12 Marzo 2005 Weekend TEATRI Le scene di Attila, sul palco del Teatro dell’Opera di Roma sono create al computer. Deludono la soprano Theodossiou e il direttore Pirolli di Giuseppe Pennisi MILANO FINANZA IX Personal 61 Il re degli Unni è in versione digitale A ttila di Giuseppe Verdi, in scena al Teatro dell’Opera di Roma fino al 22 marzo, ha avuto alterne vicende nella considerazione sia del pubblico sia della critica. Verdi aveva 33 anni quando la compose su un mediocre libretto di Temistocle Solera (a cui rimise mano Francesco Maria Piave). Si basava su un dramma eroico del tedesco Zacharias Werner. Dato che gli unni potevano incarnare i suoi progenitori, Werner non doveva avere tanto in antipatia né il barbaro re né le armate sotto le quali, secondo la leggenda, il suolo non fioriva più. Inoltre, l’opera era stata commissionata da La Fenice di Venezia, dove ebbe la «prima» il 17 marzo 1846; allora la città lagunare (parte del dramma si svolge ad Aquileia) era parte integrante dell’impero austro-ungarico, la cui censura non ravvisò nulla di disdicevole né nel testo né nella musica. Nonostante ciò, è stata considerata per decenni come l’opera risorgimentale «par excellence» di Verdi; questo merito (più presunto che effettivo) le assicurò fortuna sino al 1870, seguito da un lungo declino fino a tempi recenti. Riapparve, in effetti, negli anni 50. Negli Usa diventò un cavallo di battaglia di Justino Diaz e di Beverly Sills. In Europa, e in Italia, di Samuel Ramey, Nicolai Ghiaurov, Pietro Cappuccilli, Ruggero Raimondi , Christina Deutekom, Cheryl Strudel. È un’opera per voci più che per orchestra. Anche nell’Ottocento la critica inglese e francese paragonò alcuni passaggi alla «fanfara dei bersaglieri», nonostante nel lavoro Verdi avesse eliminato la banda (quasi sempre presente in opere precedenti) e limitato il ruolo degli ottoni. Pochi i momenti strumentali descrittivi, pure se la laguna e le alture con vista su Roma (con l’incontro tra Attila e papa Leone) ne fornissero abbondante materia. Domina il melodramma a pezzi «chiusi», scene con aria cabalette e concertati per dare sfoggio del virtuosismo dei cantanti; la protagonista sarebbe dovuta essere Giuseppina Strapponi, ma la parte (estremamente ardua) venne ceduta a Sophie Löwe. La vicenda, da un lato, vede un tentativo di scambio politico: il generale Ezio appoggerà Attila nella conquista del resto del mondo se l’unno gli lascerà l’Italia (che in- tende unificare). Da un altro, la vergine Odabella, con la complicità del fidanzato Foresto, irretisce l’unno e lo ammazza nel sonno. Nelle interpretazioni moderne, Odabella appare attratta fisicamente ed emotivamente da Attila. Tra Roberto Scandiuzzi (Attila nella edizione romana) e Walter Fraccaro (Foresto), poche donne avrebbero esitato a non scegliere il primo. Per di più, il tenore è trattato abbastanza male (rispetto al ruolo centrale che ha in altre opere del Verdi trentenne): due arie piuttosto strillate nella seconda parte. Novità dell’allestimento romano è l’utilizzo del digitale: le scene sono create su computer e proiettate su alcune quinte. L’idea di Paolo Baiocco (responsabile anche della regia) ha un vantaggio: riduce i costi, accorcia i cambi di scena e rende lo spettacolo facilmente replicabile in quanto bastano un paio di cd-rom per portarlo in giro. Nulla di tecnologico, però, sul palcoscenico: le proiezioni sono ispirate a Piranesi, vedutisti e paesaggi (nonché visioni romane stilizzate). Convenzioni, regia e costumi. Roberto Scandiuzzi è un Attila scultoreo, Roberto Frontali un Ezio duttile e dal bel fraseggio. Delude, nel complesso, la più attesa: Dimitra Theodossiou, raro soprano drammatico chiamata per l’impervia parte di Odabella. Dopo una buona entrata in scena, distesa su due ottave con do sovracuto da prendere di forza, strilla per buona parte dello spettacolo inserendo sovracuti un po’ dappertutto, concessione forse al pubblico ma non all’orecchio esperto. Walter Fraccaro è insulso quando richiede la parte di Foresto, ma si riscatta nella seconda aria affidata al tenore. Punto dolente è il maestro concertatore, Antonio Pirolli, a lungo alla direzione musicale dei teatri di Ankara e Istanbul. Temendo una direzione bersagliera, smussa un po’ tutto sino al fine. Dove di fuoco ne mette anche troppo. (riproduzione riservata)