Società civile e movimenti sociali: la democrazia

Società civile e movimenti sociali: la democrazia radicale
Una meta-introduzione. Prevenire possibili malintesi. Nel ringraziare, in particolare, Guido (ma
anche tutti voi) per avermi invitato come relatore – di cui sento tutto l’onere e l’onore – alla prima
sessione del Corso di Scienza della Politica 2013-14, organizzato dalla Libera Università Popolare di Reggio
Emilia, su questa tematica così importante per la vita di tutti noi (la democrazia e la sua possibile
trasformazione), ma allo stesso tempo così complessa, devo subito confessarvi una cosa, che forse non vi
farà del tutto piacere, ma lo faccio per onestà intellettuale e per non oltrepassare, oltre un certo limite, la
soglia del ridicolo. Ve lo dico subito e la metto così, brutalmente: il titolo di questa sessione è Società civile
e movimenti sociali: la democrazia radicale. Ebbene, alla fine di questa lezione, non ci sarà nessuno di voi
che andrà via con un pacchetto preconfezionato e già pronto di nozioni, concezioni e, finanche, architetture
istituzionali su ciò che nel titolo della sessione di oggi è stata chiamato anche provocatoriamente
democrazia radicale. Sarebbe ridicolo venire qui e pensare di fare tutto ciò, in primo luogo, proprio per i
tempi di crisi che corriamo. Ma come? – avrà pensato sicuramente qualcuno di voi – abbiamo difficoltà
anche arrivare a fine mese, c’è un livello di disoccupazione generale che ha oltrepassato anche le fasi più
acute della crisi economica degli anni Settanta, da almeno due anni non abbiamo un governo che sia
legittimato elettoralmente, ed anche in caso di governo legittimato elettoralmente, tanto avrebbe fatto la
stessa cosa, vale a dire, subire la volontà politica della c.d. Troika (BCE, FMI, UE) o di qualsiasi altro potente
organismo sovranazionale, e questo “giovane” studioso ci viene qui a parlare delle “magnifiche sorti e
progressive” dell’istituzione democratica? Avreste perfettamente ragione a pensare tutto ciò. Ma, infatti, io
non sono venuto qua a parlavi delle “magnifiche sorti e progressive” della democrazia liberale. No. Non
parlerò di cose che non esistono. Di cose impossibili. Ma allora di che cosa sono venuto a parlare fin qua?
Ve lo dico subito. Più che di come costruire l’istituzione della democrazia radicale, sono venuto a parlare di
come – attraverso la letteratura scientifica sia di discipline empiriche come la sociologia e la scienza politica
sia di discipline teoriche come la teoria e la filosofia politica – sia possibile decostruire il
concetto/istituzione di democrazia liberale, così come lo abbiamo imparato e conosciuto nel linguaggio
comune e nella vita di tutti i giorni e su cui poi, soprattutto, fondiamo la nostra condotta politica di cittadini
democratici. Ecco, io credo appunto che su questo concetto-istituzione, la democrazia liberale, ci sia ancora
molto da dire, ci sia ancora molto da criticare, per poi ripartire su nuovi basi democratiche più
genuinamente condivise da noi cittadini. E’ per questo motivo che ritengo che le coordinate che mi sono
state date per parlare di come decostruire il concetto-istituzione di democrazia liberale e, soprattutto, il
senso comune che si è creato su di esso, e cioè le coordinate della “società civile, movimenti sociale e
democrazia radicale,” siano quelle più adatte per adempiere a questo compito. E nel corso della mia
presentazione spero che capirete il perché.
Di cosa parlerò e di cosa non parlerò. Ma adesso entriamo un po’ più da vicino – dopo questa mia
introduzione in cui forse ho messo fin troppo le mani avanti – nei contenuti della sessione di oggi. Guido,
nell’invitarmi a parlare, mi ha detto di focalizzarmi su tre aspetti specifici: a) il concetto di post-democrazia
nel contesto della crisi delle democrazia liberali; b) un excursus storico-teorico sul concetto di società civile;
ed infine, c) concezioni e pratiche della democrazia radicale. Devo subito ammettere anche qui un’altra mia
colpa. Non obbedirò totalmente a tutte le richieste di Guido, o almeno lo farò in un modo meno lineare di
quanto si aspetti. Dei 3 punti appena menzionati, tratterò in modo estremamente breve del secondo, vale a
dire, l’excursus storico-teorico sul concetto di società civile, per due buoni motivi. Il primo è più personale,
diciamo così. Lo dico brutalmente. La ricostruzione storico-teorica del concetto di società civile così come
l’ho presentata nel libro Società civile e democrazia radicale, non la condivido più totalmente. Non la
considero adeguata per interpretare questi tempi di crisi politica ed economica vissuti dalle nostre
democrazie. Non la considero, in altre parole, più un concetto “all’altezza dei nostri tempi,” come direbbe
un pensatore conservatore spagnolo dell’inizio del Novecento. E allora ho deciso che non avrebbe avuto
senso parlarne diffusamente qui oggi, quando poi non ero più nemmeno così sicuro della valenza euristica
del concetto da me costruito. Ma voglio rassicurare Guido sul fatto che, comunque, parlerò più
diffusamente di società civile, introducendo la mia seconda buona ragione. In realtà, non c’è bisogno che vi
faccia una ricostruzione metodica del concetto di società civile, perché tanto ne andremo a parlare, ed
anche diffusamente, quando discuterò il terzo punto della mia relazione, cioè il tema delle concezioni e
pratiche della democrazia radicale. Spero, insomma, che Guido mi perdoni se mi sono preso queste libertà
espositive, ma l’ho fatto e lo faccio, soprattutto, per rendere la mia lezione più concreta ed attuale in modo
tale da facilitare ed incentivare ciò che di più bello c’è in ogni lezione, il momento della discussione. Spero,
infatti, che nell’ora successiva siano tante le cose da discutere con voi a partire dalle cose che vi dirò in
questi minuti. Ma adesso basta con le introduzioni delle introduzioni ed i caveat ed addentriamoci nella
rozza materia della nostra lezione.
1. Il concetto di postdemocrazia nel contesto della crisi delle democrazia liberali
Democrazia liberale-rappresentativa. Che cosa è? Prima, però, di presentare il concetto di
postdemocrazia, è bene dare qualche breve coordinata di cosa si intende nella scienza politica (e nel
linguaggio comune) per democrazia liberale-rappresentativa. Sarà sufficiente riportare alla vostra
conoscenza qualche definizione dei grandi classici. Con grandi classici intendo quegli autori che hanno
fondato la disciplina della scienza politica. I primi nomi che mi vengono in mente sono quelli di Schumpeter,
Dahl e Sartori. In particolare, qui parto dalle definizioni di Schumpeter e Sartori, che mi sembrano le più
chiare, nette e sintetiche. Quindi, le più facili da utilizzare per partire poi con le critiche del modello
liberale-rappresentativo. Schumpeter definisce la democrazia come quel tipo di governo caratterizzato
dalla “presenza di più élites in concorrenza tra loro per la conquista del voto popolare.” Similmente, Sartori
ci dice che la democrazia è quel regime politico in cui “l’influenza della maggioranza è basata sul potere di
minoranze, in competizione tra loro, scelte attraverso elezioni.” Come si potrà facilmente intuire, questi
autori individuano nel meccanismo della rappresentanza l’aspetto caratterizzante della democrazia liberale.
Per loro, democrazia è, prima di tutto, un metodo. Un metodo di scelta dei governanti, cioè dell’elite
politica che dovrà poi governare una comunità in nome della maggioranza dei suoi cittadini. Va da sé che il
principale meccanismo pratico di traduzione del principio della rappresentanza non potrà che essere
identificato con il meccanismo elettorale. Elezioni che dovranno essere — ci dice sempre Sartori — libere,
competitive e periodiche. Rappresentanza politica attraverso elezioni libere, competitive e periodiche.
Questa è la “formula magica” (gli ingredienti fondamentali) della c.d. democrazia liberale-rappresentativa.
Ossia, della nostra democrazia. Specifichiamo e chiariamo meglio questo punto riguardante la definizione
corrente della democrazia liberale e rappresentativa. La democrazia è, infatti, stata ed è tutt’ora – per
queste interpretazioni “scientifiche” dominanti – considerata semplicemente un metodo per la scelta dei
governanti. Nulla di più, nulla di meno. E vi assicuro che non sto esagerando per difetto. Casomai per
eccesso. In altre parole, per tutti i grandi classici del pensiero democratico (come Sartori), della democrazia
non possiamo che darne una definizione proceduralista, formalista e minimalista. Cioè, una democrazia
ridotta ai minimi termini.
La divisione del lavoro politico nella democrazia liberale Il più grande corollario politico e pratico
della definizione minimalista era, ed è, l’accettazione/legittimazione di una divisione del lavoro della
politica. Diciamo meglio. Tutte queste definizioni minimaliste (dette anche “realiste”) della democrazia
sottintendevano una radicale (e non sfidabile) comprensione del lavoro della politica come attività
esclusivamente pertinente alla classe dei politici. Parafrasando Weber, si potrebbe dire che la politica era,
ed è, roba per coloro che vivono della politica (e non necessariamente per la politica). Detto brutalmente,
la politica era ed è affare dei professionisti. E soltanto i professionisti della politica (solitamente i ceti
dirigenti dei partiti politici) avevano il diritto/dovere di essere selezionati come governanti, mirare a
incarichi pubblici ed istituzionali a vari livelli, e così via. Non c’era, quindi, altro spazio per nessun’altra
comprensione dell’attività politica democratica e, tantomeno, per nessun altro attore che non fosse il
politico professionista stesso, da intendersi in senso weberiano. Ed i cittadini comuni? I cittadini avevano
soltanto il diritto-dovere di andare a votare e poi zitti fino alle elezioni successive. Vi leggo qui, cosa ebbe a
scrivere in merito Schumpeter in Capitalismo, socialismo, democrazia (il suo testo più conosciuto, 1947):
“gli elettori devono rispettare la divisione del lavoro fra sé e gli uomini politici che eleggono. Non devono ritirare
troppo facilmente la propria fiducia nell’intervallo fra una elezione e l’altra e devono capire che, dal momento in cui
hanno eletto qualcuno, l’azione politica spetta a lui e non a loro.”
L’odierno paradosso della democrazia liberale. Ecco. Precisamente questa concezione e pratica
della democrazia oggi sembra vivere il suo più grande paradosso. Oggi, in piena fase di crisi e di critica della
democrazia liberale, stiamo vivendo una situazione paradossale. E questo ce lo dicono anche i pensatori e
gli scienziati politici più conosciuti negli ultimi decenni per aver trattato nelle loro ricerche scientifiche i
temi della democrazia liberale e della sua crisi. Mi sto riferendo, in particolare, ai vari della Porta, Held,
Crouch, Bobbio, Tronti. Ma che paradosso starebbe investendo, secondo loro, la nostra democrazia? In
termini sintetici, si potrebbe formulare in questo modo: siamo davanti ad un’estensione/espansione
quantitativa della forma democratica, ma allo stesso tempo osserviamo una crisi del suo funzionamento
nelle democrazie consolidate. Da un lato, cioè cresce il numero di paesi democratici nel mondo (da 147 nel
1988 a 191 nel 1999); dall’altro, si riduce la soddisfazione dei cittadini per le realizzazioni effettive delle
democrazie realmente esistenti. Siamo allora effettivamente in presenza di una situazione paradossale. Nel
momento in cui la democrazia sembrava aver definitivamente trionfato (c’è chi aveva addirittura parlato di
“fine della Storia:” Fukuyama), ci accorgiamo che la sua effettiva realizzazione è tutt’altro dall’essere
soddisfacente per i suoi stessi cittadini. In che senso, quindi, – se accettiamo la validità euristica di questo
paradosso, e noi lo facciamo – l’istituzione democratica sta vivendo una fase di crisi irreversibile,
soprattutto e precisamente, nelle c.d. “società liberali avanzate?” Io credo che su questo punto possa
esserci di aiuto uno dei più importanti sociologi contemporanei, un inglese, Colin Crouch, che sulla crisi
della democrazia liberale ha pubblicato recentemente un interessante lavoro, Postdemocrazia (2002,
Laterza).
Su Crouch. Il ritorno alla “sostanza” della democrazia. Democrazia è welfare state. Colin Crouch, a
differenza degli autori realisti e minimalisti della democrazia, collega esplicitamente il destino della
democrazia a quello del capitalismo. I due fenomeni – sembra dirci in Postdemocrazia – non possono
essere indagati separatamente. È già questo aspetto rappresenta un punto di estremo interesse e di
innovazione rispetto alla letteratura politologica sulla democrazia affermatasi e sviluppatasi fino ad adesso.
La democrazia liberale – secondo Crouch – non è nient’altro che un adattamento della definizione ideale di
democrazia all’esistente (della società americana). Vale a dire – nella sua interpretazione - partecipazione
elettorale + libero mercato. Questo è, almeno, come hanno inteso la democrazia gli scienziati politici ed i
governanti del mondo occidentale negli ultimi trent’anni. Ma era effettivamente questo il destino e la
sostanza della democrazia? Crouch non sembra aver paura di prendere parte nella discussione, scientifica e
politica, di che cosa una società democratica sia, partendo da un approccio sostanziale ed/o sostanzialista.
E con questo voglio dire che, in netto contrasto con gli autori trattati in precedenza (i grandi classici del
pensiero democratico), Crouch non si tira indietro nel valutare il livello di democrazia di una società, non
tanto guardando alla correttezza del suo processo (“elezioni libere, competitive e periodiche”), ma
piuttosto agli esiti sostanziali – appunto – dello stesso. Una buona democrazia è, per Crouch, quella che
garantisce una equa redistribuzione sociale della ricchezza prodotta dal capitalismo ed un generale, ma
reale, livello di pari opportunità politiche per tutti i cittadini. in altre parole, Colin Crouch lega il destino
della democrazia ad una fase storica particolare dello stato democratico, quella del welfare state. Non
sarebbe fuorviante interpretare il suo testo come un tentativo di presentare la fase storica del
compromesso fordista-keynesiano tra capitale e lavoro come l’età dell’oro della democrazia. In quella fase,
e solo in quella ci pare suggerirci amaramente nel libro, il capitalismo è parso essere compatibile con la
democrazia, la classe operaia con il capitale. Ed infatti è stata una fase di intensa crescita economica
accompagnata dall’acquisizione di diritti sociali e da un generalizzato benessere sociale.
Verso una società post-democratica. Gli interessi del capitale sopra tutto (e tutti). Ma come tutte
le belle favole, anche questa realtà doveva finire. O più precisamente, non tutte le parti coinvolte in questo
patto sociale avevano interessi a farlo durare. E questo fatto può meglio essere compreso se si guarda alla
realtà sociale come ad un campo di forze sociali contrapposte. Se una parte, sia per sopraggiunta debolezza
politica sia per trasformazioni strutturali del “contesto di gioco”, viene a mancare, è chiaro che l’altra può
facilmente e convenientemente prendere il sopravvento. Con questa prospettiva “di rapporti di forza,”
Crouch ci spinge a guardare alla società democratica ed alla sua più recente evoluzione che lui chiama postdemocratica. Più precisamente, Colin Crouch vede nel sopraggiunto strapotere (che ha delle cause politiche
ben precise e concatenate, quali la fine degli accordi di Bretton Woods, la deregulation dei mercati
finanziari, la politica moneratista delle più importanti banche centrali, la svolta neoliberalista dei governi
occidentali) di una nuova elite economico-finanziaria globale la causa della fine (e/o degenerazione) della
fase politica democratica delle società occidentali. Crouch chiama questa nuova fase politica “postdemocratica” e l’identifica con il modo in cui il governo americano si è manifestato ed ha agito dagli anni
della presidenza Reagan ai nostri giorni. Ossia, agendo come un governo politicamente limitato entro
un’economia capitalista senza restrizioni, con la riduzione della componente democratica alle mere elezioni
(p. 16). Questo ha generato, secondo Crouch, lo stravolgimento dei principi ideali su cui si era fondata la
democrazia liberale. Postdemocrazia si ha, in altre parole, quando gli interessi di una minoranza potente
diventano ben più attivi della massa comune nel piegare il sistema politico ai loro scopi. E questo è il caso di
tutte le democrazia consolidate. Qui, il potere delle elites economico-finanziarie è riuscito a
stravolgere/corrompere i fini ultimi della democrazia liberale. Siamo di fronte ad un processo di corruzione
istituzionale delle nostre democrazie senza precedenti. Un processo di corruzione istituzionale si manifesta
quando si ha una situazione di deviazione sistematica dei fini per i quali un’istituzione pubblica è concepita
e costruita. Diciamo meglio. Se l’interesse, per esempio, che l’istituzione parlamentare deve
costituzionalmente servire è quello pubblico, cioè l’interesse generale dei cittadini, allora la sistematica
distorsione di quell’interesse a beneficio di interessi privati può essere definita come un processo di
corruzione istituzionale, cioè un processo di corruzione dell’istituzione parlamentare stessa. Nel suo
complesso (si veda per un’attenta definizione del fenomeno, Lawrence Lessig 2013 EUI working paper).
2. Concezioni e pratiche della democrazia radicale
In fondo al tunnel postdemocratico, una luce chiamata speranza. Ma può, allora, la nostra
democrazia essere salvata? Per parafrasare il titolo di un recente lavoro sociologico in lingua inglese sul
destino delle nostre democrazie (della Porta 2012). Non spetta a me, ed a noi, dirlo. Soprattutto, non si può
prevedere quali siano gli esiti delle trasformazioni dello stato democratico cui accennavo poc’anzi. E per
argomentare questa impossibilità oggettiva dello studioso a prevedere il destino della democrazia, mi
rifaccio esplicitamente a Max Weber che, nel rispondere alle domande dei suoi studenti che gli chiedevano
quale sarebbe stato il destino della Germania, ebbe prontamente a rispondere che “la cattedra non è per i
demagoghi né per i profeti.” Ecco, decisamente io mi sento di condividere in pieno l’umiltà ed il realismo di
questa proposizione. Detto questo, è giunto il momento di introdurre la seconda parte della mia relazione.
Esposta la prima parte – la c.d. pars destruens – del mio intervento, è bene adesso entrare più
frontalmente sulle questioni principali su cui Guido mi ha chiamato ad intervenire: “concezioni e pratiche
della democrazia radicale.” Per dare e ridarci anche qualche speranza. C’è sempre una luce in fondo a
qualsiasi tunnel, anche a quello lungo ed fosco della postdemocrazia. O almeno ci spero, appunto.
Il messaggio politicamente subliminale della democrazia “realista.” Io credo questo. La storia, o
meglio, le storie del concetto – delle sue crisi e delle sue critiche – di democrazia che vi ho appena
raccontato, rappresentano soltanto una parte della verità. Solo una faccia, quella più brutta ed opprimente,
della democrazia. Ma nella storia e nella realtà della vita democratica c’è stato e c’è tutt’ora dell’altro. Ed è
su quest’altro che focalizzerò l’ultima parte, spero più breve, del mio intervento. Per poi dare spazio alla
discussione con voi. Innanzitutto, va chiarito meglio un aspetto che forse ho tralasciato nella prima parte.
Non esiste definizione di democrazia che non comprenda una dimensione ideale e normativa. In altre
parole, ogni definizione di democrazia porta con sé una specifica visione del mondo, una “forma di vita”
direbbe Wittgestein. E questo è il caso anche delle c.d. definizioni “minimaliste” di democrazia menzionate
poc’anzi, utilizzate in primis dalla scienza politica americana e poi diffusesi negli anni in tutta la comunità
scientifica occidentale. E non è un caso che per dissipare questa intrinseca presenza di “normatività” gli
scienziati politici americani si siano affrettati ad etichettare le loro definizioni di democrazia come
“realiste.” Implicando con questo realismo l’oggettività e la scientificità delle loro formulazioni sulla
democrazia. In realtà, ci dice della Porta (2011) non c’è stato niente di meno scientifico ed ideologicamente
fazioso di questo realismo. Il realismo delle concezioni proceduraliste della democrazia ha, infatti,
legittimato quella sottesa concezione normativa della democrazia che de facto riproduceva le concrete
caratteristiche dei sistemi politici occidentali. Detto ancora una volta brutalmente. La c.d. definizioni
proceduraliste della democrazia erano di fatto le condizioni reali del sistema politico americano. Ecco
scoperchiata finalmente la grande copertura ideologica che ha messo a tacere per anni questo dibattito
sulla democrazia liberale e le sue molteplici definizioni.
L’emersione di un’altra democrazia. Perché effettivamente un nuovo dibattito nelle scienze sociali
e storiche di come debba essere reinterpretata e ricompresa la democrazia moderna si è finalmente aperto
negli ultimi anni. La democrazia moderna è, infatti, una roba molto più complessa e variegata di ciò che
siamo stati portati a credere. Non è riducibile al dispositivo elettorale-rappresentativo. La storia e realtà,
complessa e variegata al tempo stesso, dell’istituzione democratica moderna va riletta sotto una nuova
luce. A partire proprio da una nuova comprensione ed importanza data, in sede politica e scientifica, ai
concetti di società civile e di movimenti sociali; vale a dire, precisamente a quei concetti su cui Guido mi
aveva oggi diffusamente invitato a parlare. Ma cerchiamo di dare un ordine a questa ultima parte del mio
intervento. Dicevo. Esiste un’altra storia ed un’altra realtà della democrazia che paradossalmente (visto
quanto detto finora) soltanto negli ultimi anni ha avuto un riconoscimento accademico e, direi quasi,
politico. Che cosa è questa contro-storia e contro-realtà della democrazia moderna? È la storia e la realtà
dei contropoteri informali diffusi a livello sociale, è la storia della sfiducia permanente nei confronti delle
istituzioni politiche organizzata e diffusa nel sociale, che ha accompagnato fin dalla nascita la storia e la
realtà ufficiale dei poteri formali della democrazia liberale. È una sorta di storia e realtà politica negata della
nostra democrazia. Soffocata dalla visione dominante e ufficiale della democrazia moderna, quella tutta
schiacciata sul binomio rappresentanza politica e procedura elettorale. Ed è precisamente l’emergenza di
questa contro-storia della democrazia, una sorta di altra democrazia, ciò che potrebbe, tutt’ora,
effettivamente fornire un contro-bilanciamento politico al processo degenerativo dell’ordine sociale postdemocratico, offrendoci qualche speranza per il futuro.
Un breve excursus storico-teorico sul concetto di società civile. E qui veniamo al secondo punto
del mio intervento, l’affermarsi della società civile, tema che tratterò più brevemente rispetto agli altri per
poi parlare più ampiamente delle concezioni e delle pratiche della democrazia radicale (che sono,
comunque, assolutamente legate alla formazione del concetto di società civile). Ma dicevo: società civile. 1)
Quando e come nasce? 2) Che cosa è? 3) Come si è manifestato e come oggi si manifesta? Ecco. La terza
domanda, come si manifesta oggi la società civile, vi anticipo, è il tema del terzo punto della mia relazione,
quello sulle pratiche e concezioni della democrazia radicale. Questo lo dico ora, già per chiarire con voi un
aspetto molto importante della mia interpretazione: società civile contemporanea e democrazia radicale
sono, per me, due concetti quasi identici. Sono quasi sinonimi. Ma torniamo alla formazione e sviluppo del
concetto di società civile. Tema che tratto ampiamente nel libro Società civile e democrazia radicale, che
non vi consiglio di comprare ma di scaricare liberamente da Internet, visto che è sotto la licenza creative
commons. Ma iniziamo adesso dalla prima domanda: come nasce la società civile? L’idea o, per meglio dire,
lo spazio sociale della società civile nasce con la politica e lo stato moderno. Quello assolutista francese e
quello più liberale inglese. Quindi si colloca, anche storicamente a cavallo tra Sei e Settecento, cioè a
cavallo tra la Rivoluzione Inglese e quella Francese. L’affermazione della società civile segue, quindi, da
vicino la nascita e l’affermazione della democrazia moderna. In realtà, si potrebbe quasi dire che la
formazione dello spazio sociale della società civile è stata una delle condizioni strutturali e, allo stesso
tempo, culturali più importanti per l’affermarsi della nostra democrazia. Le prime manifestazioni della
società civile sono i caffè letterari della società illuminista parigina del Settecento. Le riviste letterarie, i
salotti buoni della discussione illuminata dell’alta società francese e la carta stampata libera sono, in altre
parole, le prime espressioni della formazione di una spazio sociale e culturale autonomo. Autonomo, cioè,
dal controllo e dal comando del potere sovrano. Del potere politico. La società civile si afferma, quindi, fin
da subito come quello spazio formalmente indipendente dal potere politico, ma anche in questa fase
iniziale dal potere economico – dato che coloro che ne fanno parte sono la minoranza dei possidenti, l’alta
borghesia illuminata e progressista delle prime società in via di sviluppo capitalista, come la Francia e
l’Inghilterra. Ed è precisamente in questo periodo che si forma una minoranza di informati e di critici nei
confronti del potere statuale e dei governanti. L’affermarsi di questa società civile è, quindi, l’affermarsi
dell’opinione pubblica, cioè di quelle riviste, giornali e documenti di varia natura che puntavano a mettere
alla berlina le malefatte del potere politico. A denunciarlo. Società civile e opinione pubblica sono concetti
indissolubilmente legati. Habermas ha scritto un bellissimo libro sulla storia di questi concetti Storia e
critica dell’opinione pubblica (1962). Ma è tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento che il concetto
di società civile entra più prepotentemente nel nostro linguaggio politico. Vale a dire, con l’ingresso delle
masse operaie nello spazio pubblico democratico. È a partire da qui, cioè con l’entrata della masse
proletarie nella storia della nostra democrazia e della nostra politiche che il concetto di società civile si
amplia e si complessifica. La società civile, cioè ripetiamolo, quello spazio socialmente autonomo dal potere
sovrano, subisce all’inizio del Novecento le sue trasformazioni più importanti ed è così che è giunta fino a
noi. La società civile ora non è più lo spazio di discussione tra (pochi) cittadini liberi ed uguale, espressione
della borghesia liberale, ma si massifica, grazie all’emersione di nuove soggettività sociali, tra cui quelle
operaie (ma non solo), che chiedono un posto alla luce del sole. Chiedono diritti politici e sociali. Ma
facciamo un altro salto cronologico ed arriviamo fino agli anni ’60. E qui che si mobilitano altre soggettività
sociali, prendendo pubblicamente la parola, come gli studenti, i neri, le donne e così via. E su questa idea,
più complessa e ampia, di società civile – vale a dire, l’idea di società civile come il luogo di queste sempre
nuove soggettività sociali che si pongono in termini critici ed antagonistici con il potere politico – che
partirà adesso il mio discorso, cui accennavo prima, sull’affermazione di un’altra, più sotterranea ed
invisibile (ma non per questo meno esistente), democrazia.
Controdemocrazia e/o democrazia radicale. Entriamo, quindi, pienamente nella parte conclusiva e,
spero, più propositiva del mio intervento. Nel dibattito storico e sociologico degli ultimi anni, diverse sono
state le interpretazioni analitiche (ma anche militanti) su questo fenomeno. Uno dei più influenti storici
francesi contemporanei, Pierre Rosanvallon, ha proposto di chiamare la storia e la realtà di questa
democrazia non-rappresentativa e non-elettorale come “controdemocrazia” (2006). Altri studiosi, alla cui
prospettiva normativa anche il mio libro deve molto, hanno proposto di chiamarla “democrazia radicale.”
Non importa, in questa sede, approfondire le differenze, politiche e filosofiche, tra le due categorie. In
realtà, le due categorie, per il livello di astrazione che ci interessa, possono essere tranquillamente
associate. Quindi, d’ora in avanti, utilizzerò i concetti di democrazia radicale e di contro democrazia
interscambiabilmente. Cosa si intende, allora, con l’emersione del fenomeno controdemocratico? Che cosa
è, in altre parole, questa realtà della controdemocrazia che oggi più che mai – secondo Rosanvallon –
sembrerebbe contrapporsi in maniera radicale alle istituzioni rappresentative della democrazia liberale?
Qui seguo più pedissequamente il testo del pensatore francese, poi allargo il quadro. Rosanvallon – ci dice
nell’introduzione del suo lavoro del 2006, chiamato appunto Controdemocrazia – definisce
controdemocrazia (p. 14) “la democrazia dei poteri indiretti disseminati nel corpo sociale, la democrazia
della sfiducia organizzata di fronte alla democrazia della legittimità elettorale.” Cioè, detta in termini più
intellegibili dal linguaggio comune, la contro-democrazia o democrazia radicale è la democrazia della
società civile, dei suoi contropoteri diffusi, che emerge e si contrappone alla società politica, vale a dire, allo
Stato.
I 3 poteri della controdemocrazia: sovranità critica, sovranità negativa, sovranità giudicante.
Rosanvallon distingue in modo specifico 3 poteri, o meglio contropoteri, che sono appartenuti storicamente
alla società civile nel suo rapporto politicamente antagonistico con lo Stato: 1) il potere di sorveglianza, 2) il
potere di interdizione/opposizione; 3) il potere di giudizio. 1) Sorveglianza. Ossia la vigilanza del popolocontrollore, costantemente attivo per occuparsi delle disfunzioni istituzionali della democrazia. Pensiamo
alle attività di vigilanza, denuncia e verifica che storicamente l’opinione pubblica ha sempre esercitato sul
potere politico: dal monarca alla democrazia dei partiti. E, anzi, non sarebbe fuorviante sostenere che
l’effettiva modalità di esercizio della sovranità popolare sia stata realizzata più attraverso questo agire della
società civile (stampa, associazioni della società civile, sindacati, movimenti sociali) che attraverso quello
degli elettoralmente legittimati rappresenti politici. Quindi, storicamente e politicamente, la sovranità
politica si è espressa nelle forme di un popolo-controllore, una sorta di sovranità critica. 2) Opposizione. Ma
c’è anche una seconda dimensione della sovranità popolare, affermatasi storicamente nella democrazia
moderna ed oggi, ai nostri giorni, più presente che mai. È il potere di opposizione. Il potere di opposizione
della società civile nei confronti della classe politica, dei governanti e delle loro decisioni. In questa seconda
dimensione, il popolo democratico si afferma come una sorta di sovranità sociale negativa. In altre parole,
la sovranità del popolo-veto si manifesta effettivamente sempre più come una potenza di rifiuto,
nell’opposizione permanente alle decisioni dei governanti. Il potere del popolo-veto è, quindi,
l’affermazione della sovranità negativa del popolo che si associa a quella critica e che, insieme, si
contrappone a quella elettorale. 3) Giudizio. Ma esiste, infine, anche una terza ed ultima forma di sovranità
non-elettorale e non-rappresentativa. È la sovranità del popolo-giudice. Nel duplice senso, sia
dell’accresciuto potere dei giudici nella vita politica democratica che nell’accresciuta funzione giudicante
dei cittadini nei confronti dei propri politici e governanti, che sempre più vengono “processati” alla luce
delle loro responsabilità morali, politiche e personali (oltre che penali). Una postilla sulla c.d.
“giuridiziarizzazione del politico” nella democrazia contemporanea. “(Rosanvallon 2006: p. 160) la crescita
del potere dei giudici nel campo politico è accelerata dall’incapacità del sistema politico a regolamentarsi
da sé e a rispondere alle aspettative della società.” Il potere giudiziario – e pensiamo all’Italia – è riuscito in
questi anni a sopperire al declino della “reattività dei governi di fronte alle richieste dei cittadini.” I giudici si
sono dimostrati più reattivi dei governanti, agendo più genuinamente in “nome del popolo,” a rispondere
alle trasformazioni sociali della cittadinanza. Alle richieste di cambiamento e trasformazione provenienti
dalla società civile. La sovranità giudicante è, in altri termini, l’accresciuta importanza data al giudizio
penale e morale, rispettivamente associato ai giudici ed ai cittadini, nei confronti della classe dei propri
governanti.
Oltre la democrazia rappresentativa. Lo sviluppo dei poteri di sorveglianza, di opposizione e di
giudizio ha segnato profondamente il funzionamento dei regimi politici moderni. Per questo motivo, è
ormai impossibile intendere questi ultimi solo in base ai loro dispositivi costituzionali e formali. L’attività
democratica, in altre parole, oltrepassa ampiamente il quadro delle sole istituzioni elettoralirappresentative. Una più piena comprensione del concetto di sovranità popolare e democratica, allora,
deve associare (se non contrapporre) alla sovranità elettorale, le 3 sovranità più informali e diffuse a livello
sociale, che ho chiamato, rispettivamente, sovranità critica (sovranità del popolo-controllore, sovranità
negativa (sovranità del popolo-veto) e sovranità giudicante (sovranità del popolo-giudice). È così che
dobbiamo intendere ed estendere la concezione della sovranità popolare nella società post-democratica
contemporanea. Oggi, in altri termini, siamo in presenza di una contro-politica fondata sul controllo,
l’opposizione, il giudizio di quei poteri che non si ha più la voglia di farne oggetto prioritario di conquista. I
cittadini non puntano più a prendere direttamente il potere politico, ma a controllarlo ed influenzarlo
dall’esterno. Ecco perché se questa proposizione è vera (vale dire, la proposizione che la cittadinanza
democratica non punta più a prendere direttamente il potere politico, ma piuttosto ad influenzarlo
dall’esterno), – e gli ultimi 50 anni di storia delle nostre democrazie sono lì a dimostrarcelo – allora la nostra
stessa comprensione della democrazia rappresentativa e liberale dovrebbe cambiare. Le forme della
politica e della cittadinanza attraverso cui il popolo oggigiorno esprime ed esercita più efficacemente il suo
potere democratico non possono essere più ridotte e/o ricondotte alla politica rappresentativa,
rappresentata – e non mi scuso per il gioco di parole assolutamente voluto e cercato – dai partiti e, più in
generale, dai c.d. professionisti della politica. La dico brutalmente. Se i cittadini non votano più o votano
meno, avendo una maggiore diffidenza (o soltanto disillusione) verso la politica elettorale ed i suoi
rappresentanti, questo non significa che i cittadini siano diventati apatici, passivi ed abbiano ormai
intrapreso un processo di fuga dalla politica. Se è vero che gli ultimi 30 anni hanno evidenziato un declino
inesorabile ed irreversibile della partecipazione elettorale, ed allo stesso tempo,è vero che i partiti hanno
subito un’ancora più imponente processo di esodo e di fuga degli iscritti e militanti dalle proprie
organizzazioni, questo non ci deve indurre in errore. Non siamo in presenza di una fine della democrazia e
della politica. Forse, anzi sicuramente, stiamo certificando la fine delle democrazia rappresentativa fondata
sui partiti politici. Almeno così come l’avevamo conosciuta e capita nel Novecento. Ma questo non ci deve
scoraggiare e far dimenticare, nella scia delle lezione di Rosanvallon e di tanti altri pensatori democratici
contemporanei, che oggigiorno la nostra democrazia è anche, e soprattutto, altro.
Verso una democrazia dei movimenti sociali? “Questo altro” è, d’altra parte, una delle più recenti
scoperte scientifiche e politiche di alcuni filoni di ricerca della scienza e della sociologia politica
contemporanea. Come ci ha suggerito un recente studio (2002) della sociologa americana Pippa Norris,
negli ultimi 30 anni la partecipazione politica dei cittadini non si è ridotta, anzi è decisamente aumentata,
ma ha subito una profonda trasformazione. Ad un calo della partecipazione elettorale e dell’appartenenza
partitica ha fatto da contraltare un vertiginoso aumento delle attività della c.d. politica non-convenzionale.
Invece di iscriversi ai partiti ed andare a votare, molti cittadini hanno preferito attivarsi direttamente
nell’organizzazione di comitati, collettivi, associazioni della società civile e, più in generale, nell’universo dei
c.d. movimenti sociali. È questa la grande novità della politica democratica del nuovo secolo. I cittadini
preferiscono mobilitarsi al di fuori dei canali tradizionali e convenzionali della vita politica, partecipando
nelle attività di protesta, ma anche di costruzione di alternative politiche e sociali, così come espressa dai
movimenti sociali. E, d’altra parte, lo stesso Rosanvallon concorda nel legittimare questo nuovo orizzonte
della politica democratica. In Controdemocrazia, infatti, il pensatore francese ci dice esplicitamente che i
movimenti sociali “costituiscono il vettore più visibile e strutturato” dei poteri contro-democratici, perché
meglio di qualsiasi altra soggettività sociale e politica contemporanea esprimono e si organizzano per
definizione attorno ai 3 contro-poteri democratici: sorveglianza, opposizione e giudizio. Questo fatto,
queste novità sociali e politiche della società post-democratica, ci dovrebbero, quindi, portare – e mi avvio
alle conclusioni del mio intervento – a rivedere le nozioni fondamentali della tradizione democratica e gli
strumenti scientifici utilizzati per misurarne la qualità. I concetti di sovranità popolare, di qualità
democratica ed, infine, il concetto stesso di democrazia dovrebbero essere riformulati. Questa è la sfida
che ci attende e dobbiamo efficacemente affrontare, sia da studiosi che da cittadini genuinamente
democratici, nel presente e nei prossimi anni.
Sovranità popolare, democrazia e qualità democratica. Inizio dal concetto di sovranità popolare.
Ho tentato di dimostrare, tramite il mio intervento, che l’idea che la sovranità democratica sia
principalmente, se non esclusivamente, riconducibile al dispositivo rappresentativo-elettorale sia falsa
storicamente e sbagliata politicamente. La democrazia moderna, fin dalle sue origini, si è nutrita ed è stata
positivamente trasformata dai contropoteri diffusi della società civile. Senza la pressione dei poteri di
sorveglianza, di opposizione e di giudizio promananti dal corpo sociale, la sovranità elettorale e le istituzioni
rappresentative sarebbero uscite fortemente impoverite. Questo ci porta a dover ridefinire la stessa
nozione di sovranità popolare. Più che schiacciarla nella dimensione della rappresentanza e nella formula
elettorale, si dovrebbe ridefinire la sovranità popolare nella società post-democratica a partire dalla
dialettica tra governanti e governati, tra rappresentati e rappresentati. È l’interazione tra potere politico dei
rappresentanti e contropoteri democratici diffusi a livello sociale che va ricostruendo il concetto di
sovranità popolare. Un concetto di sovranità, se vogliamo, post-rappresentativa perché basato sui poteri di
controllo, di opposizione di giudizio del corpo sociale. Io la chiamerei sovranità sociale postrappresentativa. La ridefinizione del concetto di sovranità ci porta direttamente a ridefinire il concetto
stesso di democrazia. Dobbiamo anche qui riuscire a liberarci dal pregiudizio elettorale-rappresentativo. Se
come ho tentato di dimostrare con il mio intervento, la realtà della democrazia moderna e attuale non può
essere ridotta alla competizione elettorale della rappresentanza politica, ma si compone anche
dell’universo sociale della contro-democrazia, allora quest’ultima non può venire trascurata, se non
addirittura negata, nella costruzione di una nuova teoria realista della democrazia. Anzi, il contrario. Una
teoria democratica effettivamente all’altezza dei nostri tempi dovrà, infatti, elaborare ed includere una
visione rinnovata delle forme politiche proprio a partire dall’osservazione minuziosa dell’universo controdemocratico. La democrazia odierna – mi si passi il bisticcio di parole – è anche e soprattutto
controdemocrazia. Ed, infine, come misurare la qualità democratica di una buona democrazia? L’adozione
della definizione elettoralistica di democrazia ha contribuito alla delimitazione esclusiva degli interessi di
ricerca degli studiosi sulle istituzioni rappresentative, trascurando purtroppo altri campi possibili di ricerca
e, così facendo, producendo un’investigazione parziale del funzionamento reale delle democrazie esistenti.
Una buona democrazia – ci dice, invece, una miriade di nuovi studi degli ultimi anni – non si misura
esclusivamente dalla qualità delle sue procedure elettorali e da quella delle sue istituzioni rappresentative.
Ci sono innumerevoli altri aspetti, dimensioni e fattori che devono essere tenuti in conto per “misurare” la
qualità democratica di un ordine politico. Uno di questi, e forse il più importante, è l’esistenza di una sfera
pubblica oppositiva e contestativa nei confronti delle istituzioni formali. Uno spazio reale di contestazione
permanente delle decisioni pubbliche. Uno spazio controdemocratico, appunto. Questa dovrà, quindi,
essere la sfida di ricerca per il nuovo secolo. Una buona definizione della democrazia non potrà che tenere
conto di tutti quelli aspetti meno istituzionali e formali che abitano un ordine politico e sociale, che per
questo motivo sono più difficili da misurare in termini quantitativi, ma tuttavia non meno importanti da
esaminare. Concludo. Per salvare la nostra democrazia – e qui parlo sia da studioso che da militante politico
– c’è bisogno con più forza dell’affermazione dei poteri della controdemocrazia. Senza democrazia radicale
non si può, infatti, pensare di salvare la società post-democratica dal suo – al momento ci pare inesorabile declino.