15 novembre
Alla fine era arrivato il 15 novembre, e la regressione temporale
che avevo vissuto negli ultimi mesi sembrava tendere
inesorabilmente verso quella data.
Non si trattava di qualcosa di surreale o dalle tinte
fantascientifiche, ma di una serie di eventi, più o meno casuali,
che mi avevano portato a ripercorrere le stesse strade che avevo
abbandonato un paio di anni prima con convinzione.
Mia madre diceva che quello che succedeva il primo dell'anno
avrebbe condizionato inevitabilmente gli avvenimenti dei dodici
mesi successivi "Chi non bacia a Capodanno, non bacia tutto
l'anno", scherzava.
Anche se la ritengo una semplice superstizione, fa ancora un certo
effetto ripensare a quella sera del 31 dicembre di quasi undici
mesi prima, passata in un teatro milanese a vedere un musical da
solo, su invito di un mio amico che vi lavorava come direttore di
scena.
Erano passati due anni da quando avevo detto addio alla
recitazione, e l'ultima cosa che pensavo potesse capitarmi era che
il teatro tornasse prepotentemente nella mia vita. Proprio nel
momento in cui tutto quello che avevo costruito si era ridotto
ormai in macerie. Le amicizie, il lavoro, il migliore amico
trasferitosi a Londra, la ex ragazza partita per Tokyo: ogni cosa
sembrava avermi abbandonato, da quando avevo deciso di rincorrere
un nuovo sogno a Torino, come scrittore.
Eppure, dopo appena sei mesi da quel Capodanno passato in teatro,
mi ritrovavo a Milano a discutere dello stesso spettacolo in cui
avevo recitato cinque anni prima in Giappone. Verso i primi di
novembre sarei tornato a fare l'attore sopra ad un palco, e non me
lo sarei mai aspettato.
Avevo deciso di abbandonare il teatro perché vi avevo riversato
sopra tutto l'amore che ero capace di generare, ma in cambio avevo
ottenuto solo delusione e sofferenza.
Un po' com'era successo con lei.
Lei era conosciuta, per i pochi con cui ne avevo parlato, come "la
cantante". Questo perché faceva effettivamente la cantante di
mestiere, già quando l'avevo incontrata sette anni prima nella
scuola di recitazione che frequentavo. Fin dal primo momento avevo
capito che c'era qualcosa di speciale che mi legava a lei. Al
punto che dovetti rompere con la ragazza che avevo ai tempi,
perché non potevo più guardarla negli occhi con la consapevolezza
che, al posto del suo sguardo, avrei voluto trovare quello di
un'altra.
Anche se mi amava e la cantante no.
Decisi di allontanarmi dalla cantante quando mi resi conto che
starle vicino senza poterla avere mi avrebbe fatto troppo male.
Non ero abbastanza forte da sopportarlo. E, il fatto che mi avesse
lasciato andar via senza battere ciglio, mi convinse di aver fatto
la cosa giusta.
Tuttavia, sei anni più tardi, capii di non essere stato capace di
dimenticarla. Nonostante le innumerevoli donne passate per la mia
vita, anche solo come amicizie, mi era rimasta fissa in un angolo
del cervello a picchiettare con insistenza.
Avevo cercato caparbiamente di far morire dentro di me quel
sentimento che mi legava a lei. Solo oggi comprendo che per farlo
dovevo lasciar morire anche una parte di me. Una parte
fondamentale che non sarebbe più rinata. Per questo motivo non fui
in grado di inaridirmi a tal punto da riuscirci fino in fondo.
Tornai a cercarla, convinto di essere ormai sufficientemente
maturo per cambiare le cose. Consapevole che si sarebbe trattato
di un lungo percorso di riavvicinamento. Perché lei, ad un primo
sguardo, appariva come una persona socievole e solare, ma in
realtà questa sua allegria nascondeva una strategia inconsapevole
che attuava per tenere le giuste distanze dagli altri. Per non
permettergli di farle male, per sentirsi più sicura. Più ci si
avvicinava, più cercava di allontanarsi. Mi viene in mente quella
volta che la incontrai per caso in metropolitana, mentre io
scendevo e lei saliva sul treno. Ci eravamo salutati di sfuggita.
Ero rimasto ad osservarla, i boccoli castani e il corpo minuto,
che si allontanava sulla carrozza in movimento. Facendomi le
boccacce, per scherzare, da dietro il vetro spesso, chiuso
ermeticamente.
Ci volle quasi un anno per poterla riavvicinare, ma lo feci
pazientemente, convinto che fosse quella speciale. Quella per cui
valeva la pena faticare e penarsi, pur di averla.
Quando ci rivedemmo la prima volta, ad aprile, per una cena in un
ristorante vicino alla scuola di recitazione in cui ci eravamo
conosciuti, ripiombai di colpo indietro di sei anni. Credo, in fin
dei conti, che fu proprio quello il punto di inizio della mia
regressione temporale. Dopo poche settimane, infatti, fui
contattato dal regista con cui avevo fatto lo spettacolo in
Giappone, che mi proponeva di rifarlo in Italia nei primi mesi di
novembre.
Ma in quel periodo ero impegnato con la fine della scuola di
scrittura torinese, a cui avevo dedicato anima e corpo per due
anni. Misi in attesa tutto il resto per quando sarebbe finita.
A giugno, infine, cominciò a crollarmi il mondo intorno.
Dovetti dire addio a molte persone, a partire dai compagni di
scuola che erano diventati le fondamenta della mia quotidianità. E
il futuro appariva così scuro, che rituffarmi nel passato mi
sembrava la cosa più rassicurante da fare. In attesa di capire
come proseguire e in quale direzione. Ancora una volta la mia vita
sembrava voler proseguire a cicli di due anni per volta, per
cambiarmi drasticamente le carte in tavola che con tanta fatica
avevo messo da parte.
Verso il finire dell'estate cominciarono le prove dello
spettacolo, nelle stesse aule in cui io e la cantante ci eravamo
incontrati per la prima volta, sette anni prima. Nei locali
deserti della scuola, mi sembrava di sentire le voci delle persone
con cui avevo condiviso le mie giornate da attore, come fantasmi
riemersi da un passato che avevo dovuto dimenticare. Fu come
tornare a casa dopo tanto tempo e non trovare nessuno ad
aspettarti.
Nel frattempo io e la cantante avevamo iniziato a sentirci con
maggiore frequenza e confidenza.
Avevo già intenzione di invitarla a vedere Slava's Snowshow a metà
ottobre, lo spettacolo teatrale più bello che avessi mai visto. Ma
ai primi giorni di ottobre, tornando alla macchina dopo le prove
del mio spettacolo, vidi attaccato ad un muro il manifesto del
Cirque du Soleil che promuoveva il loro show, Alegrìa, dal 15 al
18 novembre.
Ebbi la rivelazione che quello sarebbe stato il punto di arrivo di
tutta la vicenda.
Gli avvenimenti degli ultimi mesi mi riportavano a forza indietro
nel tempo, fino a quel momento in cui avevo deciso di allontanarmi
dalla cantante per poi iniziare una relazione con un'attrice
francese. Con la francese tutto era iniziato quando mi aveva
invitato a vedere Alegrìa, dove lavorava nell'accoglienza e le
avevano dato dei biglietti omaggio. Ai tempi stavo male per la
cantante ma, quel giorno di sei anni prima, un nuovo sentimento
aveva iniziato a crescermi dentro, fino ad allontanarmi
definitivamente da lei. Poi, nel giro di pochi mesi, si erano
susseguiti gli altri spettacoli chiave della vicenda. Dopo Alegrìa
ci furono Slava's Snowshow e lo spettacolo in Giappone. Tutto in
un anno. Lo stesso anno delle nostra separazione.
Mi ritrovavo quindi in procinto di ripercorrere, nell'arco di un
mese circa, i tre passaggi fondamentali che avevano decretato il
mio allontanamento dalla cantante. Con la sicurezza, però, di
essere diventato una persona diversa. Convinto che questa volta ci
sarebbe stata lei al mio fianco e le cose avrebbero finalmente
preso la piega giusta.
La invitai a vedere i due spettacoli. Accettò e io fui felice.
Pochi giorni dopo ebbi un'ulteriore conferma che qualcosa nel
flusso temporale aveva iniziato a girare al contrario, perché la
cantante mi scrisse che, inaspettatamente, anche lei sarebbe
tornata a frequentare la stessa scuola di recitazione che aveva
reso possibile il nostro incontro.
Una sera ci incrociammo addirittura nel corridoio d'ingresso della
scuola. Un'evento così improbabile che se solo avessi provato ad
immaginarlo poche settimane prima, lo avrei fatto con la coscienza
di essere diventato un idiota sognatore. Certo, il fatto che
quella sera, tornando a casa, la cantante mi confessò di aver
vomitato mentre era alla guida per tornare a casa, non mi parve
esattamente un ottimo segnale. Ma rimasi positivo verso il futuro.
Arrivò il giorno di Slava e fu indimenticabile. La cantante mi
disse che si trattava di una delle cose più belle che avesse mai
visto. Rimanemmo in silenzio, a fine spettacolo, seduti uno a
fianco all'altra nella balconata deserta. Ad osservare gruppi di
persone adulte giocare con dei palloni giganti in platea, come se
fossero bambini. E i clown sul palco che attendevano pazientemente
la fine dei giochi.
Mentre l'ultimo pallone veniva riposto dietro alle quinte, riuscii
a vedere per un attimo gli occhi della cantante, lucidi
dall'emozione.
Finalmente ci stavamo riavvicinando e potevo assaporare il gusto
piacevole della speranza.
Nei giorni in cui andai in scena con il mio spettacolo, nonostante
pensassi costantemente a lei, riuscii a gestire la smania di
rivederla grazie alla recitazione. Furono giorni strani, in cui
dedicai anima e corpo al palco. Tornai ad esibirmi davanti ad un
pubblico e i complimenti, che da troppo tempo mi ero abituato a
non ricevere più, rinvigorirono il mio ego.
Quando la cantante venne a vedermi recitare accompagnata da sua
sorella, una mia collega attrice a fine spettacolo mi disse "Oggi
sei stato incredibile. E' stata la sera che mi sei piaciuto di
più. Dico davvero”, la mia risposta fu semplicemente "E' perché
c'era a vedermi la ragazza di cui sono innamorato da sette anni".
Lei sorrise e disse “Mi sembra un ottimo motivo”.
Infine, poco dopo l'ultima replica del mio spettacolo, arrivò il
15 novembre. Il giorno in cui saremmo andati a vedere insieme
Alegrìa. E, finalmente, il cerchio si sarebbe chiuso.
Mi resi conto che tutti questi avvenimenti, in qualche modo, erano
legati tra loro da un elemento scenico: la neve. La neve era
presente in Slava, in Alegrìa e, soprattutto, nel mio spettacolo.
Era come un collante candido che alimentava l'alone magico attorno
all'intera vicenda, dandomi l'illusione di una qualche possibilità
di riscatto.
La neve che imbianca le strade, che modifica le forme degli
oggetti familiari fino a renderli estranei, e che allontana i
rumori del mondo.
Nella mia corsa frenetica verso la realizzazione personale avevo
lasciato indietro due cose troppo importanti. Il caso aveva deciso
che era giunto il momento di darmi una seconda occasione per
tornare a prenderle. Lei e il teatro.
Era arrivata con un ritardo di quasi mezz'ora, quella sera del 15
novembre, ma non mi interessava. Appena l'avevo vista scendere
dalla macchina, avevo capito che davanti alla sua bellezza avrei
potuto perdonare qualsiasi cosa. Mentre guidavo, spingendo
sull'acceleratore per recuperare il tempo perduto, mi parlava con
la sua tipica foga, inondandomi di parole. Ero felice di sentire
la sua voce riempire ogni angolo dell'abitacolo. Mi disse che
sarebbe voluta andare a fare un giro nei pressi di Garda, insieme
a me, per vedere il Vittoriale. Come ai vecchi tempi, quando
visitavamo le città d'arte assieme.
Forse qualcosa si stava davvero smuovendo e io, intimamente, mi
sentivo euforico.
Dopo una breve corsa a braccetto, facendoci spazio tra la gente
diretta verso il forum, arrivammo davanti agli ingressi ed
entrammo facilmente. Per un attimo le misi un braccio attorno alle
spalle in maniera inconscia, ma durò il giusto intervallo di tempo
affinché non entrasse in modalità "allerta". E, infatti, non disse
niente. Forse sorrise, ma non ricordo bene.
Ci impiegammo diversi minuti a trovare i nostri posti, perché la
corsa per arrivare in tempo mi aveva tolto lucidità e il Forum di
Assago era così colmo di gente da mandarmi in confusione. Mentre
risalivamo le scale osservavo il sedere perfettamente tondo della
cantante davanti a me, fasciato nei jeans bianchi, in un movimento
ondulatorio che per poco non mi intontiva. Fortunatamente non se
ne accorse.
Alla fine riuscimmo a raggiungere i posti. E fu allora che capii
di aver preso una fregatura. Davanti agli occhi una sbarra di
sicurezza ci divideva a metà il campo visivo e, per vedere
qualcosa, bisognava assumere posizioni da contorsionista, simili a
quelle degli artisti circensi che stavano sul palco.
Quando avevo visto per la prima volta il Cirque du Soleil era
stato diverso: non si erano esibiti nel forum, ma in un tendone
costruito appositamente all'esterno. Era stato tutto molto più
intimo e meno dispersivo. Pensai che in fondo era giusto così, che
non doveva essere la stessa cosa che avevo vissuto in passato. Era
arrivato il momento di ritornare al presente, insieme a lei.
Lo spettacolo fu bello, anche se non come quella prima volta, sei
anni prima. Ma, nonostante tutto, io e la cantante avevamo ripreso
la confidenza di un tempo. Potevamo scherzare e stare vicini senza
troppi imbarazzi e questo mi era più che sufficiente. Anche se
riuscivo a vedere ancora il suo muro di difesa tenermi a quella
distanza di sicurezza che la faceva stare tranquilla.
Restammo appoggiati con i gomiti sulla balaustra, quasi a
sfiorarci, mentre sul palco la magia del circo prendeva forma
davanti ai nostri occhi. Con le sue luci vivaci, le sue musiche, i
suoi uomini che facevano cose al di là dei limiti umani.
Finito lo spettacolo raggiungemmo la macchina per andare in cerca
di un ristorante.
Vista l'ora tarda ci mettemmo parecchio tempo a trovare un posto
ancora aperto. Alla fine decidemmo per un pub in perfetto stile
inglese, alle porte della città.
Ero stanco, perché stare con lei mi toglieva sempre le forze. Un
po' come quando recitavo e a fine spettacolo mi sentivo stremato,
per quanta energia vi avevo riversato dentro.
Prendemmo un paio di panini, un piatto di arancini e due birre.
Mi accorsi che erano passati esattamente sette mesi da quella
serata del 15 aprile in cui avevamo cenato al ristorante, quando
ero tornato a cercarla. Sette, come gli anni passati dal nostro
primo incontro. Il fatto che si trattasse di un numero considerato
magico non fece che confermarmi che il caso, forse, aveva davvero
deciso di giocare con le nostre vite.
Rivedevo tutta la nostra storia come se fosse un lungo film e noi
ci trovassimo esattamente alla fine del primo atto. Dopo il “ti
fidi di me” che portava irrimediabilmente l'uno nel mondo
dell'altro. “Mi fido di te”, mi aveva risposto la cantante quando
le avevo proposto di venire con me a vedere i due spettacoli. Non
poteva sapere che si trattava di un tòpos delle commedie
romantiche ma io, fresco di studi sulle tecniche narrative, non
potei fare a meno di notarne l'ironia.
Dopo un brindisi ci mettemmo a parlare dell'alcol, del fatto che
non fosse troppo un tipo da birra "E poi, soprattutto, non
sopporto la sambuca. Perché sa di anice e mio padre si alcolizzava
con un liquore che sapeva di anice", mi disse. Ripensai a quando
mi parlava di suo padre, che la picchiava e tutto il resto. Io non
le avevo chiesto mai molto a riguardo perché, tanto, tutto quello
che c'era da sapere glielo leggevo già negli occhi. E a chiedere
avevo paura di farle male senza rendermene conto. Pensai alle mie
figure paterne, al senso di abbandono che mi avevano lasciato in
eredità. Erano tutte riassumibili nell'immagine di mia madre.
Quell'immagine che mi si è annidata dentro da quella sera in cui,
poco più che dodicenne, di ritorno dalla settimana passata insieme
a mio padre in Veneto, le intravidi i polsi fasciati dalla garza
bianca, macchiata di sangue. Posso ancora provare la vertigine che
mi colse in quel momento, quando di colpo presi consapevolezza
della sua fragilità. La fragilità di quella donna che ai miei
occhi sembrava indistruttibile, che mi copriva con tutto il suo
amore incondizionato, quasi a sopperire gli abbandoni degli uomini
che erano passati per le nostre vite. Capii che, in un attimo di
follia generato da un amore ferito, avrebbe potuto sparire per
sempre. E io sarei rimasto definitivamente solo.
Quella e altre immagini avevano contribuito a fortificare il mio
rispetto nelle donne, fino a rendermi incapace di farle soffrire
volontariamente. Forse questa mia convinzione mi aveva portato a
credere che, con la cantante, avrei potuto realmente avvicinarmi
più di quanto non avessero fatto altri amanti. Perché io sapevo su
quali tasti spingere e su quali evitare di farlo, perché riuscivo
a vedere attraverso il suo muro più di quanto lei non sospettasse.
E, se mi avesse dato in consegna il suo cuore, avrei cercato in
tutti i modi di evitare che le crepe al suo interno peggiorassero.
L'avrei amata, lo sapevo, molto più di quanto lei poteva credere.
La conversazione al pub fu tranquilla anche se, lentamente, avevo
iniziato a percepirla sempre più distante.
Per un attimo risentii nell'aria lo stesso profumo agrodolce che
si metteva addosso anni prima e che, per molto tempo, mi era
rimasto impresso nella mente in maniera indelebile. Fu l'ultimo
colpo di coda del passato che mi abbandonava, per riportarmi al
presente.
Sapevo che ormai il tempo stringeva, e che non potevo più
permettermi di lasciarmela sfuggire di mano come avevo sempre
fatto. Dovevo tentare un azzardo per smuovere la situazione,
perché il limbo dell'eterno amico mi aspettava dietro l'angolo.
Anche se lei, consapevolmente o non, sapeva benissimo quali
fossero i miei sentimenti nei suoi confronti. Ma poteva
permettersi di ignorarli.
Tornammo alla macchina e a quel punto, ormai, non capivo più
niente. Tempo dieci minuti saremmo arrivati al parcheggio dove
c'era la sua auto e ci saremmo salutati. E così fu.
Ci salutammo davanti alla portiera aperta dell'auto, mentre faceva
andare il riscaldamento per sbrinare i vetri. Si era messa addosso
una coperta che teneva nel bagagliaio, per il freddo. Ci salutammo
con un lungo abbraccio, come facevamo nei nostri primi anni di
conoscenza. E io avrei dovuto semplicemente ricevere tutto il
calore di quell'abbraccio e sentirmi appagato. Ma non potevo
vederla andare via così, ancora una volta, senza fare qualcosa per
impedire che finisse alla stessa maniera di sempre. La raggiunsi
mentre si sedeva sul sedile dell'auto, pronta a partire. Le diedi
tre baci sulla guancia e mi fermai per qualche istante a pochi
centimetri dalla sua bocca. Non avevo nessuna intenzione di
superare quella breve distanza, perché sapevo che l'avrebbe presa
come una violenza nei suoi confronti. Restai ad attendere un paio
di secondi, sperando che fosse lei ad annullare la distanza tra di
noi. Vidi la sua bocca contrarsi, gli occhi svuotarsi di ogni
emozione e percepii l'abisso che nascondeva dentro. Mi tirai
indietro e, dopo pochi attimi, mi disse con rabbia "Che cazzo
vuoi?". Mi sentii come un estraneo che l'aveva urtata
violentemente mentre aspettava in coda al supermercato. I pochi
centimetri che poco prima separavano le nostre bocche erano
diventati chilometri, tanto che ormai non riuscivo quasi più a
riconoscerla. Sapevo che mi avrebbe fatto male, ma mi limitai a
sorriderle da lontano dicendo "Ti ho dato i tre bacini sulle
guance per salutarti" e salii sulla mia auto, lasciandola sola.
Andai a parcheggiare in una via deserta poco distante, per
riprendermi e fumare una sigaretta.
Il giorno dopo mi resi conto che si trattava della stessa via in
cui abitava l'uomo che, dopo la separazione tra i miei genitori
quando avevo due anni, avevo imparato ad amare come se fosse un
padre sostitutivo. La stessa persona che poco prima della mia
adolescenza ci aveva abbandonato senza farsi più sentire.
Lasciandomi come eredità l'immagine di mia madre con i polsi
fragili, stretti nella garza macchiata di sangue.
Se fosse stato un film avrei alzato gli occhi al cielo, con la
sigaretta accesa tra le labbra. Ad osservare la neve che iniziava
a scendere lentamente, fino a coprire ogni cosa.
Rivedo il suo sguardo, mentre provo a baciarla, mentre seguo
quell'istinto ancestrale su cui si basa la vita stessa.
E' lo sguardo di mia madre quella sera, spaventato e smarrito.
Mi sento addosso l'odore appiccicoso del liquore all'anice di suo
padre, che mi dà la nausea. Mi sento sporco, come se avessi
commesso un crimine di cui ignoravo l'esistenza.
Avrei voluto amarla, condividere una piccola parte delle nostre
vite, anche solo per un attimo. Credevo di essere pronto, ma lei
non poteva accettarlo.
Compresi che il passato non può essere cambiato. Può solo
contorcersi su se stesso, fino a strangolarti.
Alessio Mizzan