n° 318 - gennaio 2005 © Tutti i diritti sono riservati Fondazione Internazionale Menarini - è vietata la riproduzione anche parziale dei testi e delle fotografie Direttore Responsabile Lucia Aleotti - Redazione, corrispondenza: «Minuti» Via Sette Santi n.1 - 50131 Firenze - www.fondazione-menarini.it Gli autoritratti nell’arte “Non sono ancora morto io, non sono. Mi credevano un pazzo, allora D’Annunzio persino mi vedeva in un manicomio a dipingere i crani degli altri pazzi”. Giacomo Balla (da un’intervista di Giuseppe Bocconetti , in “Corriere Lombardo”. Milano, 12 novembre 1951 Prestigio, memoria, riconoscimento, vanità e studio di sé. Gli artisti si mostrano e nel contempo si osservano attraverso lo specchio, strumento-obiettivo utilizzato per fissare la propria immagine: oggetto di conoscenza e di meditazione tra l’io e l’universo. “L’autoritratto è il sublime ricordo del mito di Narciso (l’io e la metamorfosi), è la proiezione del passato della storia. E’ allegoria e emblema, racconto e menzogna. Può essere verità assoluta o verità inconscia”, scrive Maurizio Fagiolo dell’Arco. Certo un mezzo per comunicare l’anima attraverso il corpo. Complesso e affascinante il tema dell’autoritratto, per la molteplicità dei significati che può racchiudere, non tutti e non sempre di facile interpretazione. La sua storia riconduce a qualche raro aneddoto narrato dalle fonti antiche quali Fidia o Apelle e a qualche ugualmente raro episodio risalente all’età medievale come quelli della monaca Guda, di Maestro Mathiu, Giotto (almeno secondo quanto ci tramanda il Vasari ) e Andrea Orcagna. Sino all’età umanistica nella quale l’artista comincia a fare ritratti di sé con regolarità. Ma si mostra celandosi: Masaccio si nasconde nella folla che circonda San Pietro in cattedra; così come Filippino Lippi è presente alla Crocefissione di San Pietro; Sandro Botticelli guarda lo spettatore che sta guardando i Magi in adorazione della Vergine. Michelangelo nasconde il suo tormentato volto nella pelle scuoiata di San Bartolomeo, mentre Raffaello testimonia la sua presenza all’interno della Scuola di Atene. La prima collezione di autoritratti d’artista nasce a Firenze alla corte medicea per felice intuizione (“forse una magica cerimonia quella di appropriarsi del volto dell’artista” scrive a tal proposito sempre Fagiolo dell’Arco) del cardinale Leopoldo de’ Medici che cominciò a collezionare questa tipologia di ritratto che oggi, raccolta nel Corridoio Vasariano, conta ben 1320 esemplari. Gli studi sull’evoluzione della figura e del ruolo sociale dell’artista e gli sviluppi di questo genere pittorico sono stati ampiamente documentati e sempre di più oggi suscitano interesse e vivacità critica, soprattutto in riferimento all’arte italiana del Novecento: analisi di problematiche che legano la storia con la sociologia, le indagini psicanalitiche con Masaccio: Autoritratto da La Resurrezione del figlio di Teofilo - Firenze, Cappella Brancacci le inquietudini e gli interrogativi che hanno attraversato il ventesimo secolo. Giorgio de Chirico si è travestito cento volte e si è anche abbinato a statue classiche o a personaggi mitici per cercare un’identificazione. Ci sono invece artisti come Carlo Carrà o Giorgio Morandi che si sono ritratti solo una o due volte e altri ancora che si sono costantemente scrutati e ritratti nel corso della loro vita: è il caso di Giacomo Balla o di Gino Severini. A Firenze ulteriori testimonianze sull’autoritratto sono raccolte nella mostra “Moi! Autoritratti del XX secolo” (il pronome interprete-simbolo dell’internazionalità nell’iconogra- Filippino Lippi: Autoritratto da Disputa con Simon Mago e Crocefissione di San Pietro - Firenze, Cappella Brancacci pag. 2 Giorgio De Chirico: Autoritratto a mezzo busto - Locarno, Collezione Raimondo Rezzonico fia autoriflessa), alla Galleria degli Uffizi, che offre una panoramica vasta e originale della produzione di artisti, a raggio internazionale, che hanno segnato le più diverse espressività del Novecento lasciando nello studio di sé tracce vive e pulsanti del loro modo di essere, di pensare, di intendere l’arte oltre che loro stessi. Una inedita visualizzazione che consente di delineare attraverso il percorso della mostra le principali linee di tendenza dell’evoluzione dell’autoritratto nella pittura del XX secolo. In questo secolo diverso è il porsi in effige dell’artista. E così il percorso della mostra citata si snoda tra autoritratti osservati dall’esterno e indagati nella loro genesi, contrapposti o a confronto, per sottolinearne la somiglianza o meno, l’apposizione della maschera e il variare dell’espressione, il segno della storia, oppure l’uso della metamorfosi. La firma dell’artista, il suo sguardo, tutto racconta di lui: il suo corpo può diventare anche luogo di vanità riflessa in uno specchio. E ciò vale per Magritte, Brancusi, Duchamp, Fontana, Chagall, Warhol, e Suzanne Valadon o Kathe Kollwitz, per citare due autoritratti al femminile. Opere che ricordano, come sottolinea Pascal Bonafoux, curatore della mostra già presentata a Parigi, che mentre un tempo il comune denominatore della collezione era l’ “olio su tela”, oggi sono le tecniche, ingegnose, provocatorie, diverse, docu- Giacomo Balla: Autocaffè - Firenze, Galleria degli Uffizi mento oltre che dell’autore che vi si ritrae, della disomogeneità dell’autoritratto, pur nella medesima finalità. Ora confessione del modo in cui l’artista vede se stesso, ora immagine idealizzata corrispondente a ciò che vorrebbe essere o far credere di essere. maria siponta de salvia René Magritte: Il donatore felice - Bruxelles, Musée d’Ixelles n° 318 - gennaio 2005 © Tutti i diritti sono riservati Fondazione Internazionale Menarini - è vietata la riproduzione anche parziale dei testi e delle fotografie Direttore Responsabile Lucia Aleotti - Redazione, corrispondenza: «Minuti» Via Sette Santi n.1 - 50131 Firenze - www.fondazione-menarini.it Una nuova Opera per Santa Croce Visto dal Piazzale Michelangelo il complesso monumentale di Santa Croce colpisce per la sua imponenza. E’ indubbio che dalla posa della prima pietra, avvenuta nel lontano 1294 su progetto dell’architetto Arnolfo di Cambio, la Chiesa francescana abbia avuto uno sviluppo tale da trasformarla in uno dei massimi capolavori del gotico italiano, nonché contenitore di memorie storiche e opere di grande valore dal ‘300 in poi. I lavori, inizialmente avviati a ritmo serrato, consentono di avere la chiesa già funzionante nel 1320, poi per svariati motivi, tra i quali la crisi economica di Firenze, la peste, la grande alluvione del 1333 e le discordie interne, rallentano fino alla consacrazione avvenuta finalmente nel 1443. I costi rilevanti delle numerose opere che la municipalità fiorentina aveva simultaneamente avviato dalla fine del XIII secolo, imposero l’istituzione da parte del Comune di Firenze di organismi in grado di seguire e gestire la complessità dei lavori. L’Opera di Santa Croce vide la luce nel 1371 per la necessità di nominare Operai, intesi come amministratori e controllori di questa grande Fabbrica in continua evoluzione, come del resto avveniva per tutti i cantieri più importanti. L’attività di ampliamento, ammodernamento e rifinitura continua infatti nel corso dei secoli seguenti, fino all’esecuzione del cam- panile ad opera del Baccani nel 1847 e della facciata da parte del Matas dal 1857 al 1863. Nel frattempo, l’intero complesso si arricchisce di sculture, dipinti e realizzazioni architettoniche, grazie anche all’intervento dei maggiori committenti rappresentati dalle grandi famiglie fiorentine, che in Santa Croce avevano iniziato a finanziare i lavori per le proprie cappelle, spesso con Santi protettori appartenenti alle famiglie stesse, allo scopo di ottenere un posto ‘privilegiato’ all’interno di quello che ormai era diventato non solo un centro spirituale di grande valore, ma anche un punto di riferimento, di formazione culturale e d’incontro per tutta la città. All’interno di Santa Croce si possono ammirare gli affreschi di Giotto e dei suoi seguaci, il Crocifisso di Cimabue, opere di Donatello, il pulpito di Benedetto da Maiano, le numerose vetrate policrome, eseguite su cartoni di maestri del XIV e XV secolo, e l’adiacente Cappella Pazzi del Brunelleschi con le opere di Luca della Robbia. Inoltre, i numerosi monumenti funebri e lastre tombali accolti all’interno del complesso dal XIV secolo in poi, con i ricordi dei grandi italiani, concorrono a formare di S. Croce un monumento unico per importanza storico-artistica. Questo patrimonio necessita inevitabilmente di una costante ed onerosa attività di tutela, manutenzione e controllo, che an- Il Complesso di Santa Croce a Firenze come appare dal Piazzale Michelangelo cora oggi continua ad essere condotta dall’Opera di Santa Croce, di recente riconfigurata sulla base del Nuovo Concordato tra lo Stato Italiano e la Santa Sede, siglato nel 1984. Fino a poco tempo fa l’Opera era indirizzata dall’attività di volontari collegati in misura diversa al mondo dell’arte e alla municipalità fiorentina, e veniva rappresentata da un Presidente affiancato da un Consiglio, che agiva sulla base delle indicazioni fornite dalle Soprintendenze competenti. Questa struttura organizzativa rodata nel tempo era in grado di far fronte alle operazioni di ordinaria e straordinaria manutenzione, seppur con limitate risorse sia di tipo economico che umano. L’unificazione del percorso di visita (Luglio 2002) ha portato i visitatori paganti da poco meno di 100.000 per il solo Museo dell’Opera, a quasi un milione F. Brunelleschi: Cappella Pazzi - Firenze, Complesso di S. Croce pag. 2 nel 2003 per la visita all’intero complesso monumentale. Questa nuova situazione ha sollevato il problema dell’autonomia operativa della struttura: è risultato indispensabile ridefinire l’assetto dell’Opera in un sistema organizzativo dotato del necessario dinamismo per soddisfare le esigenze di conservazione e valorizzazione di un patrimonio così complesso. Il processo di rinnovamento che ha interessato diversi settori, ha attivato un autentico restauro della figura dell’Opera stessa, sia dal punto di vista istituzionale che giuridico, nonché la necessità di definire con precisione le proprietà e le competenze, anche in funzione della responsabilità diretta sulle opere e sulla loro conservazione. Alla conclusione di questo processo, Santa Croce costituirà una figura inedita molto particolare e l’Opera potrà sviluppate pienamente il programma di conservazione e valorizzazione del proprio patrimonio. Tra gli obiettivi primari spicca la programmazione degli interventi più urgenti, a cominciare dal restauro dei tetti, dai quali per diverso tempo è percolata acqua piovana sulle pareti della chiesa e in alcuni casi anche sulle opere stesse; è in programma anche il recupero di tutte le grandi pale d’altare del periodo della Controriforma, di recente avviato con l’entrata in restauro della Resurrezione di Santi di Tito, che potrebbe essere eletta a simbolo di questo nuovo ciclo. Contemporaneamente, è indispensabile provvedere pianificare gli interventi futuri anche a lungo termine, secondo un programma di valorizzazione e recupero dell’intero complesso. Nel 2006 ricorrerà il quarantesimo anniversario della disastrosa alluvione di Firenze del 1966, nella quale la basilica di Santa Croce pagò un contributo altissimo ancora oggi in sospeso, dal momento che molte opere sono ancora in restauro o addirittura da restaurare e molte sono da allora fuori sede, soprattutto a causa della mancanza di sicurezza dal punto di vista alluvionale. In occasione delle celebrazioni previste verranno esposti temporaneamente alcuni grandi dipinti restaurati, in attesa di spazi adeguati e del riallestimento del Museo dell’Opera, che prevede la messa in sicurezza delle opere a rischio e il reperimento di nuovi ambienti. Per questa operazione verrà in futuro formata una commissione di esperti di livello internazionale per ‘ripensare’ Santa Croce e dotarla di strumenti all’avanguardia per conservare nel migliore dei modi e in sicurezza il patrimonio artistico che vi è contenuto: tra l’altro, all’interno della chiesa dovrà essere studiato un itinerario per preservare le numerose lastre tombali presenti sul pavimento, soggette ad un irreversibile processo di usura a causa del calpestio da parte dei turisti. In questa ottica, è indispensabile proseguire l’ opera di valorizzazione dell’archivio di Santa Croce avviata negli ultimi anni, attraverso il riordino e lo studio dei documenti conservati all’interno dell’archivio stesso e l’individuazione e l’acquisizione del materiale documentario e fotografico disseminato in vari archivi all’esterno del complesso monumentale. In tal modo, sarà possibile creare un unico archivio che potrà diventare un punto di riferimento per gli studiosi e costituire la base per la valorizzazione e divulgazione di questo complesso. E’ prevista fra breve l’apertura del sito internet e saranno avviate prossimamente importanti campagne di restauro, con l’intervento sui dipinti murali di Agnolo Gaddi nella Cappella Maggiore e di Taddeo Gaddi nella Cappella Baroncelli. Il percorso di rinnovamento avviato dall’Opera ha come obiettivo finale quello di arrivare a far percepire il complesso della basilica come polo culturale e punto di riferimento all’interno del quartiere storico di Santa Croce - tra i più integri di Firenze - sia per i cittadini che per le centinaia di migliaia di visitatori che ogni anno varcano il portone della chiesa per immergersi in un pezzo di storia fiorentina. L’opportunità di creare, possibilmente anche con la confinante Biblioteca Nazionale, un centro culturale e un punto di ingresso nella città di Firenze, costituisce sicuramente una scommessa impegnativa, che speriamo possa presto far parlare di sé. Cimabue: Crocifisso Donatello: Crocifisso (part.) cristiana massari Lorenzo Ghiberti?: Lastra tombale - Tomba di Jacopo de’ Sacchetti (XV sec) n° 318 - gennaio 2005 © Tutti i diritti sono riservati Fondazione Internazionale Menarini - è vietata la riproduzione anche parziale dei testi e delle fotografie Direttore Responsabile Lucia Aleotti - Redazione, corrispondenza: «Minuti» Via Sette Santi n.1 - 50131 Firenze - www.fondazione-menarini.it L’arte dell’affresco L’antica procedura dell’affresco è una tecnica di pittura murale nella quale il colore viene steso su uno strato di intonaco fresco. È necessaria una particolare preparazione della superficie: il muro deve essere coperto da uno strato di calce spenta e sabbia, impastate con acqua (detto arriccio) e successivamente ricoperto da uno strato liscio di calce spenta, sabbia fine e polvere di marmo (detto intonaco o tonachino), destinato ad assorbire il colore mantenendolo inalterato per molto tempo. La descrizione che nel 1550 Giorgio Vasari dedicò a questa nobile arte, riassume meglio di qualunque altra citazione, l’alchimia tecnica e stilistica dell’affresco; così narrava: «Di tutti gli altri modi che i pittori faccino, il dipignere in muro è più maestrevole e bello, perché consiste nel fare in un giorno solo, quello che nelli altri modi si può in molti ritoccare sopra il lavorato. Era dagli antichi molto usato il fresco, et i vecchi moderni ancora l’hanno poi seguitato. Questo si lavora sulla calce che sia fresca, né la si lascia mai sino a che sia finito quanto per quel giorno si vuol lavorare. Perché allungando punto il dipignerla, fa la calce una certa crosterella pel caldo, pel freddo, pel vento e pe’ ghiacci, che muffa e macchia tutto il lavoro. E per questo vuole essere continovamente bagnato il muro che si dipigne, et i colori che vi si adoperano, tutti di terre e non di miniere, et il bianco di trevertino, cotto. Vuole ancora una mano destra reso- luta e veloce, ma sopra tutto un giudizio saldo et intero; perché i colori, mentre che il muro è molle, mostrano una cosa in un modo, che poi in secco non è più quella. E però bisogna che in questi egli abbia per guida sua una pratica più che grandissima, essendo sommamente difficile il condurlo a perfezione. Molti de’ nostri artefici vagliono assai negl’altri lavori, cioè a olio o a tempera, e in questo poi non riescono, per essere egli veramente il più virile, più sicuro, più resoluto e durabile di tutti gli altri modi, e quello che, nello stare fatto, di continuo acquista di bellezza e di unione più degli altri infinitamente. Questo all’aria si purga, e dall’acqua si difende, e regge di continuo ad ogni percossa. Ma bisogna guardarsi di non avere a ritoccarlo co’ colori che abbiano colla di carnicci, o rosso d’uovo, o gomma, o draganti, come fanno molti pittori; perché, oltra che il muro non fa il suo corso di mostrare la chiarezza, vengono i colori apannati da quello ritoccar di sopra, e con poco spazio di tempo diventano neri. Però quegli che cercano lavorar in muro, lavorino virilmente a fresco, e non ritocchino a secco; perché, oltre l’esser cosa vilissima, rende più corta la vita alle pitture, come in ogni altro luogo s’è detto.» Una metodologia che nasce già perfetta nella sua semplicità esecutiva e nella quale le possibili “rivisitazioni” si sono dimostrate dei tentativi fallimentari anche se condotte da grandi maestri. L’aggregazione infatti della tec- Giotto: Fuga in Egitto - Padova, Cappella degli Scrovegni nica di base con esperimenti che proponevano, ad esempio, la stesura sopra il manto di calce di materiali organici eterogenei (come pigmenti legati tra loro da rosso d’uovo, olio ecc,) oppure altri tipi di varianti, furono eventi funesti che compromisero la vita di celeberrime opere d’arte. In questo senso emblematica è la storia del grande affresco della Battaglia di Anghiari, commissionato a Leonardo da Vinci nel 1504 per una Sala del Palazzo Vecchio a Firenze, secondo la quale, dopo numerosi studi preparatori, l’autore aveva deciso di realizzare l’opera seguendo una nuova tecnica di pittura murale che prevedeva l’uso di un impasto di materiali. Accorgendosi che i colori non facevano presa, Masaccio: La Cacciata, la frattura tra le due figure evidenzia le “giornate” pag. 2 Leonardo trascorse l’intera notte insieme ai suoi servitori, cercando con delle fiaccole di far asciugare il colore. Ma i risultati furono disastrosi e all’alba, ormai esausto, dovette riconoscere il fallimento dei suoi disperati tentativi vedendo l’affresco sciogliersi davanti agli occhi. Fino al XIII secolo per la realizzazione dell’affresco, si procedeva a “pontate”: le zone da dipingere venivano definite dall’impalcatura. Si deve a Giotto e alla sua cerchia l’introduzione della divisione in “giornate”, con cui il pittore può scegliere ogni giorno la parte da eseguire, seguendo le linee di contorno dell’immagine. L’artista doveva possedere una tecnica molto rapida e sicura, tale da lasciargli prevedere il risultato finale dell’insieme e l’esatta tonalità che avrebbe assunto il colore una volta seccato, non essendo possibili pentimenti, ripassi, correzioni, a meno di non disfare l’intonaco della giornata. Le correzioni e le rifiniture avvenivano a secco, ma normalmente queste aggiunte sbiadivano più rapidamente. Un altro aspetto strettamente legato alla procedura tecnica dell’affresco è la sinopia, ovvero il disegno preparatorio, la traccia che il pittore definisce prima di procedere alla realizzazione del proprio percorso iconografico. Si eseguiva sul primo strato di intonaco con carboncino o polvere rossa e spesso veniva a rappresentare l’unica e preziosa testimonianza grafica degli artisti più antichi, essendo, come è noto, pochissimi i disegni su carta o pergamena che si conservano fino a tutto il Trecento e scarsi quelli di primo Quattrocento. In questi lontani secoli la preparazione di un’opera d’arte murale non avveniva, come poi sarà in seguito, nelle botteghe, ma sui ponteggi, davanti alle stesse pareti da affrescare. Qui il maestro studiava a mano libera le composizioni e le figure in maniera talmente compiuta da poter consentire ai collaboratori di affrescarne alcune parti in autonomia. L’uso delle sinopie scompare verso la fine del XV secolo, sostituite con la tecnica dello spolvero, dei cartoni e della quadrettatura. Tanto antiche le origini dell’affresco, con esempi ritrovati fin dalla civiltà etrusca che greco-romana, così tanto duratura la sua fortuna quale mezzo espressivo di artisti appartenenti anche a periodi storici a noi più vicini. Pur diradandosi l’utilizzo di questa tecnica con la grande diffusione della pittura ad olio su tela, e conseguentemente del collezionismo di quadri da possedere, ma soprattutto esibire e spostare nei vari ambienti delle dimore principesche, ancora in tempi moderni celebri pittori si sono cimentati nell’affresco, recuperandone non tanto l’essenziale ascetismo tecnico-procedurale, quanto la resa di una suggestiva trasposizione dell’idea sulla materia. Come non ricordare a tale proposito gli affreschi di Mario Sironi, protagonista del Novecento italiano, che seguendo l’inclinazione verso un’arte monumentale trovò in questa tecnica il modo di esprimere e divulgare i programmi estetico-ideologici del Fascismo, attribuendo alla pittura murale un valore altamente educativo e didattico. Nel corso del Novecento si hanno anche alcuni rari esempi di affreschi per dimore private, come nel caso della sala del Castello di Montegufoni, in Toscana, affrescata da Gino Severini negli anni 192122 con personaggi della Commedia dell’Arte. Nella storia dell’arte manuale, l’affresco ha quindi occupato un posto di primaria importanza soprattutto se consideriamo la valenza documentaria che le sue rappresentazioni hanno costituito nel panorama della tradizione storica, religiosa e letteraria. La ricchezza iconografica che gli artisti riversarono nelle strutture narrative dei cicli pittorici, oggi si offrono come un atlante visivo in grado di evocare le inclinazioni politiche o più sottilmente culturali della società di ogni tempo. miriam fileti mazza Leonardo da Vinci: Disegno per La Battaglia di Anghiari G. Severini: Arlecchini - Castello di Montegufoni (Firenze) M. Sironi: L’Italia e le Arti, cartone preparatorio per l’affresco - Roma, Università La Sapienza n° 318 - gennaio 2005 © Tutti i diritti sono riservati Fondazione Internazionale Menarini - è vietata la riproduzione anche parziale dei testi e delle fotografie Direttore Responsabile Lucia Aleotti - Redazione, corrispondenza: «Minuti» Via Sette Santi n.1 - 50131 Firenze - www.fondazione-menarini.it L’Adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano “Non sono ancora morto io, non sono. Mi credevano un pazzo, allora D’Annunzio persino mi vedeva in un manicomio a dipingere i crani degli altri pazzi”. Giacomo Balla (da un’intervista di Giuseppe Bocconetti , in “Corriere Lombardo”. Milano, 12 novembre 1951 Prestigio, memoria, riconoscimento, vanità e studio di sé. Gli artisti si mostrano e nel contempo si osservano attraverso lo specchio, strumento-obiettivo utilizzato per fissare la propria immagine: oggetto di conoscenza e di meditazione tra l’io e l’universo. “L’autoritratto è il sublime ricordo del mito di Narciso (l’io e la metamorfosi), è la proiezione del passato della storia. E’ allegoria e emblema, racconto e menzogna. Può essere verità assoluta o verità inconscia”, scrive Maurizio Fagiolo dell’Arco. Certo un mezzo per comunicare l’anima attraverso il corpo. Complesso e affascinante il tema dell’autoritratto, per la molteplicità dei significati che può racchiudere, non tutti e non sempre di facile interpretazione. La sua storia riconduce a qualche raro aneddoto narrato dalle fonti antiche quali Fidia o Apelle e a qualche ugualmente raro episodio risalente all’età medievale come quelli della monaca Guda, di Maestro Mathiu, Giotto (almeno secondo quanto ci tramanda il Vasari ) e Andrea Orcagna. Sino all’età umanistica nella quale l’artista comincia a fare ritratti di sé con regolarità. Ma si mostra celandosi: Masaccio si nasconde nella folla che circonda San Pietro in cattedra; così come Filippino Lippi è presente alla Crocefissione di San Pietro; Sandro Botticelli guarda lo spettatore che sta guardando i Magi in adorazione della Vergine. Michelangelo nasconde il suo tormentato volto nella pelle scuoiata di San Bartolomeo, mentre Raffaello testimonia la sua presenza all’interno della Scuola di Atene. La prima collezione di autoritratti d’artista nasce a Firenze alla corte medicea per felice intuizione (“forse una magica cerimonia quella di appropriarsi del volto dell’artista” scrive a tal proposito sempre Fagiolo dell’Arco) del cardinale Leopoldo de’ Medici che cominciò a collezionare questa tipologia di ritratto che oggi, raccolta nel Corridoio Vasariano, conta ben 1320 esemplari. Gli studi sull’evoluzione della figura e del ruolo sociale dell’artista e gli sviluppi di questo genere pittorico sono stati ampiamente documentati e sempre di più oggi suscitano interesse e vivacità critica, soprattutto in riferimento all’arte italiana del Nove- Gentile da Fabriano: Adorazione dei Magi (part. della predella con la Fuga in Egitto) Firenze, Uffizi cento: analisi di problematiche che legano la storia con la sociologia, le indagini psicanalitiche con le inquietudini e gli interrogativi che hanno attraversato il ventesimo secolo. Giorgio de Chirico si è travestito cento volte e si è anche abbinato a statue classiche o a personaggi mitici per cercare un’identificazione. Ci sono invece artisti come Carlo Carrà o Giorgio Morandi che si sono ritratti solo una o due volte e altri ancora che si sono costantemente scrutati e ritratti nel corso della loro vita: è il caso di Giacomo Balla o di Gino Severini. A Firenze ulteriori testimonianze sull’autoritratto sono raccolte nella mostra “Moi! Autoritratti del XX secolo” (il pronome interprete-simbolo dell’internazionalità nell’iconografia autoriflessa), alla Galleria degli Uffizi, che offre una panoramica vasta e originale della produzione di artisti, a raggio pag. 2 internazionale, che hanno segnato le più diverse espressività del Novecento lasciando nello studio di sé tracce vive e pulsanti del loro modo di essere, di pensare, di intendere l’arte oltre che loro stessi. Una inedita visualizzazione che consente di delineare attraverso il percorso della mostra le principali linee di tendenza dell’evoluzione dell’autoritratto nella pittura del XX secolo. In questo secolo diverso è il porsi in effige dell’artista. E così il percorso della mostra citata si snoda tra autoritratti osservati dall’esterno e indagati nella loro genesi, contrapposti o a confronto, per sottolinearne la somiglianza o meno, l’apposizione della maschera e il variare dell’espressione, il segno della storia, oppure l’uso della metamorfosi. La firma dell’artista, il suo sguardo, tutto racconta di lui: il suo corpo può diventare anche luogo di vanità riflessa in uno specchio. E ciò vale per Magritte, Brancusi, Duchamp, Fontana, Chagall, Warhol, e Suzanne Valadon o Kathe Kollwitz, per citare due autoritratti al femminile. Opere che ricordano, come sottolinea Pascal Bonafoux, curatore della mostra già presentata a Parigi, che mentre un tempo il comune denominatore Gentile da Fabriano: Adorazione dei Magi - Firenze, Uffizi della collezione era l’ “olio su tela”, oggi sono le tecniche, ingegnose, provocatorie, diverse, documento oltre che dell’autore che vi si ritrae, della disomogeneità dell’autoritratto, pur nella medesima fina- lità. Ora confessione del modo in cui l’artista vede se stesso, ora immagine idealizzata corrispondente a ciò che vorrebbe essere o far credere di essere. maria siponta de salvia n° 318 - gennaio 2005 © Tutti i diritti sono riservati Fondazione Internazionale Menarini - è vietata la riproduzione anche parziale dei testi e delle fotografie Direttore Responsabile Lucia Aleotti - Redazione, corrispondenza: «Minuti» Via Sette Santi n.1 - 50131 Firenze - www.fondazione-menarini.it Architettura e arte astratta a Mantova L’interazione tra le arti (architettura, pittura e scultura) è una tematica portante nella storia dell’arte, un’esigenza rivendicata da molte correnti artistiche: una prospettiva che si rivela quanto mai attuale e interessante. In tale direzione si muove Massimo Ghisi, architetto e fondatore della Galleria Disegno, che da anni sviluppa progetti di recupero architettonico in cui possono convivere sia le esigenze di tipo funzionale e conservativo, sia nuove modalità di percepire e vivere la dimensione estetica. Questa “filosofia” è stata applicata, ad esempio, nel progetto di ristrutturazione e arredamento dell’Hotel Rechigi di Mantova che ha previsto al piano terreno una collezione permanente d’arte contemporanea, aperta al pubblico e fruibile quotidianamente dagli ospiti dell’albergo. La Collezione Rechigi e gli ambienti dell’Hotel dove essa è collocata esprimono una concezione dell’abitare rappresentativa di un modus vivendi che intende superare la tradizionale distinzione tra spazio museale e spazio vissuto per arrivare ad un risultato di completa integrazione in cui l’arte diventa una presenza inscindibile nel quotidiano. Come afferma l’architetto e collezionista Massimo Ghisi «Tutto ciò è indicativo di una nuova sensibilità che si propone di formare un contesto vitale intorno all’opera d’arte, in cui essa possa abitare e re- spirare, in armonia con la quotidianità, senza nulla togliere alla potenzialità iconica e simbolica derivante dalla sua essenza artistica». Le opere inserite nei diversi ambienti dell’Hotel se da un lato diventano parte integrante dell’arredamento, dall’altro lo caratterizzano con la loro presenza, segnando le differenze tra le varie aree pubbliche: hall e reception, la zona bar & relax e l’area riservata alla colazione. Così l’ingresso è suggellato in modo scenografico da un’installazione di Eduard Habicher, le cui opere nascono quasi sempre nei luoghi destinati ad accoglierle e vi si rapportano creando sorprendenti e stimolanti situazioni visive e ambientali. Le sculture di Habicher combinano materiali solo apparentemente contrastanti (acciaio con elementi in marmo, vetro, ardesia o porfido), strutture che sembrano segni tracciati nell’aria e liberi di fluttuare, ma che riconducono, attraverso il connubio dei materiali utilizzati, ad una dimensione poetica della natura. Sempre l’ingresso ospita un’altra scultura di Pietro Coletta, artista che dagli anni Settanta è protagonista della ricerca scultorea con interventi in cui l'artista rimette in discussione le valenze dei materiali, attraverso un sapiente gioco di illusioni ottiche e spaziali. Il bancone della reception, è stato personalizzato dall’architetto, sia Paolo Serra: Senza titolo, 1996, lacca e oro su tavola Coll. Hotel Rechigi attraverso la scelta inusuale del marmo, sia in quanto letteralmente sovrastato dall’arte di Marco Gastini. Analogamente la zona bar & relax è connotata da opere totalmente aniconiche tra cui spiccano i nomi di Paolo Iachetti e Paolo Serra, che è qui presente con i suoi preziosi monocromi in oro e blu. E’ stata inoltre prevista un’ampia sala conferenze, destinata ad accogliere eventi espositivi di artisti che poi confluiranno nella collezione permanente. Attualmente la sala ospita una personale di Marco Giovani, artista modenese che fin dagli esordi ha privilegiato un’indagine sugli aspetti più na- Pietro Coletta: Autoritratto, 1996, ferro e rame Coll. Hotel Rechigi Ingresso dell’Hotel Rechigi con installazioni di Eduard Habicher e Marco Gastini pag. 2 scosti e impercettibili del reale. In questi ultimi anni Giovani ha investigato l’oggetto e il tentativo di catturarne l’ombra, ingaggiando una lotta incessante tra essere e apparire, svelando progressivamente i diversi modi di percepire una medesima realtà. Le ultime opere dall’emblematico titolo “Doppiogioco” costringono l’osservatore a porsi domande sulla natura delle cose, mostrando inaspettate visioni su cui varrebbe la pena soffermarsi: immagini opache e fuori fuoco ma potenzialmente riconoscibili, forme sul punto di scomparire, di scivolare via, proiezioni di oggetti a noi familiari ma che ci appaiono alieni. Si tratta, in effetti, di frammenti di realtà, reliquie del quotidiano che adesso stentiamo a ri-conoscere, immagini svelate dalla luce e destinate a restare sospese in dimensioni dualistiche tra realtà e finzione, presenza e assenza. Proprio l’elemento luce è la chiave per comprendere il modus operandi dell’artista, che la utilizza per “svelare” gli oggetti da diversi punti di vista: cambiando la direzione della luce e con sottili variazioni si creano, infatti, altre visioni/interpretazioni possibili di una stessa realtà. Da ciò si può intendere come l’opera e la sua organizzazione visiva - prima di procedere con i diversi tipi di grafite - sia studiata con grande cura. La fase progettuale del lavoro prevede una piccola scenografia di oggetti sui quali è proiettata la luce e il cui effetto sulla tela deve sorprendere innanzi tutto lo stesso artista. Attraverso questo gioco di reale-irreale, Giovani riesce a catturare ciò che sta dietro gli oggetti, a restituire quelle potenzialità latenti insite nelle cose che accompagnano la vita di tutti i giorni. Nella medesima concezione di arte contestualizzata nella vita quotidiana, in un continuum tra spazio privato e pubblico, è l’ambizioso progetto che ha portato alla ristrutturazione completa di Palazzo Ottavio Cavriani, edificio in cui si amalgamano le funzioni di ufficio, abitazione, atelier e galleria. Si tratta di un palazzo nobiliare della metà del Cinquecento, che prima dell’attuale recupero aveva perso buona parte del suo aspetto originario subendo diverse modificazioni. Circostanze contingenti avevano costretto a tamponare gli archi sulla corte, ad aggiungere muri per sostenere le volte con il conseguente sbilanciamento della simmetria strutturale. L'intervento, effettuato dall'archietto Massimo Ghisi, ha rispettato la storia del palazzo esaltando al massimo le qualità degli spazi e con perfetta integrazione tra arredi e strutture. Filo conduttore è sempre l’arte aniconica che “abita” e contraddistingue tutti gli spazi, sia pubblici sia privati. Così il lungo corridoio di ingresso che conduce al cortile è animato da una struttura dinamica di Gastini: un’opera che riesce a dare corpo agli spazi già carichi di tensioni come le volte, superando i confini di pittura e scultura informale. L’ampio cortile, su cui si affaccia l’ingresso dell’abitazione e che costeggia le ali dell’edificio riservate alla galleria, è interamente oc- cupato da un’installazione di Habicher. Nella galleria, che adesso ospita una personale dello stesso Marco Gastini, arte e natura convivono in perfetta sintonia, dato che la storia del palazzo comprendeva il grande glicine che adesso fa mostra di sé dietro, dentro e sopra gli spazi della galleria. I segni dell’arte si ritrovano un po’ ovunque in tutte le aree dell’abitazione-atelier, in salotto, nella sala da pranzo, nel giardino, fino a spingersi nei suggestivi spazi delle cantine in mattoni e con i soffitti a volte. Spazi per l’arte e per la vita in costante dialogo, un’occasione per mettere alla prova la creatività, ma soprattutto una straordinaria opportunità culturale per la città di Mantova. federico poletti Marco Giovani: Doppiogioco, 2004, Ombre di oggetti, grafite su carta intelaiata, poliestere Paolo Iacchetti: A squarciagola, 1992, olio su tela - Coll. M. Ghisi Eduard Habicher: En-tra, 2004, acciaio inox verniciato Cortile palazzo Cavriani n° 318 - gennaio 2005 © Tutti i diritti sono riservati Fondazione Internazionale Menarini - è vietata la riproduzione anche parziale dei testi e delle fotografie Direttore Responsabile Lucia Aleotti - Redazione, corrispondenza: «Minuti» Via Sette Santi n.1 - 50131 Firenze - www.fondazione-menarini.it Andrea Palladio e la civiltà della villa veneta La mostra che si terrà a Vicenza dal 5 marzo al 3 luglio presso il palazzo Barbaran da Porto, sede del Centro Internazionale di Studi di Architettura “Andrea Palladio”, rappresenterà un viaggio affascinante attraverso trecento opere provenienti da tutto il mondo, fra le quali spiccheranno dipinti di Veronese, Tiziano, Tiepolo, Guercino, Jacopo Bassano, e disegni di Raffaello, Giulio Romano, Baldassarre Peruzzi, Palladio, Tiepolo e Canaletto. Accanto a dipinti e disegni, mappe, modelli architettonici antichi o realizzati appositamente, costituiranno un’introduzione a quello che fu un mondo complesso e articolato, fornendo gli elementi per meglio comprenderlo e valutarne non solo l’importanza dal punto di vista architettonico ed artistico, ma anche il ruolo socio-politico nell’assetto globale del territorio della Serenissima. Se il concetto della “vita in villa” sul modello della civiltà romana antica, rinato con Francesco Petrarca come ideale letterario, si sviluppò nella Firenze quattrocentesca del Magnifico e portò a diverse realizzazioni innovative nella Roma di Raffaello e Bramante, la civiltà delle ville venete rappresentò qualcosa di molto più complesso, un fenomeno prima di tutto sociale, oltre che artistico, iniziato nel Cinquecento e destinato ad avere profonda influenza per più di due secoli nel tessuto del territorio in cui si sviluppò. Per valutarne la portata, basti ricordare che le ville censite in Veneto e Friuli sono ancora oggi oltre 4.000, e che il 90% dei comuni del Veneto ne ospita almeno una: la villa - intesa non solo come dimora, ma nel senso più ampio di complesso comprendente anche tutti gli annessi agricoli - costituì un elemento chiave nella organizzazione politica ed economica della Repubblica veneziana, svolgendo un ruolo essenziale nella storia del territorio come struttura fondiaria, proprietaria e produttiva. L’attività di Andrea di Pietro detto il Palladio, nato a Padova nel 1508, si identifica con il periodo aureo della civiltà delle ville, che si affermava e rafforzava in virtù delle capacità produttive di una terra adatta alla coltivazione di cereali e vite e alla produzione della seta; la vita in campagna era anche considerata dall’aristocrazia veneziana più salubre di quella cittadina, specie nei mesi caldi, quando il centro di Venezia era colpito da frequenti epidemie e assediato dalle zanzare. Il giovane Andrea, che aveva iniziato l’attività con un periodo di apprendistato a Padova, seguito dalla collaborazione presso la bottega vicentina degli scalpellini Girolamo Pittoni e Giovanni da Porlezza, fu notato e apprezzato per le sue capacità tecniche da Gian Giorgio Tris- A. Palladio: Villa Barbaro - Maser (Treviso) sino, personaggio fra i più eminenti di Vicenza, umanista letterato e diplomatico. Grazie al Trissino, al quale dovette il soprannome di Palladio, Andrea riceveva dal 1540 le prime commissioni come progettista e costruttore; contemporaneamente, accanto all’attività pratica, coltivava lo studio degli esempi antichi in una serie di viaggi a Roma, Verona, Pola, Nimes. Oltre all’intensa attività per l’aristocrazia vicentina e veneziana, Palladio riceveva nel 1549 l’incarico di realizzare il più importante edificio del suo tempo per la città di Vicenza, le logge attorno al gotico Palazzo della Ragione, commissione che segnava la definitiva consacrazione della sua fama. L’ultimo viaggio a Roma, dove nel 1554 diede alle stampe la guida Le antichità di Roma, lo intraprese in compagnia di Daniele Barbaro, patriarca di Aquileia che si era dedicato alla traduzione in volgare del trattato di architettura di Vitruvio e che trovava in Palladio il supporto delle competenze tecniche per Paolo Veronese: Sala dell’Olimpo e crociera (particolari degli affreschi) Villa Barbaro, Maser (Treviso) pag. 2 verificare e chiarire i passi più difficili del testo latino. Fu proprio per i due fratelli Barbaro, il patriarca Daniele e Marco Antonio, ambasciatore della Serenissima, che poco più tardi Palladio progettava la villa di Maser. Nel secondo dei Quattro libri dell’architettura, pubblicato a Venezia nel 1570, Palladio inserisce la pianta e un’incisione della facciata principale della villa, descrivendo con dovizia di particolari l’edificio e le sue pertinenze, seguendo il percorso dell’acqua che scende giù dalla collina retrostante, forma un laghetto usato come peschiera, scorre nella cucina, irriga i giardini e riempie gli abbeveratoi per il bestiame, finendo poi con l’irrigare il frutteto. Appare qui evidente come il rapporto dell’edificio padronale con le attività proprie della fattoria fosse strettissimo, un legame indissolubile sottolineato dal fatto che l’architetto progettava tutto il complesso, e non solo l’abitazione del proprietario: nella villa Barbaro il corpo centrale - residenziale - si unisce senza soluzione di continuità alle barchesse laterali, destinate a contenere gli attrezzi agricoli e il raccolto di granaglie (il termine viene da barco, unità di misura dei carichi di cereali), adottando una soluzione comune a molti altri analoghi complessi dell’epoca. La villa vera e propria, cuore dell’azienda agricola, costituiva il simbolo del potere della famiglia del proprietario ed era destinata a funzioni di rappresentanza, essendo un punto di riferimento per conoscenti e personaggi eminenti che viaggiavano nella regione. Nella sua pur accurata descrizione di villa Barbaro, Palladio omette di citare Paolo Veronese, autore degli affreschi che ornano le sale della residenza, tanto da far ipotizzare agli studiosi che l’intervento del pittore abbia travalicato il compito della pura decorazione degli ambienti interni e si sia spinto ad interferire con il progetto palladiano, forse fino a modificare l’assetto originario della facciata, alzando la finestra centrale del piano superiore tanto spezzare la base del timpano di coronamento: una soluzione “anticlassica” del tutto originale, che non ha riscontro nelle altre realizzazioni palladiane. Il gioco-contrasto tra razionale circoscrizione degli spazi secondo principi ispirati alla classicità e illusionismo manieristico nella decorazione delle superfici connota tutto il ciclo di affreschi, uno dei più alti esempi della pittura di Veronese. Le architetture dipinte si fanno negazione di quelle reali, “sfondate” in ampie visioni paesaggistiche del territorio circostante, in cui è raffigurata anche la stessa villa all’interno della quale si trova l’osservatore. Le “illusioni” pittoriche costituiscono il filo conduttore di tutto l’apparato decorativo, nel quale compaiono personaggi a grandezza naturale in atto di uscire da porte trompe-l’oeil o affacciati da balaustre e balconi affrescati. Ciò che l’architetto ha delimitato e circoscritto nettamente, il pittore espande al di là della barriera delle pareti, in una dimensione fantastica libera dai vincoli della “misura” palladiana, così come il finestrone sulla facciata che deborda incon- A. Palladio: Villa Emo - Fanzolo (Treviso) tenibile oltre il limite prescritto dal timpano appare spalancarsi verso sfrenate fantasie manieristiche. Uno degli esempi più significativi della progettazione palladiana di villafattoria, interamente realizzato sotto la guida dell’architetto, è rappresentato da villa Emo a Fanzolo, costruita intorno al 1560. Il complesso, giunto fino a noi nella sua integrità, dispiega ai lati dell’edificio padronale - preceduto da un pronao a quattro colonne doriche che sorreggono il timpano con lo stemma degli Emo - due lunghe barchesse, aperte in undici archi ciascuna e concluse dalle torricelle delle colombare. La decorazione delle sale all’interno, opera del veneziano Giovan Battista Zelotti, fu eseguita intorno al 1565 e viene ricordata da Palladio nella descrizione della villa contenuta nei Quattro libri. Nella realizzazione di Villa Emo, Palla- pag. 3 dio raggiunge una mirabile sintesi di forma e funzione, associando l’ideale petrarchesco della vita in villa e le forme di derivazione classica con le necessità della produzione agricola. La più celebre fra le ville palladiane, Villa Almerico Capra Valmarana, detta la Rotonda, si distacca dalla tipologia della villa-fattoria di campagna per assumere l’aspetto monumentale di un fabbricato suburbano destinato a funzioni di rappresentanza; già altre ville edificate in anni precedenti rispondevano ad esigenze di questo genere, in virtù delle quali Palladio aveva ad esempio allontanato le barchesse dall’edificio padronale, ponendole a debita distanza. Questo mutamento funzionale e concettuale avrebbe determinato l’evoluzione della villa verso soluzioni sempre più monumentali e scenografiche fino alla costruzione di vere e proprie regge, la più famosa delle quali, Villa Pisani a Strà, verrà edificata nel Settecento. L’impianto della Rotonda è però unico non solo nel percorso creativo di Palladio ma in assoluto, dotata com’è di quattro facciate uguali, ciascuna delle quali si protende con un pronao a sei colonne verso il paesaggio circostante; l’architetto stesso offre nei Quattro libri una descrizione dell’edificio che rende ragione della sua originale struttura: «Onde perché gode da ogni parte di bellissime viste, delle quali alcune sono terminate, alcune più lontane, & altre che terminano con l’Orizzonte; vi sono state fatte le loggie in tutte quattro le faccie». Tutto l’edificio ruota in torno alla sala centrale, circolare, dalla quale si dipartono quattro corridoi che si concludono nelle logge, così che dal centro della sala è possibile avere la contemporanea visione del paesaggio da ogni lato, resa più ariosa dalla posizione soprelevata della costruzione rispetto alla campagna circostante. Commissionato nel 1566 da Paolo Almerico, un alto prelato che dopo una brillante carriera alla corte papale si era ritirato nella città di origine, l’edificio ha una pianta perfettamente simmetrica in tutti i suoi lati ed è dominato dalla cupola che sovrasta la sala circolare centrale e che è all’origine del nome popolare di Rotonda, che condivide con il Pantheon di Roma. L’architettura dei templi dell’antichità appare qui aver fornito il principio ispiratore più che in ogni altra costruzione civile di Palladio, e questo risulta ancora più evidente nel progetto pubblicato nei Quattro libri, dove la sala centrale è coronata da una cupola semisferica che non fu poi realizzata. Intorno al 1571 la costruzione della villa era compiuta, mentre la decorazione con affreschi e stucchi fu condotta in epoca successiva, dopo la morte di Palladio avvenuta nel 1580, e niente aggiunse al mirabile dialogo fra la costruzione - splendida, nella sua ambigua identità fra sacro e profano - e il paesaggio circostante, che tanto ha colpito e continua a incantare i visitatori. Scrisse Goethe nel suo Viaggio in Italia : «L’architetto forse non ha mai creato nulla di più lussuoso. Lo spazio oc- A. Palladio: Villa Capra - Vicenza; Veduta di una facciata e prospetti dai Quattro libri cupato dalle scalinate e dai vestiboli è molto maggiore di quello della casa stessa; ciascuno dei lati, infatti, potrebbe figurare come il prospetto di un tempio [...] E così come l’edificio si offre in tutta la sua magnificenza da qualunque punto lo si guardi, altrettanto incantevole è il panorama che si gode da esso». La villa-fattoria è una realtà molto lontana dal molteplice aspetto di questa dimora-tempio-monumento, eretta a glorificazione di colui che l’aveva commissionata e del geniale artefice che l’aveva concepita; la Rotonda sarebbe divenuto il punto di partenza del palladianesimo, destinato a percorrere una lunga strada e a dare notevoli frutti nell’Inghilterra del Seicento - con il classicismo palladiano rappresentato dall’architetto Inigo Jones e del Settecento, con la pubblicazione dei tre volumi del Vitruvius Britannicus ad opera dell’architetto Colen Campbell, per il quale la Rotonda continuava a costituire l’inimitabile modello di riferimento. donata brugioni