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PERIODICO QUADRIMESTRALE DI STUDI SULLA LETTERATURA E LE ARTI
SUPPLEMENTO DELLA RIVISTA «SINESTESIE»
ISSN 2280-6849
Angelo Favaro
«Al Mediterraneo non si adattano metri più esigui dei suoi»:
Predrag Matvejevic e la testimonianza dell’esilio
nella Letteratura
Abstracts
Il saggio, a partire dall’evento luttuoso della morte di Predrag Matvejevic, a Zagabria a
84 anni, ricostruisce brevemente la vicenda biografica e esistenziale dello scrittore e intellettuale di Mostar, ma veramente europeo, ponendo attenzione in particolare a tre temi
che si intrecciano nella sua produzione letteraria: l’esilio, il Mediterraneo, la testimonianza e il ruolo della Letteratura, nella difesa dei diritti umani, nel panorama politico e
culturale contemporaneo.
Predrag Matvejevic, writer and essayist died, aged 84, in the hospital in Zagreb. The paper I propose examine three themes: the exile, the Mediterranean Area conflicts, in
which way Literature supporting human rights. In his literary works, we find the most
important issues of Europe and Mediterranean contemporary political and cultural situation.
Parole chiave
Predrag Matvejevic, Mediterraneo, esilio, diritti
umani, migrazione, alterità.
Contatti
[email protected]
«Il Mediterraneo riceve diversi nomi, a seconda delle terre fino a cui arriva», G. Mercator, Prefazione a
Atlante, Amsterdam 1609, p. 30
Il 2 febbraio di questo sventurato 2017 è venuto a mancare Predrag Matvejevic. Un intellettuale che nel corso della propria esistenza ha affrontato di petto le questioni più spinose e complesse della nostra civiltà mediterranea, dandone una testimonianza dolente e
sempre coraggiosa, con quella sua voce chiara e aperta.
Ogni suo gesto di scrittura, tanto quella accademica quanto quella giornalistica e divulgativa, ha avuto il gusto e la qualità della Letteratura. Non di quella che si dispone
all’esercizio di stile o al lusus doctus, non della ricerca erudita, ma di un’attività fondata
sull’esercizio impegnato a comprendere un’intera vita, che la disperazione avrebbe potuto
annientare, ma la poesia, una sensibilità acuta e l’intelligenza del mondo hanno invece
colmato di una infaticabile ricerca della verità, a partire dalla testimonianza di un nomadismo esistenziale e geografico, inteso come strumento rielaborante dell’autentico.
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Mediterraneità Europea – Numero Speciale – Maggio 2017
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La relazione «realista» dispone nella vita e nel pensiero di Predrag Matvejevic la necessità di una comprensione razionale, che non vuol dire priva di sentimento, ma più propriamente fattuale, attraversata dai fatti (acta, facta gestaque direbbe Ulpiano), dai gesti,
dalla storia, in grado di segnalare la frattura e la sua ricomposizione quando possibile, o
nella sua impossibilità. Attraversata dalla constatazione e dalla contestazione, la meditazione sugli eventi si fa relazione con l’altro e con il mondo, nel movimento identificabile
in termini di una accurata recensio del dominio della tradizione, quando giunge sul campo di battaglia nell’invincibile conflitto con la trasformazione massificante e omologante,
dis-umanizzante.
Tutto ha inizio in quella Mitteleuropa balcanica, a Mostar (nel Regno di Jugoslavia
quando vi nacque nel 1932), dove un bambino di padre russo e di madre croata cresce dovendo subire lo scacco furioso e feroce dei nazionalismi e dei totalitarismi del secolo
scorso, delle divisioni etniche e ancor più tragiche quelle religiose, fino alla drammatica
violazione dei diritti umani.
L’adolescenza trascorre, così, nel dover apprendere da quale parte stare: sceglie la parte del dialogo, dei diritti umani, del contro-potere; prova sulla propria carne anche la
guerra sanguinosa e i bombardamenti, vede la sua città crollare ponte dopo ponte, edificio
dopo edificio, fra migliaia di morti nelle fosse comuni; matura rinunciando alla ferocia,
nonostante tutto.
Esule. Fu esule. La sua ricchezza una poliglossia salvifica, un multilinguismo necessario, un destino di spaesamento e solitudine: conosceva le lingue slave, il francese (si era
laureato in lingua e letteratura francese), l’italiano, l’inglese. La sua attività di intellettuale e scrittore, di giornalista si è consumata fra Zagabria, Parigi, Trieste, Roma, Milano,Venezia: docente presso le Università di Zagabria, degli studi di Roma “Sapienza”, e
alla “Sorbona” di Parigi, collaboratore di molti giornali e riviste, in Italia in particolare
del «Corriere della Sera», e di molte altre testate giornalistiche, esperto in questioni di
slavistica (sia dal punto di vista linguistico sia per quanto attiene ai fatti storici e politici),1 specialista dei fenomeni culturali e di civiltà in atto nel Mediterraneo.2 Un testimone
della condizione fra “asilo e esilio”3 che ha dato la parola alla condizione dell’Est.
E affrontare il discorso dell’esilio, in questa situazione di odierna migrazione globale,
diviene indispensabile: il punto di vista di Predrag, esule e che ha chiesto asilo appunto, è
quello di chi considera l’asilo come un modo per “obliterare” l’esilio, mettendo in atto
procedure di esclusione. «Per chi è tra asilo e esilio nascono grandi difficoltà in rapporto
al proprio paese d’origine: sul piano materiale, su quello professione, in materia di cittadinanza…» dichiara, «Ma c’è anche la possibilità di prendere le distanze, e l’impossibilità
dell’ambiente originario di esercitare la sua influenza. Ciò ti salva da una situazione che
ho già definito tra tradimento e oltraggio».
La scrittura di Matvejevic “si coglie”, dunque, come il frutto di un esilio e la possibilità di un asilo: «Ho scritto molto, sia in Francia e sia in Italia, per parlare della BosniaErzegovina, dove sono nato, della biblioteca di Sarajevo distrutta, della catastrofe di Mostar, e mi sono reso contro che c’è – tanto in Francia quanto in Italia, e certamente anche
altrove, una rigidità assoluta delle istituzioni». Osserva intelligentemente: «Ciò mi sem1
Si veda in particolare P. Matvejevic, I signori della guerra. La tragedia dell’ex Jugoslavia, Garzanti, Milano 1999.
2
Ritenuto il capolavoro di Id., Breviario Mediterraneo, con prefazione di C. Magris, Garzanti, Milano (1991) 2010. Si veda anche Id., Il Mediterraneo e l’Europa. Lezioni al Collège de France,
Garzanti, Milano 1998.
3
Id., Tra asilo e esilio. Romanzo epistolare, Meltemi, Roma 1998.
bra ponga la questione della democrazia: perché quella della sensibilità non si traduce a
livello delle istanze di decisione, perché non impedisce a esse di assumere misure talvolta
più che umilianti?».4
Predrag Matvejevic suggerisce una ermeneutica antropologica che si sostanzia di analisi storiche e politiche, perché non si dà uomo o donna senza una comunità di appartenenza, e tale comunità di appartenenza ha propri modelli politici e una storia – in quanto
comunità, ma che confluisce a formare la storia –: non solo simbolicamente dobbiamo
definire una condizione-compito e insieme una decifrazione della condizione del reietto,
senza “credere” fiduciosamente che tale sia sempre l’altro, perché è una situazione possibile per ogni uomo e donna; e, in forza di siffatta constatazione, indirizzarci a considerare
l’abbandono del noto e la scoperta dell’ignoto nell’esistenza esule-migrante. Da qui scaturisce il conflitto fra l’essere stato, l’essere e il dover essere in una condizione nuovaignota, dall’esilio all’asilo. O nella liminale fenomenologia esistenziale del migrante,
sempre sulla soglia. All’emergere della pluralità come esclusione-preclusione-inclusione,
il pensiero si trova a comporre e sostenere frontalmente gli avversari e le avversità, individuando sempre, come nativo-fatale scacco, le fratture interiori ed esterne, attraverso una
ricostruzione-ricomposizione costante dell’identità, in un procedimento rappresentativo e
auto-rappresentantivo, fino a giungere alla dissociazione.
Ricorda Dunja Badnjevic che l’ultima volta nella quale aveva visto Predrag, nel novembre 2016, si trovava a Zagabria, in clinica, «lucido e molto contento del [loro] incontro», colpiva come tenesse la mano della moglie Mira. Era stato il testimone al matrimonio Dunja, e avevano parlato di Roma, dell’università, dove «aveva tenuto per quattordici anni la cattedra di letteratura jugoslava cercando di aiutare e indirizzare gli studenti che
arrivavano dal nostro ex paese». Era stupefacente il fatto che fosse «cosciente del suo ormai precario stato di salute». E scrive:
Matvejevic ci teneva a dirsi jugoslavo (era figlio di padre russo e di madre croata bosniaca) e soffriva per la “balcanizzazione” del suo paese. Nella guerra cui abbiamo assistito,
non parteggiava per nessuno anche se riconosceva la maggiore tragedia subita dai musulmani. Nei Signori della guerra metteva insieme i tre “distruttori”: Milosevic, Tudjman e Izetbegovic, eppure non tralasciava neanche le influenze esterne e del Vaticano. Come chiedeva di non parlare sempre di “quanti” clandestini sono approdati e “quanti” devono andarsene ma di gettare uno sguardo anche sui loro “fagotti”, sapere cosa portano da quei paesi
da dove sono stati costretti ad andarsene.
Dunja Badnjevic spiega ancora, tornando alla cronaca di quell’ultimo incontro, che
Predrag si era soffermato «sulla situazione attuale dell’Europa (si identificava alla fine
come intellettuale europeo)» che lo faceva sentire “sconfitto”. «Ormai, diceva, l’identità è
precipitata nella “particolarità”, un particolarismo – inteso come valore – molto dannoso». E aggiungeva Predrag – possiamo immaginare con un tono sconsolato ma mai rinunciatario – : «Anche il cannibalismo rappresenta una particolarità ma non per questo è un
valore! Nei paesi dell’Est dal socialismo di Stato si è passati alla democratura, una democrazia solo di nome mentre l’Europa ormai si sta jugoslavizzando». Fino a filmare, con la
sua prosa documentaria e poetica, l’immagine degli eventi ai quali assistiamo, ormai,
quotidianamente:
4
Id., I confini sconfinati di “un mondo ex”. Conversazione con Predrag Matvejevic a cura di
Francis Jeanson, in Del Mediterraneo e altro, in «Inoltre» anno secondo, rivista semestrale, Jaca
Book, Milano 2000 pp. 11-27.
Il Mediterraneo che doveva diventare un ponte ormai è un mare di morti. L’Unione Europea non ha creato l’Europa unita. E dappertutto si erigono i muri a difesa delle nostre mere nazionalità. Il nazionalismo ha vinto ovunque: in Ungheria come in Bulgaria, in Polonia
come in Romania. Molti ancora non si rendono conto.5
La coraggiosa confutazione delle posizioni politiche, anche di quelle universalmente
accreditate, e l’identificazione dei problemi più urgenti sono peculiarità (nelle interviste
più limpidamente manifeste) della conversazione e della scrittura di Predrag: quel che si
coglie con evidenza sicura è il recupero – come giova ribadire – dell’esperienza esistenziale nelle sue modalità espressive e compositive. Esperienza esistenziale che attiva questioni, quesiti, argomenti discussi in modo esuberante le prospettive tradizionali o comuni; dalla rielaborazione concettuale – ma sempre letteraria – di idee-soluzioni, mai modulate su esemplificazioni egotiche o intimistiche, erompe la complessità irriducibile e
l’impossibilità dell’indifferenza ai sommovimenti della storia e ai soprusi geografici. Un
metodo e un itinerario della scrittura che accoglie un pensiero contrario a ogni soggettivismo ma che pone al centro gli uomini e le donne – con i loro fagotti –, i quali devono affrontare il processo della storia e sopportare la geografia dei confini, dei divieti, delle dogane e delle frontiere. Rivolte e guerre, sollevamenti di popoli, tirannie crudeli e privazione della libertà dal Medio Oriente fino alle lande Occidentali, dall’Africa alle coste del
Mediterraneo, configurano uno scenario di dolore e di ricerca-recupero dell’affermazione
dei diritti umani: si può comprendere l’uomo Matvejevic, il suo percorso umano e il lavoro intellettuale, la sua scrittura letteraria soltanto ponendosi dalla parte della sua vita, delle sue parole e della sua storia.
In particolare, emblematico appare il suo volume Pane nostro: lo scrittore di Mostar
per oltre vent’anni rimane impigliato nella narrazione di una vicenda, che contiene e innesta la poesia sull’arte e la religione con la storia del Mediterraneo. Questo è poi il tragitto documentario più incontestabile della storia dell’umanità: la storia del pane come
abbondanza e penuria.
Nelle pagine del Breviario trascorrono la ricchezza, le guerre e i tumulti, la brutalità
ma anche il gesto d’amore e sacrificio di spezzare il pane, di condividerlo. Accostarsi ad
alcune pagine, come ad una forma di pane appena sfornato, è cogliere la fragranza di un
pensiero e di una poesia che abitano la nostra vita dall’inizio della storia:
è nato nella cenere, sulla pietra. Il pane è più antico della scrittura e del libro. I suoi primi
nomi sono stati incisi su tavolette d’argilla in lingue ormai estinte. Parte del suo passato è
rimasta fra le rovine. La sua storia è divisa fra terre e popoli. La leggenda del pane affonda
nel passato e nella storia. Si sforza di accompagnarli senza identificarsi né con l’uno né con
l’altra. […] Resterà un mistero, forse per sempre, dove e quando germogliò la prima spiga
di grano. La sua presenza richiamò lo sguardo dell’uomo e suscitò la sua attenzione. […]
Le molte specie e qualità dei cereali stimolarono il senso della diversità, della virtù, probabilmente della gerarchia.
Dalle varietà delle messi, scaturisce metaforicamente la differenza fra popoli e etnie,
fra uomo e uomo, questo racconto ci riguarda tutti, sempre, perché emblematica è la sua
gnome.
5
D. Badnjevic, Le parole usate come ponti tra i popoli, in «Il Manifesto», 2 febbraio 2017, edizione online.
L’origine del pane accompagna la trasformazione dei nomadi in stanziali, del cacciatore in
pastore, di entrambi nell’agricoltore. […] Il nomadismo spingeva all’avventura, la stanzialità richiedeva una maggiore pazienza. Nei graffiti scoperti sulle pareti delle grotte dove si rifugiavano i nomadi prevalgono linee dal tratto lungo e spezzettato, che sembrano partire da
un punto e portare verso un altro – da ciò che è sconosciuto a ciò che rimane tale. I disegni
delle popolazioni agricole tendono invece a determinare uno spazio circolare e circoscritto,
all’interno del quale si può intravedere un centro, o forse un riparo. Le semine e i racconti
portarono alla suddivisione del tempo in stagioni, dell’anno in mesi, settimane, giorni. I
sentieri abbreviarono le distanze.6
Rispetto all’idea di chiudere la storia dell’uomo in un’esperienza descrivibile soltanto
attraverso documenti e monumenti asetticamente e impersonalmente descritti, l’autore del
Breviario mediterraneo fa ricorso ad un linguaggio sapienziale e a una ricostruzione che,
espellendo i dati noti, ormai insignificanti, ricolloca sia il ruolo sia il significato del soggetto loquens nella definizione dell’esperienza antropologica del pane, come indicatore
metaforico, simbolico, semema universale dell’umanità, nel suo cammino millenario dalla ferinità alla civiltà. «Pane nostro è una opera ricchissima di riferimenti storici e letterari, di citazioni dalle quali la vicenda del nostro primo alimento emerge in una sorprendente e poetica molteplicità di prospettive»: ha scritto Maurizio Cucchi, recensendo il volume: «Pane nostro è un’opera insolita che rivela il desiderio forte di riassaporare anche
moralmente la quieta umiltà di un alimento che ci collega direttamente con la terra e con
l’elaborazione elementare e necessaria del suo frutto. Un libro che suggerisce, sottostante
ma ben viva, la necessità di ritrovare un rapporto autentico con la realtà più semplice ed
essenziale, in un tempo che sembra muoversi più verso il superfluo e lo spreco».7
Ogni atto comunicativo, ab origine, segnala un essere nel mondo, ciascuno con la propria esperienza del mondo: l’avventura del nomadismo si esprime nell’incertezza, al cuore della stanzialità si pone la sicurezza dell’iterazione circolare. L’atto della locuzione è
nella poetica e nondimeno rigorosa sintesi dell’evento comunicativo. Il pane “istituisce” il
segno e la struttura di una relazione di reciprocità culturale e cultuale fra i popoli del Mediterraneo. Antropologia e scrittura sapienziale fungono da collettore di temi e problemi
differenti, posti in essere nella preistoria-storia-leggenda dalla gerarchica costruzione della spiga fino ai numerosi modi di proporre e offrire-mangiare il manufatto/prodotto della
lievitazione e del formo: non c’è ottimismo o pessimismo, non si rileva dovere sociale o
civile, ma la considerazione del valore in sé della “sapienza” antica-perenne, perché non
riguarda un sapere specifico, ma la condizione umana nell’umanità. Dal logos ipostatizzato nell’esperienza proviene la sophia: mentre nel Mediterraneo si muovono con le onde e
i marosi uomini e donne, portando ognuno con sé il fardello della confusione e
dell’instabilità, il pane resiste come elemento comune e di comunicazione.
Così si esprime, inoltre, rispondendo ad alcune domande, ancora in un’intervista,
l’autore del volume: «C’è una coincidenza, forse anche da me poco attesa [fra il pane e le
rivolte di alcuni paesi del Nord Africa]. Nel mio ultimo libro [Pane nostro], cito fra
l’altro le “rivolte per il pane”, e in Tunisia i cittadini, soprattutto giovani, insorti contro la
dittatura del regime di Ben Ali, hanno proclamato una vera “rivolta per il pane”. Il pane è
stato spesso un simbolo delle rivendicazioni più energiche e militanti.» Evidentemente
numerosi sono gli esempi nella storia e nella letteratura: «Si potrebbero riportare tanti altri casi. Ricordiamoci I promessi sposi di Manzoni e il momento in cui la situazione
“giunse ad una rivolta per le strade” e gli affamati insorti cominciarono a gridare “Pane,
6
7
P. Matvejevic, Pane nostro, Garzanti, Milano 2010, pp. 7-9.
M. Cucchi, «La Stampa», 16. 10, 2010.
Pane”». Da ciò, induce a pensare al pane in un modo non convenzionale e molto speciale:
«Il pane come essenza del nutrimento e della condivisione, filo conduttore della storia
umana, svolge una sua propria rappresentazione per mezzo degli uomini, soprattutto
quando è assente dalla scena: manca dalla tavola». E non possiamo non ricordare che: «Il
pane è stato in varie occasioni un particolare slogan di protesta, forse l’unico che non abbia mai tradito. Nella lotta per il pane, diceva l’anarchico russo Kropotkin dal suo esilio
in Ginevra, “il bisogno deve precedere il dovere, la questione del pane è più importante di
tutte le altre”». L’effetto domino sembra inarrestabile e con conseguenze imprevedibili:
«I processi iniziati nella Tunisia, esplosi con fragore in Egitto e che si svolgono adesso in
vari paesi di Magreb e oltre le sponde magrebine, cambiano la storia presente. Non sappiamo dove potrà fermarsi, come e quando»8.
Ogni atto comunicativo, ab origine, annuncia un divenire nel mondo, ciascuno con la
propria conoscenza del mondo: lo sconcerto dell’esilio si esprime nell’erranza, lo smarrimento carica di significato la mancanza di un luogo e la titubanza su quale possa essere
la propria nuova lingua.
La risposta che si cerca – invano – nasce dall’interrogarsi sull’alterità e sul margine:
non si dà che il transito della soglia e l’ investigazione di un nuovo confine. L’alterità è la
cognizione della differenza, che spezza ogni rassicurante condizione di pensiero e di esistenza: alla responsabilità – anche nella crisi – ricorriamo nella confusione e nella paura.
Il paradigma di pensiero, che informa la relazione con l’alterità – migrante o esule –, e
che dovremmo attivare e al quale dovremmo affidarci, è fondato sulla differenza complementare e umanizzante. Su tutto questo Matvejevic invita a metter-si in gioco. L’altro
da me non è un alienus, è in quanto uomo un altro me, un’altra parte di me, un me differente. Non da assimilare, o inglobare-includere, ma da accogliere, proprio in quanto altro.
E l’Unione europea? Quale la parte dell’Unione nel Mediterraneo e in questa, odierna,
situazione di crisi e di relazione con l’alterità? Matvejevic in quanto esperto di Mediterraneo, proseguendo nelle risposte alla suddetta intervista, non ignorando le sollecitazioni,
argomenta lucidamente:
Tanti Paesi, non solo europei, sono presi in contropiede. Una vera politica mediterranea non
è mai esistita sulle sponde del Mediterraneo. L’Unione europea e i membri che la compongono in questo momento possono solo fronteggiare l’emergenza. Questo vale soprattutto e
in primo luogo attraverso un atteggiamento razionale di fronte agli sbarchi quotidiani. La
politica dei soli «respingimenti in mare» sarebbe più che mai tragica e demenziale. D’altra
parte, un solo paese, senza l’aiuto internazionale, almeno quello dell’Unione Europea, non
può fare granché. […] Dobbiamo fare alcuni passi indietro per definire non solo la situazione presente, ma soprattutto per cercare le soluzioni nuove e realistiche. La mancanza delle
politiche mediterranee – politiche definite e proseguite dai fatti – caratterizzava finora quasi
tutte le nostre sponde. Ho scritto tante volte su questa mancanza e la passività che essa fa
nascere e sostiene. Vi sono presenti da tempo varie contraddizioni [nelle politiche sul Mediterraneo da parte degli Stati dell’Unione Europea].
Sulla centralità dell’Unione Europea rispetto ad alcune scelte strategiche non si dubita,
quel che genera lo sbigottimento del commentatore e dell’intellettuale esule è l’incapacità
di risolvere le contraddizioni nei metodi e rispetto ai conflitti particolaristici, dove
l’efficacia di questa macchina amministrativa e politica sembra vacillare: le logiche dominanti appaiono essere quelle delle necessità dei forti e non dei bisogni dei deboli, si adottano decisioni incompatibili con l’accoglienza, quanto invece piuttosto prone alle ra8
P. Matvejevic, http://www.micciacorta.it/2011/02/pane-nostrum-intervista-a-predrag-matvejevic/
gioni della finanza e dei populismi. In particolare esamina la posizione della penisola italiana:
Da una parte, l’Italia è un promontorio dell’Europa sul Mediterraneo, un paese completamente lambito dal mare nostrum, con un passato ed una storia fortemente caratterizzati dalla presenza marittima; una civiltà di cui l’arte, più che altrove sul continente europeo, riflette la luce del Sud. Dall’altra parte, lo Stato italiano e i vari suoi governi sono da tanto tempo privi di una visione mediterranea coerente; si persegue una politica molto più rivolta
all’entroterra continentale che alle proprie sponde o a quelle vicine. Difatti, siamo di fronte
ad un Mediterraneo che trascura la sua propria «mediterraneità». L’Italia deve ricercare soluzioni nuove e realistiche.
Non considerare con attenzione la posizione storica e geografica dell’Italia nel Mediterraneo, significa fingere di non sapere non solo l’apporto politico e culturale dell'Italia,
ma ancor più la sua vocazione all’interscambio nord-sud ed est-ovest, che insieme allo
spazio commerciale e intellettuale configura il crocevia dei più importanti snodi migratori.
Per quanto «nostrum» e molto più calmo di altri mari, il Mediterraneo ancor prima delle attuali rivolte non era rassicurante. Avremo la volontà e la capacità di modificarne il suo
«immaginario collettivo». La sponda settentrionale presentava, e presenta ancora, un ritardo
rispetto al suo retroterra europeo. L’Unione europea si costituiva come un’Europa separata
dalla sua «culla». Le decisioni relative alla sorte o alla «costruzione» del Mediterraneo venivano prese al di fuori di esso o senza di esso: ciò generava frustrazioni e fantasmi. Già da
parecchio tempo si profilava all’orizzonte un pessimismo storico, un «crepuscolarismo» letterario. Abbiamo assistito sulle diverse sponde agli spettacoli poco incoraggianti: degrado
ambientale, inquinamenti sordidi, iniziative selvagge, movimenti demografici mal controllati, corruzione nel senso letterale o figurato del termine, localismi, regionalismi e chissà
quanti altri «ismi» ancora. Le nozioni di scambio e di solidarietà, di coesione e di «partenariato» rimanevano pii desideri.
Storicamente l’Italia si è dovuta assumere la responsabilità di assolvere al compito di
smistamento e di comprensione dei fenomeni mediterranei, ma in particolare negli ultimi
anni ha sostenuto l’impatto di flussi di popoli migranti, con un progressivo incremento, e
nonostante le difficoltà i morti e i disastri epocali, non devono cessare la fiducia e la speranza nella concreta capacità degli uomini di soccorrere e risolvere:
Il Mediterraneo si presentava, non soltanto nella nostra epoca, come uno stato di cose che
non riusciva a diventare un progetto unito. Un vasto anfiteatro che vedeva per tanto tempo
sulla scena lo stesso repertorio, al punto che i gesti dei suoi attori sembravano in varie occasioni ben conosciuti, banali, prevedibili. Mai come in questo momento l’ottimismo è
d’obbligo.9
Lo sguardo di Matvejevic è quello di un uomo che narra, fa letteratura, poesia attraverso la vita, e soltanto con la vita, non secondo i “canoni” dell'autenticità, ma semplicemente analizzando autenticamente il portato della propria esperienza esistenziale e osservando l’accadimento, come evento storico, da spiegare e di cui dispiegare il significato,
senza alcuna retorica letteraria o oratoria, ponendosi di fronte alla sua violenza direttamente. Il presente è il tempo della storia che si sta vivendo, e necessita complementaria9
Ibidem.
mente di un passato prossimo e remoto, affinché l’accadimento risalti nella sua successione necessaria: in questo modo i valori fondanti i diritti umani a base di ogni dichiarazione trasformano i fatti in eventi di esistenza. Non si dà alcun procedimento “chimico” o
di laboratorio, la scrittura non può che essere scrittura della autenticità della scrittura, solo
non opacizzando con la finzione si ricostruisce l’itinerario di pensiero che riceve i caratteri della comprensione e della partecipazione, escludendo la tentazione dell’estraneità e
dell’incomprensibilità. La realtà è l’irruzione fulminea e brusca dell’inatteso nella vita.
Cosa può fare allora la Letteratura? Predrag Matvejevic sembra voler dire che può certamente registrare questo irrompere inteso come azione e riflessione, attraverso la ricerca
di una paratassi ordinata, che non si sottopone alla subordinazione di alcun potere, perché
il fine ultimo è propriamente la testimonianza, e se la testimonianza non diviene comunicazione generale, diretta, schietta, quella trasmissione di sé e della esperienzaconoscenza, che induce al dubbio e all’interrogazione, tradisce, appunto, l’esigenza di
giungere alla coscienza senza distorsioni o infingimenti.
La poésie de circonstance. Étude des formes de l’engagement poétique (A. G. Nizet,
1971), Pour une poetique de l’evenement. La poesie de circonstance suivi de
L’engagement et l’evenement (Union generale d’editions,1979), Sulle identità
dell’Europa ( Fondazione Laboratorio Mediterraneo,1994), Breviario Mediterraneo
(Garzanti, 1991), Epistolario dell’altra Europa (Garzanti, 1992), Sarajevo (Motta, 1995),
Mondo Ex (Garzanti, 1996), E la mia ragione si perse nella nebbia (Circolo Culturale
Menocchio, 2001), Oltre Odessa (Circolo culturale Menocchio, 2003), Nessuno di noi
poteva immaginare (Circolo culturale Menocchio, 2006), Un’Europa maledetta (Baldini
e Castoldi, 2005), Il Mediterraneo e l’Europa. Lezioni al Collège de France e altri saggi
(Garzanti, 2008), Pane nostro (Garzanti, 2010), L’altra Venezia (Asterios, 2012) sono solo alcuni, fra gli innumerevoli interventi, saggi-testi letterari, dalle prime prove fino agli
ultimi lavori, che riferiscono di un sistema-dovere della scrittura che si è tentato di evidenziare e proporre nelle brevi note precedenti.
Le materie e le questioni che maggiormente stavano a cuore e interessavano Matvejevic, dagli anni Novanta fino alla fine della sua vita, erano connesse con le scelte politiche
dell’Europa e del Mediterraneo, come dimostrano i titoli citati e le edizioni e le ristampe
del suo capolavoro. Il Breviario Mediterraneo è certamente un trattato antropologico, che
non dimentica la storia e la geografia, ma si esprime con quella poesia connaturata alla
ricerca letteraria di Predrag Matvejevic, ed è altresì un volume da leggere come un romanzo, nel quale si sono fusi tutti gli altri generi letterari. Oltre ogni definizione, è una
parabola che accoglie i significati e le presenze delle civiltà del Mare nostrum (non solum). Si può considerare come la summa dell’ attestazione di un esilio riferito attraverso
l’unico strumento adeguato al dolore e alla bellezza, la Letteratura. Rileggiamo insieme
un lacerto, per dare voce a Matvejevic, abbandonandoci e immergendoci nell’engagement
poétique:
Scegliamo innanzi tutto un punto di partenza: riva o scena, porto o evento, navigazione o
racconto. Poi diventa meno importante da dove siamo partiti e più fin dove siamo giunti:
quel che si è visto e come. Talvolta tutti i mari sembrano uno solo, specie quando la traversata è lunga; talvolta ognuno di essi è un altro mare. Il Mediterraneo è a un tempo simile e
in altro diverso a sé stesso. Partiamo per esempio dall’Adriatico, dalla sua sponda orientale.
La costa settentrionale, da Malaga al Bosforo, è più vicina e accessibile a chi si muove da
qui. Sulla sponda meridionale, da Haifa a Ceuta, ci sono meno golfi e porti. Girando per le
isole, in primo luogo quelle adriatiche, poi le ioniche e le egee, tra le Cicladi e le Sporadi,
ho cercato di scoprirne le somiglianze e le diversità. Ho avuto modo di raffrontare la Sicilia
e la Corsica, Maiorca e Minorca. Non sono sceso a terra dappertutto. Mi sono fermato so-
prattutto alle foci dei fiumi. E difficile conoscere l’intero Mediterraneo. Alcuni naviganti
prima o poi tornano, gli altri partono per sempre. Si distinguono le navigazioni dopo le quali guardiamo le cose in modo differente, in particolare quelle dopo le quali vediamo diversamente anche il nostro passato, e persino il mare. Tali percorsi stanno all’inizio e alla fine
di ogni racconto sul Mediterraneo. Il mare e la sponda, le isole nel mare e i porti sulla
sponda, le immagini che ci offrono gli uni e gli altri cambiano nel corso dei peripli e durante gli approdi. Il Mediterraneo rimane lo stesso, noi invece no. I suoi confini non sono definiti né nello spazio né nel tempo. Non sappiamo come fare a determinarli e in che modo:
sono irriducibili alla sovranità o alla storia, non sono né statali né nazionali: somigliano al
cerchio di gesso che continua a essere descritto e cancellato, che le onde e i venti, le imprese e le ispirazioni allargano o restringono. Lungo le coste di questo mare passava la via della seta, s’incrociavano le vie del sale e delle spezie, degli olii e dei profumi, dell’ambra e
degli ornamenti, degli attrezzi e delle armi, della sapienza e della conoscenza, dell'arte e
della scienza. Gli empori ellenici erano a un tempo mercati e ambasciate. Lungo le strade
romane si diffondevano il potere e la civiltà. Dal territorio asiatico sono giunti i profeti e le
religioni. Sul Mediterraneo è stata concepita l’Europa. 10
Insieme proseguiamo pagina dopo pagina, e ricominciamo nuovamente: non conosco
modo migliore per consentire a Predrag Matvejevic di rimanere con noi, nonostante
l’assenza. Anche questo è il potere della Letteratura, della sua scrittura Letteraria;
nell’accogliere il suo pensiero, nell’apprendere dalla sua esperienza, proviamo a domandarci perché e cosa significhi che: «Al Mediterraneo non si adattano metri più esigui dei
suoi».
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Id., Breviario Mediterraneo, con prefazione di C. Magris, Garzanti, Milano (1991) 2010, p. 7.