Accumulazione del capitale e crescita economica tra Italia liberale e

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Dipartimento di Politiche Pubbliche e Scelte Collettive – POLIS
Department of Public Policy and Public Choice – POLIS
Working paper n. 161
March 2010
Accumulazione del capitale e crescita economica
tra Italia liberale e regime fascista
Roberto Ricciuti
UNIVERSITA’ DEL PIEMONTE ORIENTALE “Amedeo Avogadro” ALESSANDRIA
Periodico mensile on-line "POLIS Working Papers" - Iscrizione n.591 del 12/05/2006 - Tribunale di Alessandria
Accumulazione del capitale e crescita economica tra Italia
liberale e regime fascista*
Roberto Ricciuti**
Università degli Studi di Firenze e CESifo
SOMMARIO
La letteratura di storia economica del fascismo rileva come le politiche economiche del regime fossero
indirizzate verso l’aumento di questo fattore della produzione. In questo lavoro si analizza il processo di
accumulazione del capitale in Italia tra il 1881 e il 1938 per verificarne la stabilità. Se queste politiche avessero
avuto successo, dovremmo essere in grado di verificare una discontinuità nel processo di generazione dei dati
rispetto al periodo precedente. La nostra analisi mostra, invece, come il processo sia stabile nel tempo, e
comunque non rileva discontinuità direttamente attribuibili alla politica economica del regime.
ABSTRACT
The economic history literature on Fascism points out that its policies were strongly oriented towards capital
accumulation. In this paper we analyse capital accumulation in Italy between 1881 and 1938 to verify its
stability. If these policies were successful, we should observe a discontinuity in the data generation process with
respect to the previous period. However, this analysis shows that the process is quite stable over time, and
possible discontinuities cannot be attributed to the economic policy of the Fascist government.
Codici JEL: N13, N14, O11, C22.
Parole chiave: accumulazione del capitale, processo AR, stabilità, fascismo, Italia liberale.
* Desidero ringraziare, senza implicazioni, Alessandra Staderini per le indicazioni sulla storiografia economica
del fascismo.
** Dipartimento di Studi sullo Stato, Università degli Studi di Firenze, Via delle Pandette 21, 50127 Firenze.
Email: [email protected]
1. Introduzione
La teoria economica non ha una predizione precisa riguardo alla relazione tra
democrazia e crescita economica. Da un lato, infatti, si ritiene che un regime dittatoriale possa
essere più favorevole alla crescita rispetto ad uno democratico poiché applica una politica
redistributiva meno forte di quella di un regime democratico, quindi esercitando una minore
pressione fiscale con un effetto positivo sugli investimenti e quindi sull’accumulazione di
capitale, uno dei fattori determinanti della crescita. Dall’altro, proprio l’esistenza di una rete
di protezione data dalla redistribuzione permette di ridurre i vincoli di liquidità e quindi
permette a soggetti con idee innovative ma con capitali limitati di realizzare innovazioni di
prodotto e di processo che sono alla base della crescita economica (Acemoglu e Robinson,
2006). La letteratura empirica, a sua volta, non giunge a risultati univoci (Barro, 1996;
Acemoglu e al., 2008; Persson e Tabellini, 2006; Papaioannou e Siouriounis, 2008).1
Per analizzare la relazione tra democrazia e crescita economica è interessante, oltre ai
lavori citati in precedenza che considerano congiuntamente paesi diversi, analizzare un caso
nazionale di transizione dalla democrazia – per quanto ristretta - alla dittatura, come il
cambiamento di regime avvenuto nel nostro paese tra il regime liberale ed il fascismo. Un
potenziale vantaggio di questa analisi risiede nel fatto che considerando un solo paese
vengono meno quei problemi di eterogeneità che probabilmente sono alla base dei risultati
poco robusti dei lavori cross-country.
Secondo Gregor (1979) il fascismo si caratterizza come una dittatura con una forte
componente “sviluppista” non diversamente dai regimi dittatoriali comunisti dello stesso
periodo. Tuttavia, la valutazione di questo elemento risulta essere molto complessa e non
univoca. Cohen (1988) analizzando i casi di ‘quota 90’ e della fondazione dell’IRI esclude
che in questi atti vi fosse un disegno intelligente da parte del regime riguardo la crescita del
paese, e conclude che l’Italia in quegli anni è cresciuta meno degli altri paesi europei,
dovendo sopportare anche il costo della dittatura. Castronovo (1975) pone il problema de
“l’interpretazione del fascismo come “ristagno economico” o come rafforzamento di un certo
modello di sviluppo capitalistico”. Lyttelton (1974: 695) propende per una lettura negativa di
questo tema: “L’eredità del fascismo non fu interamente negativa. […] Ma vi sono ben pochi
argomenti a sostegno della tesi che il fascismo sia stato una dittatura catalogabile tra quelle
che accompagnano spesso il processo di modernizzazione e di sviluppo almeno se il metro per
misurarlo è il risultato e non l’intenzione. Nel periodo fascista lo sviluppo economico
1
Per una breve rassegna bibliografica sia consentito rinviare a Nannicini e Ricciuti (2010).
1
procedette più lentamente di quanto è avvenuto prima e sarebbe avvenuto dopo di esso, e la
modernizzazione tecnica dell’industria italiana fu ritardata dalla tendenza verso un’economia
chiusa”.
La letteratura sulla politica economica fascista enfatizza il ruolo dell’accumulazione
del capitale, un obiettivo ragionevole data l’arretratezza dell’economia italiana e più in
generale le caratteristiche delle economie dell’epoca, dove i driver moderni della crescita
economica (capitale umano, tecnologia) giocavano un ruolo limitato2. Per questo motivo
analizziamo la dinamica dell’accumulazione del capitale attraverso tecniche econometriche
per verificare se in corrispondenza del fascismo sono riscontrabili discontinuità significative
rispetto al periodo precedente, e quindi valutare se le politiche economiche del ventennio
abbiamo effettivamente promosso questo fenomeno centrale per la crescita economica.
Il lavoro ha la seguente struttura: nel secondo paragrafo si ripercorrono gli aspetti
principali della politica economica fascista, mente nel terzo si analizzano i due lavori
cliometrici che hanno affrontato una valutazione quantitativa dell’economia durante la
dittatura. Il quarto paragrafo presenta la metodologia di questo lavoro ed i risultati. Il quinto
paragrafo propone alcune considerazioni conclusive.
2. La politica economica del fascismo
La politica economica del fascismo è stata caratterizzata dal tentativo di favorire
l’accumulazione di capitale attraverso l’aumento dei profitti degli imprenditori. Fausto (2007)
offre un’ampia analisi della politica economica fascista, con particolare riferimento alla
relazione tra stato e mercato. In particolare, dopo una prima fase di politica liberista, dopo il
1925 si passa ad un intervento sempre più attivo dello stato nell’economia (corporativismo,
fondazione di IRI, Agip, IMI…)3. In primo luogo si è attuata una politica di compressione dei
salari operai4 in maniera da aumentare i profitti e quindi gli investimenti. Inoltre, sempre con
lo stesso obiettivo, furono favoriti gli oligopolisti sul mercato interno. In secondo luogo, lo
stato ha realizzato una politica commerciale volta alla sostituzione delle importazioni e quindi
2
E’ appena il caso di ricordare come il dibattito sull’accumulazione di capitale in Italia sia stato il tema centrale
della discussione tra la storiografia liberale (Romeo) e quella marxista (Sereni) riguardo alla mancata riforma
agraria dopo l’Unità d’Italia.
3
Analizzando i casi della riforma bancaria del 1936, dell’istituzione della Ragioneria Generale dello Stato, il
finanziamento della guerra e le relazioni tra l’industria privata, l’Ente Nazionale per la Cellulosa e la Carta e
l’Istituto Cotoniero Italiano, Faucci (1975) sostiene che queste istituzioni furono poco efficaci nella gestione
pubblica dell’economia. Fausto (2007) formula, invece, un giudizio molto positivo sull’IRI. Iaselli (2007)
fornisce un’approfondita analisi degli enti economici del fascismo.
4
Sui salari e il mercato del lavoro durante il regime fascista si vedano Zamagni (1976) e Sabbatucci Severini e
Trento (1975).
2
a far crescere il mercato interno delle imprese nazionali. Questo tipo di politica incontra il suo
principale limite nel creare una classe imprenditoriale sostanzialmente assistita che non si
confronta con il mercato internazionale e quindi non ha gli incentivi all’innovazione che sono
determinati dalla concorrenza internazionale5.
Ciocca e Toniolo (1976) distinguono cinque sottoperiodi nella politica economica del
fascismo: risanamento (1922-1925), quota novanta (1926-1929), crisi internazionale (19301932), autarchia (1933-1935), impero e preparazione bellica (1936-1939). Il primo periodo è
associato alla politica liberista del ministro De Stefani. Gli obiettivi erano la riconversione
dell’apparato produttivo, l’aumento della produttività, il risanamento della finanza pubblica, il
miglioramento della bilancia commerciale e la stabilità dei prezzi. Lo strumento principale di
questa politica è stata la riduzione dei salari nominali e reali, attraverso il patto di Palazzo
Chigi nel 1923.
La stabilità dei prezzi è l’obiettivo mancato in questo periodo: l’eccesso di domanda
dovuto agli investimenti portò ad un’inflazione del 19% nel 1925 e del 5% nel 1926. A questo
aumento del livello dei prezzi segue il deprezzamento della lira che rispetto alla sterlina a
Londra quotava 89,48 nel giugno 1922, 145 nel luglio 1925 e 154 nel luglio 1926. A questo
progressivo deprezzamento il regime rispose con una rivalutazione fino a ‘quota 90’,
attraverso politiche monetarie e fiscali come il controllo della circolazione, l’aumento dei tassi
di interesse, il consolidamento a breve del debito pubblico con il prestito obbligatorio Littorio.
Queste politiche erano sufficienti a provocare la rivalutazione della lira in funzione antiinflazionistica, tuttavia l’obiettivo di ‘quota 90’ apparteneva alla retorica del regime6 ed al
tentativo di imporre alla borghesia produttiva, che preferiva un tasso di cambio pari a 120, le
decisioni del governo7. Al costo di una riduzione della domanda e quindi dell’occupazione, la
politica deflattiva ebbe successo, facendo aumentare i salari reali e quindi la domanda nel
1927.
5
Una valutazione critica della lettura prevalente della politica economica fascista, che possiamo identificare con
il volume di Ciocca e Toniolo, è data da Bonelli e al. (1976) i quali ritengono che le scelte del regime non furono
sostanzialmente diverse da quelle degli altri paesi europei, e che in molte circostanze non sarebbe stato possibile
realizzare politiche diverse. La critica di Bonelli e al. (1976) è per alcuni versi ancora più radicale, in quanto
ritiene che la visione del “capitalismo pigro” che sottostà a questa interpretazione delle politiche del fascismo –
con particolare riferimento alla compressione dei salari – sia indimostrabile, e che l’ottica con cui viene valutato
il fascismo è quello della politica economica successivo alla seconda guerra mondiale ed all’interpretazione di
questa come successione di ‘occasioni mancate’, che si estende anche al periodo precedente.
6
Nel discorso di Pesaro nel 1927 in cui fissò “quota 90”, Mussolini affermò: “Il regime fascista è preparato ad
imporre su tutti i sacrifici necessari, ma la nostra lira, che rappresenta il simbolo della nazione, il segno della
nostra ricchezza, il simbolo del nostro duro lavoro, dei nostri sforzi, delle nostre lacrime, del nostro sangue, è
difesa e sarà difesa”. (Cohen, 1988: 103).
7
Toniolo (1980: 123).
3
Per far fronte alla depressione degli anni 1930-1932 il governo instaura una politica
economica basata da una parte sulle opere pubbliche come strumento per ridurre la
disoccupazione e aumentare la domanda, dall’altra rafforza il processo di “cartellizzazione”
dell’economia in modo da ridurre il calo dei prezzi dovuto alla crisi della domanda. In questo
periodo il prodotto interno loro si riduce del 15%, la produzione industriale del 19%, i
consumi privati rimangono stabili, mentre quelli pubblici aumentano del 22%, gli
investimenti dell’1% e le esportazioni si riducono del 29%.
Il periodo successivo (1933-1935) è caratterizzato dal definitivo consolidamento della
politica dirigistica e autarchica, con la sostituzione delle importazioni ottenuta mediante
prezzi più elevati per questi settori in modo da aumentare la remunerazione degli investimenti
e con la prosecuzione della politica di compressione dei costi salariali. Dal punto di vista
dell’economia reale il risultato è positivo, anche perché nel 1935 si verifica la ripresa
dell’economia internazionale e l’Italia sperimenta una fase di crescita delle esportazioni
soprattutto nei settori metallurgico, meccanico e chimico. La ripresa è trainata dalla necessità
di ripristinare le scorte e dagli investimenti derivanti dalla nuova accumulazione di capitale
nei settori caratterizzati dalla politica autarchica. Dal punto di vista dell’economia finanziaria,
invece, il mercato sottopone a forti pressioni le riserve auree ai quali si cercò di ovviare con il
controllo dei cambi, l’obbligo di cessione delle divise, la non negoziabilità dei titoli esteri e
del debito pubblico collocato all’estero.
L’ultima fase è quella dell’Impero e della preparazione bellica, in cui la politica fiscale
– la spesa pubblica corrente raddoppia tra il 1936 ed il 1938 - deve finanziare l’aumento della
spesa militare che ha creato un eccesso di domanda che vede una crescita degli investimenti,
delle scorte e delle esportazioni (queste ultime anche a causa della svalutazione della lira di un
ammontare compreso fra il 40% ed il 50% rispetto a sterlina, dollaro e marco nel 1936). La
politica governativa si concentra principalmente sull’offerta: assegnazione delle materie prime
alle industrie belliche, sfruttamento delle risorse naturali interne, sviluppo delle tecniche
produttive confacenti alle risorse dell’industria e dell’agricoltura. Infine, questa fase è anche
segnata dalla politica migratoria verso l’Etiopia.8
8
Accanto all’analisi diacronica delle politiche economiche fasciste, alcuni autori hanno approfondito gli
interventi in alcuni settori economici. Cohen (1979) analizza le politiche agricole del fascismo concludendo in
maniera negativa rispetto allo sviluppo di questo settore. Cadeddu e al. (1975), Corner (1975) e Fano (1975)
analizzano il tema del dualismo nell’agricoltura italiana tra imprese agricole capitaliste e piccola proprietà e del
suo approfondimento durante il ventennio fascista. Tattara e Toniolo (1976) e dell’Orefice (2007) analizzano lo
sviluppo dell’industria, mentre Covino e al. (1976) e Paradisi (1976) affrontano lo stesso tema con riferimento
alle politiche commerciali.
4
Il lavoro è organizzato nel modo seguente: nel paragrafo 2 si analizza la letteratura di
storia economica quantitativa sul fascismo, nel paragrafo 3 vengono presentate la metodologia
dell’analisi ed i dati, i cui risultati sono mostrati nel paragrafo 4. Il paragrafo 5 propone alcune
considerazioni conclusive.
3. La storia economica quantitativa del fascismo
La letteratura quantitativa di storia economica relativa al fascismo è abbastanza datata
(Filosa e al., 1976; Del Monte, 1977) e presenta due limiti importanti. In primo luogo è stata
realizzata con metodologie essenzialmente statistiche e non econometriche e, quando tali rare
stime sono state realizzate, le tecniche erano piuttosto rudimentali e non prive di errori. In
secondo luogo, oggi sono disponibili nuove serie della produzione (Fenoaltea, 2003) per il
periodo 1861-1913 che modificano fortemente la visione dell’andamento dell’economia
dell’Italia liberale e che quindi cambiano la performance economica del periodo precedente a
quello fascista.
Filosa e al. (1976) costruiscono un modello che non vuole essere cliometrico9, ma
strutturale dell’economia italiana dell’epoca, all’interno di una visione keynesiano-kaleckiana
dell’economia “in cui la distribuzione del reddito ai fattori della produzione domina nel breve
periodo la formazione della domanda attraverso i consumi e nel medio e lungo
l’accumulazione e la composizione dell’offerta attraverso gli investimenti. Tale ipotesi di
fondo – che non ci pare contraddetta per il secondo dopoguerra, anche in presenza di una
struttura industriale più diversificata e di una più ampia apertura e integrazione con l’estero –
appare a fortiori più plausibile per una fase precedente dello sviluppo” (Filosa e al., 1976: 7778). La chiave interpretativa di questo come di altri lavori dell’epoca elaborati presso la Banca
d’Italia è quella di uno sviluppo post-bellico trainato dai bassi salari e non dalle esportazioni,
e questa interpretazione viene estesa anche al periodo tra le due guerre mondiali. Nel cercare
la continuità/discontinuità tra l’economia del periodo fascista e quella del dopoguerra, il
contributo si pone in un’ottica speculare rispetto a questo lavoro. L’analisi empirica è svolta
per il periodo 1918-1938, già limitato per ottenere risultati robusti, e si sviluppa nella stima
della funzione dei consumi privati, della domanda di lavoro dell’industria, dell’equazione dei
prezzi, degli investimenti e delle importazioni10. I risultati vanno verso la direzione della
9
Filosa e al. (1976: 52).
Bonelli e al. (1976) hanno criticato questo contributo ritenendo non corretta il computo degli “altri redditi” dei
lavoratori indipendenti del settore industriale come proxy dei profitti e l’estensione anche all’agricoltura di
questa variabile, dove però una quota molto elevata di produttori era costituita da lavoratori indipendenti e non
10
5
continuità delle variabili economiche tra i due periodi considerati. Tuttavia, le equazioni
stimate mostrano valori del test di Durbin-Watson sistematicamente lontani dall’area di
accettazione che è intorno ad un valore uguale a 2, mostrando un problema di
autocorrelazione nei residui. Inoltre questi valori si associano a quelli della statistica R2 molto
vicini ad 1, indicando un’elevata capacità del modello di spiegare la variabilità dei dati.
Questa circostanza porta a problemi di regressione spuria e si fonda su un processo di
generazione dei dati che presenta radici unitarie. All’epoca dell’articolo questo tema, e quello
collegato della cointegrazione, non erano ancora sviluppati, ma portano a concludere che
questi risultati hanno un limitato valore conoscitivo.
Il lavoro di Del Monte (1977) presenta un approccio simile a quello che viene
sviluppato qui, in quanto all’interno dell’analisi dal 1881 al 1961, viene data una particolare
enfasi al confronto tra la ‘rivoluzione giolittiana’ (1897-1913) ed il regime fascista (19201938), accanto ad altri sottoperiodi 1881-1901, 1901-1911, 1921-1931, 1931-1936, 19511961. Anche in questo caso ai profitti viene dato un ruolo centrale nella determinazione degli
investimenti e quindi dell’accumulazione del capitale, tuttavia la conclusione è che la politica
economica fascista non fu in grado di ottenere saggi di profitto più elevati, e che il ruolo
pervasivo dello stato aveva l’effetto di allocare in maniera inefficiente il capitale. Infatti,
considerando l’industria manifatturiera, l’industria e servizi e l’economia nel suo complesso il
tasso di crescita dei profitti nel periodo giolittiano era rispettivamente pari a 6,02%, 4,93% e
4,33%, contro il 4,1%, 4,43% e 3,61%.
Nell’analisi più propriamente econometrica Del Monte stima a livello dell’intera
economia la relazione esistente tra tassi di accumulazione e tassi di crescita dei profitti, e
tasso di crescita del prodotto pro-capite e tasso di accumulazione, ottenendo una relazione
positiva e significativa. Due problemi determinano forti limiti in questa analisi: il primo è la
micro-numerosità, in quanto vengono utilizzate le medie dei periodi indicati in precedenza,
quindi stimando le relazioni sulla base di 6 osservazioni11. In secondo luogo, i problemi di
non stazionarietà e cointegrazione rilevati per il lavoro precedente potrebbero essere presenti
anche in questo caso.
subordinati. Gli autori ritengono che una specificazione più corretta delle equazioni dovrebbe tenere
esplicitamente in conto la natura dualistica (settore precapitalistico/settore capitalistico) dell’economia italiana
del periodo.
11
Queste relazioni sono stimate anche all’interno dei sottoperiodi, ottenendo risultati simili.
6
4. Metodologia, dati e risultati
La strategia econometrica del paper è la seguente: in primo luogo stimeremo il
processo generatore dei dati dello stock di capitale, in seguito analizzeremo la stabilità del
processo nel tempo. Se si verificassero discontinuità queste potrebbero essere attribuibili o a
eventi economici esogeni, o a interventi di politica economica. L’analisi storica dovrebbe
fornire delle spiegazioni a queste eventuali discontinuità. Se la politica economica del
fascismo avesse avuto degli effetti significativi sull’accumulazione di capitale, dovremmo
osservare tali discontinuità.
I dati sullo stock di capitale sono tratti da Ercolani (1969) e sono espressi in lire del
1938. La Figura 1 mostra l’andamento dello stock di capitale nel periodo 1861-1938.
L’andamento della serie mostra un chiaro trend lineare, con una fase di arresto di questa
tendenza che coincide con la prima guerra mondiale. Nell’analisi econometrica i valori della
serie sono trasformati nei logaritmi.
Figura 1 – Stock di capitale, 1881-1939
Per analizzare le proprietà stocastiche della serie dello stock di capitale, utilizziamo
due test di radici unitarie, ADF (Dickey e Fuller, 1979) e KPSS (Kwiatkowski e al., 1992).
Nel primo l’ipotesi nulla è che la serie presenti una radice unitaria, e l’ipotesi alternativa è che
la serie sia stazionaria. Nel test KPSS, l’ipotesi nulla è quella della stazionarietà, mentre
l’ipotesi alternativa è quella della radice unitaria. Stimiamo entrambe le statistiche
aggiungendo la costante ed un trend lineare. Per determinare la struttura autoregressiva del
test utilizziamo l’Akaike Information Criterion. I risultati dei due test sono convergenti
7
(Tabella 1), mostrando come non è possibile respingere l’ipotesi nulla di radici unitarie nel
primo, e come la stazionarietà venga respinta ad un livello di confidenza del 5% nel secondo.
Tabella 1 – Test di radici unitarie
LogStockCapitale
test
-1,183
ADF
lag
9
test
0,1582
KPSS
lag
9
I valori critici del test ADF con trend sono -3,96 (1%), -3,41 (5%) e -3,13 (10%). Quelli del test KPSS sono
0,119 (10%), 0,146 (5%) e 0,216 (1%).
In secondo luogo bisogna determinare se il processo generatore dello stock di capitale
sia di tipo ARIMA. Per stimare l’ordine del polinomio autoregressivo (p) e del processo di
media mobile (q) utilizziamo il test di Hannan e Rissanen (1982). Applicando l’Akaike
Information Criterion, si ottiene p = 4 e q = 0. Quindi per rappresentare lo stock di capitale
possiamo stimare un processo AR(4) nelle differenze prime (Lütkepohl, 2004).
La tabella 2 mostra diversi processi che sono stati stimati, in maniera da ottenere la
migliore rappresentazione possibile. Nella colonna (1) abbiamo stimato un modello AR(4)
con due componenti deterministiche, la costante ed il trend. Le radici caratteristiche inverse
sono |z| = (1,1058; 1,1058; 5,3831; 5,3831), al di fuori del cerchio unitario, e quindi mostrano
un processo stabile e stazionario. La stima mostra come tutte le variabili siano significative,
con l’eccezione dei termini autoregressivi del terzo e del quarto ordine. La diagnostica mostra
alcuni problemi: il test sulla non-normalità della distribuzione del terzo (simmetria) e del
quarto momento (curtosi) respinge l’ipotesi nulla di normalità sia nella stima congiunta dei
due momenti, sia in quella singola.
La colonna (2) utilizza lo stesso modello precedente con l’aggiunta di un ulteriore
componente deterministica, una variabile dicotomica Prima Guerra Mondiale (PGM), che è
uguale ad uno negli anni 1915-1918 e zero in tutti gli altri. Le radici caratteristiche inverse
sono |z| = (2,0049; 2,0049; 1,0769; 1,0769). In questo caso rimangono non significativi gli
stessi termini auto regressivi della stima (1), la diagnostica non migliora, in quanto i test non
permettono di respingere l’ipotesi nulla di distribuzione normale ma in questo caso si
evidenzia la presenza di autocorrelazione negli errori. La colonna (3) stima un modello
AR(2), eliminando i termini che non erano significativamente diversi da zero nelle due
precedenti stime. Le radici caratteristiche inverse sono |z| = (1,2110; 1,1345). In questo caso
la diagnostica del modello è molto buona, in quanto tutti i problemi evidenziati nelle
precedente stime non sono più presenti.
8
Tabella 2 – Il modello AR
Variabile
AR(1)
AR(2)
AR(3)
AR(4)
(1)
1,889***
(0,135)
-1,040***
(0,288)
0,148
(0,288)
-0,028
(0,137)
0,075*
(0,039)
0,001***
(0,0002)
7,2430
7,2430
(2)
1,723***
(0,125)
-0,903***
(0,254)
0,359
(0,258)
-0,205
(0,179)
-0,003***
(0,001)
0,083**
(0,035)
0,001***
(0,0002)
11,6814
10,3402*
-0,004***
(0,001)
0,050**
(0,029)
0,001**
(0,0004)
13,9186
4,4150
test congiunto:
8,8260**
simmetria:
5,0349**
curtosi:
3,7911*
8,8260**
10,1740
test congiunto:
1,6614
simmetria:
1,6609
curtosi:
0,0004
1,6614
10,6322
test congiunto:
0,7660
simmetria:
0,3296
curtosi:
0,4364
0,7660
11,8531
PGM
COST
TREND
TEST PORTMANTEAU
TEST LM PER
AUTOCORRELAZIONE
TEST PER NONNORMALITA’
TEST JARQUE-BERA
TEST ARCH-LM
(3)
1,707***
(0.066)
-0,738***
(0.068)
I numeri tra parentesi indicano la deviazione standard. *, ** e *** indicano rispettivamente significatività al
10%, al 5% ed all’1%.
Le Figure 2 e 3 mostrano rispettivamente le statistiche CUSUM e CUSUM-SQ per
analizzare la stabilità dell’equazione stimata nella colonna (3). La prima statistica è sempre
all’interno dell’area del 5%, mentre la seconda mostra una discontinuità negli anni 19091918. In entrambi i casi non sono presenti discontinuità nel periodo del regime fascista. Dal
punto di vista storico vi sono diversi eventi che in questo periodo possono aver avuto
un’influenza negativa sull’accumulazione di capitale. In primo luogo la crisi del 1907, una
crisi da sovraproduzione che trascina i suoi effetti fino al 1912 e che porta a minori
investimenti produttivi. In secondo luogo c’è la Guerra Italo-Turca del 1911-1912 per la
conquista della Libia, il cui costo ammonta a 1250 milioni di lire dell’epoca, ai quali il
governo deve fare fronte con l’aumento del debito pubblico prima e della tassazione dopo,
con evidenti effetti negativi sull’accumulazione di capitale. Ed oltre a questi eventi, vi fu la
Prima Guerra Mondiale (Toniolo, 1988).
9
L’analisi della stabilità prosegue con i coefficienti ricorsivi12 sia dei termini
autoregressivi (Figure 4 e 5) che di quelli deterministici (Figure 6-8). Questi grafici ci
permettono di valutare la stabilità dei coefficienti dei diversi termini nel tempo. I risultati
sono soddisfacenti, in quanto tutti i coefficienti sono sostanzialmente stabili. In alcuni casi c’è
una certa instabilità all’inizio del periodo, ma questa è frutto del numero limitato di dati sui
quali sono stimati i coefficienti.
Figura 2 – Statistica CUSUM
Figura 3 – Statistica CUSUM-SQ
12
Gli intervalli di confidenza sono stati generati attraverso una procedura di bootstrapping con 2000 ripetizioni.
10
Figura 4 – Valori ricorsivi del coefficiente AR(1).
Figura 5 – Valori ricorsivi del coefficiente AR(2)
Figura 6 – Valori ricorsivi del coefficiente di TREND
11
Figura 7 – Valori ricorsivi di COST
Figura 8 – Valori ricorsivi del coefficiente di PGM
5. Conclusioni
In questo lavoro abbiamo analizzato il processo di accumulazione del capitale in Italia
tra il 1881 ed il 1938 per verificarne la stabilità. La letteratura di storia economica del
fascismo, infatti, sottolinea come le politiche economiche del regime fossero indirizzate verso
l’aumento di questo fattore della produzione attraverso l’aumento del tasso di profitto. Da una
parte fu attuata una politica di contrazione dei salari, dall’altra la protezione dalla concorrenza
estera e la formazione di oligopoli. Se queste politiche avessero avuto successo, avremmo
dovuto riscontrare una discontinuità nel processo di generazione dei dati rispetto al periodo
precedente. La nostra analisi mostra, invece, come il processo sia stabile nel tempo, e
12
comunque non rileva discontinuità direttamente attribuibili alla politica economica del
regime.
Si evidenzia, invece, una possibile discontinuità durante l’Italia liberale negli anni
1909-1918. Diversi fattori possono essere alla base di questo fenomeno, con effetti negativi
sull’accumulazione di capitale: la crisi del 1907, una crisi da sovraproduzione che trascina i
suoi effetti fino al 1912; la Guerra Italo-Turca del 1911-1912 per la conquista della Libia che
spiazza gli investimenti produttivi spostando il risparmio verso il debito pubblico e
successivamente il relativo aumento della tassazione; infine la Prima Guerra Mondiale. In
ogni caso, questa discontinuità - che appare solo in uno dei diversi test relativi alla stabilità
della relazione econometria - viene riassorbita con consistente anticipo rispetto
all’instaurazione della dittatura ed all’implementazione delle sue politiche economiche.
Da questo punto di vista, alla domanda se il fascismo sia stato caratterizzato da
sviluppo o ristagno, la risposta di questo lavoro è che è continuato lo sviluppo che era in corso
a partire dall’Unità d’Italia, ponendosi sulla linea interpretativa di Lyttelton (1974) e Gregor
(1979).
Questo contributo ha proposto un’analisi basata su un modello single-equation
dell’accumulazione di capitale. Lavori successivi potrebbero costruire un’analisi econometria
nella quale si studino congiuntamente i diversi fattori che influenzano l’accumulazione del
capitale ed il processo di crescita.
13
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2009 n.146*
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