SCIENZA E TECNOLOGIA 066 STC 05 E Originale: inglese Assemblea Parlamentare della NATO CAMBIAMENTI CLIMATICI NELL’ARTICO: LE SFIDE PER LA COMUNITÀ DELL’ATLANTICO SETTENTRIONALE BOZZA DI RELAZIONE SPECIALE PIERRE CLAUDE NOLIN (CANADA) RELATORE SPECIALE* Segretariato internazionale * 26 aprile 2005 Il presente documento, fino a quando non sarà stato approvato dalla Commissione scienza e tecnologia, è da ritenersi indicativo unicamente delle opinioni personali del relatore. [Enter REFERENCE] E 2 I documenti dell’Assemblea sono disponibili sul relativo sito Internet: http://www.nato-pa.int 066 STC 05 E i SOMMARIO I. INTRODUZIONE........................................................................................................1 II. FATTORI DI RISCHIO PER LA STABILITÀ GEOPOLITICA MONDIALE..................2 III. CAMBIAMENTO CLIMATICO: UNA MINACCIA A LUNGO TERMINE?....................3 IV. CAMBIAMENTI CLIMATICI E RISCALDAMENTO DELL’ARTICO ............................5 V. L’INTENSIFICAZIONE DEL RISCALDAMENTO DELL’ARTICO NEL XXI SECOLO.9 VI. CAMBIAMENTI CLIMATICI IMPROVVISI: IL RALLENTAMENTO DELLA CIRCOLAZIONE OCEANICA NELLA REGIONE DELL’ATLANTICO SETTENTRIONALE ................................................................................................12 VII. CONCLUSIONI: LA NECESSITÀ DI COMPRENDERE MEGLIO LE SFIDE ALLA SICUREZZA DELLA NATO DETERMINATE DAI CAMBIAMENTI CLIMATICI IMPROVVISI ...........................................................................................................16 066 STC 05 E I. 1 INTRODUZIONE 1. Oggi, quando si parla di sicurezza, lo si fa mediante un lessico molto diverso rispetto a quello utilizzato nel periodo della Guerra Fredda. Non si parla più di contenimento, certa distruzione reciproca, rivalità tra superpotenze, interessi dei blocchi. Questi erano i concetti che servivano ad organizzare e descrivere un’epoca assolutamente diversa da quella in cui ci troviamo a vivere ora. 2. Anche se più stabile, l’epoca trascorsa era però più pericolosa; pericolosa poiché uno scontro nucleare tra le superpotenze avrebbe potuto provocare devastazioni a livello mondiale, con effetti addirittura permanenti. Più stabile, perché caratterizzata da un quadro strategico più ordinato; ognuno sapeva da che parte stava e gli stati vassalli erano tenuti sotto controllo dai rispettivi protettori. 3. Il quadro strategico dei nostri giorni è meno pericoloso ma molto più instabile. Le realtà che oggi ci sconvolgono sono i c.d failed states1, il terrorismo internazionale, i conflitti tribali, i bambini soldato, il traffico di esseri umani e le organizzazioni criminali transnazionali. Le sfide che minacciano la nostra sicurezza e il nostro benessere sono molteplici e si ricollegano al celebre aforisma di Nietzsche secondo cui “[…] nei singoli la follia è una rarità, ma nei gruppi, nei partiti, nei popoli e nelle epoche è la regola.” 4. Nell’affrontare queste sfide, abbiamo adottato un linguaggio improntato a concetti più ampi e sottili rispetto a quanto non fosse possibile in passato. Oggi si parla di sicurezza umana, potenziamento delle capacità, inviolabilità dell’individuo, multilateralismo e responsabilizzazione delle autorità statali. 5. Non è più accettabile il concetto secondo cui la ricerca di un’effettiva sicurezza per gli esseri umani, in quanto individui, porti necessariamente a sovvertire le fondamenta della società internazionale. L’intervento nella condotta degli Stati al fine di tutelare i singoli individui viene ormai accolto come un principio consolidato delle relazioni internazionali. In realtà, il genocidio perpetrato 10 anni fa in Ruanda ci ha insegnato che esso talvolta può divenire un obbligo. Queste posizioni richiedono molto più delle riflessioni di qualche intellettuale disincantato o di qualche ingenuo nirvanista. Sono tentativi per venire a patti con una realtà che non comprendiamo pienamente e in cui non ci sentiamo del tutto a nostro agio. Ciò di cui siamo certi è che oggi la “sicurezza” passa attraverso il confronto con forme di dominio e di insicurezza che sono state a lungo ignorate o sacrificate sull’altare della realpolitik. 6. La supremazia dello Stato nel pensiero strategico ha permesso che si scavasse un divario tra il significato del termine sicurezza riferito agli individui e allo Stato. Affinché la sicurezza abbia un senso a livello internazionale, essa deve aver senso al livello primario del singolo essere umano. Pertanto, nel cercare di comprendere la complessità delle minacce alla sicurezza, occorre ricercare i dati non soltanto nelle visioni o nella storia di statisti e diplomatici; occorre tener conto altresì delle esperienze di coloro che l’attuale ordine mondiale ha reso insicuri. Pur continuando a ribadire l’importanza degli aiuti internazionali, oggi si accetta altresì il fatto che il principio della sovranità dello Stato possa essere infranto al fine di salvare coloro che sono divenuti vittime dello “Stato” e dei suoi agenti. La sicurezza dell’essere umano è, prima di tutto, “sicurezza fisica”, e cioè la sicurezza primaria dell’individuo. Senza tale sicurezza, gli aiuti internazionali non sono che poca cosa sulla strada verso l’infinita disperazione. 7. Il linguaggio della realpolitik sta lentamente lasciando il posto ai più sfumati principi umanitari del soft power e della sicurezza umana. Questo nuovo lessico ci ha consentito di ampliare gli orizzonti e di porre sul tappeto temi connessi alla sicurezza un tempo relegati ad un piano 1 Ossia quegli Stati segnati da disgregazioni interne e da vuoto di potere, non più in grado di provvedere al benessere dei propri cittadini (NdT). 066 STC 05 E 2 secondario se non addirittura irrilevante. È, in parte, a causa di questo ripensamento che possiamo seriamente valutare le implicazioni del degrado ambientale per la nostra “sicurezza comune” a lungo termine. 8. Sebbene i nostri orizzonti intellettuali si stiano ampliando, vale la pena ricordare che quelle che oggi chiamiamo minacce non convenzionali alla sicurezza sono sempre esistite. Le malattie, la criminalità, la povertà, la malnutrizione, il terrorismo, il degrado ambientale e così via, non sono nuove realtà. Fanno parte da tempo della condizione umana. Il fatto che finora non si siano affrontate in maniera adeguata è dovuto in gran parte alla pochezza delle teorie adottate in passato e alla incapacità di affrontare le realtà della politica mondiale. Sconcertante per alcuni, il contesto successivo alla guerra fredda, con le sue questioni irrisolte e gli innumerevoli problemi, offre comunque speranze di nuove prospettive. Ciò di cui abbiamo bisogno per ottenere risultati positivi sono le giuste costruzioni intellettuali che ci consentano di districarci nel nuovo labirinto e la volontà politica di raccogliere ed affrontare le sfide che si presentano. 9. Crescita demografica, flussi migratori, scarsità delle risorse e degrado ambientale si ritiene abbiano una duplice implicazione in termini di sicurezza. Possono avere effetti diretti sulla sicurezza, come nel caso di un incidente nucleare, oppure possono essere all’origine di mutamenti sociali negativi in grado, a loro volta, di minare la sicurezza. Un recente esempio potrebbe essere la decisione assunta dal governo degli Stati Uniti di considerare l’AIDS una minaccia per la sicurezza. Quel che è più importante è la natura transnazionale e mondiale di questi problemi. In molti casi, non possono essere affrontati in modo efficace da singoli Stati di propria iniziativa; la loro gestione richiede una cooperazione a livello internazionale. Alcune problematiche, come l’AIDS, rappresentano dei rischi immediati, mentre altre possono diventarlo nel lungo termine. II. FATTORI DI RISCHIO PER LA STABILITÀ GEOPOLITICA MONDIALE 10. Il World Watch Institute, nella sua relazione annuale State of the World 2005: Trends and Facts, cita i seguenti fattori di rischio tra quelli che stanno assumendo un’importanza crescente: • • • • Risorse naturali: sono causa di numerosi conflitti. Le risorse non rinnovabili come il petrolio e i minerali alimentano antagonismi geopolitici, scontri con le comunità indigene, e talvolta finanziano le guerre civili. Vi sono poi i conflitti che scoppiano intorno a risorse naturali rinnovabili come l’acqua, le terre coltivabili e le foreste. Gli effetti del collasso ambientale vanno spesso ad acuire le disparità sociali ed economiche o scavano ancora di più le divisioni etniche e politiche. Scarsità delle risorse alimentari: la scarsità di risorse alimentari è all’intersezione tra povertà, disponibilità di risorse idriche, distribuzione della terra e degrado ambientale. Circa 1,4 miliardi di persone, per la maggior parte nei paesi in via di sviluppo, sono alle prese con la fragilità ambientale che si manifesta sotto forma di terre aride e marginali, cattiva qualità dei terreni e scarsità delle terre. Malattie: Gli effetti delle malattie possono, in certi casi, risultare così gravi da minare l’economia di un paese e minacciarne la stabilità sociale. Le malattie infettive ed altre patologie superano i confini nazionali con sempre maggiore facilità. E l’AIDS danneggia a tutti i livelli le società che ne sono afflitte, indebolendo le generali capacità di ripresa dello Stato oltre che la sua capacità di governare e soddisfare i bisogni fondamentali della popolazione. Disoccupazione, prospettive economiche incerte e rapida crescita demografica: si tratta di una miscela potenzialmente esplosiva. La disoccupazione giovanile sta crescendo a livelli record. E quando sono tanti i giovani frustrati nella ricerca di uno status e della mera sussistenza, possono trasformarsi in una forza destabilizzante, se la loro insoddisfazione li porta a darsi alla criminalità o ad affiliarsi a gruppi di miliziani o di estremisti. 066 STC 05 E 3 11. L’ultimo fattore di rischio segnalato dal World Watch Institute è la distruzione dell’ecosistema, principale tema oggetto del presente documento. Questa ed altre azioni dell’uomo stanno aprendo la strada a disastri naturali sempre più frequenti e devastanti. Secondo molti osservatori, ciò avviene ad un ritmo via via più rapido poiché il cambiamento climatico dà luogo a fenomeni meteorologici sempre più estremi sotto forma di tempeste, alluvioni, ondate di caldo e siccità. Ciò potrebbe avere come conseguenza l’aumento del numero dei profughi ambientali. III. CAMBIAMENTO CLIMATICO: UNA MINACCIA A LUNGO TERMINE? 12. In questi ultimi anni, numerosi studi scientifici hanno descritto minuziosamente gli effetti deleteri del cambiamento climatico non solo sui vari ecosistemi terrestri, ma anche sull’economia, l’agricoltura e le politiche sociali di molti paesi. Gli organi di comunicazione, spesso servendosi di immagini e reportage sensazionalistici, danno notizia di catastrofi naturali le cui cause vengono automaticamente ricondotte al riscaldamento terrestre. 13. Sebbene la base scientifica della teoria del cambiamento climatico sia estremamente complessa, i pareri degli scienziati siano velati d’incertezza considerati i numerosi modelli utilizzati nelle previsioni meteorologiche, e molti gruppi d’interesse su posizioni spesso contrapposte esercitino pesanti pressioni sui responsabili politici al fine di vedere accolte nelle politiche pubbliche di molti paesi le proprie idee, una cosa è certa: dall’inizio della rivoluzione industriale, nel XIX secolo, il clima della Terra è andato incontro ad un progressivo riscaldamento, fenomeno, questo, attribuibile in gran parte alle attività industriali dell’uomo. 14. Già nel 1998, la Commissione scienza e tecnologia dell’Assemblea parlamentare della NATO aveva posto allo studio queste tematiche in una relazione speciale, segnalando le varie opzioni che i responsabili politici avevano a disposizione, in particolare il Protocollo alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici per la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra (noto come Protocollo di Kyoto), al fine di ridurre gli effetti dell’innalzamento della temperatura.2 15. I nuovi dati sui cambiamenti climatici pubblicati in questi ultimi anni hanno provocato una crisi di coscienza oltre che grande incertezza tra gli scienziati e numerosi governi. Fino a pochissimo tempo fa, la maggior parte degli studi di climatologia presentavano un’evoluzione a lungo termine, secondo un andamento lineare e graduale, in un arco di tempo di vari decenni, sotto l’influenza di eventi naturali ed umani. Oggi tali studi non scartano più la possibilità che, oltre una certa soglia difficile da stabilire, l’aumento della temperatura provochi cambiamenti climatici improvvisi ed irreversibili dovuti ad un calo delle temperature nell’emisfero settentrionale. 16. Nel 2002, l’Accademia nazionale delle scienze americana ha formulato la seguente definizione di questo fenomeno che potrebbe innescare immense conseguenze ambientali, economiche, politiche e geostrategiche per tutti paesi della comunità dell’Atlantico settentrionale: “In genere, per cambiamento climatico improvviso si intende una profonda alterazione del clima della durata di anni o anche di periodi più lunghi - che si manifesta attraverso forti variazioni dei valori delle temperature medie o alterazioni delle modalità con cui normalmente si verificano tempeste, alluvioni e siccità –, che interessa una vasta area come un intero paese o addirittura un continente ed ha luogo in modo così rapido e inatteso da rendere difficile l’adattamento dei sistemi 2 Cfr. Ibrügger, Lothar. From Kyoto to Buenos Aires: The Agreement on Greenhouse Gas Emissions. Bruxelles. Commissione scienza e tecnologia – Assemblea parlamentare NATO. 1998. 066 STC 05 E 4 naturali e umani. Nel quadro dei cambiamenti climatici repentini già avvenuti in passato, per “rapido” si intende in genere dell’ordine di un decennio.”3 17. Nel 2001, il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC)—creato congiuntamente dalla Organizzazione meteorologica mondiale e dal Programma ambientale delle Nazioni Unite nel 1988 — ha pubblicato la sua terza relazione di valutazione sui cambiamenti climatici.4 Il Gruppo è incaricato di valutare lo stato delle conoscenze in merito a tutti gli aspetti dei cambiamenti climatici, ed in particolare in relazione alle modalità con cui le attività umane possono provocare tali mutamenti o al contrario ne possono essere influenzate.5 18. Dopo aver ipotizzato vari scenari riconducibili agli effetti del riscaldamento terrestre, il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico ha affermato che molti paesi dovranno attendersi una maggiore instabilità climatica e un aumento dei fenomeni meteorologici estremi come El Nino nel Pacifico meridionale. Tali paesi potrebbero, inoltre, subire repentine alterazioni di alcuni ecosistemi, in molti casi di natura irreversibile.6 Una di queste potrebbe essere un forte rallentamento della circolazione oceanica nell’Atlantico settentrionale. 19. Nel 2002, un altro importante studio pubblicato da un gruppo di esperti, questa volta per la prestigiosa Accademia nazionale delle scienze americana, ha delineato uno scenario analogo.7 Sulla base di importanti ricerche paleoclimatiche condotte negli ultimi anni, gli esperti hanno affermato che, negli ultimi 100.000 anni, il clima ha talvolta subito delle evoluzioni rapide ed improvvise, fenomeno che potrebbe ripetersi in tempi brevi nell’emisfero settentrionale.8 Ancora una volta, la relazione ha ribadito che il rallentamento, o addirittura la completa scomparsa, della circolazione oceanica nell’Atlantico settentrionale potrebbe essere stata la causa di tali mutamenti. 20. Una simile eventualità sembra aver turbato non poco i funzionari dell’amministrazione americana. In effetti, proprio nel momento in cui il terrorismo internazionale veniva considerato la più grande minaccia alla sicurezza interna degli Stati Uniti, il Dipartimento della difesa americano ha pubblicato, nel 2004, un rapporto segreto redatto nel 2003 sugli effetti di un cambiamento climatico improvviso provocato dall’abbassamento delle temperature nell’emisfero settentrionale, sulle conseguenze politiche ed economiche a livello regionale ed internazionale di tale scenario e, infine, sulle implicazioni in termini di sicurezza interna per gli Stati Uniti.9 3 4 5 6 7 8 9 Autori vari. Abrupt Climate Change: Inevitable Surprises – Report in Brief. Washington. National Academy Press. 2002. pag. 1. Autori vari. Climate Change 2001: IPCC Third Assessment Report. Cambridge University Press, Cambridge, 2001, 398 pagg. Il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico si articola in tre gruppi di lavoro. Attualmente, le attività dei gruppi sono così ripartite: il gruppo I è incaricato di studiare gli aspetti scientifici del sistema climatico e la sua evoluzione; il gruppo II si occupa degli effetti dei cambiamenti climatici e delle possibilità di adattarsi a tali mutamenti; il gruppo III esamina le varie possibilità di mitigare i cambiamenti climatici. Il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico ha pubblicato la prima e la seconda relazione di valutazione rispettivamente nel 1990 e nel 1996. Autori vari. Climate Change 2001: Synthesis Report – Summary for Policymakers. 2001. pagg. 14-15. Autori vari. Abrupt Climate Change: Inevitable Surprises. Washington. National Academy Press. 2002, 244 pagg. La paleoclimatologia analizza dati storici come quelli estrapolati dalle carote di ghiaccio prelevate nelle regioni polari, essenzialmente ai fini di una migliore comprensione degli effetti delle attività umane sui processi climatici. I migliori esempi di variazioni climatiche sono dati dall’alternanza tra periodi di glaciazione e di riscaldamento. Tra i meccanismi alla base di questi mutamenti vi sono le correnti marine e la deriva dei continenti in relazione alla tettonica a placche, ma anche le variazioni cicliche dell’orbita annuale della Terra intorno al Sole e l’inclinazione dell’asse terrestre rispetto al piano dell’orbita ellittica. Randal, Doug e Shwartz. An Abrupt Change Scenario and Its Implications for United States National Security. Washington. Dipartimento della difesa degli Stati Uniti, 2003. 22 pagg. 066 STC 05 E 5 21. Ciò premesso, prima di scendere in ulteriori dettagli sui cambiamenti climatici improvvisi e gli effetti sulla comunità dell’Atlantico settentrionale, è importante accennare brevemente ai meccanismi in grado di provocarli. La ricerca scientifica in materia tende a dimostrare che il riscaldamento attualmente in corso nella regione artica potrebbe essere una delle cause di questo fenomeno. IV. CAMBIAMENTI CLIMATICI E RISCALDAMENTO DELL’ARTICO 22. Nel 2001, la terza relazione del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico ha indicato che gli anni ’90 sono stati il decennio più caldo mai registrato dal 1861 e che il 1998 è stato l’anno più caldo di quel periodo. Questi cambiamenti, tuttavia, non si sono verificati in modo uniforme, diversificandosi nelle varie regioni e nella varie zone della bassa atmosfera. Tra il 1910 e il 1945, ad esempio, il riscaldamento si è concentrato essenzialmente nella regione dell’Atlantico settentrionale. In seguito, dal 1945 al 1975, le temperature di questa regione, così come quelle del resto dell’emisfero settentrionale, si sono abbassate leggermente, mentre si sono innalzate nell’emisfero meridionale. Il periodo di riscaldamento più recente (1976-1999) ha interessato la quasi totalità del nostro pianeta, ma le maggiori variazioni sono state registrate alle latitudini medie e alte dell’emisfero settentrionale.10 23. In sintesi, il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico ha rilevato un aumento medio della temperatura a livello mondiale pari a +0,6 gradi Celsius (°C) nel corso del XX secolo.11 La relazione evidenzia come tale riscaldamento sia dovuto al rapido incremento dei gas a effetto serra immessi nell’atmosfera, in particolare il biossido di carbonio (CO2). In effetti, da una recente ricerca paleoclimatica, è emerso che le concentrazioni di CO2 nell’atmosfera, nel periodo tra gli anni 1000 e 1850, sono state pari a 280 parti per milione (ppm) e sono poi passate nel 2000 a 368 ppm, con un aumento del 31% a partire dalla metà del XIX secolo! Secondo le conclusioni del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, “L’attuale livello di concentrazione di CO2 non è mai stato superato negli ultimi 420.000 anni e molto probabilmente neanche negli ultimi 20 milioni di anni. Il tasso di incremento registrato nell’ultimo secolo non ha precedenti, perlomeno negli ultimi 20.000 anni.”12 Lo scorso febbraio, oltre 200 scienziati hanno partecipato, nell’Exeter, nel Regno Unito, ad un congresso internazionale sulla stabilizzazione dei gas a effetto serra e sui cambiamenti climatici improvvisi. Essi sono stati concordi nel ritenere che un simile fenomeno potrebbe verificarsi qualora le concentrazioni di CO2 dovessero raggiungere la soglia di 500 ppm entro la metà del XXI secolo, innescando un aumento medio della temperatura terrestre di 2°C.13 24. La relazione del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico afferma inoltre che gran parte del riscaldamento climatico provocato dalle emissioni di CO2 dopo il 1950 è dovuto a fattori antropogeni, vale a dire alle attività dell’uomo. E sempre secondo il gruppo di lavoro della Nazioni Unite, circa il 75% delle emissioni proviene dall’utilizzo di combustibili fossili. Il resto è imputabile principalmente ai mutati sistemi di sfruttamento dei terreni, ed in particolare alla deforestazione nei paesi in via di sviluppo.14 Il riscaldamento in questione ha avuto numerosi effetti sugli ecosistemi, tra cui: 10 11 12 13 14 Autori vari. Climate Change 2001: The Scientific Basis – Report of Working Group 1 (IPCC). Cambridge. Cambridge University Press. 2001. pag. 25. Ibid, pag. 25 (Supra, Nota 9) Ibid, pag. 6 (Supra, Nota 9) Autori vari. International symposium on the stabilization of greenhouse gases: Report of the Steering Committee – Draft. Exeter. Hadley Center for Climate Protection and Research - Met Office. 2005. 7 pagg. Ibid, pag. 6 (Supra, Nota 9) 066 STC 05 E • • • • • • • • 6 l’innalzamento del livello del mare di 1-2 millimetri all’anno nel XX secolo, in altri termini, di 1-2 metri in totale nello stesso periodo;15 la maggiore frequenza di fenomeni come El Nino nel Pacifico meridionale negli ultimi 30 anni, fenomeni che risultano di maggiore durata ed intensità rispetto al passato;16 l’incremento, tra il 1950 e il 1993, di circa 0,2°C ogni 10 anni della temperatura minima giornaliera dell’aria a livello della superficie terrestre misurata di notte. Si tratta di circa il doppio del tasso di incremento delle temperature massime diurne, che è stato di 0,1°C ogni dieci anni nello stesso periodo; l’accorciamento, di oltre due settimane, della stagione dei ghiacci per i laghi e i fiumi dell’emisfero settentrionale;17 l’allungamento, negli ultimi 40 anni nella stessa regione, della stagione di crescita, da uno a quattro giorni ogni dieci anni;18 l’aumento delle precipitazioni dello 0,5-1% ogni dieci anni in gran parte delle regioni alle latitudini medie e alte dell’emisfero settentrionale, rispetto allo 0,2-0,3% nelle regioni tropicali;19 la significativa riduzione del numero di ghiacciai montani al di fuori delle regioni polari, in particolare nelle Alpi, in Europa;20 e la riduzione di circa il 10% della copertura nevosa, documentata da rilevamenti satellitari, a partire dagli ultimi anni ’60.21 25. Come si può osservare, molti di questi fenomeni si sono verificati nell’emisfero settentrionale, ed in particolare nella regione artica, generalmente riconosciuta come l’habitat della popolazione Inuit e degli orsi polari. Secondo il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico: “La regione artica è estremamente vulnerabile ai cambiamenti climatici, e si prevede che i principali effetti fisici, economici ed ecologici degli stessi non tarderanno a manifestarsi. Numerosi meccanismi di feedback daranno luogo a una reazione amplificata, con conseguenti effetti su altri sistemi e popolazioni.”22 Nel 2001, il Gruppo intergovernativo ha dato più risalto alle conseguenze del riscaldamento terrestre nella regione artica piuttosto che in Antartide poiché, a parte un rialzo di temperatura nella penisola antartica, i dati scientifici disponibili associati alle previsioni sul clima relative al XXI secolo, lasciano pensare che un fenomeno simile possa verificarsi in un arco di tempo più lungo al Polo Sud. Molti scienziati spiegano questa differenza con il fatto che gran parte della calotta glaciale antartica si trova sul continente, dove le temperature raramente salgono sopra lo zero termico, e non direttamente sull’oceano, come invece avviene al Polo Nord, dove le temperature sono più miti durante il periodo estivo, con conseguenti maggiori effetti sulla copertura di ghiaccio e neve e sui mutamenti climatici.23 26. Nel novembre 2004, il Consiglio artico – un forum intergovernativo che riunisce i paesi che si affacciano sul circolo polare – ha pubblicato un importante studio realizzato negli ultimi quattro 15 16 17 18 19 20 21 22 23 Ibid, pag. 6 (Supra, Nota 9) Ibid, pag. 6 (Supra, Nota 5) Ibid, pag. 6 (Supra, Nota 5) Ibid, pag. 6 (Supra, Nota 5) Ibid, pag. 28 (Supra, Nota 9) Ibid, pag. 29 (Supra, Nota 9) Ibid, pag. 29 (Supra, Nota 9) Autori vari. Climate Change 2001: Impacts, Adaptation and Vulnerability – Report of Working Group II (IPCC). Cambridge. Cambridge University Press. 2001. pag. 65. New, Mark. “Arctic Climate Change with a 2oC Global Warming.” pag. 8. In L. Rosentrater. 2o is too much: Evidences and Implications of Dangerous Climate Changes in the Artic. Norvegia. LDR Consulting per il World Wildlife Fund. 2005. 70 pagg. 066 STC 05 E 7 anni da oltre 300 scienziati provenienti da 15 paesi sugli effetti dei cambiamenti climatici su questo importante e fragile ecosistema.24 27. I riscontri di questo studio sono preoccupanti e confermano alcune delle osservazioni formulate dal Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico.25 La regione artica si sta riscaldando più rapidamente di altre regioni del mondo e gli effetti di tale riscaldamento si manifesteranno in tutto il mondo nel XXI secolo. Tre sono le ragioni per cui l’Artico ha così tanta influenza sul clima mondiale. Anzitutto, a causa del consistente strato di neve e ghiaccio che ricopre la regione, la maggior parte dell’energia solare viene riflettuta nello spazio, esattamente il contrario di quanto avviene nelle regioni tropicali. Si tratta del fenomeno noto come albedo. I ghiacci marini, ad esempio, riflettono circa il 90% dei raggi solari. Oltre a ciò, questo ecosistema svolge un ruolo importante nella circolazione oceanica dell’Atlantico settentrionale. Infine, qualsiasi rialzo della temperatura del permafrost che contiene metano – un altro gas a effetto serra – e qualsiasi modificazione della vegetazione artica associata all’assottigliamento della copertura di neve e ghiaccio potrebbe portare alla riduzione dell’albedo della regione, contribuendo ulteriormente al riscaldamento terrestre ed aumentando la concentrazione di gas a effetto serra nell’atmosfera. 28. Lo studio del Consiglio artico ha inoltre evidenziato che la temperatura media in questa regione, a parte qualche variazione localizzata, è aumentata due volte più rapidamente rispetto alla media mondiale negli ultimi dieci anni. Ad esempio, negli ultimi 50 anni, l’innalzamento termico in Alaska e nel Canada occidentale è stato addirittura di 3-4°C!26 Degno di nota è il fatto che il riscaldamento è più marcato durante la stagione invernale. Gli scienziati attribuiscono le cause di questo riscaldamento insolito, e senza precedenti, all’aumento delle emissioni di gas a effetto serra dovuto principalmente a fattori antropogeni. 29. L’effetto di questo marcato rialzo delle temperature, unito ad altri fattori come il moto ondoso e le correnti marine, è stato (come si può vedere dalle figure 1 e 2) il ritiro, negli ultimi 30 anni, dello strato permanente di ghiacci marini di quasi l’8%, vale a dire di oltre un milione di chilometri quadrati, una superficie più grande dei territori di Norvegia, Svezia e Finlandia messi insieme.27 Non solo la calotta di ghiaccio sul Mare Artico si sta riducendo in termini di estensione, ma anche il suo spessore si sta assottigliando a causa dei cambiamenti climatici. Dal 1960, lo spessore medio della calotta si è ridotto del 10-15%; in alcune aree addirittura del 40%.28 Per quanto riguarda la copertura nevosa della regione artica continentale, è diminuita del 10% negli ultimi 30 anni.29 Uno studio recentemente pubblicato dal World Wildlife Fund (WWF) parla di un allungamento del periodo di disgelo dei ghiacci marini e della copertura nevosa di circa 13 giorni per la calotta sul Mare Artico, di quattro giorni per la calotta della Groenlandia e di cinque giorni per il Canada settentrionale e l’Alaska.30 Figura 1: Estensione dei ghiacci marini, 1979 24 25 26 27 28 29 30 Figura 2: Estensione dei ghiacci marini, 2003 Gli Stati membri del Consiglio artico sono: Canada, Stati Uniti (Alaska), Danimarca (Groenlandia e Isole Faeroer), Islanda, Norvegia, Svezia, Finlandia e Russia, oltre alle comunità aborigene che vivono in questi paesi. Autori vari. Impacts of a Warming Arctic: Arctic Climate Impact Assessment. Cambridge. Cambridge University Press. 2004. 144 pagg. Autori vari, Impacts of a Warming Arctic: Arctic Climate Impact Assessment – Supporting Evidence for the Key Findings. Cambridge. Cambridge University Press. 2004. pag. 23. Ibid, pag. 25 (Supra, Nota 24) Ibid, pag. 25 (Supra, Nota 24) Ibid., pag. 31 (Supra, Nota 24) Comiso, Josefino O. “Impact Studies of a 2oC Global Warming on the Arctic Sea Ice Cover.” pag. 50. In L. Rosentrater. 2o is too much: Evidences and Implications of Dangerous Climate Changes in the Artic. Norvegia. LDR Consulting per il World Wildlife Fund. 2005. 70 pagg. 066 STC 05 E Fonte: NASA (2003) 8 Fonte: NASA (2003) 30. Gli autori dello studio del Consiglio artico, come quelli dello studio del WWF, sottolineano che questi mutamenti sono irreversibili e stanno già minacciando la sopravvivenza di numerose specie animali come gli orsi polari, gli elefanti marini, le foche ed alcune specie di uccelli che hanno bisogno della presenza dei ghiacci marini e della neve per la loro sussistenza e riproduzione e per il mantenimento del proprio habitat. La riduzione della superficie dei ghiacci marini, insieme con la loro formazione tardiva in autunno e lo scioglimento precoce in primavera nella Baia di Hudson, ha già provocato effetti significativi sugli orsi polari. Tra il 1981 e il 1998, è stata registrata una riduzione del 15% sia del peso che del tasso di natalità di questi animali. E più le femmine sono magre, più probabilità vi sono che i cuccioli abbiano una salute malferma e muoiano prematuramente.31 31. Sebbene permanga ancora un certo grado di incertezza scientifica circa la possibilità di effettuare misurazioni corrette in un ambiente così freddo come è l’Artico, anche le precipitazioni risultano accresciute dell’8% durante il XX secolo. A preoccupare è però il fatto che questo incremento si è manifestato per lo più sotto forma di piogge, principalmente durante la stagione invernale e, in misura minore, in autunno e in primavera. In alcune regioni, come la Russia occidentale, le precipitazioni piovose sono aumentate del 50% negli ultimi cinquanta anni.32 32. Il rialzo delle temperature nell’Artico ha avuto delle ricadute anche sulle varie zone della regione coperte da vegetazione, ed in particolare, da nord a sud, il deserto polare, la tundra e la foresta boreale. Non dimentichiamo che le aree boschive e forestali della regione artica rappresentano circa il 30% del patrimonio forestale del pianeta e che la foresta boreale da sola ricopre il 17% della superficie continentale della regione. Come avremo occasione di vedere più avanti, gli effetti maggiormente dannosi ed irreversibili si faranno sentire in questa zona durante il XXI secolo. 33. Tutti questi cambiamenti sono piuttosto evidenti per le comunità aborigene che popolano la regione artica. Nel Canada settentrionale, ad esempio, gli Inuit che vivono qui da secoli ritengono che il rialzo delle temperature sia una minaccia per l’ambiente su cui si basa il loro tradizionale stile di vita. Negli anni, hanno notato la diminuzione del numero degli orsi polari, l’aumento della frequenza delle tempeste estive, lo scioglimento di una grande porzione di permafrost, con conseguente erosione dei litorali e danni significativi alle strade e alle infrastrutture economiche vitali per lo sviluppo del Grande Nord, l’arrivo di nuove specie animali e marine dal sud e, infine, la crescente inaffidabilità, dovuta all’instabilità climatica, dei tradizionali metodi di previsione meteorologica utilizzati per l’organizzazione delle battute di caccia e di pesca. Simili osservazioni sono confermate dalle popolazioni aborigene dell’Alaska, una regione in cui il litorale formato dal 31 32 Ibid, pag. 58 (Supra, Nota 24) Ibid, pag. 22 (Supra, Nota 24) 066 STC 05 E 9 permafrost del Mare di Barents (a sud-ovest del Mare Artico) ha subito gravi forme di erosione a causa della maggiore frequenza di tempeste violente.33 V. L’INTENSIFICAZIONE DEL RISCALDAMENTO DELL’ARTICO NEL XXI SECOLO 34. Purtroppo, le previsioni sul clima per il XXI secolo non sono ottimistiche, né per l’intero pianeta né per la regione artica. Nel 2001, la già citata relazione del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico prevedeva, mediante l’utilizzo di sei diversi modelli di previsione climatica, un aumento medio delle temperature mondiali tra 1,4 e 5,8°C entro il 2100. Questo riscaldamento è stato calcolato in base all’aumento delle concentrazioni di CO2 nell’atmosfera fino a livelli compresi tra 540 e 970 ppm nello stesso periodo.34 Il suddetto rialzo delle temperature medie, inoltre, sarebbe, secondo i vari scenari prospettati, da due a dieci volte maggiore rispetto a quello registrato durante il XX secolo e, sulla base dei dati paleoclimatici disponibili, sarebbe altresì senza precedenti negli ultimi 10.000 anni.35 Il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico ritiene che, pur con una stabilizzazione delle emissioni di CO2 nel XXI secolo, le temperature continueranno ad aumentare poiché saranno necessari molti anni prima che le concentrazioni di questo gas nell’atmosfera si riducano. 35. Sempre sulla base dei sei scenari previsionali, la relazione del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico prevede, con qualche variazione a livello regionale, un aumento delle precipitazioni annue dell’ordine del 5-20%. Nell’emisfero settentrionale, questo aumento si manifesterà in gran parte nelle stagioni invernale ed estiva. Sempre sulla base di detti modelli, il livello del mare – grazie all’effetto combinato dello scioglimento dei ghiacci e delle nevi, dell’aumento delle precipitazioni e dell’innalzamento della temperatura dell’acqua - aumenterà da un minimo di 9 ad un massimo di 88 centimetri, con grave pericolo per le popolazioni costiere di molti paesi come il Bangladesh e il Senegal ed alcuni stati americani come la Florida e la Louisiana.36 36. Come è accaduto per tutti i cambiamenti climatici osservati nell’Artico nel XX secolo, quelli che si prevede vi avranno luogo entro il 2100 saranno più marcati rispetto a quelli che interesseranno l’intero pianeta. 37. Inoltre, utilizzando cinque modelli previsionali che tengono conto di diverse variabili in grado di influenzare il clima della regione, gli autori dello studio pubblicato dal Consiglio artico prevedono che la temperatura media annua aumenterà, di qui al 2100, di 3-5°C in prossimità della superficie continentale e di 4-7°C sulla superficie oceanica. Questo riscaldamento sarà più pronunciato durante la stagione invernale, con rialzi dell’ordine rispettivamente di 4-7°C e 7-10°C. A livello regionale, le temperature aumenteranno in misura significativa nella Russia settentrionale e nel Canada settentrionale.37 38. Questo significativo innalzamento delle temperature è destinato ad avere numerosi effetti. In primo luogo, le precipitazioni, prevalentemente a carattere piovoso, aumenteranno di oltre il 20% per la fine del XXI secolo, in conseguenza della maggiore evaporazione di acqua dovuta allo scioglimento dei ghiacci e delle nevi. Le piogge interesseranno prevalentemente le zone costiere e 33 34 35 36 37 Ibid, pagg. 78-81 (Supra Nota 24); Crowler, Paul, T. Fenge e S. Watt-Cloutier. “Responding to Global Climate Change: The Perspective of the Inuit Circumpolar Conference on the Arctic Climate Impact Assessment.” pagg. 58-60. In L. Rosentrater. 2o is too much: Evidences and Implications of Dangerous Climate Changes in the Artic. Norvegia. LDR Consulting per il World Wildlife Fund. 2005. 70 pagg. Ibid, pag. 8 (Supra Nota 5) Ibid, pag. 8 (Supra Nota 5) Ibid, pag. 9 (Supra Nota 5) Ibid, pagg. 26-27 (Supra Nota 24) 066 STC 05 E 10 si concentreranno nei periodi autunnale ed invernale. L’aumento delle precipitazioni in queste due sole stagioni dovrebbe essere di circa il 30%.38 39. Per quanto riguarda i ghiacci marini, i cinque modelli utilizzati dal Consiglio artico prevedono, sempre entro il 2100, un’ulteriore riduzione della loro estensione dell’ordine del 10-50%. Questo preoccupante fenomeno si accentuerà nei periodi estivi, dal momento che, stando ai dati rilevati dai ricercatori, nello stesso periodo la riduzione della superficie dei ghiacci marini durante la stagione estiva dovrebbe superare il 50%. Alcuni modelli prevedono addirittura la scomparsa quasi totale della calotta del Mare Artico durante l’estate!39 Relativamente alla Groenlandia, i dati indicano che le temperature locali aumenteranno di 3°C nel corso del XXI secolo, il che determinerà lo scioglimento irreversibile e a lungo termine della spessa coltre di ghiaccio che ricopre gran parte di questo possedimento danese. Dal 1979, l’area interessata dallo scioglimento dei ghiacci è aumentata del 16%, un’estensione equivalente all’incirca al territorio della Svezia. Secondo gli autori dello studio, anche se le condizioni climatiche dovessero stabilizzarsi nel prossimo secolo, l’innalzamento termico sarà stato sufficiente a determinare la completa scomparsa della calotta continentale groenlandese, con il conseguente aumento del livello dei mari di oltre sette metri.40 Figura 3: Estensione dei ghiacci marini prevista per il mese di settembre nel XXI secolo in base alla media dei cinque modelli 40. Lo stesso fenomeno interesserà la copertura nevosa della regione artica continentale, che potrebbe vedere la sua estensione ridotta del 10-20 percento entro il 2100. Inoltre, a causa delle temperature più elevate, in primavera la neve comincerà a sciogliersi prima del tempo, provocando così un incremento della portata dei fiumi con conseguente maggiore afflusso di acqua dolce nel Mare Artico e nell’Oceano Atlantico settentrionale.41 41. Anche la composizione della flora artica potrebbe subire pesanti variazioni, come abbiamo già spiegato. Secondo uno studio pubblicato dal WWF lo scorso gennaio, un aumento di 2°C della temperatura terrestre, che potrebbe verificarsi tra il 2026 ed il 2060, porterebbe, per la fine del XXI secolo, ad una riduzione del 42% della tundra, a un aumento di oltre il 55% della zona forestale boreale e alla totale scomparsa delle aree in cui attualmente crescono i licheni.42 I confini della 38 39 40 41 42 Ibid, pag. 29 (Supra Nota 24) Ibid, pag. 30 (Supra Nota 24) Ibid, pag. 33 (Supra Nota 24) Ibid, pag. 31 (Supra Nota 24) Kaplan, Jed O. “Climate Change and Arctic Vegetation.” pag. 25. In L. Rosentrater. 2o is too much: Evidences and Implications of Dangerous Climate Changes in the Artic. Norway. LDR Consulting per il World Wildlife Fund. 2005. 70 pag. 066 STC 05 E 11 foresta boreale si sposterebbero quindi ancora più a nord. Tuttavia, lo studio condotto per conto del Consiglio artico afferma che un rapido incremento delle temperature potrebbe pregiudicare tale scenario, in quanto il periodo di transizione sarebbe troppo breve, farebbe morire gli alberi e produrrebbe nuovi ecosistemi mai esistiti prima d’ora nell’Artico.43 Ad esempio, la foresta boreale della Siberia potrebbe scomparire in alcune zone piuttosto che spostarsi verso nord. Questo significa che la savana verrebbe a confinare direttamente con la tundra. 42. Per di più, l’estensione del permafrost si ridurrebbe considerevolmente, compromettendo lo spostamento della foresta boreale verso nord. Questo tipo di suolo, che ricopre la maggior parte della regione artica continentale, è costituito principalmente da terra, rocce o sedimenti, la cui temperatura resta al di sotto di 0°C per più di due anni consecutivi. Esistono due tipi di permafrost. Il primo è il permafrost continuo, ossia quello che ricopre completamente una determinata area e può avere una profondità di 1500 metri. Si trova principalmente in Alaska, nel Canada settentrionale – in particolare nei Territori del nord-ovest e nel Nunavut—e in Siberia. Il secondo tipo è chiamato permafrost sporadico o discontinuo. Occupa dal 10 al 90% di una determinata zona della regione artica continentale ed arriva ad alcuni metri di profondità. 43. Normalmente, lo strato superiore del permafrost, detto strato attivo, si scioglie durante il periodo estivo. Negli ultimi decenni, tuttavia, gli scienziati e le comunità aborigene hanno notato che la temperatura di questo tipo di terreno nelle zone sub-artiche è aumentata di diversi gradi Celsius, arrivando a +2oC e causando così lo scioglimento di terreno gelato più in profondità. In alcune regioni, lo strato attivo non ghiaccia più durante l’inverno, il che provoca danni considerevoli alle strade e alle infrastrutture economiche della regione artica.44 Negli ultimi 30 anni, il Dipartimento di risorse naturali dell’Alaska ha dovuto ridurre, da 200 a 100 giorni, il periodo di utilizzo dell’equipaggiamento pesante nelle attività di prospezione e sviluppo petroliferi a motivo del forte scongelamento del permafrost. 44. A tale proposito, l’aumento delle temperature avrà, nel XXI secolo, una duplice conseguenza. In primo luogo, l’area caratterizzata da un degrado del permafrost raggiungerà il 1020 percento dell’area complessiva in cui si localizza attualmente questo tipo di terreno. In secondo luogo, il confine meridionale del permafrost retrocederà di diverse centinaia di chilometri, soprattutto in Alaska, Canada e Russia.45 45. Secondo alcuni, tale cambiamento risulterà positivo nel lungo periodo, in quanto, da un lato, consentirà alla foresta boreale di spingersi verso nord e, dall’altro, aumenterà la superficie di terreno coltivabile. Affinché questi scenari ottimistici divengano realtà, i cambiamenti climatici dovrebbero verificarsi secondo un andamento prevedibile e lineare. 46. Per quanto riguarda la vegetazione, gli autori dello studio del Consiglio artico sostengono che un rapido scioglimento del permafrost potrebbe uccidere gli alberi e le altre forme di vegetazione lì presenti, dal momento che questi verrebbero letteralmente sommersi dall’ingente quantità di acqua prodotta dallo scongelamento del terreno. Una volta riportata allo stato liquido, l’acqua del permafrost potrebbe infiltrarsi nel sottosuolo e mescolarsi alle falde acquifere, provocando così il prosciugamento dei laghi e dei fiumi dai quali dipende la sopravvivenza di persone, animali, pesci e uccelli. Infine, si avrebbe la parziale desertificazione di alcune aree.46 Come abbiamo già detto, lo scioglimento del permafrost determinerà altresì un aumento delle emissioni di gas serra, in quanto libererà il metano formatosi durante il disgelo dalla decomposizione degli alberi e della tundra. Sebbene sia presente in quantità minori rispetto al CO2, questo gas ad effetto serra cattura nell’atmosfera una quantità di energia termica 23 volte superiore. 43 44 45 46 Ibid, pag. 52 (Supra Nota 24) Ibid, pag. 87 (Supra Nota 24) Ibid, pag. 87 (Supra Nota 24) Ibid, pagg. 91-92 (Supra Nota 24) 066 STC 05 E 12 47. Di conseguenza, se gli scenari qui illustrati relativamente all’aumento delle temperature, allo scioglimento dei ghiacci marini e della neve, alla trasformazione della vegetazione e al considerevole scioglimento del permafrost dovessero concretizzarsi, il riscaldamento climatico sarebbe superiore nella regione artica, e ciò creerebbe una specie di circolo vizioso la cui dinamica risulterebbe difficile da spezzare. 48. In verità, tutti questi fattori ci spiegano perché l’Artico si stia riscaldando molto più rapidamente di qualsiasi altra regione del pianeta. In primis, man mano che si sciolgono i ghiacci marini e la copertura nevosa, il suolo e l’oceano assorbono energia solare in maggiore quantità, dal momento che l’albedo si riduce notevolmente; questo fenomeno, associato agli effetti dello scongelamento del permafrost, provoca un ulteriore incremento delle temperature nella regione artica. In secondo luogo, con la riduzione della superficie oceanica coperta dai ghiacci, l’energia solare assorbita dall’oceano nel corso del periodo estivo viene rilasciata più facilmente nell’atmosfera, il che spiega in parte perché le temperature in questa regione del pianeta stiano aumentando più rapidamente d’inverno che d’estate. Infine, le variazioni delle correnti atmosferiche ed oceaniche osservate negli ultimi anni si ripercuotono ugualmente sul riscaldamento di questa regione polare.47 VI. CAMBIAMENTI CLIMATICI IMPROVVISI: CIRCOLAZIONE OCEANICA NELLA SETTENTRIONALE IL RALLENTAMENTO DELLA REGIONE DELL’ATLANTICO 49. A prima vista, il riscaldamento della regione artica, oltre ai vantaggi che abbiamo già delineato in termini di vegetazione, potrebbe favorire lo sviluppo delle comunità settentrionali, in particolare nella Russia settentrionale, in Alaska e in Canada, così come nelle zone di prospezione mineraria e petrolifera, a patto però che tali cambiamenti si verifichino con gradualità. Lo scioglimento dei ghiacci marini potrebbe anche aprire la strada a nuove rotte marittime altamente remunerative. Se ciò dovesse avvenire, alcuni dei paesi della comunità dell’Atlantico settentrionale, quali il Canada, gli Stati Uniti, la Norvegia e la Finlandia, rischierebbero di dover affrontare nuove sfide economiche e geostrategiche. Essi sarebbero altresì esposti a possibili catastrofi ambientali in un ecosistema già fortemente indebolito dal cambiamento climatico. 50. Detto questo, all’inizio del presente studio abbiamo citato un problema più serio, che potrebbe interessare la maggior parte dei paesi dell’emisfero settentrionale. Abbiamo detto che, oltre una certa soglia non facilmente identificabile, il riscaldamento del globo provocherebbe cambiamenti climatici improvvisi, come ad esempio un deciso abbassamento delle temperature in alcune regioni del pianeta. In che modo potrebbe avvenire questo e quale sarebbe il ruolo della regione artica in tale contesto? 51. L’emisfero settentrionale, in particolare la regione più orientale del Nord America, dell’Islanda e dell’Europa, presenta un clima temperato ed inverni miti. L’Europa è particolarmente fortunata sotto questo punto di vista. Mentre le città di Londra, Parigi e persino Mosca godono di inverni in cui le temperature sono relativamente dolci e le tempeste di neve piuttosto scarse, le città canadesi situate ad analoghe latitudini devono affrontare inverni in cui le temperature diurne non superano i – 15oC per interi giorni e in cui piogge gelide e tempeste di neve si susseguono l’una dopo l’altra lasciando sul suolo, tra novembre e marzo, decine di centimetri di neve e ghiaccio. 52. Questa situazione è la conseguenza della circolazione oceanica a livello planetario che attraversa gli oceani Atlantico, Indiano e quindi Pacifico. Quello che viene talvolta chiamato “nastro 47 Collaborazione. Impacts of a Warming Arctic: Arctic Climate Impact Assessment–Summary. Cambridge. Cambridge University Press. 2004. pag. 20. 066 STC 05 E 13 trasportatore” degli oceani porta il calore dalle zone equatoriali alle latitudini settentrionali. Se non esistesse questa circolazione, le temperature sarebbero più elevate attorno all’equatore e più fredde nell’emisfero settentrionale. 53. Le acque di superficie degli oceani beneficiano di un considerevole afflusso di calore nei tropici che consente loro di raggiungere temperature comprese tra i 25 e i 30oC, mentre nelle regioni polari superano raramente la temperatura di congelamento dell’acqua di mare, pari a - 2oC. Si viene così a formare uno strato di acqua calda profonda anche qualche decina di metri, che viene trasportato verso nord dalla corrente dell’Atlantico settentrionale, maggiormente conosciuta come Corrente del Golfo. Quando questa corrente giunge in prossimità delle coste dell’Europa, della Groenlandia e dell’Islanda, la sua temperatura si abbassa nuovamente, dato che il calore viene ceduto all’atmosfera. Esso viene quindi raccolto dai venti provenienti da ovest e trasportato attraverso l’Europa. Non appena l’energia termica si disperde, le acque superficiali, che presentano un tasso di salinità elevato, raffreddandosi sprofondano nell’oceano, andando a mescolarsi alle acque più fredde e più dense provenienti dalla regione artica grazie alle correnti del Labrador, della Danimarca (Groenlandia) e delle isole Faeroer, situate ad ovest dell’Islanda. La corrente si sposta quindi verso sud, garantendo così il costante afflusso di acqua calda alle latitudini settentrionali. 54. Questo meccanismo, illustrato nella Figura 4, è caratterizzato da un moto perpetuo e svolge pertanto un ruolo di primo piano nella regolazione del clima mondiale. Il suo funzionamento dipende da un fragile equilibrio tra acqua dolce e acqua salata. Noto come ”circolazione termoalina”, dove “termo” sta per calore e “alina” per “salinità dell’acqua,” serve a ridurre la differenza di temperatura tra le regioni equatoriali e le zone polari.48 L’Artico ha un ruolo importante in questo processo, dal momento che la formazione di ghiacci marini mantiene costante la salinità dell’acqua di mare assicurando al contempo la presenza di acqua più densa in grado di alimentare la circolazione termoalina.49 55. Secondo l’Ocean and Climate Change Institute (OCCI) affiliato al Woods Hole Oceanographic Institute del Maryland, Stati Uniti, la decisiva influenza della corrente dell’Atlantico settentrionale non va trascurata, dal momento che trasporta una quantità di calore due volte superiore a quella delle correnti marine prodotte dai venti. Dall’analisi dei dati paleoclimatici condotta dal medesimo istituto emerge che la corrente del Nord Atlantico è anche il più instabile dei percorsi della circolazione termoalina a livello mondiale.50 Figura 4: Circolazione termoalina nell’Atlantico settentrionale 48 49 50 Ibid, pagg. 35-36 (Supra Nota 24); Joyce, Terrance and Lloyd Keigen, Abrupt Climate Change: Are we on the Brink of a New Little Ice Age? Woods Hole. Woods Hole Oceanographic Institution (Ocean and Climate Change Institute), 7 pag. Ibid, pag. 36 (Supra Nota 24) Ibid, pag. 4. (Supra Nota 46) 066 STC 05 E 14 Fonte: National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA) degli Stati Uniti 56. Tale instabilità è attribuibile principalmente all’influenza del riscaldamento climatico nella regione artica, anche se nei prossimi anni si renderanno necessarie ricerche più approfondite per confermare questa teoria. Come abbiamo già spiegato, l’aumento delle temperature provoca un più rapido scioglimento dei ghiacci marini e della copertura nevosa, determinando così un sempre maggiore afflusso di acqua dolce nel Mare Artico e di conseguenza nell’Oceano Atlantico settentrionale. L’incremento della quantità di acqua dolce, associato all’aumento delle precipitazioni previsto dal Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico nel 2001, non solo contribuirà ad innalzare leggermente il livello dei mari, ma sconvolgerà altresì il fragile equilibrio tra masse di acqua dolce e acqua più salata. In altre parole, maggiore è la quantità di acqua dolce nell’Atlantico settentrionale, maggiore sarà il livello di salinità dell’acqua alle basse latitudini, cosicché, una volta superata una certa soglia critica che gli scienziati ancora non sono in grado di determinare, le acque di superficie non saranno più così dense da sprofondare nell’oceano e continuare ad alimentare la circolazione termoalina. A causa dell’aumento del livello di acqua dolce, la circolazione termoalina potrebbe rallentare o persino interrompersi completamente per diversi decenni se non addirittura per più di un secolo.51 57. I modelli utilizzati dall’OCCI evidenziano come un marcato indebolimento o la completa scomparsa della corrente dell’Atlantico settentrionale potrebbero determinare un calo della temperatura nell’emisfero settentrionale di 3-5oC, equivalente ad almeno un terzo del raffreddamento climatico verificatosi durante le grandi ere glaciali che hanno interessato la Terra nel corso dei millenni. 58. Questi cambiamenti climatici non sono del tutto insignificanti. Secondo l’OCCI, sarebbero due volte più rilevanti di quelli osservati nei peggiori inverni della regione orientale del Nord America. E’ importante osservare, tuttavia, che un calo delle temperature nell’emisfero settentrionale non interesserebbe l’intero pianeta. A quanto affermano i climatologi, infatti, i cambiamenti che si verificano alle alte latitudini hanno minori probabilità di influenzare il clima mondiale rispetto a quelli che avvengono a latitudini più basse, come quelli causati da El Nino.52 59. I dati paleoclimatici utilizzati non solo dall’OCCI, ma anche dai ricercatori della National Oceanographic and Atmospheric Administration (NOAA) statunitense e da coloro che hanno 51 52 Ibid, pag.4 (Supra Nota 46), Ibid, pag. 2 (Supra Nota 2), Ibid, pagg. 8-10 (Supra Nota 9) Ibid, pag. 4 (Supra Nota 46) 066 STC 05 E 15 realizzato il già citato studio sul cambiamento climatico improvviso per conto dell’Accademia nazionale delle scienze mostrano come, 12.700 anni fa, un forte rallentamento della corrente dell’Atlantico settentrionale avrebbe provocato un improvviso forte calo delle temperature nell’emisfero settentrionale, per un periodo di 1300 anni. Questo fenomeno si sarebbe verificato a seguito di un significativo aumento delle temperature alla fine dell’ultima grande era glaciale, 14.500 anni fa. Dopo un brusco riscaldamento climatico di oltre 10oC, nello spazio di alcuni decenni le temperature si sarebbero abbassate repentinamente di oltre 5oC in Groenlandia. Questo periodo più freddo, accompagnato da un clima asciutto, è noto come Younger Dryas, dal nome di un fiore che cresceva allora in Europa a quelle latitudini. Tale raffreddamento si verificò in un’epoca in cui l’afflusso di acqua dolce nell’Oceano Atlantico settentrionale era considerevole. A quel tempo, non era insolito trovare ghiacciai vicino alle coste del Portogallo. Questo periodo terminò bruscamente, 11.400 anni fa, con un aumento della temperatura, sempre in Groenlandia, di 10oC in un solo decennio!53 60. Un raffreddamento meno drastico si verificò nell’emisfero settentrionale 8.200 anni fa, dopo un periodo di riscaldamento climatico analogo a quello che stiamo vivendo oggi. Questo fenomeno, nel corso del quale la temperatura della Groenlandia diminuì di 5oC, sembra essere stato causato anch’esso da un significativo rallentamento della corrente dell’Atlantico settentrionale.54 Più di recente, i dati paleoclimatici hanno suggerito che la Piccola era glaciale che colpì duramente l’Europa dal 1300 al 1850 sia stata provocata da un indebolimento della corrente dell’Atlantico settentrionale, da eruzioni vulcaniche e da una temporanea diminuzione dell’energia solare. Durante tale periodo, la temperatura nella regione occidentale dell’emisfero settentrionale si ridusse di 1oC, determinando un calo delle precipitazioni con gravi ripercussioni sull’agricoltura e sull’economia europee. La scarsità di cibo e di risorse di altro genere provocò altresì numerosi problemi di ordine politico-militare, grandi carestie – soprattutto nei paesi dei Vichingi tra il 1315 ed il 1319 e in Irlanda, dove morirono un milione di persone - e devastanti epidemie di peste. 61. Nella sua relazione del 2001, il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, basandosi su dati paleoclimatici, sostiene che, nonostante le testimonianze che indicherebbero temperature più elevate nel Medio Evo, a partire dall’XI secolo fino alla metà del XIX, con l’inizio della rivoluzione industriale, si sarebbe verificata una tendenziale forte diminuzione delle temperature nell’emisfero settentrionale, tendenza che mutò direzione improvvisamente, come dimostrano appunto i dati succitati.55 62. Detto questo, è possibile che nei prossimi decenni la corrente dell’Atlantico settentrionale si indebolisca nuovamente al punto da determinare l’instaurarsi di un’altra Piccola era glaciale o, peggio, di un periodo come quello del Younger Dryas, mettendo così a repentaglio la stabilità economica, politica e geostrategica dell’emisfero settentrionale e dell’Europa in particolare? Negli ultimi anni, la rivista Nature ha pubblicato una serie di studi scientifici basati su recenti osservazioni e su dati paleoclimatici che confermano un certo rallentamento della corrente negli ultimi 40 anni, soprattutto a partire dai primi anni ’90.56 In base a tali studi, il tasso di salinità dell’acqua dell’Atlantico settentrionale, e in particolare dell’acqua delle correnti profonde del 53 54 55 56 Autori vari. Mechanisms that Can Cause Abrupt Climate Change. National Atmospheric and Oceanographic Administration. Governo degli Stati Uniti, 3 pagg. Ibid, pag. 6 (Supra Nota 9), Ibid, (Supra Nota 2) Ibid, (Supra Nota 20) Cfr. Hansen, Bogl, S. Osterhus e W.H. Turrell. “Decreasing overflow from the Nordic seas into the Atlantic Ocean through the Faroe channel since 1950.” Nature. Vol. 411. 21 giugno 2001. pagg. 927930; Dickson Bob, Stephen D., J. Holfort, J. Meincke, W.R. Turrell e I. Yashayaev. “Rapid Freshening of the deep North Atlantic Ocean over the past four decades.” Nature. Vol. 416. 25 aprile 2002. pagg. 832-837; Curry, Ruth, B. Dickson e I. Yashayaev. “A change in freshwater balance of the Atlantic Ocean over the past four decades.” Nature. Vol. 426. 18-25 dicembre 2003. pagg. 826-829; Häkkinen e P.B. Rhines. “Decline of Subpolar North Atlantic Circulation During the 1990s.” Science Magazine. Vol. 304. 23 aprile 2004. pagg. 555-559. 066 STC 05 E 16 Labrador, della Danimarca e delle isole Faeroer, è lievemente diminuito, mentre più a sud, vicino all’equatore, è leggermente aumentato, mettendo così in pericolo l’equilibrio su cui si basa la circolazione termoalina in questa regione. Inoltre, alcuni di questi studi, come quello effettuato per conto del Consiglio artico, evidenziano come la regione occidentale dell’Atlantico settentrionale si sia raffreddata negli ultimi anni, mentre l’Artico si è notevolmente riscaldato. Sebbene gli autori di questi studi non dispongano di dati sufficienti a stabilire se si tratta di un fenomeno transitorio o di una tendenza generale che preannuncia forti cambiamenti climatici a lungo termine per l’Europa e il Nord America, simili a quelli verificatisi in passato, sono comunque concordi nel ritenere che possa essere una delle conseguenze del surriscaldamento del globo e dello scioglimento dei ghiacci marini e della copertura nevosa nella regione artica. 63. Secondo quanto affermato dal Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico nella sua relazione del 2001, i modelli che simulano il riscaldamento climatico nel XXI secolo suggerirebbero un indebolimento della corrente dell’Atlantico settentrionale. Oltre il 2100, tuttavia, gli stessi modelli prevedono che tale corrente possa cessare completamente ed irreversibilmente, qualora il riscaldamento perduri ad un ritmo sostenuto per tutto il XXI secolo.57 Tale possibilità è’ stata anche presa in considerazione dagli esperti che, lo scorso febbraio, hanno partecipato al simposio internazionale sui cambiamenti climatici improvvisi. Nonostante le molte incertezze scientifiche, uno di essi ha previsto la totale scomparsa della corrente entro il 2050, mentre, secondo le stime di alti due ricercatori, la probabilità che tale scenario si verifichi sarebbe pari al 30 percento nel 2100 e al 75 percento nel XXIII secolo.58 64. Gli autori dello studio sulle conseguenze di una interruzione della circolazione termoalina nell’Atlantico settentrionale condotto per conto del Dipartimento della Difesa americano, hanno basato il loro scenario sul raffreddamento che si sarebbe verificato 8200 anni fa. Essi hanno simulato un marcato rallentamento della corrente tra il 2010 ed il 2020. In base alle loro previsioni, tale evento provocherebbe nel corso dello stesso decennio una diminuzione delle temperature nell’emisfero settentrionale pari a circa 5oC, una riduzione delle precipitazioni del 30 percento e un aumento della forza del vento del 15 percento. 65. Sebbene gli autori all’inizio sostengano che tale situazione potrebbe verificarsi nell’arco di molti decenni o addirittura secoli, il loro studio ha almeno il merito di simulare le conseguenze a livello umano, economico, politico e geostrategico che tale raffreddamento e, più precisamente, la riduzione delle precipitazioni, avrebbero sulla comunità dell’Atlantico settentrionale. 66. Qualcuno dirà sicuramente che tale evento non si verificherà mai. Tuttavia, i dati presentati in questo studio evidenziano come la possibilità che questo possa accadere di nuovo esiste e che le ripercussioni potrebbero essere più gravi che in passato, dato il progresso economico e tecnologico raggiunto dalle società che vivono nell’emisfero settentrionale. VII. CONCLUSIONI: LA NECESSITÀ DI COMPRENDERE MEGLIO LE SFIDE ALLA SICUREZZA DELLA NATO DETERMINATE DAI CAMBIAMENTI CLIMATICI IMPROVVISI 67. E’ inutile dire che affrontare una questione sotto il profilo della sicurezza può portare ad attribuirle uno status che altrimenti non avrebbe. Il termine “sicurezza” può diventare sicuramente uno strumento politico nella corsa per richiamare l’attenzione dei governi. Pertanto, ciò che viene inserito all’ordine del giorno può ben riflettere gli interessi di alcuni a svantaggio di quelli di altri. Se il riscaldamento del globo e i cambiamenti climatici improvvisi rappresentano realmente delle sfide alla “sicurezza comune”, allora dobbiamo stare attenti a non ignorarli, dal momento che i loro 57 58 Ibid, pag. 15 (Supra Nota 6) Ibid, pag. 8 (Supra Nota 12) 066 STC 05 E 17 effetti sono decisamente asimmetrici; ciò significa che essi costituiscono un problema più per i paesi in via di sviluppo che per il resto del mondo. L’inserimento di questa voce all’ordine del giorno deve diventare una questione di priorità. 68. In un certo senso, il vostro Relatore ritiene che la NATO abbia già fatto il primo passo in questa direzione. Nel 1969 è stato creato il Comitato sulle sfide della società moderna, allo scopo di affrontare i problemi che affliggono l’ambiente degli Stati membri e la qualità di vita delle loro popolazioni. Oggi il Comitato si riunisce anche con i paesi partner. Tra i principali obiettivi che si prefigge figurano: • • • • • la riduzione dell’impatto ambientale delle attività militari; la realizzazione di studi regionali riguardanti anche le attività transnazionali; la prevenzione di conflitti legati alla scarsità delle risorse; la valutazione dei rischi emergenti per l’ambiente e per la società, suscettibili di creare instabilità economica, culturale e politica; e la valutazione delle sfide non convenzionali alla sicurezza. 69. Il Comitato non si impegna direttamente in attività di ricerca. Quest’ultima viene realizzata piuttosto su base decentrata, principalmente attraverso studi pilota della durata di tre-cinque anni e progetti ad hoc di 12-18 mesi, finanziati a livello nazionale. Le attività comprendono anche l’organizzazione di workshop specifici e la promozione, in collaborazione con altri enti, di conferenze e seminari internazionali. Per quanto limitato, il lavoro del Comitato testimonia almeno la sempre maggiore considerazione di cui godono i fattori ambientali, come i cambiamenti climatici improvvisi, nell’ambito dell’analisi strategica. 70. Il vostro Relatore ritiene che, in quanto organo collegiale, la nostra assemblea abbia tutte le carte in regola per poter valutare attentamente queste nuove sfide alla sicurezza, che presentano implicazioni politiche, militari, economiche, scientifiche e sociali. Le varie commissioni dell’Assemblea NATO potrebbero dedicare i loro sforzi anche all’esame di tali implicazioni secondo il rispettivo punto di vista, in modo da consentirci di apportare, collegialmente, un utile contributo. 71. Il carattere di urgenza degli studi proposti, secondo il Relatore, è stato recentemente messo in evidenza dalla già citata relazione commissionata dal Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti. Per quanto lo scenario illustrato sia estremo, è nondimeno plausibile e tale da mettere a repentaglio la nostra “[…] sicurezza secondo modalità che dovrebbero essere immediatamente prese in considerazione.”59 Stando alle conclusioni della relazione, il riscaldamento terrestre “[…] non dovrebbe più essere solamente oggetto di dibattiti scientifici, ma dovrebbe venire considerato un tema connesso alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti.”60 Qualora tale fenomeno dovesse davvero diventare una questione di sicurezza nazionale per gli Stati Uniti, allora, certamente, lo diventerebbe anche per molti di noi. Se non saremo adeguatamente preparati, potremmo trovarci di fronte ad una considerevole riduzione della capacità dell’ambiente terrestre di sostenere il genere umano. 72. La relazione prosegue poi con un’analisi del modo in cui un cambiamento climatico improvviso potrebbe destabilizzare il quadro geopolitico, determinando vari tipi e livelli di conflitto dovuti alla limitatezza delle risorse. In quest’ultimo caso rientrerebbero, ad esempio, la penuria di risorse alimentari, la minore disponibilità di acqua dolce e l’interruzione dell’erogazione di energia elettrica. Con la diminuzione del potenziale di sostentamento a livello mondiale e locale, i paesi dotati di risorse adeguate, come gli Stati Uniti, il Canada e la maggior parte delle nazioni europee, potrebbero trasformarsi in fortezze, mentre i meno fortunati sarebbero costretti a compiere scorrerie attaccando i paesi o i regimi limitrofi. 59 60 Ibid, pag. 1 (Supra Nota 9) Ibid, pag. 3 (Supra Nota 9) 066 STC 05 E 18 73. Nella relazione si afferma ad esempio che la Russia potrebbe entrare a far parte dell’Unione europea nel 2018, apportandovi le sue risorse energetiche. Tuttavia, in ragione delle rivalità interne sorte a causa dei milioni di profughi provenienti dai paesi scandinavi per l’accesso ai fiumi, all’acqua e alle altre risorse, gli autori prevedono altresì l’eventualità che l’Unione europea possa sciogliersi nel 2025. Nel Nord America, l’esigenza di maggiore sicurezza potrebbe portare gli Stati Uniti, entro il 2020, a formare un’alleanza per la sicurezza integrata con Canada e Messico, al fine di fermare il flusso di profughi provenienti dalle isole caraibiche, ormai inondate, e dall’Europa. Infine, la carenza di petrolio, associata all’abbassamento delle temperature nell’emisfero settentrionale, potrebbe innescare un conflitto militare nel Golfo Persico tra Cina, India, Europa e Stati Uniti. 74. E’ opinione del Relatore che aumenterebbero anche le probabilità di un conflitto distruttivo generalizzato, alimentato non solo da antiche ostilità, ma anche dalla penuria di risorse. Si costituirebbero così alleanze diverse a seconda delle priorità del momento, e l’obiettivo verrebbe ad identificarsi con il possesso delle risorse necessarie alla sopravvivenza, piuttosto che con l’affermazione di ideologie, religioni o forme di nazionalismo più tradizionali. Le nuove sfide richiederanno perciò approcci e meccanismi del tutto nuovi. Spetta a questa Assemblea definirli nel corso dei prossimi anni.