James Graham Ballard, Regno a venire Dal cap. 1 La croce di San Giorgio I quartieri residenziali sognano la violenza. Addormentati nelle loro sonnacchiose villette, protetti dai benevoli centri commerciali, aspettano pazienti l’arrivo di incubi che li facciano risvegliare in un mondo più carico di passione... Pie illusioni, mi dissi, mentre l’aeroporto di Heathrow rimpiccioliva nello specchietto retrovisore. Un atteggiamento a dir poco stupido, come l’inveterata abitudine, tipica di chi fa pubblicità, di assaggiare la confezione invece del prodotto. Ma era difficile accantonare quei pensieri. Mi spostai con la mia Jensen nella corsia per veicoli lenti della M4 e cominciai a leggere i segnali stradali che mi davano il benvenuto nelle cittadine alle porte di Londra. Ashford, Staines, Hillingdon: destinazioni impossibili che appaiono solo sulle mappe mentali di gente disperata che lavora nel mondo del commercio. Oltre Heathrow c’erano gli imperi del consumismo, e il mistero che mi aveva ossessionato fino al giorno in cui avevo lasciato per sempre la mia agenzia. Come si poteva risvegliare un popolo addormentato che possedeva tutto, che aveva comprato anche i sogni che si possono comprare con il denaro, sapendo di aver fatto un affare? Sul cruscotto lampeggiava fastidioso il segnale della freccia a sinistra, un comando che ero certo di non aver azionato. Ma a cento metri c’era uno svincolo autostradale che in un certo senso sapevo mi stava aspettando. Rallentai e uscii dall’autostrada, immettendomi in un cunicolo con i bordi verdi che si ripiegava su se stesso. Passai accanto a un cartellone che mi invitava a visitare una nuova zona commerciale e un centro conferenze. Frenai di colpo, con l’idea di tornare in autostrada. Ma poi non lo feci. Meglio lasciare sempre che sia la strada a decidere... Come molti di coloro che abitano nel centro di Londra, percepivo sempre un senso d’inquietudine quando mi allontanavo dalla città per avventurarmi nelle zone residenziali dell’hinterland. Anche se, in realtà, nel corso della mia carriera di pubblicitario avevo flirtato a lungo con l’idea di un’esistenza in un posticino tranquillo. Lontane dalla vita febbrile della metropoli, che mette a dura prova le sinapsi umane, le cittadine satellite che sonnecchiavano protette dalla M25 erano praticamente un’invenzione dell’industria pubblicitaria. O almeno così amavano pensare gli account executive come me. Avremmo potuto credere fino all’ultimo giorno della nostra vita che quei posti erano trasfigurati dai prodotti che vendevamo loro, da marchi e loghi che davano un senso alla loro esistenza. Eppure, in qualche modo si ribellavano, diventavano eleganti e sicuri, il vero centro della nazione, tenendoci per sempre a distanza. Mentre osservavo il placido mare di tetti rossi, piacevoli giardinetti e cortili di scuole, provai un improvviso risentimento, la stessa fitta di dolore che ricordavo di aver avvertito quando mia moglie mi aveva dato un bacio affettuoso, facendo un timido cenno di saluto dalla soglia del nostro appartamento di Chelsea, e mi aveva lasciato. L’affetto a volte si rivela nei momenti più crudeli. Ma la mia inquietudine aveva una ragione speciale: solo poche settimane prima, quei graziosi sobborghi si erano acquattati ringhiosi in attesa di sferrare l’attacco e uccidere mio padre. Alle nove di quella mattina, due settimane dopo il funerale di mio padre, lasciai Londra per Brooklands, una cittadina tra Weybridge e Woking sviluppatasi negli anni trenta attorno a un circuito automobilistico. Mio padre aveva trascorso l’infanzia a Brooklands e, dopo una vita passata sugli aerei, il vecchio pilota di linea era tornato lì a fare il pensionato. Mi ero rivolto ai suoi legali, per vedere se l’esecuzione del testamento procedeva, per mettere in vendita il suo appartamento, ponendo così formalmente fine a una vita della quale non avevo mai fatto parte. Secondo quanto diceva l’avvocato Geoffrey Fairfax, dall’appartamento si poteva vedere il vecchio autodromo, un sogno di velocità che evidentemente ricordava al vecchio tutte le piste aeree che riempivano ancora i suoi pensieri. Quando misi via le sue uniformi e chiusi la porta, un’ultima barriera si alzò davanti all’ex pilota della British Airways, un padre assente che un tempo avevo adorato come un eroe, ma che non vedevo praticamente mai. Quando avevo cinque anni, mio padre lasciò mia madre, una donna dalla volontà di ferro, ma con un carattere particolarmente difficile. Aveva fatto milioni di chilometri, atterrando in alcuni tra gli aeroporti più pericolosi del mondo, era sopravvissuto a due tentativi di dirottamento e alla fine era rimasto ucciso da una pallottola vagante in un centro commerciale di una cittadina alle porte di Londra. Quel giorno, un paziente in libera uscita da un ospedale psichiatrico era andato nel Metro-Centre di Brooklands e aveva sparato a caso tra la folla, all’ora di pranzo, uccidendo tre persone e ferendone quindici. Mio padre era stato stroncato da una singola pallottola. Un tipo di morte che uno si aspetterebbe a Manila, a Bogotá o a Los Angeles est, non in una cittadina inglese con tanto verde attorno. Purtroppo tutti i suoi parenti e gran parte dei suoi amici erano morti prima di lui. Mi occupai del funerale ed ebbi modo di dargli l’ultimo saluto. Mentre l’autostrada si allontanava alle mie spalle, l’idea di girare la chiave nella toppa della porta di casa di mio padre mi appariva sul parabrezza come un visualizzatore head-up vagamente inquietante. Lì avrei trovato ancora molto di lui: il suo sudore sugli asciugamani e sui vestiti, il bucato nella cesta della biancheria, quel puzzo tipico dei vecchi bestseller sugli scaffali. Ma la sua presenza sarebbe stata inscindibile dalla mia assenza, quei vuoti che avrei trovato ovunque come cellule vacanti di un alveare, spazi che neanche suo figlio era stato in grado di riempire quando lui aveva abbandonato la famiglia per un universo fatto di cieli. Quegli spazi erano anche dentro di me. Invece di trascinarmi in giro per Harvey Nichols con mia madre, o sorbirmi un’infinità di tè da Fortnum & Mason, sarei dovuto stare insieme a mio padre, a costruire il mio primo aquilone, a giocare a cricket in giardino, a imparare ad accendere un falò e ad andare sul dinghy. Avevo deciso di intraprendere una carriera nel mondo della pubblicità; una carriera che sarebbe stata brillante fino al giorno in cui commisi l’errore di sposare una collega, ritrovandomi così con una rivale che non avrei mai potuto sperare di battere. Arrivai in fondo allo svincolo, davanti a me c’era un enorme camion che trasportava microvetture, così nuove e scintillanti da far venire voglia di mangiarle, o quanto meno leccarle: mele caramellate alla cellulosa che illuminavano il giorno. Al semaforo il camion si fermò – un toro di ferro pronto ad affrontare la corrida della strada. Al verde ripartì fragoroso alla volta di una zona industriale poco distante. E già mi ero perso. Ero appena entrato in quella che la cartina stradale mi segnalava come un’area di antiche cittadine della Valle del Tamigi – Chertsey, Weybridge, Walton – ma di cittadine nemmeno l’ombra e attorno a me c’erano pochissime tracce di insediamenti urbani permanenti. Stavo attraversando zone cresciute alla rinfusa tra una città e l’altra, una geografia di deprivazione sensoriale, un territorio di strade a doppia carreggiata e stazioni di servizio, aree industriali e segnali stradali per Heathrow, terreni agricoli in disuso pieni di serbatoi per butano, depositi con esotici rivestimenti di lamiera. Passai accanto a un terreno industriale abbandonato, occupato in gran parte da un enorme cartellone che annunciava l’ampliamento della zona sud di Heathrow e da uno spazio illimitato destinato alle merci da trasportare, sebbene si trattasse di un terreno vuoto dove tutto era già stato spedito a destinazione. Lì nulla aveva senso se non nei termini di una cultura transitoria da aeroporto. Segnali di allarme che si allertavano a vicenda; il paesaggio era un susseguirsi di avvisi di pericolo. Acquattate sui cancelli dei depositi, le telecamere a circuito chiuso e le frecce direzionali che indicavano di tenere la sinistra pulsavano instancabilmente, indicando le oasi protette dei centri di ricerca per l’alta sicurezza. Apparve una schiera di villini, nascosti nell’ombra del terrapieno di un laghetto artificiale; l’unica parvenza di un senso di comunità era data dalle distese di auto usate che lo circondavano. Dirigendomi verso un ipotetico Sud, passai accanto a un take away cinese, un magazzino di mobili all’ingrosso, un allevamento di cani da difesa e un tristissimo complesso residenziale che sembrava un carcere riconvertito. Non c’erano cinema, chiese, né centri di attività amministrative o ricreative, e gli unici indizi di qualcosa di culturale erano la schiera infinita di cartelloni che pubblicizzavano uno stile di vita consumistico. Sulla mia sinistra il traffico scorreva lungo una strada secondaria piena di auto familiari che cercavano un posto dove parcheggiare. Trecento metri più avanti, una fila di vetrine che riflettevano il sole. Dall’intrico di raccordi e autostrade era comparso un piccolo complesso residenziale. Il viaggiatore smarrito trovava finalmente soccorso nell’insegna al neon di un negozio di attrezzi per il giardinaggio e un’agenzia di viaggi che pubblicizzava “vacanze di lusso”. Ero fermo al semaforo in attesa del verde, un’eternità compressa in pochi secondi. Come ottuse divinità, i segnali stradali esercitavano la loro autorità su incroci deserti. Stavo abbassando il piede sull’acceleratore, pronto a passare con il rosso, quando vidi dietro di me una macchina della polizia in attesa. Come la cittadina, anche la macchina si era materializzata dal nulla, allertata dalla fantasia ribelle di un autista smanioso alla guida di una due posti superpotente. Quel paesaggio schierato in difesa aspettava che qualcuno commettesse un crimine. […]