La Fenomenologia dello Spirito
1. Dopo queste osservazioni, di carattere introduttivo, passiamo ora alla prima grande
opera hegeliana, la Fenomenologia dello spirito. Sono stati scritti fiumi di inchiostro su
questo libro, e moltissimo si è detto a suo riguardo, ma forse l’affermazione meglio capace
di definirlo è stata data da E. Bloch, secondo cui la Fenomenologia è “il libro più difficile
dell’intera storia della filosofia”, tanto che al suo confronto “la Critica della ragion pura è
una lettura da passatempo”.
In un linguaggio indicibilmente strano ed esoterico roteano vorticosamente filosofia,
psicologia, letteratura, filosofia della storia, storia, cosmologia; improvvisamente si passa
dalla Grecia classica alla rivoluzione francese, dalla filosofia antica alla contemporaneità.
Si tratta, da quello che ne so, del tentativo più alto che sia mai stato fatto di afferrare la
totalità del reale con la forza del pensiero. Un tentativo che ha esercitato sulle menti più
diverse un fascino suggestivo quasi pari alle difficoltà intrinseche che l’accompagnano.
Di certo vi è un lato comico nella proverbiale difficoltà della Fenomenologia dello spirito:
doveva infatti essere, nelle intenzioni del suo autore, un’opera pedagogica. Hegel, una
natura didattica, un uomo a cui piaceva insegnare al liceo, voleva scrivere un libro
facilmente comprensibile.
Il termine “fenomenologia” deriva da phainòmenon: apparenza, e logos: discorso, scienza.
E’ dunque la descrizione di un apparire. L’apparire è l’apparire del sapere. Siamo cioè di
fronte a una storia dell’apparire del sapere, del sapere che sorge e che si eleva fino al
punto più alto.
La Fenomenologia descrive, in altri termini, il passaggio dal sapere imperfetto, che è
proprio dello Spirito prima di giungere al vero sapere, al sapere più alto, che ha per
oggetto l’Assoluto.
Essa è descrizione dei diversi momenti del cammino dello Spirito, dalla forma più
povera di sapere fino al sapere Assoluto.
Questo cammino dello Spirito, ossia della Ragione che si rivela nella realtà, è fatto
dunque di gradini che vengono saliti: è un percorso ascensionale, che va dalla forma più
imperfetta del conoscere alla più alta, un progredire come quello che si ha ogni volta che
si sale una scala.
Ma non si tratta solo di uno sviluppo dello Spirito, ossia del realizzarsi di una
razionalità astratta che si rivela nella realtà; si tratta anche, qui, di uno sviluppo della
coscienza in quanto coscienza umana, uno sviluppo della coscienza umana verso la
scienza, ossia verso il sapere filosofico, il sapere l’Assoluto.
L’opera avrebbe dovuto intitolarsi Scienza dell’esperienza della coscienza, ovvero la
descrizione filosofica del cammino che la coscienza naturale o il soggetto umano
compie nell’esperienza, da una situazione iniziale in cui ancora ignora l’assoluto fino
alla conoscenza piena di esso.
Dalla considerazione della coscienza individuale l’opera si allarga alla coscienza
dell’umanità così come si svolge nella storia, ovvero a ciò che Hegel chiama “spirito”.
Di qui il titolo defintivo dell’opera scritta nel corso del 1806, Fenomenologia dello Spirito,
un libro che fino al 1816 praticamente nessuno lesse, e la cui introduzione suggellava la
definitiva rottura con Schelling.
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Questi momenti o gradini o forme del sapere imperfetto non appartengono però tutti al
sapere in senso stretto, alla teoresi, ma comprendono anche atteggiamenti pratici e
concezioni della vita che vanno al di là della pura conoscenza: si tratta insomma di forme
dell’esperienza che la coscienza fa del mondo. A tali forme o tappe del cammino
della coscienza Hegel dà il nome di “figure”.
Ogni figura designa un’esistenza concreta, un modo di manifestarsi, un’esperienza
particolare, individuale o collettiva, dello spirito umano nel corso della storia.
Si tratta dunque di una vera e propria storia della coscienza umana che dalle forme più
semplici e immediate del sapere avanza progressivamente e si eleva, attraverso contrasti
e scissioni, verso la prospettiva più alta del sapere assoluto. Hegel si pone accanto a
questa coscienza e ne illustra il cammino quasi lasciandosi condurre da essa,
descrivendone le esperienze, le lacerazioni, i dubbi, le infelicità.
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2. Lo sviluppo Fenomenologico
La Coscienza
La prima figura della Fenomenologia, quella cioè da cui ha inizio il cammino della
coscienza individuale verso il sapere assoluto, è dunque quella che Hegel chiama la
semplice coscienza.
Essa, come si è detto, rappresenta il momento in cui il soggetto, ponendo la sua
attenzione esclusivamente sull’oggetto, crede che esso (l’oggetto) sia altro da sé, altro
dal soggetto, diverso da esso.
La coscienza è la prima forma di rapporto che l'uomo ha con la realtà, l'esperienza
concreta e comune a tutti gli uomini, la più ingenua e immediata che si ha
nell’ambito della conoscenza, ossia del rapporto con il mondo:
• Vedere e credere che soggetto e oggetto siano nettamente separati;
• Credere che l’oggetto sia altro dal soggetto.
In altre parole, non appena si aprono gli occhi sul mondo, si è convinti che tutto ciò che ci
circonda, ovvero il mondo, sia altra cosa rispetto a noi. Io sono il soggetto, il mondo è
l'oggetto: questa è la tesi.
Sappiamo però che Hegel è dialettico, dunque ci aspettiamo che questa convinzione
mostri il suo lato insoddisfacente, ci aspettiamo il nascere di un’antitesi, di un
movimento in avanti, di una contraddizione: e infatti il meccanismo dialettico induce a
scavare più in profondità per trovare elementi contradditori nella tesi e per giungere, alla
fine, all'antitesi.
La coscienza si rivela inzialmente nella sensazione: la sensazione è, in primo luogo, la
percezione che ho di un oggetto hic et nunc, qui ed ora: percepisco un “questo”', dice
Hegel, qui e adesso. Nella certezza sensibile percepisco solo un insieme di determinazioni
sensibili, qualcosa che è qui ed ora: qui e ora di fronte a me è qualcosa. Ecco tutta la
certezza che dà la sensazione.
Sembra proprio che questa certezza sensibile sia indiscutibile, assolutamente certa, anzi
sembra essere la più grande certezza che si possa avere. Tuttavia, fa notare Hegel,
quando ho la sensazione di qualcosa non posso ancora dire che percepisco una penna o
una matita, ad esempio, ma devo limitarmi a dire che percepisco un “questo”, ovvero
una singola cosa non meglio identificata. Ci troviamo qui davanti alla forma più
immediata di conoscenza, la sensazione appunto.
Dire che percepisco una penna significa fare un passo avanti, significa inquadrare con
l'intelletto quel qualcosa in una categoria.
Ma per ora, a livello della sensazione, la conoscenza che ho di qualcosa si rivela come la
più povera e la più vuota, non appena ci si rende conto che il “qui” e l’ “ora” di questo
indefinito fascio di sensazioni che ho di fronte sono connotazioni applicabili a qualsiasi
oggetto, sono cioè degli universali che possono valere per qualsiasi cosa.
La certezza sensibile, in altri termini, rivela subito il suo carattere illusorio, dissolvendosi, in
quanto il soggetto si rende conto che il qui e l’ora sono determinazioni applicabili a
qualsiasi oggetto (il foglio che ho davanti, la penna, il tavolo), generalissime e perciò
vuote.
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La certezza sensibile è immediata e l’immediato – per Hegel – non è che qualcosa di
molto povero, nient’altro che la superficie.
La conoscenza che in apparenza era la più solida, ricca, si rivela invece, se meglio
analizzata, esattamente il contrario, una vuota percezione. Ecco che si attua l'antitesi
e ci troviamo di fronte a un tipico capovolgimento dialettico: ciò che sembrava essere la
cosa più certa, diventa all'improvviso la più incerta.
Occorre, come dice Hegel, solo aspettare un po’, perché una verità così povera come
quella della certezza sensibile sia già divenuta vuota, inservibile. Non ci si può
arrestare allo stato della certezza sensibile, si passa a un nuovo gradino nella storia
evolutiva dell’apparire dello spirito, o nella storia del perfezionamento della conoscenza.
La certezza sensibile si risolve così nella percezione. La percezione altro non è se non
la comune percezione sensibile. La distinzione rispetto alla certezza sensibile risiede nel
fatto che con la percezione non si percepisce un “questo” non meglio identificato,
ma un insieme di qualità che costituiscono un'unità (un libro, una penna, una casa,
etc.).
Il riferimento delle molteplici qualità a un che di unico è opera dell’Io, il quale si presenta
come l’elemento unificante di ciò che costituisce l’oggetto percepito. La coscienza si
rivela allora come ciò che tiene insieme le diverse proprietà delle cose.
Si passa così a uno stadio ulteriore dello sviluppo della coscienza, a un nuovo gradino
della mediazione, che è l’intelletto, il quale si rende conto che ciò che conferisce unità
alle molteplici determinazioni dell’oggetto è il soggetto stesso e che perciò l’oggetto
non è altro dalla coscienza, ma è la coscienza stessa.
Con l'intelletto si arriva a un primo superamento della contrapposizione soggetto-oggetto,
comincia cioè ad affacciarsi timidamente l'idea che soggetto e oggetto non siano, in fin dei
conti, due entità radicalmente opposte tra loro. Prima che si giungesse al momento
dell'intelletto, vi era un soggetto che conosceva e un oggetto (il mondo) che era
conosciuto.
Ma se ogni fenomeno che percepiamo risponde – kantianamente – alle categorie, alle
leggi poste dal nostro stesso intelletto, allora dalla coscienza si passa all'autocoscienza:
prima, infatti, si trattava di un soggetto che aveva coscienza di un oggetto; poi ci si è
accorti che tale oggetto non è radicalmente distinto dal soggetto, ma anzi è il soggetto
stesso.
Dunque quella che era coscienza di un oggetto esterno diventa coscienza di sè, ovvero
autocoscienza. Giunti all'intelletto scatta allora il passaggio all'autocoscienza.
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