FAMILIARMENTE Le qualità dei legami familiari

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Le qualità dei legami familiari
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CENTRO DI ATENEO
STUDI E RICERCHE SULLA FAMIGLIA
UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE
FAMILIARMENTE
Le qualità
dei legami
familiari
VITA E PENSIERO
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evandro botto
La famiglia e la città:
fra culture politiche d’oggi
e dottrina sociale della Chiesa
1. La famiglia, «prima società umana»
Quando tratta della famiglia e della sua rilevanza sociale, il
magistero ecclesiale sottolinea – variamente ma costantemente – un punto, che non sempre riceve la dovuta considerazione e dal quale vorremmo perciò prendere le mosse per
le riflessioni che seguono: la famiglia, in quanto «comunità di persone», è essa stessa una «società», un «noi»; anzi, è
«la prima società umana», è la più elementare e più basilare
delle molteplici formazioni sociali, in cui si esprime la naturale socievolezza dell’uomo (Compendio della dottrina sociale della
Chiesa, p. 213). Nella famiglia, infatti, l’uomo nasce e cresce;
nella famiglia – scrive Giovanni Paolo II – «riceve le prime e
determinanti nozioni intorno alla verità e al bene, apprende
che cosa vuol dire amare ed essere amati e, quindi, che cosa
vuol dire in concreto essere una persona» (Centesimus annus,
39)1. Così – osserva ancora Giovanni Paolo II – «la famiglia
contribuisce in modo unico ed insostituibile al bene della
società», nel momento stesso in cui si rivela essenziale al bene
della persona; non riconoscerne la centralità, relegandola
«ad un ruolo subalterno e secondario, escludendola dalla
posizione che le spetta nella società, significa recare un grave
danno all’autentica crescita dell’intero corpo sociale» (Lettera
alle famiglie, 17). «Senza famiglie forti nella comunione e sta1
Per i documenti del magistero ecclesiale, specie per i più recenti, si faccia
riferimento al sito http://www.vatican.va. Fra le raccolte a stampa, si vedano: I
documenti sociali della Chiesa. Da Leone XIII a Giovanni Paolo II, Libreria Editrice
Vaticana, Città del Vaticano 1991; Matrimonio e famiglia nel magistero della Chiesa. I documenti dal Concilio di Firenze a Giovanni Paolo II, a cura di P. Barberi e D.
Tettamanzi, Massimo, Milano 1986.
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bili nell’impegno, i popoli si indeboliscono. Nella famiglia
vengono inculcati fin dai primi anni di vita i valori morali,
si trasmette il patrimonio spirituale della comunità religiosa
e quello culturale della Nazione. In essa si fa l’apprendistato delle responsabilità sociali e della solidarietà» (Compendio
della dottrina sociale della Chiesa, p. 213).
Occorre allora che la società e lo Stato riconoscano la
priorità della famiglia su ogni altra formazione sociale e
la sua antecedenza rispetto alla città stessa, alla comunità
politica, secondo il duplice dinamismo del non ledere, del
non intralciare o del non soppiantare la famiglia nel libero
adempimento dei suoi irrinunciabili e molteplici compiti
(generativi, educativi, di cura, di apporto al vivere economico, sociale, politico), e del portare aiuto, del supportare
la famiglia senza sostituirvisi, così che essa possa «diventare
ciò che è» e che quel suo primato, quel ruolo di «protagonista della vita sociale» che le è proprio, non resti lettera
morta, ma diventi realtà effettuale. Occorre – ammonisce
Giovanni Paolo II – che «la società non venga mai meno nel
suo fondamentale compito di rispettare e di promuovere la
famiglia» e che «le leggi e le istituzioni dello Stato non solo
non offendano, ma sostengano e difendano positivamente i
diritti e i doveri della famiglia» (Familiaris consortio, 45 e 44).
Come ben si vede, siamo di fronte a fondamentali indicazioni che la dottrina sociale della Chiesa propone a credenti
e non credenti, a «tutti coloro – dice Benedetto XVI – che si
preoccupano seriamente dell’uomo e del suo mondo» (Deus
caritas est, 27). Ma è indubbio che esse riguardino in modo
del tutto particolare i pubblici poteri e quanti sono investiti
di responsabilità politico-istituzionali, ma anche gli studiosi
e i cultori delle scienze sociali e politiche. Ci si può dunque
chiedere – come si cercherà di fare in questo contributo –
quale riscontro e quale consonanza quelle indicazioni trovino nella cultura politica diffusa come presso le teorie e le
pratiche politiche emergenti del nostro tempo.
Al riguardo, si potrebbe sommariamente osservare che
la situazione sembra oggi migliore di quella di qualche
decennio fa, che vi è certamente una maggiore disponibilità a riconoscere il valore della famiglia e l’insostituibilità del
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suo apporto alla vita sociale. Si è infatti largamente eclissata
l’ideologia di ascendenza marx-engelsiana, che nella famiglia tendeva a vedere soltanto uno dei puntelli tipici della
società borghese moderna e delle sue ‘insanabili’ contraddizioni (in primo luogo di quelle econonomiche); il femminismo stesso sembra aprirsi – in alcune delle componenti non
marginali del suo variegato universo – ad una considerazione
meno unilateralmente negativa dei legami familiari e della
soggettività sociale della famiglia. Ma se certi atteggiamenti
dichiaratamente ostili sembrano ormai acqua passata, una
sostanziale insensibilità nei riguardi della famiglia e delle
sue sorti resta largamente diffusa, non solo tra i mass-media
e i responsabili della cosa pubblica, ma anche tra i teorici
della politica, e tende a contagiare lo stesso ‘senso comune’.
Quest’ultimo appare peraltro ancora largamente improntato ad una visione ‘positiva’ della famiglia e ad una correlativa visione ‘sussidiaria’, e non dominativa, dei pubblici
poteri e dei loro compiti in rapporto ad essa. Non a caso, del
resto, si sottolinea oggi da più parti la necessità e l’urgenza
di fare di più per la famiglia, di riconoscerne e di promuoverne con adeguati sostegni l’innegabile funzione sociale,
tanto più evidente ed accentuata in un tempo di crisi come
il nostro. Ma ai proclami e alle dichiarazioni di disponibilità
non riesce a far seguito un’iniziativa organica e coerente dei
pubblici poteri nei riguardi della famiglia. Questa paradossale situazione può avere molte spiegazioni; ma è indubbio
che essa dipenda anche da una ben determinata matrice
teoretica, identificabile nell’ostilità, sorda il più delle volte,
ma pervicace, che tanta parte della filosofia politica moderna ha nutrito nei riguardi dei ‘corpi intermedi’, delle molteplici forme associative collocabili tra l’individuo e lo Stato, e
che alla lunga ha finito per coinvolgere la famiglia stessa, la
prima e più fondamentale delle ‘società minori’.
2. L’avversione dei ‘moderni’ per i corpi intermedi
Paradigmatica dell’avversione dei ‘moderni’ per le formazioni sociali intermedie resta l’immagine di cui si serve
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Hobbes (Leviatano, cap. 29), quando paragona le associazioni di qualsiasi genere ad altrettanti «Stati minori nelle
budella di uno maggiore, simili a vermi negli intestini di
un uomo naturale»: se non adeguatamente combattute, esse
finirebbero per minarne irreparabilmente la salute. E analoghe valutazioni – anche se formulate in un linguaggio meno
virulento – si incontrano in Spinoza come in Rousseau.
Del resto, se si sfuoca la persuasione ‘aristotelica’ della
naturale socievolezza dell’uomo, o se la si rilegge hegelianamente, postulando che lo ‘spirito’ sia destinato a oggettivarsi pienamente soltanto nello ‘Stato’, ‘realtà dell’idea
etica’, superando le sue parziali e provvisorie concrezioni
(la ‘famiglia’, appunto, e la ‘società civile’), non restano che
l’individuo irrelato, per un verso, e lo Stato in cui si accentrano tutti i poteri, per l’altro. Se le diverse forme dell’associarsi umano – dalla famiglia al villaggio, alle più variegate
formazioni sociali, fino alla città – non sono più riguardate
come espressioni della sociabilità inscritta nella natura stessa dell’uomo, e dunque come possibili vie al compimento
dell’umano; se l’altro individuo è per me solo un pericolo
e non una risorsa, un’occasione di crescita, allora non mi
resta che garantirmi contro tale minaccia, contribuendo a
dar vita a quella costruzione artificiale, che è lo Stato (si
pensi ancora a Hobbes, ma anche alla machine politique di
Rousseau), al quale verrà devoluto ogni potere purché tenga
a freno, contenendola entro limiti accettabili, l’insuperabile
ostilità che sarebbe il contrassegno delle relazioni umane.
Nello «spazio vuoto» che si apre tra gli individui e lo
Stato, tra «un sovrano che mira sempre più all’onnipotenza e al monopolio del potere e del pubblico» e «un individuo sempre più solo e disarmato, ridotto alla sfera privata»
(Matteucci, 1997, p. 86), «ogni altra forma di associazione,
ivi compresa la chiesa, per non parlare delle corporazioni o
dei partiti o della stessa famiglia, delle società parziali, cessa
dall’aver qualsiasi valore […]. Tra gli individui e lo Stato
non vi è posto per enti intermedi» (Bobbio, 1979, p. 112).
Questa moderna demonizzazione dei corpi intermedi
si è poi certamente attenuata, a partire dalle svolte verso
il costituzionalismo liberale maturate nel Settecento e poi
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consolidatesi nel corso del secolo seguente. Si deve in effetti riconoscere che proprio «fra il primo Settecento inglese
e il primo Ottocento francese, l’Europa ha […] scoperto
ed elaborato una struttura politico-sociale costituzionale
suscettibile di svilupparsi e di trasformarsi in democrazia
rappresentativa» (Bariè, 1981, p. 32). Era stata così raccolta l’eredità di pensatori come Locke, che già nel corso
del Seicento aveva sostenuto la necessità di riconoscere nei
diritti naturali dell’uomo (vita, libertà e proprietà, soprattutto) il limite invalicabile del potere dello Stato, o come
Montesquieu, che in pieno Illuminismo aveva concepito la
sua ben nota dottrina della separazione dei poteri proprio
in chiave antiassolutista.
E tuttavia, pur senza sottovalutare la portata della svolta
che dalla monarchia assoluta ha condotto allo Stato costituzionale, si deve riconoscere con Tocqueville che sul piano
istituzionale ben poco è mutato nel passaggio dall’antico al
nuovo regime; anzi, i tratti essenziali dello Stato moderno
sono stati ulteriormente perfezionati e rafforzati, in corrispondenza con il carattere tecnico assunto dal governo e
dall’amministrazione. Di qui la ferrea determinazione dei
rivoluzionari francesi a non riconoscere come legittima nessuna forma di società che non fosse disponibile a ricevere
dallo Stato non solo le concrete norme regolatrici della propria vita interna, ma il diritto stesso ad esistere. Si aggiunga
che anche sul piano teorico, accanto o all’interno degli sviluppi stessi del costituzionalismo liberale, si assiste ancora
nell’Ottocento – in particolare con Hegel, pur fautore della
monarchia costituzionale – alla celebrazione dello Stato
come «il razionale in sé e per sé», cui fa riscontro l’affermazione che «l’individuo stesso ha oggettività, verità ed eticità
soltanto in quanto è un membro del medesimo» (Lineamenti
di filosofia del diritto, par. 258).
Il marxismo stesso si servirà della distinzione hegeliana
fra ‘società civile’ e ‘Stato’, ma per capovolgere il rapporto gerarchico che Hegel aveva stabilito fra i due ambiti: la
supremazia non è assegnata più allo Stato, ma alla società
civile e in essa all’economia, che ne costituirebbe la ‘struttura’ portante («l’anatomia», dice Marx); sono invece rele95
gati nella sfera delle ‘sovrastrutture’ tanto lo Stato quanto la
famiglia, che occulterebbero, rafforzandole, le storture del
modello economico e sociale del capitalismo. La prospettiva
politica che viene delineata dai fondatori del marxismo è
non a caso quella della ‘estinzione dello Stato’, e in certo
modo della famiglia stessa, destinati a crollare sotto il peso
delle contraddizioni che lacererebbero il soggiacente tessuto dell’economia capitalistico-borghese. Paradossalmente,
tuttavia, pur vaticinando la fine dello Stato e delle sovrastrutture consimili, anche il marxismo finisce per portare
acqua al mulino del più ferreo statalismo con la dottrina
della ‘dittatura del proletariato’, che, per quanto teorizzata
come espediente transitorio, finirà per essere praticata dai
regimi politici del ‘socialismo reale’ come loro contrassegno
permanente.
Pur con tutte le cautele suggerite dalle precedenti considerazioni, non può essere comunque in alcun modo sottovalutata la novità rappresentata dall’avvento del costituzionalismo moderno. Se il principio secondo il quale il potere
politico deve essere limitato, deve sottostare agli imperativi
propri della legge divina e/o della legge naturale, era già
stato ampiamente formulato in età medievale, si deve invece attribuire al costituzionalismo moderno la scoperta e la
concreta messa in opera dei mezzi – in primo luogo di una
Costituzione scritta – con i quali garantire la limitazione
dell’autorità politica. All’esigenza di circoscrivere la sfera di
competenza dei pubblici poteri, fatta valere dal costituzionalismo liberale, si vennero intrecciando le istanze partecipative sollevate dal pensiero democratico. Si disse – da parte dei
fautori delle moderne teorie politiche democratiche – che
i cittadini avrebbero potuto obbedire di buon grado solo a
governanti che essi stessi avessero scelto e a decisioni assunte a maggioranza da questi ultimi.
La libertà dei singoli – intesa sia in chiave liberale di
libertà da (da ingerenze indebite dello Stato), sia in chiave
democratica di libertà di (di contare, di avere voce in capitolo nell’esercizio dell’autorità politica) – venne dunque
assumendo un rilievo forse sconosciuto alle epoche storiche
precedenti; ma si trattò appunto della libertà e della volontà
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dei singoli, più che di quella delle famiglie o delle associazioni, almeno se si considera ciò che accadde in ambito continentale (in ambito anglosassone, e segnatamente nel caso
americano, la libertà di associazione e la valorizzazione delle
esperienze associative da parte dei pubblici poteri furono
indubbiamente più ampie ed estese, come il già citato
Tocqueville ebbe a riconoscere con sorpresa, incontrando
la giovane realtà degli Stati Uniti d’America). Nell’Europa
continentale l’impianto del moderno Stato costituzionale – del costituzionalismo liberale ottocentesco come delle
democrazie liberali che gli sarebbero succedute – continuò
ad essere pensato secondo quella propensione a polarizzare
l’intera vita sociale attorno allo Stato per un verso, e agli
individui per l’altro, che già aveva caratterizzato – come si è
visto – il corso del pensiero politico moderno.
3. La problematizzazione postmoderna dell’identità della famiglia
Le vicende, che sinteticamente abbiamo evocato, quali
ripercussioni hanno avuto sul modo di concepire la famiglia
e il ruolo sociale della famiglia? Contrariamente a quel che
si sarebbe forse potuto pensare, la parabola sopra delineata
non ha condotto alla ‘morte della famiglia’, pur annunciata
ed auspicata con gran rullo di tamburi, in una stagione non
poi così lontana; piuttosto, ciò a cui sembra essere approdato il nostro tempo (che ama definirsi ‘postmoderno’, dando
con ciò ad intendere di aver preso congedo dalle certezze
più o meno granitiche della ‘modernità’) è ad una sostanziale trascuratezza della soggettività sociale della famiglia.
Non si pretende più – come avevano fatto i ‘moderni’ – di
far piazza pulita di tutto ciò che ‘sta in mezzo’ tra lo Stato e
l’individuo; ma si fatica a riconoscere, non solo a parole ma
nei fatti, che la famiglia sia risorsa imprescindibile, non solo
per quanti ne fanno parte, ma per la società in quanto tale,
per la ‘vita buona della città’.
Con la sua enfatizzazione dell’individuo – pensato sostanzialmente come un fascio di interessi, o come un coacervo
di emozioni – e con la correlativa enfatizzazione dello Stato
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– che, almeno per un tempo non breve, è stato addirittura
pensato come Stato-provvidenza, capace di assicurare all’individuo il benessere invocato (welfare state) –, la postmodernità ha finito per rivelarsi più come la prosecuzione della
modernità che come l’effettiva presa di distanza da essa.
Certo, la pretesa di confinare la famiglia nell’irrilevanza del
privato è stata sostanzialmente accantonata; ma, pur riconoscendone il diritto di cittadinanza, l’appartenenza allo
spazio pubblico, le si è riservata – e ancora si continua a
riservarle – una considerazione tutto sommato marginale o
residuale. Si è infatti favorito il diffondersi di modelli come
quello della famiglia-rifugio, della famiglia monoparentale,
dei singles; si è assolutizzata, anche in seno alla famiglia, la
dimensione individualistica, emotivistica e utilitaristica del
vivere; si è offuscata la consapevolezza che, al di là dell’interesse o del benessere dei singoli componenti del nucleo
familiare, atomisticamente intesi, esista un bene più ricco
e significativo, quello della comunità familiare in quanto
tale, appunto, considerata sia come sorgente di vita buona
per i suoi membri che nel suo insostituibile apporto al bene
della società.
Da ultimo, essendo comunque difficile mettere in dubbio il valore della famiglia per la crescita della persona e per
il bene della società stessa, è emersa la tendenza – più che
a negarne la rilevanza antropologica e sociale – a problematizzare l’identità stessa della famiglia. Facendo leva sulla
rivendicazione di un preteso diritto assoluto di scelta dell’individuo, sempre più pronunciato nella società odierna, si è
sostenuto che la famiglia come unione stabile di un uomo
e di una donna, fondata su un patto pubblicamente sancito
(matrimonio) e responsabilmente orientata alla generazione, sarebbe solo il prodotto di una specifica cultura e non
andrebbe perciò assolutizzata; andrebbe invece fatto spazio
alle forme più disparate di convivenza, fino a riconoscere –
il che già avviene, come è noto, in diversi Paesi – le stesse
unioni omosessuali come forme familiari legittime.
Orientamenti culturali come quelli appena ricordati non
valgono a contrastare le fragilità che nel nostro Occidente
rendono sempre più precaria la relazione coniugale; essi
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contribuiscono piuttosto ad accentuarle, come mostrano i
dati relativi a separazioni e divorzi, e agli effetti di tali fenomeni sulle nuove generazioni. Alla radicale problematizzazione dell’identità stessa della famiglia concorrono poi altri
fattori, come il persistente massiccio ricorso all’aborto e la
crisi demografica, che per il nostro Paese ha assunto ormai i
contorni di una vera e propria ‘emergenza’ nazionale, come
rigorosamente documentato dal recente Rapporto, curato
dal Comitato nazionale per il progetto culturale della CEI.
Infine – è stato ben osservato – «la relazione con le nuove
generazioni […] rischia di essere radicalmente sovvertita
dalle forme invasive dell’ingegneria genetica e dalla procreazione assistita. Esse toccano il cuore stesso della generazione umana, snaturandola e rendendo in alcuni casi
impossibile il ‘‘riconoscimento’’ personale del rapporto di
filiazione» (Scabini, 2004, p. 51).
4. I contorni di un’alternativa possibile
La persuasione che abbiamo cercato di esplicitare nel
presente contributo è che la radicale messa in questione
dell’identità stessa della famiglia, che si è venuta compiendo sotto i nostri occhi, sia dovuta anche alla vicenda teorica
che è stata sopra delineata e che ha avuto il suo fulcro –
lo si è visto – nell’avversione di una parte consistente della
filosofia politica moderna per i corpi intermedi: avversione che ha preteso di sospingere la famiglia stessa – come
ogni altra ‘società minore’ – al di fuori dello spazio pubblico. L’operazione non è pienamente riuscita: la soggettività sociale della famiglia è infatti cosa troppo imponente,
perché la si possa cancellare. Non sono state però scalzate,
anzi sembrano essersi addirittura rafforzate, con l’avvento
della postmodernità, due delle premesse fondamentali che
avevano governato il corso del pensiero politico moderno:
l’enfasi posta sull’individuo e sul suo privato benessere, per
un verso, e per altro verso l’insistenza sul primato dello
Stato e sulla necessità di subordinare ad esso persone, famiglie, comunità. Così, se non si è potuta privatizzare del tutto
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la famiglia, della quale anzi si torna oggi a riconoscere da
più parti l’indispensabile apporto al vivere sociale, si è però
pervenuti a quella radicale messa in questione dell’identità
stessa della famiglia, cui si è fatto cenno sopra.
Senza nulla togliere ad alcuni significativi percorsi della
filosofia politica più recente, che sembrano propensi a
riconsiderare positivamente l’ipotesi della centralità della
famiglia per la vita sociale, e dunque a rivisitare in chiave
radicalmente critica i paradigmi – moderni e postmoderni
– dei quali si è detto, vorremmo tornare in conclusione alla
dottrina sociale della Chiesa, dalla quale abbiamo preso le
mosse. Essa infatti si è mostrata capace – sia pure per linee
sintetiche – di una critica per molti versi penetrante della
moderna nozione totalizzante dello Stato e delle ripercussioni di essa su singoli, famiglie e gruppi sociali; e si mostra
oggi capace – con Benedetto XVI – di ricomprendere criticamente la problematizzazione postmoderna dell’identità
della famiglia e di suggerire i termini di una possibile rifondazione delle relazioni tra la famiglia e la comunità politica.
Già Leone XIII aveva infatti argomentato che «se l’uomo,
se la famiglia, entrando a far parte della società civile, trovassero nello Stato non sostegno, ma ostacolo, non tutela, ma
diminuzione dei propri diritti, la società sarebbe piuttosto da
fuggire che da desiderare» (Rerum novarum, 10). In termini
non dissimili, Benedetto XVI ha rilevato che «lo Stato che
vuole provvedere a tutto, che assorbe tutto in sé, diventa in
definitiva un’istanza burocratica che non può assicurare l’essenziale di cui l’uomo sofferente – ogni uomo – ha bisogno:
l’amorevole dedizione personale». Ed ha ammonito: «non
uno Stato che regoli e domini tutto è ciò che ci occorre, ma
uno Stato che generosamente riconosca e sostenga, nella linea
del principio di sussidiarietà, le iniziative che sorgono dalle
diverse forze sociali e uniscono spontaneità e vicinanza agli
uomini bisognosi di aiuto» (Deus caritas est, 28). «Bisognosa
di aiuto» è oggi come mai la famiglia stessa, la cui identità si
è fatta incerta per il prevalere nel nostro tempo postmoderno di «una cultura che tende a prescindere da chiari criteri morali» – ha detto papa Ratzinger, incontrando i giovani
fidanzati. E ha proseguito: «nel disorientamento, ciascuno è
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spinto a muoversi in maniera individuale e autonoma, spesso nel solo perimetro del presente. La frammentazione del
tessuto comunitario si riflette in un relativismo che intacca i
valori essenziali; la consonanza di sensazioni, di stati d’animo
e di emozioni sembra più importante della condivisione di
un progetto di vita. Anche le scelte di fondo allora diventano
fragili, esposte ad una perenne revocabilità, che spesso viene
ritenuta espressione di libertà, mentre ne segnala piuttosto la
carenza» (Incontro con i giovani fidanzati, Ancona, 11 settembre 2011).
Colpisce, in questo come in altri interventi recenti del
Santo Padre, non solo la capacità di mettere a fuoco, in modo
tanto semplice quanto perspicace, le molteplici radici di una
cultura che tende a relativizzare radicalmente l’identità stessa
della famiglia, ma anche la capacità di indicare i contorni di
un’alternativa possibile, facendone – per così dire – pregustare il fascino. A testimonianza di ciò, si legga ancora il discorso ai fidanzati, sopra richiamato. L’ampiezza della citazione,
con la quale concludiamo queste note, ci sembra giustificata
proprio dalla necessità di restituire il più possibile nella sua
interezza la prospettiva dischiusa dal Papa alla mente e al
cuore dei suoi giovani interlocutori. «Cari amici, ogni amore
umano è segno dell’Amore eterno che ci ha creati, e la cui
grazia santifica la scelta di un uomo e di una donna di consegnarsi reciprocamente la vita nel matrimonio. […] Educatevi
sin da ora alla libertà della fedeltà, che porta a custodirsi reciprocamente, fino a vivere l’uno per l’altro. Preparatevi a scegliere con convinzione il “per sempre” che connota l’amore:
l’indissolubilità, prima che una condizione, è un dono che
va desiderato, chiesto e vissuto, oltre ogni mutevole situazione umana. […] La fedeltà e la continuità del vostro volervi
bene vi renderanno capaci anche di essere aperti alla vita, di
essere genitori: la stabilità della vostra unione nel Sacramento
del Matrimonio permetterà ai figli che Dio vorrà donarvi di
crescere fiduciosi nella bontà della vita. Fedeltà, indissolubilità e trasmissione della vita sono i pilastri di ogni famiglia,
vero bene comune, patrimonio prezioso per l’intera società.
Fin d’ora, fondate su di essi il vostro cammino verso il matrimonio e testimoniatelo anche ai vostri coetanei. […] Siate
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grati a quanti con impegno, competenza e responsabilità vi
accompagnano nella formazione: sono segno dell’attenzione
e della cura che la comunità cristiana vi riserva. Non siete soli:
ricercate e accogliete per primi la compagnia della Chiesa».
Riferimenti bibliografici
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occidentale, in Aa.Vv., Stato e senso dello Stato oggi in Italia, Vita e
Pensiero, Milano.
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Matteucci N. (1997), Lo Stato moderno. Lessico e percorsi, il Mulino,
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Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace (2004),
Compendio della dottrina sociale della Chiesa, Libreria Editrice
Vaticana, Città del Vaticano.
Scabini E. (2004), Famiglia e matrimonio, in Università Cattolica
del Sacro Cuore - Centro di ricerche per lo studio della dottrina sociale della Chiesa, Dizionario di dottrina sociale della Chiesa.
Scienze sociali e Magistero, Vita e Pensiero, Milano.
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