DUEDECENNI DI MUSICA, AMICIZIAED APPAGANTI SUCCESSI la Voce del popolo musica L’ORCHESTRA DI FIATI DELLA CITTÀ DI POLA COMPIE VENT’ANNI. I SUCCESSI DEI CONCERTI DI CAPODANNO CONFERMANO L’ATTACCAMENTO DEL PUBBLICO DELLA CITTÀ ISTRIANA ALLA SUA “BANDA”. IL COMPLESSO RAPPRESENTA UN AUTENTICO COLLANTE GENERAZIONALE www.edit.hr/lavoce Anno 10 • n. 78 mercoledì, 29 gennaio 2014 L’INTERVISTA IL PERSONAGGIO IL SAGGIO LA RECENSIONE LA NOTIZIA Diana Haller percorso tutto in ascesa Jacques Brel mito della chanson L’eticità della musica nel nostro tempo L’Ulisse di Monteverdi secondo Cavina Camici bianchi per un’orchestra speciale Il mezzosoprano fiumano in forza a Stoccarda debutterà al Metropolitan di New York Il cantautore belga conquistò le platee con le sue straordinarie e coinvolgenti interpretazioni L’iperproduzione musicale contemporanea ridà senso al fatto musicale dal vivo Il teatro musicale del primo barocco italiano interpretato dalla “Venexiana” Al Policlinico Gemelli è in via di fondazione la prima Orchestra di medici italiani 2 3 4|5 6 8 2 mercoledì, 29 gennaio 2014 L’INTERVISTA musica di Helena Labus Bačić «...QUANDO L’ANELLONE SCIVOLÒ NELFAGOTTO DELCOLLEGA...» I l mezzosoprano fiumano Diana Haller si è esibita in dicembre, per la prima volta in un concerto solista a Fiume, in una strapiena Sala dei Marmi del Museo di storia e marineria del Litorale croato. È stato questo un evento di grande spessore che ha confermato qualcosa di cui il pubblico e la critica all’estero erano già al corrente: Diana Haller è una cantante lirica di grande talento. La giovane fiumana, che negli ultimi anni sta mietendo successi in Europa (e lo farà presto anche negli Stati Uniti), è stata di recente proclamata migliore giovane cantante lirica dalla rivista specializzata “Opernwelt” e in primavera avrà il suo debutto alla Metropolitan Opera di New York. Una carriera tutta in salita che Diana Haller affronta con serietà, diligenza e buonsenso. Innanzitutto, vorrei complimentarmi con te per il bellissimo concerto che hai tenuto al Palazzo del Governo in dicembre. Non ricordo di aver mai visto tanto pubblico nella Sala dei Marmi. Com’è stata per te questa esperienza? Grazie. È stata una grande emozione avere finalmente la possibilità di presentarmi a Fiume, davanti al mio pubblico, ed è stata una gioia vedere quanta gente stava in piedi pur di poter sentirmi. Ho però provato anche dispiacere nel vederli così, in piedi per tutta la durata del concerto...! Hai riproposto il programma presentato in precedenza a Zagabria. Come mai la decisione di basarlo interamente sul lied? In quale genere lirico ti senti più a tuo agio: nel lied oppure nell’opera? Secondo me, le arie d’opera vanno fatte con orchestra e a teatro, come sono state originariamente scritte dal compositore. Il repertorio operistico può interamente rivivere soltanto con il suono dell´orchestra e con tutto quello che porta questo genere di arte (costumi, make-up, luci, regia...). D’altro canto, c’è talmente tanto repertorio liederistico che vorrei esplorare e spero di averne la possibilità. Mi sento benissimo in tutti e due i generi, anzi, per me è importantissimo poter spaziare da un genere all’altro. Facendo così rimango fresca e creativa. Tra qualche mese avrai modo di presentarti in un ruolo molto impegnativo al Met di New York. Mi sembra che arrivare alla Metropolitan Opera e alla Scala di Milano sia il sogno di molti cantanti lirici. È così anche per te? Certo. Questi teatri d’opera sono tra i più rispettati al mondo, ma aggiungerei alla lista pure il Covent Garden di Londra e il teatro lirico di Monaco di Baviera. A proposito, qualche settimana fa ho dovuto la Voce del popolo rifiutare, purtroppo, il mio debutto alla Scala nel 2015, a causa di un altro impegno fissato in precedenza. Quello che conta, però, non è solo avere la possibilità di esibirsi nei più grandi teatri, ma rimanere sempre fedeli al compositore e al ruolo che si canta. La musica può darci tante soddisfazioni, bisogna solo saperla rispettare. In un’intervista hai descritto la première della “Cenerentola” come uno degli eventi più emotivi della tua vita. I tuoi genitori sono venuti a sentirti a tua insaputa e lo spettacolo è stato di per sé un successo. Come ti preparavi per questo importante ruolo? Sei nervosa prima di salire sul palco? C´è sempre un po’ di agitazione prima di salire in scena. È sempre un sentimento giustificato, dal momento che mi devo fidare di un muscolo che non si vede: le corde vocali, che si trovano spesso sotto stress, non solo vocale, ma anche psichico. Ci si pone sempre la domanda: come sta oggi la voce? Per quanto riguarda i preparativi, quelli iniziano circa un’anno prima della première. Si tratta di imparare il ruolo, poi di impostarlo bene tecnicamente e quindi di crearlo dal punto di vista interpretativo. Durante il periodo di studio ed esecuzione di un brano o di un ruolo non ascolto mai le registrazioni di altri cantanti, in quanto la cosa più importante per me è conservare una freschezza creativa personale. C’è qualche aneddoto che potresti raccontare legato alla tua carriera teatrale? In un’occasione mi è capitata una cosa buffa, che però poteva finire male per il fagottista nell’“Alcina“ di Händel, dove cantavo il ruolo di Ruggiero. Nell’aria di agilità “Sta nell’ircana”, che è un’aria di furia, mi è scivolato l’anello (abbastanza pesante) dal dito ed è finito sul collega che suonava il fagotto (per fortuna, non gli ha fatto tanto male). Io non mi ero accorta di nulla perché cantavo con la massima concentrazione questa difficile aria. Dopo lo spettacolo le addette al camerino dovevano prendere l’anello, ma ovviamente, non c’era. Ero disperata perche non capivo dove lo avessi messo... Fortunatamente, l’assistente regista aveva visto tutto dal mezzanino e ci ha informati qualche minuto più tardi che l’anello si trovava ancora nella buca dell’orchestra. Mi sembra incredibile ancora oggi che io non abbia notato che un anello cosi grosso mi sia scivolato dal dito... Un altro “incidente“ si è verificato all’ultima recita di “Cenerentola“. Don Magnifico, il patrigno di Cenerentola, era ammalato DIANA HALLER, MEZZOSOPRANO FIUMANO DI SUCCESSO DEBUTTERÀ NELLA PROSSIMA PRIMAVERA AL METROPOLITAN DI NEW YORK all’ultima ripresa, per cui ha chiesto al direttore d’orchestra di accorciare una sua aria. Tutti lo sapevano, ma purtroppo lo stage manager, incaricato di avvertire i cantanti della loro entrata in scena, si era dimenticato di chiamarmi prima, visto che l’aria non si faceva più. Insomma, ad un tratto sento le signore del camerino urlare: “Frau Haller, Frau Haller, si sono dimenticati di chiamarla!!! Presto, deve andare in scenaaa!!!” Sono corsa subito ed ho fatto appena in tempo ad entrare in scena, completamente senza fiato. La cosa bella era che il recitativo che dovevo cantare con Dandini, il cameriere travestito da principe, recitava: DANDINI: “Ma non fuggir, perbacco! Quattro volte m’hai fatto misurar la galleria!”. Quella volta non dovevamo fingere l’agitazione e la mancanza di fiato! (ride) Dopo gli studi a Trieste sei andata a Londra, dove - hai dichiarato - hai avuto i primi contatti con il lied. In Italia non si presta molta attenzione a questo genere di canto? No, purtroppo, non si presta molta attenzione. L’Italia è la patria dell’opera e quindi non c’è una grande cultura del lied. Pure nella patria del lied, la Germania, questo genere musicale sta attraversando un periodo difficile e le sale da concerto sono spesso mezze vuote. Quindi non sorprende che l’Italia da questo punto di vista sia messa ancora peggio. La ragione può essere ricercata nella crisi economica, in quanto la prima cosa che ne soffre è sempre la cultura. Puoi fare un confronto tra l’atmosfera, dal punto di vista di un cantante lirico, che vige in Italia, a Londra e a Stoccarda? La Germania, essendo un paese grande, offre tante possibilità di lavoro. I concerti che propongono oratori sono molto diffusi e frequenti e ogni cantante può avere l’occasione di esibirsi, anche se non riesce a mettere piede nel teatro d’opera. Inoltre, è più facile ottenere un impiego fisso in un teatro in Germania, considerato il fatto che lì sono numerose le compagnie stabili e c’è una marea di teatri. In Italia, invece, i teatri stanno chiudendo e questo rende più difficile la ricerca di un impiego. E poi, in Italia non ci sono compagnie stabili per i cantanti solisti. Nemmeno in Inghilterra non ci sono tanti teatri e compagnie stabili, per cui anche lì è molto difficile venire assunti in pianta stabile. Quale stile musicale, o compositore, senti più vicino alla tua sensibilità? Oppure non fai queste distinzioni? No. Non faccio distinzioni. Ogni compositore che sapeva ciò che faceva mi piace. Conta tanto la qualità di un compositore. Naturalmente, il cantante non può eseguire tutto il repertorio, come lo può fare uno strumento, ma deve vedere quali compositori hanno scritto bene per la sua voce. Per quanto riguarda la lirica, tutto quello che spazia dal barocco al belcanto in questo momento va benissimo per me. Da Händel, a Mozart, Gluck, Rossini... Nel lied le cose stanno diversamente perché la scelta è molto più ampia, in quanto non c’è un’orchestra che può mettere il cantante in difficoltà. Devo dire, però, che nel lied, per ora, cerco di evitare i pezzi di estrema drammaticità, essendo io un mezzosoprano di agilità. Dopo il concerto a Fiume, c’è qualche possibilità che tu venga finalmente invitata a cantare all’”Ivan de Zajc”? Sì. Ma per ora non ne posso parlare. Hai dichiarato di trascorrere venti ore al giorno con le note. Immagino che per te sia una grande soddisfazione. Ma c’è qualche attività, oltre alla musica, che ti rende altrettanto felice? La bici. Adoro pedalare e in Germania c’è la cultura della bici. A Stoccarda c’è un percorso chiamato Radelthon, lungo 80 km, che ho fatto la scorsa estate. Purtroppo, siccome ci ero andata senza mappa e da sola, mi sono persa e sono arrivata a casa con 101 km attraversati sul mio contatore. Una grande soddisfazione. Mi piace leggere i classici russi e francesi. Emil Zola e Dostojevski sono due dei miei scrittori preferiti. E... dormire. Gli spettacoli e i concerti prendono un sacco di energia. Tutte le emozioni che un’artista si impegna di comunicare al pubblico stancano a livello psichico. Purtroppo, il sonno è l’unico stato nel quale il pensiero viene soppresso per un certo tempo, per cui dormire è l’unico modo per far riposare il cervello pieno di note e di testi. Com’è il mondo del canto lirico? Immagino che c’è molta competizione... Sì, c’è molta competizione, ma se uno si concentra sul proprio lavoro non la sente. Gli altri non contano - conta soltanto ciò che fai tu stesso e ciò che puoi trasmettere agli altri. Il mondo del teatro è un mondo a parte. Certe volte penso al sole che splende fuori, mentre io sto su un palcoscenico a provare tutto il giorno sotto i riflettori e alla luce artificiale. Se non fosse per la musica, diventerebbe molto difficile. Dove ti vedi fra dieci anni? Domanda difficile. Non ci ho mai pensato. Vivo nel presente, ma so per certo che non vorrei vedermi soltanto sul palcoscenico. Ma lasciamo che il futuro mi sorprenda. musica la Voce del popolo mercoledì, 29 gennaio 2014 I GRANDI DELLA CHANSON 3 di Sandro Damiani IL PUBBLICO FRANCESE RIMASE STORDITO DALLA GRINTA E ALLO STESSO MOMENTO DALLA DOLCEZZA DI QUESTO CANTAUTORE ANARCOIDE, ANTIMILITARISTA, RABBIOSO E TRISTE JACQUESBREL: «SONO UN ARTIGIANO DELLA CANZONE» “J e suis, je suis un petit artisan de la chanson”... Ci ricorda il concetto ripreso da Fabrizio De Andrè qualche anno dopo: “Secondo Benedetto Croce, fino a 19 anni tutti scrivono poesie. Dai 19 in poi, chi continua a farlo, o è un poeta o è un cretino. Io preferisco ritenermi un cantautore”. Dunque, Jacques Brel - Schaerbeek, 8 aprile 1929 – Bobigny, 9 ottobre 1978 del quale eravamo e siamo tutti convinti trattarsi di un poeta, tale non si riteneva. I preziosi versi poetici della chanson Quantomeno, rispetto ai testi che scriveva per le sue canzoni (eh sì, perché invece le poesie che scriveva – lo erano anche per lui). In tal senso egli disse: “La canzone non è né un’arte maggiore né un’arte minore. Non è un’arte. É un campo molto povero, perché imbrigliato da tutta una serie di discipline. Io vi sfido a esprimere chiaramente un’idea benché minima in tre strofe e tre ritornelli... Fare una poesia vuol dire sedersi, prendere una penna e lasciarsi guidare dalla propria immaginazione. II verso libero offre una grandissima libertà. Anche l’alessandrino pone meno costrizioni rispetto alle discipline che reggono la canzone. D’altronde, la musica, che è una cosa meravigliosa e per la quale ho il massimo rispetto, perde gran parte delle sue qualità a partire dal momento in cui la si mette a servizio del testo. Non c’è niente di più fastidioso che mettere una nota sotto una parola...” Soffermiamoci sulla prima parte del discorso, quello relativo al testo – e comunque, in un secondo momento Brel si correggerà, ammettendo di riuscire talvolta a esprimere dei “climi poetici” - dobbiamo tener conto di un fatto molto importante, tutto interno alla tradizione musicale francese del Novecento e soprattutto del secondo dopoguerra: a differenza della musica popolare italiana (ma non quella napoletana), britannica o americana, nella canzone francese la poesia, quella con la “p” maiuscola, ha un suo forte radicamento; numerosi compositori hanno, infatti, musicato liriche di poeti anche strafamosi, come se in Italia parlassimo di Quasimodo, Ungaretti, Saba, Montale, Luzi. Ne citeremo alcuni: Jean Cocteau, che scriveva a getto continuo; Aragon e Hahn, tanto cari a Leo Ferré; Verlaine, Max Jacob cantato da Charles Trenet, e che dire di Jacques Prevert e le “Les feuilles mortes”, interpretate da Yves Montand e Juliette Greco, per citare almeno due grandi nomi. E poi ci sono i versi (o gli scritti) di Queneau, Sartre, della Sagan. Certo, George Brassens ha messo in musica propri versi, nati tali (e pubblicati addirittura nei “Poètes d’aujourd’hui”), ma evidentemente Brel, nella sua – oseremmo dire – fanatica onestà e rispetto della verità non se la sente di porsi sullo stesso piano. Però, però, però... c’è un’altra verità. Vera come la prima. Una cosa è il Brel che, dopo avere composto una canzone, la canta in sala d’incisione. Ben altra – come assicurano quanti lo hanno visto dal vivo, e come si riesce a intuire dai filmati – è il Brel quando la interpreta dal vivo. Qui, infatti, Jacques Brel è un’altra “cosa”: la sua canzone (testo e musica) non è solo ciò che si ascolta, ma anche ciò che si vede. E cosa si vede? Un artista, nel vero senso della parola, che si esprime con tutto sé stesso; con la voce (forse) innanzi tutto – ammaliatrice e (tecnicamente, a Parigi, all’ospedale di Bobigny) sull’isola di Gaugin, Hiva Oa, nell’Arcipelago delle Marchesi, in Polinesia. Nei tre lustri di iperattività ci sono gli inizi nel nativo Belgio, il casuale incontro a Parigi, dapprima coll’impresario Jacques Canetti (fratello del famoso romanziere), quindi grazie a lui, con Juliette Greco che immediatamente “crede” in questo giovane stralunato e dinoccolato dagli occhi grandi, perennemente sorpresi e increduli. sinuosa, tormentata e impetuosa, tenera e nervosa - ma anche con gli occhi, la mimica, la gestualità, le mani, lo sbracciarsi, il corpo. Una performance inaudita, che non ha avuto e non ha eguali, in Francia come nel mondo. Non per nulla i suoi concerti non duravano più di un’ora e senza “bis”: ecco dove risiede quella poesia che l’Autore stesso non vede. E tantomeno può vedere quando è sul palco, dove si “sdà totalmente al pubblico. Si dà a tal punto che dopo soli quindici anni, a base di un concerto a sera o quasi, si ritira per “riposarsi” col teatro e con il cinema: da attore, autore, regista e compositore di colonne sonore. Dopo la “parentesi” teatral-cinematografica, torna a scrivere canzoni per sé e ad incidere; per poi “sdarsi” invece nei pochi anni che gli resteranno da vivere, in un’esistenza relativamente avventurosa in giro per il mondo in aereo e con un veliero, che lo porterà a vivere e morire nel 1961, in seguito al forfait all’ultimo momento di Marlene Dietrich, il patron dell’Olimpya Bruno Coquatrix lo scaraventa sul più importante palcoscenico francese. E la platea, quella platea “chic” che al massimo lo aveva ascoltato alla radio o dai dischi, ma non lo aveva mai visto in “presa diretta”, rimane stordita dalla grinta e allo stesso momento dalla dolcezza di questo chansonnier anarcoide, antimilitarista, rabbioso e triste, andando in delirio per “Ne me quitte pas”. Tra il pubblico c’è pure Edith Piaf: “Jacques Brel – dice - arriva fino al limite delle sue forze, perché la canzone è ciò che costituisce la sua ragion d’essere e ogni frase ti colpisce in pieno volto e ti lascia un po’ groggy”. Lo sceltissimo pubblico dell’Olimpya avrà modo di rivederlo nel 1964, quando Brel eseguirà per la prima volta la dirompente “Amsterdam”, e nell’ottobre del 1966 (con il programma di sala che pubblica uno scritto di Georges Brassens), al momento Strepitosa conquista dell’Opimpya Nel 1957, il ventottenne brusselliano, dal tramonto all’alba diventa un personaggio, grazie a “Quand on n’a que l’amour”, che gli fa ottenere il Gran Prix du Disque. E del suo addio alle scene – a cui nessuno crede; ma si ricrederà, perché a differenza di tutti i suoi colleghi (solo Mina, in Italia, ne ha seguito l’esempio) non si farà più vedere dal vivo, con Charles Aznavour a tampinarlo pregandolo di rivedere la decisione... In precedenza, dal ‘65, Brel compie una tournèe di cinque settimane in Unione Sovietica e tiene un concerto alla Carnegie Hall (il “New York Times” titola “Un magnifico uragano”). Dopo l’Olimpya, come da contratto, si reca alla Royal Albert Hall di Londra, ottenendo un niente affatto scontato successo. E qui Jacques Brel mette il punto definitivo. 150 brani cantati in tutto il mondo Ad essere sinceri, una rentrée ci sarà, ma come regista e protagonista della commedia musicale “L’Homme de la Mancha”, da lui adattato in francese (il libretto originale è dello statunitense Joe Darion). I “brelologi” più attenti diranno che “Don Chisciotte gli serve per recuperare, attraverso un personaggio mitico, il bambino, il folle avventuriero, il sognatore, l’innamorato frustrato che sempre portò dentro di sé alla ricerca della ‘inaccessibile stella’ a cui allude il brano centrale della pièce, “La quête” (La meta)”. Segue, come già detto, il periodo cinematografico, con nove film di cui uno con Cayette ed uno con Lelouche, mentre di due sarà sceneggiatore e regista. Nel 1974 torna a comporre per sé e a cantare, ma solo in sala d’incisione. Rispetto ad alcuni – pochi - cantautori, francesi e italiani, Jacques Brel non ha lasciato moltissime canzoni, è comunque un numero del tutto rispettabile: poco più di 150. In compenso nessuno ha avuto il suo seguito nel mondo: sono intorno ai tremila gli interpreti delle sue canzoni, in un centinaio di lingue, più qualche centinaio di versioni strumentali. L’elenco dei cantanti che si sono misurati con le sue chanson è lunghissimo; ne enumererò alcuni, i piu’ noti: Marlene Dietrich, i francesi Pagani, Greco, Holiday, Dalida, Barriere, M.Mathieu, gli italiani Paoli, Gaber, Sentieri, Sarti, Battiato, Vecchioni, Lauzi, Gianmaria Testa, Vanoni, Milly, Milva, Zanicchi, Cinquetti, Casale, Pravo; i britannici Bowie, Sting, S.Bassey, D.Springfield, Humperdink, T.Jones, S.Shaw; la canadese C.Dion, gli spagnoli Domingo e J.Iglesias; la greca N.Mouskuri e la tedesca U.Lemper; gli americani Sinatra, R.Charles, S.Cooke, J.Mathis, H. Merrill, E.Kitt, D.D.Breadgewater, L.Minelli, P.Bailey, B. Streinsand, N.Simone, S.Horn. Della nostra area ricorderemo Arsen Dedić (a cui, nel 1979, è stato assegnato il prestigiosissimo Prix Brel), Srdjan Depolo, Ibrica Jusić, Buco Pende, Dado Topić, Vita Mavrič. 4 lalaVoce Voce del popolo del popolo mercoledì, 29 gennaio 2014 IL SAGGIO di Piero Antonaci N ell’epoca dell’i-pod ha ancora senso fare musica? Nell’epoca di e-Mule, software con cui si può scaricare (illegalmente) quasi tutta la musica che si vuole, ha ancora senso fare musica? Siamo circondati di musica “fatta”, nei supermercati, nelle stazioni di servizio, nelle boutique, in automobile; possiamo scaricare centinaia di brani musicali da internet, possiamo stiparli dentro un lettore mp3 e metterci in tasca tutto Mahler, tutto Wagner, tutta la Scuola di Vienna, più tutto Bill Evans e tutti i Beatles e andare a fare jogging. ”Inseguiti” dalla musica Prima, se dovevo andare a un concerto, mi dovevo spostare, magari da una città all’altra, per andare io verso la musica, o se stavo a casa davanti al giradischi dello stereo dovevo al limite alzarmi dalla sedia per girare il disco sul lato B. Adesso posso rimanere seduto e saltare da un album all’altro con il telecomando, passando dal settecento al novecento, da Corelli a Stravinskij. E poi, se proprio devo uscire, posso attaccare al bordo della mia maglietta la clip mp3 e continuare a sentire Corelli o Stravinskij mentre faccio la spesa al supermercato. Non sono io che vado verso la musica, è la musica che va dove vado io. Mi viene dietro, mi segue docilmente. E perché dovrei andare a un concerto di musica classica, magari dopo aver girato mezz’ora per trovare un parcheggio, quando posso andare fuori città, in campagna, mettermi le cuffie dell’i-pod e ascoltare la prima sinfonia di Mahler, con tutti i suoi echi naturalistici, sedendomi proprio in mezzo a un bel paesaggio? Con la tecnologia inflazione impressionante E se la prima sinfonia non ce l’ho, posso ordinarla via internet e riceverla a casa due giorni dopo (o al limite potrei provare a scaricarla, illegalmente, con a-Mule). Anzi, se devo proprio dirla tutta, ne ho fin sopra le orecchie di tutta questa musica, ho decine di sinfonie sul mio hard-disk, altre decine sul mio i-pod, ma non ho tempo per ascoltarle. Sono centinaia e centinaia di brani, tutti mischiati, dovrei catalogarli, ordinarli, ma non ho tempo. E poi c’è tanta di quella roba che tutto sembra uguale, ottocento o novecento è lo stesso, e Haydn o Schubert sono la stessa cosa, Bach o i Beatles sono uguali. Nella massa, e nella società di massa, tutto è fungibile (direbbe Adorno: tutto deve essere uguale per poter essere scambiabile). Mi sento come davanti allo scaffale di un ipermercato, cinquanta metri di detersivi, che cosa dovevo comprare? Ho l’i-pod di quattro giga (e fra poco esce quello da otto e poi quello da sedici) e non mi basta tutta la vita per ascoltare tutta la musica che sta lì dentro. Abbiamo accessibilità a tanta di quella musica “fatta”, “finita”, “catalogata”, che si ha l’impressione che tutta la musica che nei secoli si doveva fare è stata, appunto, “fatta”, e che comunque ce n’è talmente tanta, a cui possiamo accedere con estrema facilità, che proprio non si sente il bisogno di altra musica, cioè di qualcuno che faccia musica, esegua musica, crei musica. Abbiamo le registrazioni di grandissimi interpreti che hanno suonato tutti i classici. Le loro interpretazioni, dal vivo o in studio, sono irraggiungibili, impareggiabili. Inoltre possiamo ottenere le loro registrazioni facendo partire un ordine da internet; possiamo tenerci aggiornati sulle riedizioni, possiamo ascoltare le demo e scegliere tra lo Chopin di Michelangeli o quello di Pollini. Tutta la musica sembra già fatta, basta solo allungare la mano e prenderla, come allo scaffale del supermercato. Non resta altro che la riproduzione. La musica svincolata dal momento esecutivo Che senso ha, allora, “fare” musica? E “insegnare” musica? E c’è proprio bisogno, ancora, di nuovi interpreti, di nuovi esecutori, di nuove orchestre? Con i moderni software di editing musicale e con le moderne schede audio e midi si può comporre e registrare musica a casa propria, comporla e montarla al computer riproducendo fedelmente o quasi, in maniera virtuale, tutti gli strumenti di un’orchestra o, ETICADELLAMUSIC ancora meglio, creandone di nuovi. Si può, cioè, comporre e suonare senza strumenti e soprattutto senza musicisti. Gli studi di registrazione hanno oggi strumenti hardware e software che consentono di entrare letteralmente dentro il suono, di scomporlo come in un laboratorio di biologia molecolare, di manipolarlo, confezionando un prodotto sempre perfetto, depurato da qualsiasi scoria. Il “fatto” musicale è amministrato, razionalizzato, niente è lasciato al caso. L’arte della riproducibilità tecnica della musica, dal tempo del famoso saggio di Benjamin, “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, si è ormai definitivamente svincolata dal momento esecutivo. La musica ha sempre meno bisogno del musicista e sempre di più dell’ingegnere informatico o del “musicista informatico”. nessuno, in questa sovrabbondanza linguistica e comunicativa, ascolta. C’è tanta musica, c’è troppa musica e questo troppo ha saturato l’ascolto. Non c’è spazio per l’ascolto. Oggi il lettore mp3 e gli auricolari sono il modo più diffuso di ascoltare la musica. L’ascolto con gli auricolari presuppone l’isolamento dal mondo circostante. Ecco quindi il paradosso: musica- isolamento. La musica, che per natura è ensemble,linguaggio universale, per poter essere ascoltata si deve isolare e deve isolare l’ascoltatore. Saturazione d’ascolto La musica non ha bisogno di dita che la suonino, di dita che si esercitino, di emozioni esecutive, di lotte titaniche con lo strumento; non ha bisogno di liutai e legni pregiati, o del fiato dei polmoni, dell’aria, delle vibrazioni della materia. Il software potrà scegliere un suono alla Miles Davis oppure un suono alla Chet Baker; alla chitarra elettrica puoi decidere se abbinare un amplificatore virtuale Marshall o Fender, uno a transistor o uno a valvole; puoi decidere se suonare con il computer su un pianoforte verticale o orizzontale, dal vivo o in studio, e se suoni dal vivo puoi decidere, ad esempio, l’ambiente, e cioè se stai suonando dentro un teatro chiuso o in un arena all’aperto oppure dentro casa tua. Oggi il problema della musica non è quello di farsi capire. Non è un problema di comunicazione. Anzi è proprio la sovrabbondanza di comunicazione che ha messo in crisi la musica come linguaggio. L’ascolto è sovrabbondante, per questo, come in un talk show dove tutti parlano, La musica oggi non ha un problema di comunicazione perché ha conquistato tutti gli spazi della comunicazione: la televisione, la radio, il lettore mp3, il computer, internet. Siamo continuamente perseguitati dalla musica. Siamo immersi in uno spazio musicale. Ci muoviamo in una colonna sonora. La musica presuppone a priori l’ascoltatore, dà per scontato che l’ascoltatore ci sia, non deve andarselo a cercare. L’ascoltatore è immerso in uno spazio musicale, in un liquido amniotico musicale. La musica è una prigione che lo chiude da tutte le parti. Viviamo immersi in una colonna sonora, la nostra esistenza è accompagnata dalle nostre musiche preferite: in casa, in auto, sul motorino, al supermercato, dal dentista, dal parrucchiere, nell’officina meccanica, c’è sempre una musica di sottofondo, una musica che diventa persino trascendentale perché non riusciamo più a cogliere l’origine, la fonte. E’ un’origine diffusa, dispersa, noumenica. Musica come merce di consumo Così l’onnipotenza e l’onnipresenza della riproducibilità tecnica della musica produce un ritorno di aura: la musica, la sua origine, sembra per sempre perduta, per sempre alienata da noi e noi da lei, la sua origine, il come si fa, diventa un mistero. L’uomo, proprio nell’epoca dell’onnipresenza della musica, della sovrabbondanza di musica, è espropriato dalla musica. Infatti di fronte alla musica, oggi, non c’è, e non ci deve essere l’uomo, ma il consumatore. Accade esattamente il contrario di quello che aveva previsto Benjamin con il suo saggio sulla riproducibilità dell’opera d’arte. Secondo Benjamin la riproducibilità tecnica se da un lato dissolveva l’auraticità romantica, dall’altro liberava il potenziale politicocomunicativo dell’arte. Insomma l’arte doveva farci ricordare e non dimenticare la realtà. Ebbene proprio la sovrabbondanza di riproducibilità spazza via questa utopia. I fatti musicali vengono e vanno come onde, l’una cancella l’altra. Ma non è stata travolta solo l’illusione politica benjaminiana. Anche quella adorniana, di una musica che mantiene la differenza, sottraendosi alle leggi del mercato, e che alla fine si lascia morire pur di mantenere l’utopia comunicativa. Questa utopia è stata assimilata e tutto quello che si mette sulla sua strada, la strada della differenza, la strada del non-identico, la strada dell’arroccamento, finisce per essere ugualmente raggiunto. la Voce musica del popolo mercoledì, 29 gennaio 2014 5 «FARE» MUSICA È ESERCIZIO DI VIRTÙ, SI IMPARA A VIVERE IMPARANDO A RIPETERE, AD ARRIVARE AI RISULTATI CON FATICA, CON PAZIENZA. E QUESTA VIRTÙ VA INSEGNATA ICANELL’EPOCADII-POD Qualsiasi cosa che suona ed entra nel circolo della riproducibilità perde automaticamente ogni pretesa différence, tutto ciò che ha intenzioni comunicative è nutrimento per il sistema comunicativo. Non si tratta di come ascoltare la musica, o di quale musica ascoltare, o di dove ascoltare la musica. Tutti questi luoghi, con le loro differenze, sono stati annullati dalla riproducibilità universale e dalla scambiabilità universale e ridotti ad un unico grande luogo globale. Dall’ “iperdiffusione” il senso del “fare” musica Ma allora a che serve “fare” ancora musica a fronte di tanta musica “fatta” (e contraffatta)? II fare musica finalizzato alla riproduzione, alla diffusione, alla comunicazione è entrato, per forza di cose, in crisi. E’ ormai l’industria musicale a farsi carico dell’aspetto diffusivo della musica. Ma proprio questa situazione libera il fare musica tradizionale dalla finalità riproduttiva, libera il gesto musicale dalla finalità comunicativa. Si aprono, cioè, spazi nuovi, che possono rivelare altri aspetti della musica, aspetti laterali, finora trascurati. Il “fare” musica, nel senso tradizionale di suonare e studiare uno strumento, è oggi talmente in svantaggio rispetto alla musica “fatta” che proprio per questo può svincolarsi senza strappo e senza rancore. Questo svantaggio epocale rispetto ai sistemi moderni di composizione-editing musicale digitale e di diffusione digitale, lascia talmente indietro il “fare” musica tradizionale che questo può prendersi tutto il tempo che vuole per fermarsi, riscoprirsi, per rispolverare la sua fenomenologia. Poiché la sua rincorsa è inutile, esso può fermarsi e guardarsi addosso, riflettere, muovendo le mani sullo strumento, come se fosse la prima volta. Non ha importanza se nessuno ascolta. Si può, per esempio, riscoprire tutta quella fenomenologia della pagina musicale, che sta lì, chiusa nel suo silenzio, e che viene ogni volta nel suo silenzio. Stare di fronte alla pagina musicale, darle vita un po’ alla volta dal silenzio al suono, tornare al silenzio. A differenza della musica “fatta”, la quale invece non ha bisogno di silenzio, ma sopravvive in qualsiasi condizione. Lettura etica della musica Questa lettura della pagina musicale, questa lettura fine a se stessa, è una lettura etica. Perché essa, in senso kantiano, non ha altro fine che se stessa. Oggi chi fa musica, suonandola, studiandola, insegnandola, può sentire, più che in ogni altra epoca quanto il suo fare musica sia vicino all’etica. Questo è possibile proprio grazie all’estraneità cristallizzata tra il “fare” musica e la musica come “fatto”, come prodotto. Quest’ultima si è talmente perfezionata da staccarsi completamente dalla sua stessa causa efficiente, cioè il musicista. Il prodotto musicale vola talmente in alto, nel cielo della trascendenza, che ormai non ha più niente a che vedere con il fare musica. Il fare musica si scopre, così, libero di fare, la sua libertà sta proprio nella sua debolezza. La sua eticità non viene dal nulla, ma consiste nel fatto che la musica è, per sua natura, educazione a molte cose: per esempio educazione del corpo, attraverso il ritmo, la postura, il contatto stesso con lo strumento. C’è poi tutto un aspetto etico dell’esercizio, una virtù dell’esercizio. L’esercizio rinforza la volontà, predispone il corpo all’approccio migliore con lo strumento. Arte come virtù C’è un aspetto spiritu musicale, non il “fatto” musicale. E l’atto musicale, il fare musica ha risvolti che toccano l’etica. Il rigo del pentagramma è un percorso spirituale, la ripetizione di un passaggio è un esercizio spirituale, allena il corpo e lo spirito. Il “fare” musicale è “ars”, arte. La radice di “ars”, ci ricorda il filosofo Salvatore Natoli nelle sue recentissime lezioni di filosofia on line (Salvatore Natoli, Lezioni di Filosofia, su www.feltrinelli.it), è il greco “ar”, da cui “areté” cioè “virtù”. Arte quindi come virtù. “Fare” musica è esercizio di virtù, si impara a vivere imparando a ripetere, ad arrivare ai risultati con fatica, con pazienza. E questa virtù va insegnata. Insegnare musica non solo come fatto musicale, abilità musicale, ecc., ma come atto spirituale, atto virtuoso (non virtuosistico), per imparare a vivere. Imparare a leggere una pagina di musica, trasportarla sullo strumento, dare vita a una pagina silenziosa, imparare questa semplice virtù. Al computer io suono per ascoltare. Posso dare al computer uno spartito e lui me lo suona, posso scegliere qualsiasi strumento. Salto direttamente al fatto musicale, arrivo dritto all’ascolto. In questo “fare” non c’è spazio per un esercizio virtuoso perché qui l’esecuzione musicale è il frutto di un montaggio. Se invece suono uno strumento io non suono per registrare, non suono per iscrivere il mio gesto, ma faccio il contrario, parto da un’iscrizione, la pagina musicale, la eseguo ed eseguendola la introduco nel tempo, dove esiste proprio mentre dilegua; non esiste, cioè, come fatto ma come divenire; il suo esistere è un esistere senza tracce. Divenire che si perde, “fare” che si perde senza lasciare “fatti”, segni. Essere educati a un “fare” che non lascia tracce, che non ha altro fine che se stesso, non lascia segni ma crea un’ “ars”, un’abilità. Questa è la virtù musicale. Essa non ha più l’assillo di lasciare tracce, di suonare per lasciare tracce. Il mondo delle tracce è saturo. Virtù musicale è imparare a suonare, suonare per imparare, senza altro scopo che suonare. Suonare come respirare, e dare suono e senso al proprio respiro. Senza nessun altro fine. Il fine della musica è dileguare. Il musicista deve mostrare innanzitutto ciò che lui è grazie alla musica, deve esporre la sua arte come virtù comunicativa, capacità di comunicare l’armonia. Temperanza aristotelica e temperanza musicale La virtù della musica, come mette in risalto Natoli, è la “temperanza”. Una virtù, secondo Aristotele, “etica”, cioè che riguarda la forza del carattere. Ma la temperanza è una virtù anche e soprattutto musicale. Natoli ricorda a questo proposito il “clavicembalo ben temperato”, cioè l’arte armonica di modulare i passaggi da uno stato musicale all’altro “senza strappi e senza stonature... in modo che sia sempre mantenuta la forma”. Ma, appunto, la temperanza è anche una virtù etica. Essa ha a che fare con le prove difficili della vita, la temperanza è l’abilità di passare attraverso gli stati della vita temperandone appunto il passaggio brusco, ricucendo gli strappi e le ferite. Ma questa è anche un’abilità dell’arte in generale. E in questo senso che l’arte e la letteratura hanno a che fare con la vita. Il pittore tempera i colori, il musicista tempera i suoni, il poeta tempera le parole. L’arte è un modo per temperare l’esistenza. L’arte ha a che fare con la virtù. Virtuosismo e virtù Anche la parola virtuosismo trae la propria radice da virtù. Esso ci rivela che nell’esercizio musicale c’è qualcosa che ha a che fare con la virtù e con l’etica. La riproducibilità tecnica della musica,libera spazi nuovi, essa ha abbandonato un territorio, dopo averlo, per così dire, inaridito e prosciugato, lasciando però che lì, in quel vuoto, in quel nulla, ci possano essere spazi liberi che rendono possibili nuovi e inaspettati insediamenti. 6 mercoledì, 29 gennaio 2014 L’ANNIVERSARIO musica la Voce del popolo di Daria Deghenghi «...LABANDASUONAPERNOI...» L ’orchestra di fiati della Città di Pola ha appena concluso un anno di attività febbrile coinciso con il ventesimo della fondazione, e il tradizionale concerto di Capodanno al Teatro Popolare Istriano non ha fatto che riconfermare l’attaccamento del pubblico alla sua “banda” e, viceversa, il rispetto che l’orchestra e i suoi direttori nutrono nei confronti del pubblico. Benché la tradizione bandistica a Pola affondi le radici in tempi ben più remoti, e si debba sostanzialmente allo spirito (anche) festaiolo dei militari al servizio degli Asburgo, l’odierna orchestra di fiati di Pola nasce solo nel 1993 dopo una periodo di smarrimento culturale dovuto all’ineluttabilità degli eventi bellici che chiaramente non sono stati un terreno fertile per le arti. Ad ogni modo, da quel nucleo di musicisti di professione e studenti di musica si è arrivati all’orchestra odierna che conta tra gli ottanta e i cento elementi, e tra questi almeno una quindicina gli strumentisti rinomati, una parte preponderante di musicisti con livello d’istruzione musicale medio e pochi dilettanti nel senso proprio del termine. Amatoriale per definizione e sinfonica per vocazione, l’orchestra polese di fiati con Ante Dobronić e Branko Okmaca alla direzione, regala tutti gli anni fortissime emozioni musicali. Finora ha sostenuto più di trecento concerti e partecipato a innumerevoli rassegne, incontri o competizioni musicali dei complessi bandistici istriani e croati. Da tempo è considerata una delle migliori orchestre dilettantistiche a livello nazionale, proprio come la Big band, figlia primogenita e prediletta della banda, che in Croazia ha poca o nessuna concorrenza effettiva. Prima ancora faceva parte della famiglia anche la cosiddetta Orchestra da salotto, formata nel 2001 da Sandra Petrović e sciolta nel 2008, mentre altre formazioni minori vanno e vengono (oppure tornano a riunirsi all’occorrenza, di circostanza in circostanza) come capita ai quartetti, ai quintetti, agli ottetti che rispondono ai nomi Jazz, Evergreen, Fanfare e via elencando. Tra i componenti numerosi sono anche i connazionali, oppure discendenti e amici di connazionali, che in varie formazioni musicali o corali partecipano alla vita sociale della Comunità degli Italiani di Pola. Ne abbiamo intervistati alcuni chiedendo quale sia la loro esperienza personale in seno all’orchestra. Caricabatterie inesauribile David Orlović (clarinetto): “Per come la vivo io, l’orchestra di fiati polese è un posto in cui la musica esercita un particolare influsso sull’anima e non manca mai di alleggerirla quando è ‘pesante’. Se mi || Il concerto di Capodanno (e del ventesimo anniversario) al Teatro Popolare Istriano presento alle prove teso, di regola esco sereno canticchiando. Voglio dire che per molti versi l’orchestra è un rifugio spirituale, ma anche un caricabatterie inesauribile. Se la stanchezza fisica per un lavoro impegnativo è stata tale da spossarmi, dopo le prove d’orchestra sono pronto per ripartire. I concerti, poi, sono una soddisfazione particolare. Suonare musica d’orchestra è una fonte di piacere immenso: anche quando il programma include pezzi che normalmente troverei noiosi, il piacere di creare musica insieme ad altri miei consimili è inestimabile. E poi bisogna confessare che ci si sente importanti davanti ad una platea che applaude di gusto, un teatro gremito che ascolta attentamente... Belle occasioni di amicizia e connessione spirituale sono anche gli incontri annuali delle orchestre di fiati come la nostra, che non mancano mai di trasformarsi in autentiche celebrazioni della musica e della vita! Un aneddoto per chiudere? Ricordo un’esibizione del 2002 quando ci chiamarono ad accompagnare in musica l’arrivo dell’ultimo autobus alla vecchia stazione in via dell’Istria prima dell’apertura del nuovo Terminal in Siana: eravamo là in divisa a suonare a passo di marcia con aria solenne, mentre i viaggiatori ci prendevano per matti, perché non erano al corrente del fatto che si stava mandando in pensione la storica stazione delle corriere di Pola”... Serve per acquistare autostima Lara Quargnal (primo clarinetto) è un “veterano” e infatti attende alle prove e ai concerti con la massima serietà fin dal 1995. “Mi sono unita all’orchestra per dovere: la partecipazione era un obbligo fissato della Scuola di musica che all’epoca frequentavo. Ciò nonostante, dal primo giorno vivo l’orchestra non come un dovere ma come un grandissimo piacere. Fare musica insieme ai colleghi di tutte le età arricchisce. Per i giovani, poi, l’esperienza maturata in orchestra aiuta a combattere la timidezza e serve ad acquistare autostima, anche in funzione di successive presentazioni in pubblico e prestazioni di lavoro qualunque sia l’attività e il campo in cui sarà necessario muoversi. E infatti a prescindere dalla professione, il tempo trascorso in orchestra a suonare è un toccasana per l’anima. Io che sono una giovane madre, una studentessa e un’impiegata a tempo pieno, ne so qualcosa: suonare in orchestra rilassa, rigenera e ricarica”. Collante generazionale Samanta Stell (flauto e piccolo): “L’orchestra di fiati polese è un crocevia di generazioni di musicisti. Poche attività hanno il potere di unire i bambini agli adulti e agli anziani come un’orchestra avere una preparazione teorica e pratica di musica d’orchestra e di pianoforte, ma non ho mai toccato un corno, prima di unirmi a quest’orchestra, che per inciso è diventata una seconda casa, poiché, da straniera in città quale ero, mi ha accolta nel suo seno facendomi sentire sua e alleviando i dolori della solitudine e della malinconia. Quanto al corno, ci è voluto un mese per capire se ce l’avrei potuta fare o meno, anche perché è lo strumento più imprevedibile e più indomabile che si possa trovare tra i fiati. La particolarità del corno sta nel fatto che il tubo d’ottone arrotolato su se stesso per formare lo strumento musicale è lungo cinque metri! Pertanto dal soffio al suono ce ne passa, e benché respirazione e suono siano legati da una reazione di causa ed effetto, l’effetto è molto spesso un mistero inarrivabile”. Un’orchestra di mattoncini Lego Nataša Dragun (flauto) svolge contemporaneamente le mansioni di segretaria dell’associazione e cura l’amministrazione, la ione Lego... coordinazione degli rs ve in do L’unica al mon eventi e la pubblicità per l’orchestra, a proposito della quale dice amatoriale che è espressione di grande fermento di questo profilo e di questa (multi)culturale perché una gran parte dei impostazione, fondata cioè sulla suoi componenti studia o lavora (oppure convinzione che l’età e i diversi gradi di studiava e lavorava) all’estero. Per l’ultimo formazione non siano un ostacolo, ma concerto di Capodanno, per esempio, anzi un collante per la musica. Mi basta diversi musicisti sono rincasati da Fiume, ricordare la mia esperienza personale per Zagabria, Novi Sad, Vienna e da diverse rendermene conto: cominciai nel 1995 località italiane e svizzere. Prima c’erano appena rientrata a casa dall’Accademia stati studenti polesi a Lubiana, Graz, di Venezia, su incitamento del mio primo Budapest, Wimar, Lione, Parigi e addirittura professore di flauto alle elementari, a Oslo. A proposito di Oslo. Il legame con Bogoljub Zirojević. Ebbene anche a distanza la capitale norvegese è presto detto e si di tutti questi anni, Zirojević ed io suoniamo chiama Matija Pužar, polese di nascita e gomito a gomito e da insegnanti che siamo, norvegese d’adozione per ragioni di studio non lesiniamo opportunità di trasmettere e di lavoro. Ebbene oltre ad aver suonato alle nuove leve la magia dell’esecuzione percussioni e contrabbasso in divisa giallod’insieme che rende speciale quest verde, Pužar è anche l’autore dell’unico modello di un’orchestra di fiati costruita Un serpentone di 5 metri con i mattoncini Lego! E c’è da dire che il Diverso è stato il caso di Irena modello non solo è fedele all’originale per Vladisavljević (corno), laureata in l’accuratezza con cui riproduce divise e pianoforte e direzione d’orchestra strumenti musicali, ma è bensì preciso al all’Accademia di Podgorica ma dilettante punto che ogni personaggio del modello del corno, che tuttavia suona da tre anni in corrisponde esattamente ad un musicista qua grazie appunto all’orchestra polese, una in carne ed ossa, anche per il colore dei compagine evidentemente capace anche di capelli, per gli occhiali, la statura, la creare strumentisti dal nulla. Naturalmente posizione nel complesso eccetera. Se non in nulla si fa per dire. “Ovviamente sono altro, in questo di certo la “banda” polese è intonata e so leggere gli spartiti oltre ad unica al mondo. | la Voce del popolo IL CD musica mercoledì, 29 gennaio 2014 7 di Stefania Navacchia REINVENTARELAVESTESONORA DIUNAPARTITURADIFFICILE C laudio Cavina e l’Ensemble “La Venexiana” hanno concluso la pubblicazione dei tre lavori che nel catalogo delle opere di Claudio Monteverdi sono classificate come “teatro musicale”: dopo L’”Orfeo” e “L’incoronazione di Poppea”, ecco che, sempre per l’etichetta Glossa, è uscito anche “Il ritorno di Ulisse in patria”, forse la più controversa delle tre partiture. E proprio la partitura è uno degli elementi di maggiore criticità di quest’opera, poiché, come ricorda lo stesso Cavina nelle note di copertina, essa non è integralmente attribuibile a Monteverdi: il manoscritto conservato alla Biblioteca Nazionale di Vienna, inoltre, riporta solo le parti del continuo, fatta eccezione per le sezioni strumentali come le sinfonie. Una partitura “canovaccio” L’Ulisse dunque risulta un testo estremamente “aperto”, il rapporto con il quale obbliga l’interprete a mettere in gioco un autentico atteggiamento filologico capace di conciliare rigore e libertà, o meglio a trovare nel rigore l’unico modo di essere veramente libero e nella libertà l’unica possibile fonte di rigore. Il maggior rispetto che si può portare a questa partitura è proprio non osservarla, cioè considerarla un canovaccio (non a caso il ‘600 è il periodo della commedia dell’arte), un contenitore da riempire, un disegno da colorare. La libertà richiesta da un testo come questo obbliga ad intervenire su tutti i parametri musicali: timbro, altezze (quindi strumentazione), dinamica e tempo. Questa registrazione dell’Ulisse è un esempio di come un interprete debba ri-costruire un nuovo testo, fornendo “veste” sonora (nel caso sia solo una versione discografica) a questa partituracanovaccio: in prima istanza si potrebbe dire che si tratta di dare materia ad una forma. La caratteristica principale dei criteri di scelta di Cavina è la varietà, seguendo le peculiarità della poetica monteverdiana che, come è noto, trova nella parola il veicolo per esprimere il continuo cambiamento di affetti. Significato e prosodia del testo hanno guidato l’articolazione del discorso musicale e la traduzione del testo in una forma concreta e in materia sonora. NEL «RITORNO DI ULISSE» DI CLAUDIO MONTEVERDI TUTTI GLI ESECUTORI CONCORRONO AD UN PROGETTO INTERPRETATIVO COMPLESSIVO VOLTO AL CONTEMPO A FAR RISALTARE L’IMPORTANZA DI QUEST’OPERA ED A SUSCITARE IL PIACERE DELL’ASCOLTO allora che il susseguirsi di declamati, ariosi, concitati estendono quella sperimentazione che dai madrigali monteverdiani conduce alle più ampie narrazioni delle prime opere in musica. I cambiamenti di tempo all’interno della frase non hanno un carattere enfatico, come nella tradizione romantica, ma forniscono respiro sia ai singoli passaggi, sia a tutto il racconto che evidenzia, oltre alla bellezza di questa composizione, anche il carattere cruciale che essa ricopre. Varietà agogica e strumentale Se la preoccupazione della prima generazione di esecutori “filologici” era restituire centralità al testo e “ripulire” l’interpretazione dai “vezzi” della tradizione romantica, i loro successori hanno ereditato tale rigore senza essere vincolati ad esso: così i tempi di questo Ulisse non risultano metronomici, come quelli ad esempio della storica incisione di Harnoncourt, ma più flessibili e adeguati a quelli della parola e degli affetti. Se a questo scopo Cavina utilizza soprattutto l’agogica, lo stacco più o meno veloce dei tempi serve a caratterizzare sia gli interventi dei diversi personaggi, sia i vari momenti dei monologhi, come quello di Penelope che apre il primo atto. La medesima funzione è assunta dalla strumentazione che cambia ad ogni nuova intenzione del canto, al sorgere di ogni nuovo affetto: scopriamo allora che non è la forma ad assumere una materia, ma essa nasce solo dalla materia e può esistere solo nella concretezza, annullando così ogni antica dicotomia. Questo appare evidente nel dialogo tra Penelope e Melanto dove gli strumenti che accompagnano le voci cambiano non solo ad ogni intervento di un personaggio, ma anche all’interno di ognuno di essi, passando ad esempio da un semplice utilizzo del clavicembalo a quello degli archi. Fluente dialogo tra voce e strumenti L’importanza fondamentale della parola Si comprende allora come Cavina sottolinei la continuità tra la ricerca che Monteverdi ha compiuto nella sua produzione madrigalistica e i suoi drammi per musica: il fondamentale principio formale di questa musica è la parola concretamente pronunciata e cantata, essa cioè diviene formante solo nel momento in cui acquista un tempo e si declina in dinamica, agogica e timbro. In particolare l’attento lavoro sul timbro, materia della musica, come il marmo o il bronzo lo possono essere di una statua, evidenzia ancora una volta la modernità di questa registrazione (ricordiamo infatti che si tratta di un parametro fondamentale dal ‘900 in poi), un’attualità che, paradossalmente, può emergere solo da un atteggiamento filologico volto a restituirci lo spirito innovativo, il continuo cambiamento e la costante ricerca di sonorità che hanno guidato la composizione di queste pagine e le loro prime realizzazioni. L’alternanza dei modi in cui la musica diviene forma-materia crea una storia: ecco Il progetto di Cavina è supportato dagli interpreti vocali, instaurando in primo luogo un dialogo tra canto e strumenti, dialogo che assume una funzione fondamentale nel rendere percepibile il fluire della narrazione. Oltre alla consueta attenzione per la pronuncia richiesta dal direttore, si segnala l’ulteriormente accentuata naturalezza del canto, che rafforza la sua funzione di amplificare il significato e la dimensione affettiva della parola e del discorso. Esemplari da questo punto di vista sono José Maria Lo Monaco nella parte di Penelope e Francesca Lombardi in quella di Melanto, che trovano il giusto equilibrio tra la volontà di caratterizzare in modo espressivo ogni accento e quello di allontanarsi da una retorica ampollosa. In particolare, fin dal suo grande monologo, la regina appare caratterizzata da una tristezza che svanisce solo nella dolcezza del “duetto” finale con Ulisse, il cui personaggio è qui affidato alla bella voce di Anicio Zorzi Giustiniani. Roberta Mameli risolve con la solita maestria le inside del personaggio di Minerva. || Claudio Monteverdi MONTEVERDI C., “Il ritorno d’Ulisse in patria” Ensemble “La Venexiana” Claudio Cavina, direttore Glossa 920920 3 CD Anicio Zorzi Giustiniani, Ulisse Josè Maria Lo Monaco, Penelope Roberta Mameli, Minerva Makoto Sakurada, Telemaco, Eurimaco Giorgia Milanesi, Giunone, La Fortuna Salvo Vitale, Nettuno, Il Tempo Vincenzo Di Donato, Giove Francesca Lombardi, Melanto Luca Dordolo, Iro Marta Fumagalli, Ericlea Paolo Antognetti, Eumete Claudio Cavina, L’Umana Fragilità Francesca Cassinari, Amore Roberto Balconi, Anfinomo, Feacio I Alessio Tosi, Pisandro, Feacio II Marco Bussi, Antinoo, Feacio III Rispetto a “L’Orfeo” ed alla Poppea, appare ancor più evidente in questa registrazione come tutti gli esecutori concorrano ad un progetto interpretativo complessivo volto al contempo a far risaltare l’importanza di quest’opera ed a suscitare il piacere dell’ascolto. 8 musica mercoledì, 29 gennaio 2014 la Voce del popolo LA NOTIZIA MEDICI IN MUSICA: NASCE l’«ITALIAN DOCTORS OrCHESTRA» F ormare una “Italian Doctors Orchestra”, ovvero un’orchestra interamente composta da medici italiani. Questa l’iniziativa lanciata dal dottor Massimo Ferrucci, medico chirurgo presso il Policlinico A. Gemelli di Roma, che ha avviato un “censimento” su base nazionale, con la collaborazione degli Ordini dei Medici e degli Odontoiatri, di tutti i musicisti medici italiani diplomati al Conservatorio e con esperienza cameristica e sinfonica che desiderino partecipare all’iniziativa. Il binomio musica-medicina, già esistente all’epoca dei Greci che attribuirono ad un’unica divinità, Apollo, la protezione sia dell’arte della musica che di quella medica, viene spesso visto come relazione tra la musica e la cura, che trova applicazione nella moderna musicoterapia. Non viene colto invece quanto ambedue le arti possano suscitare la medesima passione in persone che abbiano la capacità’ di approfondirle entrambe, diventando buoni medici e continuando a dedicarsi a suonare uno strumento o a comporre musica a livelli professionistici. Esistono celebri esempi di medici che sono stati anche grandi musicisti: Theodor Billroth, grande chirurgo tedesco, fondatore della moderna chirurgia addominale, era un musicista di talento, stimato da Johannes Brahms. Medico e compositore fu il russo Alexander Borodin, amico sia di Mendeleev che di Musorgskij, così come il padre della semeiotica percussoria del torace, l’austriaco Joseph Leopold Auenbrugger, fu anche un violinista dotato di straordinario orecchio musicale. Tornando indietro nel tempo, nella “Domus del Chirurgo”, splendida testimonianza della vita di un medico del III secolo, di recente portata alla luce a Rimini, è stata trovata, accanto alla sala degli strumenti chirurgici, una stanza, cosiddetta di Orfeo, destinata alla musica, a testimonianza della convivenza delle due arti. La passione dei medici per la pratica dell’arte della musica è ancora ai nostri tempi così diffusa da aver stimolato la creazione di vere e proprie orchestre sinfoniche formate da medici. Quasi tutte le nazioni europee, come per altro gli USA, il Giappone, l’Australia, hanno una propria Doctors Orchestra, costituita da medici in possesso di certificate qualità artistiche in campo musicale, che si riuniscono 2-3 volte l’anno per preparare e poi eseguire in pubblico, in particolari occasioni, importanti programmi sinfonici. I criteri organizzativi sono analoghi a quelli adottati dall’European Doctors Orchestra, fondata nel 2004, e dalla più recente (2008) World Doctors Orchestra. L’Italia è tra i pochi Paesi Europei a non aver organizzato una propria Doctors Orchestra, nonostante molti siano i medici musicisti italiani. Basti pensare che nella sola Facoltà Medica dell’Università Cattolica quattro medici sono musicisti professionisti. la Voce del popolo Anno 10 /n. 78 / mercoledì, 29 gennaio 2014 IN PIÙ Supplementi è a cura di Errol Superina [email protected] Edizione Progetto editoriale Caporedattore responsabile Errol Superina MUSICA Silvio Forza Redattore esecutivo Patrizia Venucci Merdžo Impaginazione Annamaria Picco Collaboratori Sandro Damiani, Daria Deghenghi, Helena labus Bačić Foto Goran Šebelić La più bella canzone d’amore San Valentino è alle porte e anche la musica lo festeggia. Per l’occasione MTV ha lanciato sul suo sito una gara per eleggere le migliori canzoni d’amore dei giorni nostri. Tra gli artisti scelti dal pubblico on-line ci sono anche alcuni italiani molto amati dalle giovani generazioni come ad esempio Marco Mengoni, i Modà, Alessandra Amoroso ed Emma, ma anche “veterani” come Laura Pausini e Ligabue. I musicisti internazionali più votati sono stati Miley Cyrus con “Wrecking Ball”, gli One Direction con “Story Of My Life”, Rihanna con “Stay”, Rihanna ft. Shakira con “Can’t Remember To Forget You”, Beyoncé con “XO”, Justin Bieber con “All That Matters”, Lana Del Rey con “Summertime Sadness”, Katy Perry con “Unconditionally”, Avril Lavigne con “Let Me Go” e Britney Spears con “Parfume”. Le canzoni d’amore italiane più belle, secondo le preferenze dei fan della Rete, sono state invece “L’Essenziale” di Marco Mengoni, “Non È Mai Abbastanza” dei Modà, “L’Amore Non Mi Basta” di Emma, “Fuoco d’Artificio” di Alessandra Amoroso, “Se Non Te” di Laura Pausini e “Tu Sei Lei” di Ligabue. Complimenti a tutti e agli innamorati un felice San Valentino! (ip) ANEDDOTI Per la solenne inaugurazione del monumento a Ludwig van Beethoven (1770-1827) giunsero a Bonn personalità da tutta l’Europa. La tribuna per gli illustri ospiti sfortunatamente però era stata messa in modo tale che la statua di Beethoven si vedeva girata di spalle. Quando venne scoperto il monumento tutti restarono sbigottiti, ma il cerimoniere non si perse d’animo e disse: – Lor signori perdonino! In vita era un po’ zotico e tale è rimasto anche dopo la morte! *** Una solista cantava un’aria volgendo le spalle al direttore d’orchestra austriaco Herbert von Karajan (1908-1989). Egli durante l’intervallo si rivolse all’artista: – Mi scusi, signora, ma se io dirigo con il tempo di tre quarti, non agiti il sedere con il tempo di quattro quarti, perché mi confonde! Un pianista principiante e presuntuoso chiese al compositore e pianista italiano Franco Alfano (1876-1954): – Sopra al pianoforte dovrei appendere il ritratto di Chopin o quello di Mozart? – Meglio quello di Beethoven. – Perché proprio Beethoven, e non Chopin o Mozart? – Perché Beethoven era sordo! *** Un giovane musicista chiese al compositore francese Hector Berlioz (1803-1869) un giudizio sulle sue composizioni. Berlioz, dopo aver dato loro un’occhiata, dichiarò: – Mi dispiace, ma devo confessarle che lei non ha alcun talento musicale. Finché è ancora in tempo, si scelga un’altra professione. Quando il giovane avvilito era già in strada, Berlioz si affacciò alla finestra gridando: – Ragazzo! Devo anche confessare che quando avevo la tua età, i professori mi dissero esattamente la stessa cosa! *** Hans von Bülow (1830-1894) prima di un concerto stava salendo di corsa le scale verso il suo guardaroba, e inavvertitamente urtò un uomo che stava scendendo. – Somaro! – gridò lo sconosciuto. – Hans von Bülow – rispose il musicista.