividi nelle diverse
parti del corpo. Questo essere dell’immaginario collettivo locale richiama
la Làmia mitologica greca e romana. Làmia era una donna bellissima che
governava in Lidia nell’Asia Minore. Zeus se ne invaghì ed ebbe da lei dei
figli. Era, la moglie di Zeus, gelosa, uccise tutti i figli di Làmia che, per il
dolore, divenne una maschera da incubo: invidiosa dei figli delle altre
madri, andava di notte a succhiare il sangue dei bambini fino a farli morire.
Aveva la capacità di cambiare aspetto ed era molto difficile individuarla. Si
unì poi ad Empusa, un’altra vampira, e insieme sotto l’aspetto di belle
fanciulle giacevano con uomini, succhiando le loro forze vitali mentre
erano nel sonno.
“Maria Farranca” era un essere malefico al femminile che abitava dentro i
pozzi; con la sua poderosa mano ad artiglio ghermiva i pargoli che si
affacciavano incuriositi, trascinandoli a fondo e facendoli annegare.
Mancano precisi riscontri con esseri similari abitatori delle acque. Le ninfe
dei fiumi e delle fonti dell’antichità classica, erano delle belle fanciulle e
non avevano niente di malefico. La dea madre del periodo nuragico, alla
quale erano consacrati i pozzi sacri, era benefica dispensatrice d’acqua per
il genere umano. Probabilmente la fantasia popolare del luogo ha creato
“Maria Farranca” per incutere paura nei bambini e scongiurare il pericolo
che essi potessero cadere dentro i pozzi.
“Maschinganna” è un essere al maschile creato dalla fantasia popolare e
legato al mondo pastorale in particolare. A Busachi presenta caratteristiche
riferite all’asino: il segno distintivo è rappresentato da “ sos pe’ de
mollente”, gli zoccoli dell’asino.
E’ orribile nel suo aspetto disumanizzato: è il mito dell’uomo bestia,
dell’uomo che, a furia di stare lontano dai suoi simili a governare le bestie,
è diventato bestia egli stesso, e segno palese di questa trasformazione sono,
appunto, gli zoccoli d’asino.
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