PP Familiarmente.qxd:_ 14/03/12 11:04 Page 1 FAMILIARMENTE Le qualità dei legami familiari PP Familiarmente.qxd:_ 14/03/12 11:04 Page 2 PP Familiarmente.qxd:_ 14/03/12 11:04 Page 3 CENTRO DI ATENEO STUDI E RICERCHE SULLA FAMIGLIA UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE FAMILIARMENTE Le qualità dei legami familiari VITA E PENSIERO PP Familiarmente.qxd:_ 14/03/12 11:04 Page 4 www.vitaepensiero.it Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. 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La famiglia, «prima società umana» Quando tratta della famiglia e della sua rilevanza sociale, il magistero ecclesiale sottolinea – variamente ma costantemente – un punto, che non sempre riceve la dovuta considerazione e dal quale vorremmo perciò prendere le mosse per le riflessioni che seguono: la famiglia, in quanto «comunità di persone», è essa stessa una «società», un «noi»; anzi, è «la prima società umana», è la più elementare e più basilare delle molteplici formazioni sociali, in cui si esprime la naturale socievolezza dell’uomo (Compendio della dottrina sociale della Chiesa, p. 213). Nella famiglia, infatti, l’uomo nasce e cresce; nella famiglia – scrive Giovanni Paolo II – «riceve le prime e determinanti nozioni intorno alla verità e al bene, apprende che cosa vuol dire amare ed essere amati e, quindi, che cosa vuol dire in concreto essere una persona» (Centesimus annus, 39)1. Così – osserva ancora Giovanni Paolo II – «la famiglia contribuisce in modo unico ed insostituibile al bene della società», nel momento stesso in cui si rivela essenziale al bene della persona; non riconoscerne la centralità, relegandola «ad un ruolo subalterno e secondario, escludendola dalla posizione che le spetta nella società, significa recare un grave danno all’autentica crescita dell’intero corpo sociale» (Lettera alle famiglie, 17). «Senza famiglie forti nella comunione e sta1 Per i documenti del magistero ecclesiale, specie per i più recenti, si faccia riferimento al sito http://www.vatican.va. Fra le raccolte a stampa, si vedano: I documenti sociali della Chiesa. Da Leone XIII a Giovanni Paolo II, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1991; Matrimonio e famiglia nel magistero della Chiesa. I documenti dal Concilio di Firenze a Giovanni Paolo II, a cura di P. Barberi e D. Tettamanzi, Massimo, Milano 1986. 91 bili nell’impegno, i popoli si indeboliscono. Nella famiglia vengono inculcati fin dai primi anni di vita i valori morali, si trasmette il patrimonio spirituale della comunità religiosa e quello culturale della Nazione. In essa si fa l’apprendistato delle responsabilità sociali e della solidarietà» (Compendio della dottrina sociale della Chiesa, p. 213). Occorre allora che la società e lo Stato riconoscano la priorità della famiglia su ogni altra formazione sociale e la sua antecedenza rispetto alla città stessa, alla comunità politica, secondo il duplice dinamismo del non ledere, del non intralciare o del non soppiantare la famiglia nel libero adempimento dei suoi irrinunciabili e molteplici compiti (generativi, educativi, di cura, di apporto al vivere economico, sociale, politico), e del portare aiuto, del supportare la famiglia senza sostituirvisi, così che essa possa «diventare ciò che è» e che quel suo primato, quel ruolo di «protagonista della vita sociale» che le è proprio, non resti lettera morta, ma diventi realtà effettuale. Occorre – ammonisce Giovanni Paolo II – che «la società non venga mai meno nel suo fondamentale compito di rispettare e di promuovere la famiglia» e che «le leggi e le istituzioni dello Stato non solo non offendano, ma sostengano e difendano positivamente i diritti e i doveri della famiglia» (Familiaris consortio, 45 e 44). Come ben si vede, siamo di fronte a fondamentali indicazioni che la dottrina sociale della Chiesa propone a credenti e non credenti, a «tutti coloro – dice Benedetto XVI – che si preoccupano seriamente dell’uomo e del suo mondo» (Deus caritas est, 27). Ma è indubbio che esse riguardino in modo del tutto particolare i pubblici poteri e quanti sono investiti di responsabilità politico-istituzionali, ma anche gli studiosi e i cultori delle scienze sociali e politiche. Ci si può dunque chiedere – come si cercherà di fare in questo contributo – quale riscontro e quale consonanza quelle indicazioni trovino nella cultura politica diffusa come presso le teorie e le pratiche politiche emergenti del nostro tempo. Al riguardo, si potrebbe sommariamente osservare che la situazione sembra oggi migliore di quella di qualche decennio fa, che vi è certamente una maggiore disponibilità a riconoscere il valore della famiglia e l’insostituibilità del 92 suo apporto alla vita sociale. Si è infatti largamente eclissata l’ideologia di ascendenza marx-engelsiana, che nella famiglia tendeva a vedere soltanto uno dei puntelli tipici della società borghese moderna e delle sue ‘insanabili’ contraddizioni (in primo luogo di quelle econonomiche); il femminismo stesso sembra aprirsi – in alcune delle componenti non marginali del suo variegato universo – ad una considerazione meno unilateralmente negativa dei legami familiari e della soggettività sociale della famiglia. Ma se certi atteggiamenti dichiaratamente ostili sembrano ormai acqua passata, una sostanziale insensibilità nei riguardi della famiglia e delle sue sorti resta largamente diffusa, non solo tra i mass-media e i responsabili della cosa pubblica, ma anche tra i teorici della politica, e tende a contagiare lo stesso ‘senso comune’. Quest’ultimo appare peraltro ancora largamente improntato ad una visione ‘positiva’ della famiglia e ad una correlativa visione ‘sussidiaria’, e non dominativa, dei pubblici poteri e dei loro compiti in rapporto ad essa. Non a caso, del resto, si sottolinea oggi da più parti la necessità e l’urgenza di fare di più per la famiglia, di riconoscerne e di promuoverne con adeguati sostegni l’innegabile funzione sociale, tanto più evidente ed accentuata in un tempo di crisi come il nostro. Ma ai proclami e alle dichiarazioni di disponibilità non riesce a far seguito un’iniziativa organica e coerente dei pubblici poteri nei riguardi della famiglia. Questa paradossale situazione può avere molte spiegazioni; ma è indubbio che essa dipenda anche da una ben determinata matrice teoretica, identificabile nell’ostilità, sorda il più delle volte, ma pervicace, che tanta parte della filosofia politica moderna ha nutrito nei riguardi dei ‘corpi intermedi’, delle molteplici forme associative collocabili tra l’individuo e lo Stato, e che alla lunga ha finito per coinvolgere la famiglia stessa, la prima e più fondamentale delle ‘società minori’. 2. L’avversione dei ‘moderni’ per i corpi intermedi Paradigmatica dell’avversione dei ‘moderni’ per le formazioni sociali intermedie resta l’immagine di cui si serve 93 Hobbes (Leviatano, cap. 29), quando paragona le associazioni di qualsiasi genere ad altrettanti «Stati minori nelle budella di uno maggiore, simili a vermi negli intestini di un uomo naturale»: se non adeguatamente combattute, esse finirebbero per minarne irreparabilmente la salute. E analoghe valutazioni – anche se formulate in un linguaggio meno virulento – si incontrano in Spinoza come in Rousseau. Del resto, se si sfuoca la persuasione ‘aristotelica’ della naturale socievolezza dell’uomo, o se la si rilegge hegelianamente, postulando che lo ‘spirito’ sia destinato a oggettivarsi pienamente soltanto nello ‘Stato’, ‘realtà dell’idea etica’, superando le sue parziali e provvisorie concrezioni (la ‘famiglia’, appunto, e la ‘società civile’), non restano che l’individuo irrelato, per un verso, e lo Stato in cui si accentrano tutti i poteri, per l’altro. Se le diverse forme dell’associarsi umano – dalla famiglia al villaggio, alle più variegate formazioni sociali, fino alla città – non sono più riguardate come espressioni della sociabilità inscritta nella natura stessa dell’uomo, e dunque come possibili vie al compimento dell’umano; se l’altro individuo è per me solo un pericolo e non una risorsa, un’occasione di crescita, allora non mi resta che garantirmi contro tale minaccia, contribuendo a dar vita a quella costruzione artificiale, che è lo Stato (si pensi ancora a Hobbes, ma anche alla machine politique di Rousseau), al quale verrà devoluto ogni potere purché tenga a freno, contenendola entro limiti accettabili, l’insuperabile ostilità che sarebbe il contrassegno delle relazioni umane. Nello «spazio vuoto» che si apre tra gli individui e lo Stato, tra «un sovrano che mira sempre più all’onnipotenza e al monopolio del potere e del pubblico» e «un individuo sempre più solo e disarmato, ridotto alla sfera privata» (Matteucci, 1997, p. 86), «ogni altra forma di associazione, ivi compresa la chiesa, per non parlare delle corporazioni o dei partiti o della stessa famiglia, delle società parziali, cessa dall’aver qualsiasi valore […]. Tra gli individui e lo Stato non vi è posto per enti intermedi» (Bobbio, 1979, p. 112). Questa moderna demonizzazione dei corpi intermedi si è poi certamente attenuata, a partire dalle svolte verso il costituzionalismo liberale maturate nel Settecento e poi 94 consolidatesi nel corso del secolo seguente. Si deve in effetti riconoscere che proprio «fra il primo Settecento inglese e il primo Ottocento francese, l’Europa ha […] scoperto ed elaborato una struttura politico-sociale costituzionale suscettibile di svilupparsi e di trasformarsi in democrazia rappresentativa» (Bariè, 1981, p. 32). Era stata così raccolta l’eredità di pensatori come Locke, che già nel corso del Seicento aveva sostenuto la necessità di riconoscere nei diritti naturali dell’uomo (vita, libertà e proprietà, soprattutto) il limite invalicabile del potere dello Stato, o come Montesquieu, che in pieno Illuminismo aveva concepito la sua ben nota dottrina della separazione dei poteri proprio in chiave antiassolutista. E tuttavia, pur senza sottovalutare la portata della svolta che dalla monarchia assoluta ha condotto allo Stato costituzionale, si deve riconoscere con Tocqueville che sul piano istituzionale ben poco è mutato nel passaggio dall’antico al nuovo regime; anzi, i tratti essenziali dello Stato moderno sono stati ulteriormente perfezionati e rafforzati, in corrispondenza con il carattere tecnico assunto dal governo e dall’amministrazione. Di qui la ferrea determinazione dei rivoluzionari francesi a non riconoscere come legittima nessuna forma di società che non fosse disponibile a ricevere dallo Stato non solo le concrete norme regolatrici della propria vita interna, ma il diritto stesso ad esistere. Si aggiunga che anche sul piano teorico, accanto o all’interno degli sviluppi stessi del costituzionalismo liberale, si assiste ancora nell’Ottocento – in particolare con Hegel, pur fautore della monarchia costituzionale – alla celebrazione dello Stato come «il razionale in sé e per sé», cui fa riscontro l’affermazione che «l’individuo stesso ha oggettività, verità ed eticità soltanto in quanto è un membro del medesimo» (Lineamenti di filosofia del diritto, par. 258). Il marxismo stesso si servirà della distinzione hegeliana fra ‘società civile’ e ‘Stato’, ma per capovolgere il rapporto gerarchico che Hegel aveva stabilito fra i due ambiti: la supremazia non è assegnata più allo Stato, ma alla società civile e in essa all’economia, che ne costituirebbe la ‘struttura’ portante («l’anatomia», dice Marx); sono invece rele95 gati nella sfera delle ‘sovrastrutture’ tanto lo Stato quanto la famiglia, che occulterebbero, rafforzandole, le storture del modello economico e sociale del capitalismo. La prospettiva politica che viene delineata dai fondatori del marxismo è non a caso quella della ‘estinzione dello Stato’, e in certo modo della famiglia stessa, destinati a crollare sotto il peso delle contraddizioni che lacererebbero il soggiacente tessuto dell’economia capitalistico-borghese. Paradossalmente, tuttavia, pur vaticinando la fine dello Stato e delle sovrastrutture consimili, anche il marxismo finisce per portare acqua al mulino del più ferreo statalismo con la dottrina della ‘dittatura del proletariato’, che, per quanto teorizzata come espediente transitorio, finirà per essere praticata dai regimi politici del ‘socialismo reale’ come loro contrassegno permanente. Pur con tutte le cautele suggerite dalle precedenti considerazioni, non può essere comunque in alcun modo sottovalutata la novità rappresentata dall’avvento del costituzionalismo moderno. Se il principio secondo il quale il potere politico deve essere limitato, deve sottostare agli imperativi propri della legge divina e/o della legge naturale, era già stato ampiamente formulato in età medievale, si deve invece attribuire al costituzionalismo moderno la scoperta e la concreta messa in opera dei mezzi – in primo luogo di una Costituzione scritta – con i quali garantire la limitazione dell’autorità politica. All’esigenza di circoscrivere la sfera di competenza dei pubblici poteri, fatta valere dal costituzionalismo liberale, si vennero intrecciando le istanze partecipative sollevate dal pensiero democratico. Si disse – da parte dei fautori delle moderne teorie politiche democratiche – che i cittadini avrebbero potuto obbedire di buon grado solo a governanti che essi stessi avessero scelto e a decisioni assunte a maggioranza da questi ultimi. La libertà dei singoli – intesa sia in chiave liberale di libertà da (da ingerenze indebite dello Stato), sia in chiave democratica di libertà di (di contare, di avere voce in capitolo nell’esercizio dell’autorità politica) – venne dunque assumendo un rilievo forse sconosciuto alle epoche storiche precedenti; ma si trattò appunto della libertà e della volontà 96 dei singoli, più che di quella delle famiglie o delle associazioni, almeno se si considera ciò che accadde in ambito continentale (in ambito anglosassone, e segnatamente nel caso americano, la libertà di associazione e la valorizzazione delle esperienze associative da parte dei pubblici poteri furono indubbiamente più ampie ed estese, come il già citato Tocqueville ebbe a riconoscere con sorpresa, incontrando la giovane realtà degli Stati Uniti d’America). Nell’Europa continentale l’impianto del moderno Stato costituzionale – del costituzionalismo liberale ottocentesco come delle democrazie liberali che gli sarebbero succedute – continuò ad essere pensato secondo quella propensione a polarizzare l’intera vita sociale attorno allo Stato per un verso, e agli individui per l’altro, che già aveva caratterizzato – come si è visto – il corso del pensiero politico moderno. 3. La problematizzazione postmoderna dell’identità della famiglia Le vicende, che sinteticamente abbiamo evocato, quali ripercussioni hanno avuto sul modo di concepire la famiglia e il ruolo sociale della famiglia? Contrariamente a quel che si sarebbe forse potuto pensare, la parabola sopra delineata non ha condotto alla ‘morte della famiglia’, pur annunciata ed auspicata con gran rullo di tamburi, in una stagione non poi così lontana; piuttosto, ciò a cui sembra essere approdato il nostro tempo (che ama definirsi ‘postmoderno’, dando con ciò ad intendere di aver preso congedo dalle certezze più o meno granitiche della ‘modernità’) è ad una sostanziale trascuratezza della soggettività sociale della famiglia. Non si pretende più – come avevano fatto i ‘moderni’ – di far piazza pulita di tutto ciò che ‘sta in mezzo’ tra lo Stato e l’individuo; ma si fatica a riconoscere, non solo a parole ma nei fatti, che la famiglia sia risorsa imprescindibile, non solo per quanti ne fanno parte, ma per la società in quanto tale, per la ‘vita buona della città’. Con la sua enfatizzazione dell’individuo – pensato sostanzialmente come un fascio di interessi, o come un coacervo di emozioni – e con la correlativa enfatizzazione dello Stato 97 – che, almeno per un tempo non breve, è stato addirittura pensato come Stato-provvidenza, capace di assicurare all’individuo il benessere invocato (welfare state) –, la postmodernità ha finito per rivelarsi più come la prosecuzione della modernità che come l’effettiva presa di distanza da essa. Certo, la pretesa di confinare la famiglia nell’irrilevanza del privato è stata sostanzialmente accantonata; ma, pur riconoscendone il diritto di cittadinanza, l’appartenenza allo spazio pubblico, le si è riservata – e ancora si continua a riservarle – una considerazione tutto sommato marginale o residuale. Si è infatti favorito il diffondersi di modelli come quello della famiglia-rifugio, della famiglia monoparentale, dei singles; si è assolutizzata, anche in seno alla famiglia, la dimensione individualistica, emotivistica e utilitaristica del vivere; si è offuscata la consapevolezza che, al di là dell’interesse o del benessere dei singoli componenti del nucleo familiare, atomisticamente intesi, esista un bene più ricco e significativo, quello della comunità familiare in quanto tale, appunto, considerata sia come sorgente di vita buona per i suoi membri che nel suo insostituibile apporto al bene della società. Da ultimo, essendo comunque difficile mettere in dubbio il valore della famiglia per la crescita della persona e per il bene della società stessa, è emersa la tendenza – più che a negarne la rilevanza antropologica e sociale – a problematizzare l’identità stessa della famiglia. Facendo leva sulla rivendicazione di un preteso diritto assoluto di scelta dell’individuo, sempre più pronunciato nella società odierna, si è sostenuto che la famiglia come unione stabile di un uomo e di una donna, fondata su un patto pubblicamente sancito (matrimonio) e responsabilmente orientata alla generazione, sarebbe solo il prodotto di una specifica cultura e non andrebbe perciò assolutizzata; andrebbe invece fatto spazio alle forme più disparate di convivenza, fino a riconoscere – il che già avviene, come è noto, in diversi Paesi – le stesse unioni omosessuali come forme familiari legittime. Orientamenti culturali come quelli appena ricordati non valgono a contrastare le fragilità che nel nostro Occidente rendono sempre più precaria la relazione coniugale; essi 98 contribuiscono piuttosto ad accentuarle, come mostrano i dati relativi a separazioni e divorzi, e agli effetti di tali fenomeni sulle nuove generazioni. Alla radicale problematizzazione dell’identità stessa della famiglia concorrono poi altri fattori, come il persistente massiccio ricorso all’aborto e la crisi demografica, che per il nostro Paese ha assunto ormai i contorni di una vera e propria ‘emergenza’ nazionale, come rigorosamente documentato dal recente Rapporto, curato dal Comitato nazionale per il progetto culturale della CEI. Infine – è stato ben osservato – «la relazione con le nuove generazioni […] rischia di essere radicalmente sovvertita dalle forme invasive dell’ingegneria genetica e dalla procreazione assistita. Esse toccano il cuore stesso della generazione umana, snaturandola e rendendo in alcuni casi impossibile il ‘‘riconoscimento’’ personale del rapporto di filiazione» (Scabini, 2004, p. 51). 4. I contorni di un’alternativa possibile La persuasione che abbiamo cercato di esplicitare nel presente contributo è che la radicale messa in questione dell’identità stessa della famiglia, che si è venuta compiendo sotto i nostri occhi, sia dovuta anche alla vicenda teorica che è stata sopra delineata e che ha avuto il suo fulcro – lo si è visto – nell’avversione di una parte consistente della filosofia politica moderna per i corpi intermedi: avversione che ha preteso di sospingere la famiglia stessa – come ogni altra ‘società minore’ – al di fuori dello spazio pubblico. L’operazione non è pienamente riuscita: la soggettività sociale della famiglia è infatti cosa troppo imponente, perché la si possa cancellare. Non sono state però scalzate, anzi sembrano essersi addirittura rafforzate, con l’avvento della postmodernità, due delle premesse fondamentali che avevano governato il corso del pensiero politico moderno: l’enfasi posta sull’individuo e sul suo privato benessere, per un verso, e per altro verso l’insistenza sul primato dello Stato e sulla necessità di subordinare ad esso persone, famiglie, comunità. Così, se non si è potuta privatizzare del tutto 99 la famiglia, della quale anzi si torna oggi a riconoscere da più parti l’indispensabile apporto al vivere sociale, si è però pervenuti a quella radicale messa in questione dell’identità stessa della famiglia, cui si è fatto cenno sopra. Senza nulla togliere ad alcuni significativi percorsi della filosofia politica più recente, che sembrano propensi a riconsiderare positivamente l’ipotesi della centralità della famiglia per la vita sociale, e dunque a rivisitare in chiave radicalmente critica i paradigmi – moderni e postmoderni – dei quali si è detto, vorremmo tornare in conclusione alla dottrina sociale della Chiesa, dalla quale abbiamo preso le mosse. Essa infatti si è mostrata capace – sia pure per linee sintetiche – di una critica per molti versi penetrante della moderna nozione totalizzante dello Stato e delle ripercussioni di essa su singoli, famiglie e gruppi sociali; e si mostra oggi capace – con Benedetto XVI – di ricomprendere criticamente la problematizzazione postmoderna dell’identità della famiglia e di suggerire i termini di una possibile rifondazione delle relazioni tra la famiglia e la comunità politica. Già Leone XIII aveva infatti argomentato che «se l’uomo, se la famiglia, entrando a far parte della società civile, trovassero nello Stato non sostegno, ma ostacolo, non tutela, ma diminuzione dei propri diritti, la società sarebbe piuttosto da fuggire che da desiderare» (Rerum novarum, 10). In termini non dissimili, Benedetto XVI ha rilevato che «lo Stato che vuole provvedere a tutto, che assorbe tutto in sé, diventa in definitiva un’istanza burocratica che non può assicurare l’essenziale di cui l’uomo sofferente – ogni uomo – ha bisogno: l’amorevole dedizione personale». Ed ha ammonito: «non uno Stato che regoli e domini tutto è ciò che ci occorre, ma uno Stato che generosamente riconosca e sostenga, nella linea del principio di sussidiarietà, le iniziative che sorgono dalle diverse forze sociali e uniscono spontaneità e vicinanza agli uomini bisognosi di aiuto» (Deus caritas est, 28). «Bisognosa di aiuto» è oggi come mai la famiglia stessa, la cui identità si è fatta incerta per il prevalere nel nostro tempo postmoderno di «una cultura che tende a prescindere da chiari criteri morali» – ha detto papa Ratzinger, incontrando i giovani fidanzati. E ha proseguito: «nel disorientamento, ciascuno è 100 spinto a muoversi in maniera individuale e autonoma, spesso nel solo perimetro del presente. La frammentazione del tessuto comunitario si riflette in un relativismo che intacca i valori essenziali; la consonanza di sensazioni, di stati d’animo e di emozioni sembra più importante della condivisione di un progetto di vita. Anche le scelte di fondo allora diventano fragili, esposte ad una perenne revocabilità, che spesso viene ritenuta espressione di libertà, mentre ne segnala piuttosto la carenza» (Incontro con i giovani fidanzati, Ancona, 11 settembre 2011). Colpisce, in questo come in altri interventi recenti del Santo Padre, non solo la capacità di mettere a fuoco, in modo tanto semplice quanto perspicace, le molteplici radici di una cultura che tende a relativizzare radicalmente l’identità stessa della famiglia, ma anche la capacità di indicare i contorni di un’alternativa possibile, facendone – per così dire – pregustare il fascino. A testimonianza di ciò, si legga ancora il discorso ai fidanzati, sopra richiamato. L’ampiezza della citazione, con la quale concludiamo queste note, ci sembra giustificata proprio dalla necessità di restituire il più possibile nella sua interezza la prospettiva dischiusa dal Papa alla mente e al cuore dei suoi giovani interlocutori. «Cari amici, ogni amore umano è segno dell’Amore eterno che ci ha creati, e la cui grazia santifica la scelta di un uomo e di una donna di consegnarsi reciprocamente la vita nel matrimonio. […] Educatevi sin da ora alla libertà della fedeltà, che porta a custodirsi reciprocamente, fino a vivere l’uno per l’altro. Preparatevi a scegliere con convinzione il “per sempre” che connota l’amore: l’indissolubilità, prima che una condizione, è un dono che va desiderato, chiesto e vissuto, oltre ogni mutevole situazione umana. […] La fedeltà e la continuità del vostro volervi bene vi renderanno capaci anche di essere aperti alla vita, di essere genitori: la stabilità della vostra unione nel Sacramento del Matrimonio permetterà ai figli che Dio vorrà donarvi di crescere fiduciosi nella bontà della vita. Fedeltà, indissolubilità e trasmissione della vita sono i pilastri di ogni famiglia, vero bene comune, patrimonio prezioso per l’intera società. Fin d’ora, fondate su di essi il vostro cammino verso il matrimonio e testimoniatelo anche ai vostri coetanei. […] Siate 101 grati a quanti con impegno, competenza e responsabilità vi accompagnano nella formazione: sono segno dell’attenzione e della cura che la comunità cristiana vi riserva. Non siete soli: ricercate e accogliete per primi la compagnia della Chiesa». Riferimenti bibliografici Bariè O. (1981), Formazione e sviluppo dello Stato moderno nel mondo occidentale, in Aa.Vv., Stato e senso dello Stato oggi in Italia, Vita e Pensiero, Milano. Bobbio N. (1979), Il modello giusnaturalistico, in Bobbio N. - Bovero M., Società e Stato nella filosofia politica moderna, il Saggiatore, Milano. Fondazione per la Sussidiarietà (2007), Persona e Stato, «I Quaderni della Sussidiarietà», 3, Milano. Matteucci N. (1997), Lo Stato moderno. Lessico e percorsi, il Mulino, Bologna (II ed. ampliata). Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace (2004), Compendio della dottrina sociale della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano. Scabini E. (2004), Famiglia e matrimonio, in Università Cattolica del Sacro Cuore - Centro di ricerche per lo studio della dottrina sociale della Chiesa, Dizionario di dottrina sociale della Chiesa. Scienze sociali e Magistero, Vita e Pensiero, Milano. � 102