Inpiù musica 29.1.2014

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DUEDECENNI
DI
MUSICA,
AMICIZIAED
APPAGANTI
SUCCESSI
la Voce
del popolo
musica
L’ORCHESTRA DI FIATI DELLA CITTÀ DI POLA
COMPIE VENT’ANNI. I SUCCESSI DEI CONCERTI DI
CAPODANNO CONFERMANO L’ATTACCAMENTO
DEL PUBBLICO DELLA CITTÀ ISTRIANA ALLA SUA
“BANDA”. IL COMPLESSO RAPPRESENTA UN
AUTENTICO COLLANTE GENERAZIONALE
www.edit.hr/lavoce
Anno 10 • n. 78
mercoledì, 29 gennaio 2014
L’INTERVISTA
IL PERSONAGGIO
IL SAGGIO
LA RECENSIONE
LA NOTIZIA
Diana Haller percorso
tutto in ascesa
Jacques Brel mito
della chanson
L’eticità della musica
nel nostro tempo
L’Ulisse di Monteverdi
secondo Cavina
Camici bianchi per
un’orchestra speciale
Il mezzosoprano fiumano in
forza a Stoccarda debutterà al
Metropolitan di New York
Il cantautore belga conquistò le
platee con le sue straordinarie e
coinvolgenti interpretazioni
L’iperproduzione musicale
contemporanea ridà senso al
fatto musicale dal vivo
Il teatro musicale del primo
barocco italiano interpretato
dalla “Venexiana”
Al Policlinico Gemelli è in
via di fondazione la prima
Orchestra di medici italiani
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mercoledì, 29 gennaio 2014
L’INTERVISTA
musica
di Helena Labus Bačić
«...QUANDO
L’ANELLONE
SCIVOLÒ
NELFAGOTTO
DELCOLLEGA...»
I
l mezzosoprano fiumano Diana Haller
si è esibita in dicembre, per la prima
volta in un concerto solista a Fiume, in
una strapiena Sala dei Marmi del Museo
di storia e marineria del Litorale croato. È
stato questo un evento di grande spessore
che ha confermato qualcosa di cui il
pubblico e la critica all’estero erano già al
corrente: Diana Haller è una cantante lirica
di grande talento. La giovane fiumana,
che negli ultimi anni sta mietendo successi
in Europa (e lo farà presto anche negli
Stati Uniti), è stata di recente proclamata
migliore giovane cantante lirica dalla rivista
specializzata “Opernwelt” e in primavera
avrà il suo debutto alla Metropolitan Opera
di New York. Una carriera tutta in salita che
Diana Haller affronta con serietà, diligenza
e buonsenso.
Innanzitutto, vorrei complimentarmi
con te per il bellissimo concerto che
hai tenuto al Palazzo del Governo in
dicembre. Non ricordo di aver mai visto
tanto pubblico nella Sala dei Marmi.
Com’è stata per te questa esperienza?
Grazie. È stata una grande emozione avere
finalmente la possibilità di presentarmi a
Fiume, davanti al mio pubblico, ed è stata
una gioia vedere quanta gente stava in
piedi pur di poter sentirmi. Ho però provato
anche dispiacere nel vederli così, in piedi
per tutta la durata del concerto...!
Hai riproposto il programma presentato
in precedenza a Zagabria. Come mai la
decisione di basarlo interamente sul lied?
In quale genere lirico ti senti più a tuo
agio: nel lied oppure nell’opera?
Secondo me, le arie d’opera vanno fatte
con orchestra e a teatro, come sono state
originariamente scritte dal compositore.
Il repertorio operistico può interamente
rivivere soltanto con il suono dell´orchestra
e con tutto quello che porta questo genere
di arte (costumi, make-up, luci, regia...).
D’altro canto, c’è talmente tanto repertorio
liederistico che vorrei esplorare e spero di
averne la possibilità. Mi sento benissimo
in tutti e due i generi, anzi, per me è
importantissimo poter spaziare da un
genere all’altro. Facendo così rimango fresca
e creativa.
Tra qualche mese avrai modo di
presentarti in un ruolo molto impegnativo
al Met di New York. Mi sembra che
arrivare alla Metropolitan Opera e alla
Scala di Milano sia il sogno di molti
cantanti lirici. È così anche per te?
Certo. Questi teatri d’opera sono tra i più
rispettati al mondo, ma aggiungerei alla
lista pure il Covent Garden di Londra e
il teatro lirico di Monaco di Baviera. A
proposito, qualche settimana fa ho dovuto
la Voce
del popolo
rifiutare, purtroppo, il mio debutto alla
Scala nel 2015, a causa di un altro impegno
fissato in precedenza. Quello che conta,
però, non è solo avere la possibilità di
esibirsi nei più grandi teatri, ma rimanere
sempre fedeli al compositore e al ruolo
che si canta. La musica può darci tante
soddisfazioni, bisogna solo saperla
rispettare.
In un’intervista hai descritto la première
della “Cenerentola” come uno degli
eventi più emotivi della tua vita. I tuoi
genitori sono venuti a sentirti a tua
insaputa e lo spettacolo è stato di per
sé un successo. Come ti preparavi per
questo importante ruolo? Sei nervosa
prima di salire sul palco?
C´è sempre un po’ di agitazione prima di
salire in scena. È sempre un sentimento
giustificato, dal momento che mi devo
fidare di un muscolo che non si vede: le
corde vocali, che si trovano spesso sotto
stress, non solo vocale, ma anche psichico.
Ci si pone sempre la domanda: come
sta oggi la voce? Per quanto riguarda i
preparativi, quelli iniziano circa un’anno
prima della première. Si tratta di imparare il
ruolo, poi di impostarlo bene tecnicamente
e quindi di crearlo dal punto di vista
interpretativo. Durante il periodo di studio
ed esecuzione di un brano o di un ruolo
non ascolto mai le registrazioni di altri
cantanti, in quanto la cosa più importante
per me è conservare una freschezza creativa
personale.
C’è qualche aneddoto che potresti
raccontare legato alla tua carriera
teatrale?
In un’occasione mi è capitata una cosa
buffa, che però poteva finire male per il
fagottista nell’“Alcina“ di Händel, dove
cantavo il ruolo di Ruggiero. Nell’aria di
agilità “Sta nell’ircana”, che è un’aria di
furia, mi è scivolato l’anello (abbastanza
pesante) dal dito ed è finito sul collega che
suonava il fagotto (per fortuna, non gli ha
fatto tanto male). Io non mi ero accorta
di nulla perché cantavo con la massima
concentrazione questa difficile aria. Dopo lo
spettacolo le addette al camerino dovevano
prendere l’anello, ma ovviamente, non c’era.
Ero disperata perche non capivo dove lo
avessi messo... Fortunatamente, l’assistente
regista aveva visto tutto dal mezzanino e
ci ha informati qualche minuto più tardi
che l’anello si trovava ancora nella buca
dell’orchestra. Mi sembra incredibile ancora
oggi che io non abbia notato che un anello
cosi grosso mi sia scivolato dal dito...
Un altro “incidente“ si è verificato all’ultima
recita di “Cenerentola“. Don Magnifico,
il patrigno di Cenerentola, era ammalato
DIANA HALLER, MEZZOSOPRANO FIUMANO
DI SUCCESSO DEBUTTERÀ NELLA PROSSIMA
PRIMAVERA AL METROPOLITAN DI NEW YORK
all’ultima ripresa, per cui ha chiesto al
direttore d’orchestra di accorciare una sua
aria. Tutti lo sapevano, ma purtroppo lo
stage manager, incaricato di avvertire i
cantanti della loro entrata in scena, si era
dimenticato di chiamarmi prima, visto che
l’aria non si faceva più. Insomma, ad un
tratto sento le signore del camerino urlare:
“Frau Haller, Frau Haller, si sono dimenticati
di chiamarla!!! Presto, deve andare in
scenaaa!!!” Sono corsa subito ed ho fatto
appena in tempo ad entrare in scena,
completamente senza fiato. La cosa bella
era che il recitativo che dovevo cantare con
Dandini, il cameriere travestito da principe,
recitava: DANDINI: “Ma non fuggir,
perbacco! Quattro volte m’hai fatto misurar
la galleria!”. Quella volta non dovevamo
fingere l’agitazione e la mancanza di fiato!
(ride)
Dopo gli studi a Trieste sei andata a
Londra, dove - hai dichiarato - hai avuto
i primi contatti con il lied. In Italia non si
presta molta attenzione a questo genere
di canto?
No, purtroppo, non si presta molta
attenzione. L’Italia è la patria dell’opera e
quindi non c’è una grande cultura del lied.
Pure nella patria del lied, la Germania,
questo genere musicale sta attraversando un
periodo difficile e le sale da concerto sono
spesso mezze vuote. Quindi non sorprende
che l’Italia da questo punto di vista sia
messa ancora peggio. La ragione può essere
ricercata nella crisi economica, in quanto
la prima cosa che ne soffre è sempre la
cultura.
Puoi fare un confronto tra l’atmosfera,
dal punto di vista di un cantante lirico,
che vige in Italia, a Londra e a Stoccarda?
La Germania, essendo un paese grande,
offre tante possibilità di lavoro. I concerti
che propongono oratori sono molto diffusi
e frequenti e ogni cantante può avere
l’occasione di esibirsi, anche se non riesce
a mettere piede nel teatro d’opera. Inoltre,
è più facile ottenere un impiego fisso in
un teatro in Germania, considerato il fatto
che lì sono numerose le compagnie stabili
e c’è una marea di teatri. In Italia, invece,
i teatri stanno chiudendo e questo rende
più difficile la ricerca di un impiego. E poi,
in Italia non ci sono compagnie stabili per i
cantanti solisti. Nemmeno in Inghilterra non
ci sono tanti teatri e compagnie stabili, per
cui anche lì è molto difficile venire assunti
in pianta stabile.
Quale stile musicale, o compositore, senti
più vicino alla tua sensibilità? Oppure
non fai queste distinzioni?
No. Non faccio distinzioni. Ogni
compositore che sapeva ciò che faceva
mi piace. Conta tanto la qualità di un
compositore. Naturalmente, il cantante non
può eseguire tutto il repertorio, come lo
può fare uno strumento, ma deve vedere
quali compositori hanno scritto bene per la
sua voce. Per quanto riguarda la lirica, tutto
quello che spazia dal barocco al belcanto
in questo momento va benissimo per me.
Da Händel, a Mozart, Gluck, Rossini... Nel
lied le cose stanno diversamente perché la
scelta è molto più ampia, in quanto non c’è
un’orchestra che può mettere il cantante
in difficoltà. Devo dire, però, che nel lied,
per ora, cerco di evitare i pezzi di estrema
drammaticità, essendo io un mezzosoprano
di agilità.
Dopo il concerto a Fiume, c’è qualche
possibilità che tu venga finalmente
invitata a cantare all’”Ivan de Zajc”?
Sì. Ma per ora non ne posso parlare.
Hai dichiarato di trascorrere venti ore
al giorno con le note. Immagino che per
te sia una grande soddisfazione. Ma c’è
qualche attività, oltre alla musica, che ti
rende altrettanto felice?
La bici. Adoro pedalare e in Germania c’è la
cultura della bici. A Stoccarda c’è un percorso
chiamato Radelthon, lungo 80 km, che ho
fatto la scorsa estate. Purtroppo, siccome ci
ero andata senza mappa e da sola, mi sono
persa e sono arrivata a casa con 101 km
attraversati sul mio contatore. Una grande
soddisfazione. Mi piace leggere i classici russi
e francesi. Emil Zola e Dostojevski sono due
dei miei scrittori preferiti. E... dormire. Gli
spettacoli e i concerti prendono un sacco
di energia. Tutte le emozioni che un’artista
si impegna di comunicare al pubblico
stancano a livello psichico. Purtroppo, il
sonno è l’unico stato nel quale il pensiero
viene soppresso per un certo tempo, per cui
dormire è l’unico modo per far riposare il
cervello pieno di note e di testi.
Com’è il mondo del canto lirico?
Immagino che c’è molta competizione...
Sì, c’è molta competizione, ma se uno si
concentra sul proprio lavoro non la sente.
Gli altri non contano - conta soltanto ciò
che fai tu stesso e ciò che puoi trasmettere
agli altri. Il mondo del teatro è un mondo a
parte. Certe volte penso al sole che splende
fuori, mentre io sto su un palcoscenico a
provare tutto il giorno sotto i riflettori e alla
luce artificiale. Se non fosse per la musica,
diventerebbe molto difficile.
Dove ti vedi fra dieci anni?
Domanda difficile. Non ci ho mai pensato.
Vivo nel presente, ma so per certo che non
vorrei vedermi soltanto sul palcoscenico. Ma
lasciamo che il futuro mi sorprenda.
musica
la Voce
del popolo
mercoledì, 29 gennaio 2014
I GRANDI DELLA CHANSON
3
di Sandro Damiani
IL PUBBLICO FRANCESE
RIMASE STORDITO
DALLA GRINTA E
ALLO STESSO MOMENTO
DALLA DOLCEZZA
DI QUESTO CANTAUTORE
ANARCOIDE,
ANTIMILITARISTA,
RABBIOSO E TRISTE
JACQUESBREL:
«SONO UN ARTIGIANO DELLA CANZONE»
“J
e suis, je suis un petit artisan de la
chanson”...
Ci ricorda il concetto ripreso da
Fabrizio De Andrè qualche anno dopo:
“Secondo Benedetto Croce, fino a 19
anni tutti scrivono poesie. Dai 19 in poi,
chi continua a farlo, o è un poeta o è
un cretino. Io preferisco ritenermi un
cantautore”.
Dunque, Jacques Brel - Schaerbeek, 8 aprile
1929 – Bobigny, 9 ottobre 1978 del quale eravamo e siamo tutti convinti
trattarsi di un poeta, tale non si riteneva.
I preziosi versi poetici della chanson
Quantomeno, rispetto ai testi che scriveva
per le sue canzoni (eh sì, perché invece le
poesie che scriveva – lo erano anche per
lui). In tal senso egli disse: “La canzone
non è né un’arte maggiore né un’arte
minore. Non è un’arte. É un campo molto
povero, perché imbrigliato da tutta una
serie di discipline. Io vi sfido a esprimere
chiaramente un’idea benché minima in tre
strofe e tre ritornelli... Fare una poesia vuol
dire sedersi, prendere una penna e lasciarsi
guidare dalla propria immaginazione. II
verso libero offre una grandissima libertà.
Anche l’alessandrino pone meno costrizioni
rispetto alle discipline che reggono la
canzone. D’altronde, la musica, che è
una cosa meravigliosa e per la quale ho il
massimo rispetto, perde gran parte delle
sue qualità a partire dal momento in cui la
si mette a servizio del testo. Non c’è niente
di più fastidioso che mettere una nota sotto
una parola...”
Soffermiamoci sulla prima parte del
discorso, quello relativo al testo – e
comunque, in un secondo momento Brel si
correggerà, ammettendo di riuscire talvolta
a esprimere dei “climi poetici” - dobbiamo
tener conto di un fatto molto importante,
tutto interno alla tradizione musicale
francese del Novecento e soprattutto del
secondo dopoguerra: a differenza della
musica popolare italiana (ma non quella
napoletana), britannica o americana, nella
canzone francese la poesia, quella con la
“p” maiuscola, ha un suo forte radicamento;
numerosi compositori hanno, infatti,
musicato liriche di poeti anche strafamosi,
come se in Italia parlassimo di Quasimodo,
Ungaretti, Saba, Montale, Luzi. Ne citeremo
alcuni: Jean Cocteau, che scriveva a getto
continuo; Aragon e Hahn, tanto cari a
Leo Ferré; Verlaine, Max Jacob cantato da
Charles Trenet, e che dire di Jacques Prevert
e le “Les feuilles mortes”, interpretate da
Yves Montand e Juliette Greco, per citare
almeno due grandi nomi. E poi ci sono i
versi (o gli scritti) di Queneau, Sartre, della
Sagan.
Certo, George Brassens ha messo in
musica propri versi, nati tali (e pubblicati
addirittura nei “Poètes d’aujourd’hui”), ma
evidentemente Brel, nella sua – oseremmo
dire – fanatica onestà e rispetto della verità
non se la sente di porsi sullo stesso piano.
Però, però, però... c’è un’altra verità. Vera
come la prima. Una cosa è il Brel che, dopo
avere composto una canzone, la canta in
sala d’incisione. Ben altra – come assicurano
quanti lo hanno visto dal vivo, e come si
riesce a intuire dai filmati – è il Brel quando
la interpreta dal vivo. Qui, infatti, Jacques
Brel è un’altra “cosa”: la sua canzone (testo
e musica) non è solo ciò che si ascolta,
ma anche ciò che si vede. E cosa si vede?
Un artista, nel vero senso della parola,
che si esprime con tutto sé stesso; con la
voce (forse) innanzi tutto – ammaliatrice e
(tecnicamente, a Parigi, all’ospedale di
Bobigny) sull’isola di Gaugin, Hiva Oa,
nell’Arcipelago delle Marchesi, in Polinesia.
Nei tre lustri di iperattività ci sono gli inizi
nel nativo Belgio, il casuale incontro a
Parigi, dapprima coll’impresario Jacques
Canetti (fratello del famoso romanziere),
quindi grazie a lui, con Juliette Greco che
immediatamente “crede” in questo giovane
stralunato e dinoccolato dagli occhi grandi,
perennemente sorpresi e increduli.
sinuosa, tormentata e impetuosa, tenera e
nervosa - ma anche con gli occhi, la mimica,
la gestualità, le mani, lo sbracciarsi, il corpo.
Una performance inaudita, che non ha
avuto e non ha eguali, in Francia come nel
mondo.
Non per nulla i suoi concerti non duravano
più di un’ora e senza “bis”: ecco dove
risiede quella poesia che l’Autore stesso
non vede. E tantomeno può vedere quando
è sul palco, dove si “sdà totalmente al
pubblico. Si dà a tal punto che dopo soli
quindici anni, a base di un concerto a sera
o quasi, si ritira per “riposarsi” col teatro e
con il cinema: da attore, autore, regista e
compositore di colonne sonore.
Dopo la “parentesi” teatral-cinematografica,
torna a scrivere canzoni per sé e ad
incidere; per poi “sdarsi” invece nei pochi
anni che gli resteranno da vivere, in
un’esistenza relativamente avventurosa
in giro per il mondo in aereo e con un
veliero, che lo porterà a vivere e morire
nel 1961, in seguito al forfait all’ultimo
momento di Marlene Dietrich, il patron
dell’Olimpya Bruno Coquatrix lo scaraventa
sul più importante palcoscenico francese.
E la platea, quella platea “chic” che al
massimo lo aveva ascoltato alla radio o dai
dischi, ma non lo aveva mai visto in “presa
diretta”, rimane stordita dalla grinta e allo
stesso momento dalla dolcezza di questo
chansonnier anarcoide, antimilitarista,
rabbioso e triste, andando in delirio per
“Ne me quitte pas”. Tra il pubblico c’è pure
Edith Piaf: “Jacques Brel – dice - arriva fino
al limite delle sue forze, perché la canzone
è ciò che costituisce la sua ragion d’essere
e ogni frase ti colpisce in pieno volto e ti
lascia un po’ groggy”.
Lo sceltissimo pubblico dell’Olimpya avrà
modo di rivederlo nel 1964, quando Brel
eseguirà per la prima volta la dirompente
“Amsterdam”, e nell’ottobre del 1966 (con
il programma di sala che pubblica uno
scritto di Georges Brassens), al momento
Strepitosa conquista dell’Opimpya
Nel 1957, il ventottenne brusselliano, dal
tramonto all’alba diventa un personaggio,
grazie a “Quand on n’a que l’amour”, che
gli fa ottenere il Gran Prix du Disque. E
del suo addio alle scene – a cui nessuno
crede; ma si ricrederà, perché a differenza
di tutti i suoi colleghi (solo Mina, in Italia,
ne ha seguito l’esempio) non si farà più
vedere dal vivo, con Charles Aznavour
a tampinarlo pregandolo di rivedere la
decisione... In precedenza, dal ‘65, Brel
compie una tournèe di cinque settimane in
Unione Sovietica e tiene un concerto alla
Carnegie Hall (il “New York Times” titola
“Un magnifico uragano”). Dopo l’Olimpya,
come da contratto, si reca alla Royal Albert
Hall di Londra, ottenendo un niente affatto
scontato successo. E qui Jacques Brel mette
il punto definitivo.
150 brani cantati in tutto il mondo
Ad essere sinceri, una rentrée ci sarà, ma
come regista e protagonista della commedia
musicale “L’Homme de la Mancha”, da lui
adattato in francese (il libretto originale è
dello statunitense Joe Darion). I “brelologi”
più attenti diranno che “Don Chisciotte
gli serve per recuperare, attraverso un
personaggio mitico, il bambino, il folle
avventuriero, il sognatore, l’innamorato
frustrato che sempre portò dentro di sé alla
ricerca della ‘inaccessibile stella’ a cui allude
il brano centrale della pièce, “La quête” (La
meta)”. Segue, come già detto, il periodo
cinematografico, con nove film di cui uno
con Cayette ed uno con Lelouche, mentre di
due sarà sceneggiatore e regista.
Nel 1974 torna a comporre per sé e a
cantare, ma solo in sala d’incisione.
Rispetto ad alcuni – pochi - cantautori,
francesi e italiani, Jacques Brel non ha
lasciato moltissime canzoni, è comunque un
numero del tutto rispettabile: poco più di
150. In compenso nessuno ha avuto il suo
seguito nel mondo: sono intorno ai tremila
gli interpreti delle sue canzoni, in un
centinaio di lingue, più qualche centinaio di
versioni strumentali.
L’elenco dei cantanti che si sono misurati
con le sue chanson è lunghissimo; ne
enumererò alcuni, i piu’ noti: Marlene
Dietrich, i francesi Pagani, Greco, Holiday,
Dalida, Barriere, M.Mathieu, gli italiani
Paoli, Gaber, Sentieri, Sarti, Battiato,
Vecchioni, Lauzi, Gianmaria Testa, Vanoni,
Milly, Milva, Zanicchi, Cinquetti, Casale,
Pravo; i britannici Bowie, Sting, S.Bassey,
D.Springfield, Humperdink, T.Jones,
S.Shaw; la canadese C.Dion, gli spagnoli
Domingo e J.Iglesias; la greca N.Mouskuri
e la tedesca U.Lemper; gli americani
Sinatra, R.Charles, S.Cooke, J.Mathis, H.
Merrill, E.Kitt, D.D.Breadgewater, L.Minelli,
P.Bailey, B. Streinsand, N.Simone, S.Horn.
Della nostra area ricorderemo Arsen
Dedić (a cui, nel 1979, è stato assegnato il
prestigiosissimo Prix Brel), Srdjan Depolo,
Ibrica Jusić, Buco Pende, Dado Topić, Vita
Mavrič.
4
lalaVoce
Voce
del popolo
del popolo
mercoledì, 29 gennaio 2014
IL SAGGIO
di Piero Antonaci
N
ell’epoca dell’i-pod ha ancora senso
fare musica? Nell’epoca di e-Mule,
software con cui si può scaricare
(illegalmente) quasi tutta la musica che
si vuole, ha ancora senso fare musica?
Siamo circondati di musica “fatta”, nei
supermercati, nelle stazioni di servizio,
nelle boutique, in automobile; possiamo
scaricare centinaia di brani musicali da
internet, possiamo stiparli dentro un
lettore mp3 e metterci in tasca tutto
Mahler, tutto Wagner, tutta la Scuola
di Vienna, più tutto Bill Evans e tutti i
Beatles e andare a fare jogging.
”Inseguiti” dalla musica
Prima, se dovevo andare a un concerto,
mi dovevo spostare, magari da una città
all’altra, per andare io verso la musica,
o se stavo a casa davanti al giradischi
dello stereo dovevo al limite alzarmi
dalla sedia per girare il disco sul lato B.
Adesso posso rimanere seduto e saltare
da un album all’altro con il telecomando,
passando dal settecento al novecento,
da Corelli a Stravinskij. E poi, se proprio
devo uscire, posso attaccare al bordo della
mia maglietta la clip mp3 e continuare a
sentire Corelli o Stravinskij mentre faccio
la spesa al supermercato. Non sono io che
vado verso la musica, è la musica che va
dove vado io. Mi viene dietro, mi segue
docilmente. E perché dovrei andare a
un concerto di musica classica, magari
dopo aver girato mezz’ora per trovare un
parcheggio, quando posso andare fuori
città, in campagna, mettermi le cuffie
dell’i-pod e ascoltare la prima sinfonia di
Mahler, con tutti i suoi echi naturalistici,
sedendomi proprio in mezzo a un bel
paesaggio?
Con la tecnologia inflazione impressionante
E se la prima sinfonia non ce l’ho, posso
ordinarla via internet e riceverla a casa
due giorni dopo (o al limite potrei provare
a scaricarla, illegalmente, con a-Mule).
Anzi, se devo proprio dirla tutta, ne ho fin
sopra le orecchie di tutta questa musica,
ho decine di sinfonie sul mio hard-disk,
altre decine sul mio i-pod, ma non ho
tempo per ascoltarle. Sono centinaia e
centinaia di brani, tutti mischiati, dovrei
catalogarli, ordinarli, ma non ho tempo.
E poi c’è tanta di quella roba che tutto
sembra uguale, ottocento o novecento
è lo stesso, e Haydn o Schubert sono la
stessa cosa, Bach o i Beatles sono uguali.
Nella massa, e nella società di massa,
tutto è fungibile (direbbe Adorno: tutto
deve essere uguale per poter essere
scambiabile). Mi sento come davanti allo
scaffale di un ipermercato, cinquanta
metri di detersivi, che cosa dovevo
comprare? Ho
l’i-pod di quattro giga (e fra poco esce
quello da otto e poi quello da sedici) e
non mi basta tutta la vita per ascoltare
tutta la musica che sta lì dentro.
Abbiamo accessibilità a tanta di quella
musica “fatta”, “finita”, “catalogata”, che
si ha l’impressione che tutta la musica
che nei secoli si doveva fare è stata,
appunto, “fatta”, e che comunque ce n’è
talmente tanta, a cui possiamo accedere
con estrema facilità, che proprio non
si sente il bisogno di altra musica, cioè
di qualcuno che faccia musica, esegua
musica, crei musica.
Abbiamo le registrazioni di grandissimi
interpreti che hanno suonato tutti i
classici. Le loro interpretazioni, dal
vivo o in studio, sono irraggiungibili,
impareggiabili. Inoltre possiamo ottenere
le loro registrazioni facendo partire un
ordine da internet; possiamo tenerci
aggiornati sulle riedizioni, possiamo
ascoltare le demo e scegliere tra lo Chopin
di Michelangeli o quello di Pollini. Tutta
la musica sembra già fatta, basta solo
allungare la mano e prenderla, come allo
scaffale del supermercato. Non resta altro
che la riproduzione.
La musica svincolata dal momento esecutivo
Che senso ha, allora, “fare” musica?
E “insegnare” musica? E c’è proprio
bisogno, ancora, di nuovi interpreti, di
nuovi esecutori, di nuove orchestre?
Con i moderni software di editing
musicale e con le moderne schede audio
e midi si può comporre e registrare
musica a casa propria, comporla e
montarla al computer riproducendo
fedelmente o quasi, in maniera virtuale,
tutti gli strumenti di un’orchestra o,
ETICADELLAMUSIC
ancora meglio, creandone di nuovi. Si
può, cioè, comporre e suonare senza
strumenti e soprattutto senza musicisti.
Gli studi di registrazione hanno oggi
strumenti hardware e software che
consentono di entrare letteralmente
dentro il suono, di scomporlo come in
un laboratorio di biologia molecolare, di
manipolarlo, confezionando un prodotto
sempre perfetto, depurato da qualsiasi
scoria. Il “fatto” musicale è amministrato,
razionalizzato, niente è lasciato al caso.
L’arte della riproducibilità tecnica della
musica, dal tempo del famoso saggio di
Benjamin, “L’opera d’arte nell’epoca della
sua riproducibilità tecnica”, si è ormai
definitivamente svincolata dal momento
esecutivo. La musica ha sempre meno
bisogno del musicista e sempre di più
dell’ingegnere informatico o del “musicista
informatico”.
nessuno, in questa sovrabbondanza
linguistica e comunicativa, ascolta. C’è
tanta musica, c’è troppa musica e questo
troppo ha saturato l’ascolto. Non c’è
spazio per l’ascolto. Oggi il lettore mp3
e gli auricolari sono il modo più diffuso
di ascoltare la musica. L’ascolto con
gli auricolari presuppone l’isolamento
dal mondo circostante. Ecco quindi il
paradosso: musica- isolamento. La musica,
che per natura è ensemble,linguaggio
universale, per poter essere ascoltata si
deve isolare e deve isolare l’ascoltatore.
Saturazione d’ascolto
La musica non ha bisogno di dita che
la suonino, di dita che si esercitino, di
emozioni esecutive, di lotte titaniche con lo
strumento; non ha bisogno di liutai e legni
pregiati, o del fiato dei polmoni, dell’aria,
delle vibrazioni della materia.
Il software potrà scegliere un suono alla
Miles Davis oppure un suono alla Chet
Baker; alla chitarra elettrica puoi decidere
se abbinare un amplificatore virtuale
Marshall o Fender, uno a transistor o uno
a valvole; puoi decidere se suonare con
il computer su un pianoforte verticale
o orizzontale, dal vivo o in studio, e se
suoni dal vivo puoi decidere, ad esempio,
l’ambiente, e cioè se stai suonando dentro
un teatro chiuso o in un arena all’aperto
oppure dentro casa tua.
Oggi il problema della musica non è
quello di farsi capire. Non è un problema
di comunicazione. Anzi è proprio la
sovrabbondanza di comunicazione che ha
messo in crisi la musica come linguaggio.
L’ascolto è sovrabbondante, per questo,
come in un talk show dove tutti parlano,
La musica oggi non ha un problema
di comunicazione perché ha
conquistato tutti gli spazi della
comunicazione: la televisione, la radio, il
lettore mp3, il computer, internet. Siamo
continuamente perseguitati dalla
musica. Siamo immersi in uno spazio
musicale. Ci muoviamo in una colonna
sonora. La musica presuppone a priori
l’ascoltatore, dà per scontato che
l’ascoltatore ci sia, non deve andarselo a
cercare. L’ascoltatore è immerso in uno
spazio musicale, in un liquido amniotico
musicale. La musica è una prigione
che lo chiude da tutte le parti. Viviamo
immersi in una colonna sonora, la nostra
esistenza è accompagnata dalle nostre
musiche preferite: in casa, in auto, sul
motorino, al supermercato, dal dentista,
dal parrucchiere, nell’officina meccanica,
c’è sempre una musica di sottofondo, una
musica che diventa persino trascendentale
perché non riusciamo più a cogliere
l’origine, la fonte. E’ un’origine diffusa,
dispersa, noumenica.
Musica come merce di consumo
Così l’onnipotenza e l’onnipresenza della
riproducibilità tecnica della musica produce
un ritorno di aura: la musica, la sua origine,
sembra per sempre perduta, per sempre
alienata da noi e noi da lei, la sua origine, il
come si fa, diventa un mistero.
L’uomo, proprio nell’epoca
dell’onnipresenza della musica, della
sovrabbondanza di musica, è espropriato
dalla musica. Infatti di fronte alla
musica, oggi, non c’è, e non ci deve
essere l’uomo, ma il consumatore. Accade
esattamente il contrario di quello che aveva
previsto Benjamin con il suo saggio sulla
riproducibilità dell’opera d’arte. Secondo
Benjamin la riproducibilità tecnica se da
un lato dissolveva l’auraticità romantica,
dall’altro liberava il potenziale politicocomunicativo dell’arte. Insomma l’arte
doveva farci ricordare e non dimenticare la
realtà.
Ebbene proprio la sovrabbondanza di
riproducibilità spazza via questa utopia.
I fatti musicali vengono e vanno come
onde, l’una cancella l’altra. Ma non è
stata travolta solo l’illusione politica
benjaminiana. Anche quella adorniana, di
una musica che mantiene la differenza,
sottraendosi alle leggi del mercato, e che
alla fine si lascia morire pur di mantenere
l’utopia comunicativa. Questa utopia
è stata assimilata e tutto quello che si
mette sulla sua strada, la strada della
differenza, la strada del non-identico, la
strada dell’arroccamento, finisce per essere
ugualmente raggiunto.
la Voce
musica
del popolo
mercoledì, 29 gennaio 2014
5
«FARE» MUSICA È ESERCIZIO DI VIRTÙ,
SI IMPARA A VIVERE IMPARANDO A RIPETERE, AD
ARRIVARE AI RISULTATI CON FATICA, CON PAZIENZA.
E QUESTA VIRTÙ VA INSEGNATA
ICANELL’EPOCADII-POD
Qualsiasi cosa che suona ed entra
nel circolo della riproducibilità perde
automaticamente ogni pretesa différence,
tutto ciò che ha intenzioni comunicative è
nutrimento per il sistema comunicativo.
Non si tratta di come ascoltare la musica,
o di quale musica ascoltare, o di dove
ascoltare la musica. Tutti questi luoghi,
con le loro differenze, sono stati annullati
dalla riproducibilità universale e dalla
scambiabilità universale e ridotti ad un
unico grande luogo globale.
Dall’ “iperdiffusione” il senso del “fare” musica
Ma allora a che serve “fare” ancora
musica a fronte di tanta musica “fatta” (e
contraffatta)? II fare musica finalizzato
alla riproduzione, alla diffusione, alla
comunicazione è entrato, per forza di cose,
in crisi. E’ ormai l’industria musicale a farsi
carico dell’aspetto diffusivo della musica.
Ma proprio questa situazione libera il
fare musica tradizionale dalla finalità
riproduttiva, libera il gesto musicale dalla
finalità comunicativa. Si aprono, cioè,
spazi nuovi, che possono rivelare altri
aspetti della musica, aspetti laterali, finora
trascurati. Il “fare” musica, nel senso
tradizionale di suonare e studiare uno
strumento, è oggi talmente in svantaggio
rispetto alla musica “fatta” che proprio
per questo può svincolarsi senza strappo e
senza rancore.
Questo svantaggio epocale rispetto ai
sistemi moderni di composizione-editing
musicale digitale e di diffusione digitale,
lascia talmente indietro il “fare” musica
tradizionale che questo può prendersi tutto
il tempo che vuole per fermarsi, riscoprirsi,
per rispolverare la sua fenomenologia.
Poiché la sua rincorsa è inutile, esso può
fermarsi e guardarsi addosso,
riflettere, muovendo le mani sullo
strumento, come se fosse la prima volta.
Non ha importanza se nessuno ascolta. Si
può, per esempio, riscoprire tutta quella
fenomenologia della pagina musicale, che
sta lì, chiusa nel suo silenzio, e che viene
ogni volta nel suo silenzio. Stare di fronte
alla pagina musicale, darle vita un po’
alla volta dal silenzio al suono, tornare al
silenzio. A differenza della musica “fatta”,
la
quale invece non ha bisogno di silenzio, ma
sopravvive in qualsiasi condizione.
Lettura etica della musica
Questa lettura della pagina musicale,
questa lettura fine a se stessa, è una
lettura etica. Perché essa, in senso
kantiano, non ha altro fine che se
stessa. Oggi chi fa musica, suonandola,
studiandola, insegnandola, può sentire,
più che in ogni altra epoca quanto il suo
fare musica sia vicino all’etica. Questo
è possibile proprio grazie all’estraneità
cristallizzata tra il “fare” musica e la musica
come “fatto”, come prodotto.
Quest’ultima si è talmente perfezionata
da staccarsi completamente dalla sua
stessa causa efficiente, cioè il musicista. Il
prodotto musicale vola talmente in alto, nel
cielo della trascendenza, che ormai non ha
più niente a che vedere con il fare musica.
Il fare musica si scopre, così, libero
di fare, la sua libertà sta proprio nella sua
debolezza.
La sua eticità non viene dal nulla, ma
consiste nel fatto che la musica è, per
sua natura, educazione a molte cose: per
esempio educazione del corpo, attraverso
il ritmo, la postura, il contatto stesso con
lo strumento. C’è poi tutto un aspetto
etico dell’esercizio, una virtù dell’esercizio.
L’esercizio rinforza la volontà, predispone
il corpo all’approccio migliore con lo
strumento.
Arte come virtù
C’è un aspetto spiritu musicale, non il
“fatto” musicale. E l’atto musicale, il fare
musica ha risvolti che toccano l’etica. Il rigo
del pentagramma è un percorso spirituale,
la ripetizione di un passaggio è un esercizio
spirituale, allena il corpo e lo spirito. Il
“fare” musicale è “ars”, arte.
La radice di “ars”, ci ricorda il filosofo
Salvatore Natoli nelle sue recentissime
lezioni di filosofia on line (Salvatore Natoli,
Lezioni di Filosofia, su www.feltrinelli.it),
è il greco “ar”, da cui “areté” cioè “virtù”.
Arte quindi come virtù. “Fare” musica è
esercizio di virtù, si
impara a vivere imparando a ripetere,
ad arrivare ai risultati con fatica, con
pazienza.
E questa virtù va insegnata.
Insegnare musica non solo come fatto
musicale, abilità musicale, ecc., ma
come atto spirituale, atto virtuoso (non
virtuosistico), per imparare a vivere.
Imparare a leggere una pagina di musica,
trasportarla sullo strumento, dare vita a
una pagina silenziosa, imparare questa
semplice virtù.
Al computer io suono per ascoltare. Posso
dare al computer uno spartito e lui me lo
suona, posso scegliere qualsiasi strumento.
Salto direttamente al fatto musicale, arrivo
dritto all’ascolto. In questo “fare” non c’è
spazio per un esercizio virtuoso perché
qui l’esecuzione musicale è il frutto di un
montaggio. Se invece suono uno strumento
io non suono per registrare, non suono per
iscrivere il mio gesto, ma faccio il contrario,
parto da un’iscrizione, la pagina musicale,
la eseguo ed eseguendola la introduco nel
tempo, dove esiste proprio mentre dilegua;
non esiste, cioè, come fatto ma come
divenire; il suo esistere è un esistere senza
tracce.
Divenire che si perde, “fare” che si perde
senza lasciare “fatti”, segni. Essere educati
a un “fare” che non lascia tracce, che non
ha altro fine che se stesso, non lascia segni
ma crea un’ “ars”, un’abilità. Questa è la
virtù musicale. Essa non ha più l’assillo
di lasciare tracce, di suonare per lasciare
tracce. Il mondo delle tracce è saturo. Virtù
musicale è imparare a suonare, suonare per
imparare, senza altro scopo che suonare.
Suonare come respirare, e dare suono e
senso al proprio respiro. Senza nessun
altro fine. Il fine della musica è dileguare.
Il musicista deve mostrare innanzitutto ciò
che lui è grazie alla musica, deve esporre la
sua arte come virtù comunicativa, capacità
di comunicare l’armonia.
Temperanza aristotelica e temperanza musicale
La virtù della musica, come mette in
risalto Natoli, è la “temperanza”. Una
virtù, secondo Aristotele, “etica”, cioè
che riguarda la forza del carattere. Ma la
temperanza è una virtù anche e soprattutto
musicale.
Natoli ricorda a questo proposito il
“clavicembalo ben temperato”, cioè l’arte
armonica di modulare i passaggi da uno
stato musicale all’altro “senza strappi e
senza stonature... in modo che sia sempre
mantenuta la forma”.
Ma, appunto, la temperanza è anche una
virtù etica. Essa ha a che fare con le prove
difficili della vita, la temperanza è l’abilità
di passare attraverso gli stati della vita
temperandone appunto il passaggio brusco,
ricucendo gli strappi e le ferite. Ma questa
è anche un’abilità dell’arte in generale. E
in questo senso che l’arte e la letteratura
hanno a che fare con la vita. Il pittore
tempera i colori, il musicista tempera i
suoni, il poeta tempera le parole. L’arte è un
modo per temperare l’esistenza. L’arte ha a
che fare con la virtù.
Virtuosismo e virtù
Anche la parola virtuosismo trae la
propria radice da virtù. Esso ci rivela che
nell’esercizio musicale c’è qualcosa che
ha a che fare con la virtù e con l’etica. La
riproducibilità tecnica della musica,libera
spazi nuovi, essa ha abbandonato un
territorio, dopo averlo, per così dire,
inaridito e prosciugato, lasciando però che
lì, in quel vuoto, in quel nulla, ci possano
essere spazi liberi che rendono possibili
nuovi e inaspettati insediamenti.
6
mercoledì, 29 gennaio 2014
L’ANNIVERSARIO musica
la Voce
del popolo
di Daria Deghenghi
«...LABANDASUONAPERNOI...»
L
’orchestra di fiati della Città di Pola
ha appena concluso un anno di attività
febbrile coinciso con il ventesimo della
fondazione, e il tradizionale concerto di
Capodanno al Teatro Popolare Istriano non
ha fatto che riconfermare l’attaccamento
del pubblico alla sua “banda” e, viceversa,
il rispetto che l’orchestra e i suoi direttori
nutrono nei confronti del pubblico.
Benché la tradizione bandistica a Pola
affondi le radici in tempi ben più remoti,
e si debba sostanzialmente allo spirito
(anche) festaiolo dei militari al servizio
degli Asburgo, l’odierna orchestra di fiati
di Pola nasce solo nel 1993 dopo una
periodo di smarrimento culturale dovuto
all’ineluttabilità degli eventi bellici che
chiaramente non sono stati un terreno
fertile per le arti. Ad ogni modo, da
quel nucleo di musicisti di professione e
studenti di musica si è arrivati all’orchestra
odierna che conta tra gli ottanta e i
cento elementi, e tra questi almeno una
quindicina gli strumentisti rinomati, una
parte preponderante di musicisti con
livello d’istruzione musicale medio e pochi
dilettanti nel senso proprio del termine.
Amatoriale per definizione e sinfonica per
vocazione, l’orchestra polese di fiati con Ante
Dobronić e Branko Okmaca alla direzione,
regala tutti gli anni fortissime emozioni
musicali. Finora ha sostenuto più di trecento
concerti e partecipato a innumerevoli
rassegne, incontri o competizioni musicali
dei complessi bandistici istriani e croati.
Da tempo è considerata una delle migliori
orchestre dilettantistiche a livello nazionale,
proprio come la Big band, figlia primogenita
e prediletta della banda, che in Croazia
ha poca o nessuna concorrenza effettiva.
Prima ancora faceva parte della famiglia
anche la cosiddetta Orchestra da salotto,
formata nel 2001 da Sandra Petrović e
sciolta nel 2008, mentre altre formazioni
minori vanno e vengono (oppure tornano
a riunirsi all’occorrenza, di circostanza in
circostanza) come capita ai quartetti, ai
quintetti, agli ottetti che rispondono ai nomi
Jazz, Evergreen, Fanfare e via elencando.
Tra i componenti numerosi sono anche i
connazionali, oppure discendenti e amici
di connazionali, che in varie formazioni
musicali o corali partecipano alla vita sociale
della Comunità degli Italiani di Pola. Ne
abbiamo intervistati alcuni chiedendo quale
sia la loro esperienza personale in seno
all’orchestra.
Caricabatterie inesauribile
David Orlović (clarinetto): “Per come la
vivo io, l’orchestra di fiati polese è un posto
in cui la musica esercita un particolare
influsso sull’anima e non manca mai di
alleggerirla quando è ‘pesante’. Se mi
|| Il concerto di Capodanno (e del ventesimo anniversario) al Teatro Popolare Istriano
presento alle prove teso, di regola esco
sereno canticchiando. Voglio dire che
per molti versi l’orchestra è un rifugio
spirituale, ma anche un caricabatterie
inesauribile. Se la stanchezza fisica per
un lavoro impegnativo è stata tale da
spossarmi, dopo le prove d’orchestra sono
pronto per ripartire. I concerti, poi, sono
una soddisfazione particolare. Suonare
musica d’orchestra è una fonte di piacere
immenso: anche quando il programma
include pezzi che normalmente troverei
noiosi, il piacere di creare musica insieme
ad altri miei consimili è inestimabile. E poi
bisogna confessare che
ci si sente importanti
davanti ad una platea
che applaude di gusto,
un teatro gremito che
ascolta attentamente...
Belle occasioni di amicizia
e connessione spirituale
sono anche gli incontri
annuali delle orchestre
di fiati come la nostra,
che non mancano mai di
trasformarsi in autentiche
celebrazioni della musica
e della vita! Un aneddoto
per chiudere? Ricordo
un’esibizione del 2002
quando ci chiamarono ad
accompagnare in musica
l’arrivo dell’ultimo autobus
alla vecchia stazione in via
dell’Istria prima dell’apertura
del nuovo Terminal in Siana:
eravamo là in divisa a suonare a
passo di marcia con aria solenne, mentre i
viaggiatori ci prendevano per matti, perché
non erano al corrente del fatto che si stava
mandando in pensione la storica stazione
delle corriere di Pola”...
Serve per acquistare autostima
Lara Quargnal (primo clarinetto) è un
“veterano” e infatti attende alle prove
e ai concerti con la massima serietà fin
dal 1995. “Mi sono unita all’orchestra
per dovere: la partecipazione era un
obbligo fissato della Scuola di musica che
all’epoca frequentavo. Ciò nonostante,
dal primo giorno vivo l’orchestra non
come un dovere ma come un grandissimo
piacere. Fare musica insieme ai colleghi
di tutte le età arricchisce. Per i giovani,
poi, l’esperienza maturata in orchestra
aiuta a combattere la timidezza e serve ad
acquistare autostima, anche in funzione
di successive presentazioni in pubblico e
prestazioni di lavoro qualunque sia l’attività
e il campo in cui sarà necessario muoversi.
E infatti a prescindere dalla professione,
il tempo trascorso in orchestra a suonare
è un toccasana per l’anima. Io che sono
una giovane madre, una studentessa
e un’impiegata a tempo pieno, ne so
qualcosa: suonare in orchestra rilassa,
rigenera e ricarica”.
Collante generazionale
Samanta Stell (flauto e piccolo):
“L’orchestra di fiati polese è un crocevia
di generazioni di musicisti. Poche attività
hanno il potere di unire i bambini agli
adulti e agli anziani come
un’orchestra
avere una preparazione teorica e pratica di
musica d’orchestra e di pianoforte, ma non
ho mai toccato un corno, prima di unirmi a
quest’orchestra, che per inciso è diventata
una seconda casa, poiché, da straniera
in città quale ero, mi ha accolta nel suo
seno facendomi sentire sua e alleviando i
dolori della solitudine e della malinconia.
Quanto al corno, ci è voluto un mese per
capire se ce l’avrei potuta fare o meno,
anche perché è lo strumento più
imprevedibile e più indomabile
che si possa trovare tra i fiati.
La particolarità del corno sta
nel fatto che il tubo d’ottone
arrotolato su se stesso per
formare lo strumento musicale
è lungo cinque metri! Pertanto
dal soffio al suono ce ne
passa, e benché respirazione
e suono siano legati da una
reazione di causa ed effetto,
l’effetto è molto spesso un
mistero inarrivabile”.
Un’orchestra di mattoncini Lego
Nataša Dragun
(flauto) svolge
contemporaneamente le
mansioni di segretaria
dell’associazione e cura
l’amministrazione, la
ione Lego... coordinazione degli
rs
ve
in
do
L’unica al mon
eventi e la pubblicità per
l’orchestra, a proposito della quale dice
amatoriale
che è espressione di grande fermento
di questo profilo e di questa
(multi)culturale perché una gran parte dei
impostazione, fondata cioè sulla
suoi componenti studia o lavora (oppure
convinzione che l’età e i diversi gradi di
studiava e lavorava) all’estero. Per l’ultimo
formazione non siano un ostacolo, ma
concerto di Capodanno, per esempio,
anzi un collante per la musica. Mi basta
diversi musicisti sono rincasati da Fiume,
ricordare la mia esperienza personale per
Zagabria, Novi Sad, Vienna e da diverse
rendermene conto: cominciai nel 1995
località italiane e svizzere. Prima c’erano
appena rientrata a casa dall’Accademia
stati studenti polesi a Lubiana, Graz,
di Venezia, su incitamento del mio primo
Budapest, Wimar, Lione, Parigi e addirittura
professore di flauto alle elementari,
a Oslo. A proposito di Oslo. Il legame con
Bogoljub Zirojević. Ebbene anche a distanza
la capitale norvegese è presto detto e si
di tutti questi anni, Zirojević ed io suoniamo
chiama Matija Pužar, polese di nascita e
gomito a gomito e da insegnanti che siamo,
norvegese d’adozione per ragioni di studio
non lesiniamo opportunità di trasmettere
e di lavoro. Ebbene oltre ad aver suonato
alle nuove leve la magia dell’esecuzione
percussioni e contrabbasso in divisa giallod’insieme che rende speciale quest
verde, Pužar è anche l’autore dell’unico
modello di un’orchestra di fiati costruita
Un serpentone di 5 metri
con i mattoncini Lego! E c’è da dire che il
Diverso è stato il caso di Irena
modello non solo è fedele all’originale per
Vladisavljević (corno), laureata in
l’accuratezza con cui riproduce divise e
pianoforte e direzione d’orchestra
strumenti musicali, ma è bensì preciso al
all’Accademia di Podgorica ma dilettante
punto che ogni personaggio del modello
del corno, che tuttavia suona da tre anni in
corrisponde esattamente ad un musicista
qua grazie appunto all’orchestra polese, una
in carne ed ossa, anche per il colore dei
compagine evidentemente capace anche di
capelli, per gli occhiali, la statura, la
creare strumentisti dal nulla. Naturalmente
posizione nel complesso eccetera. Se non in
nulla si fa per dire. “Ovviamente sono
altro, in questo di certo la “banda” polese è
intonata e so leggere gli spartiti oltre ad
unica al mondo.
|
la Voce
del popolo
IL CD
musica
mercoledì, 29 gennaio 2014
7
di Stefania Navacchia
REINVENTARELAVESTESONORA
DIUNAPARTITURADIFFICILE
C
laudio Cavina e l’Ensemble “La
Venexiana” hanno concluso la
pubblicazione dei tre lavori che nel
catalogo delle opere di Claudio Monteverdi
sono classificate come “teatro musicale”:
dopo L’”Orfeo” e “L’incoronazione di
Poppea”, ecco che, sempre per l’etichetta
Glossa, è uscito anche “Il ritorno di Ulisse
in patria”, forse la più controversa delle tre
partiture.
E proprio la partitura è uno degli elementi
di maggiore criticità di quest’opera, poiché,
come ricorda lo stesso Cavina nelle note
di copertina, essa non è integralmente
attribuibile a Monteverdi: il manoscritto
conservato alla Biblioteca Nazionale di
Vienna, inoltre, riporta solo le parti del
continuo, fatta eccezione per le sezioni
strumentali come le sinfonie.
Una partitura “canovaccio”
L’Ulisse dunque risulta un testo
estremamente “aperto”, il rapporto con
il quale obbliga l’interprete a mettere in
gioco un autentico atteggiamento filologico
capace di conciliare rigore e libertà, o
meglio a trovare nel rigore l’unico modo
di essere veramente libero e nella libertà
l’unica possibile fonte di rigore. Il maggior
rispetto che si può portare a questa
partitura è proprio non osservarla, cioè
considerarla un canovaccio (non a caso il
‘600 è il periodo della commedia dell’arte),
un contenitore da riempire, un disegno da
colorare. La libertà richiesta da un testo
come questo obbliga ad intervenire su
tutti i parametri musicali: timbro, altezze
(quindi strumentazione), dinamica e
tempo.
Questa registrazione dell’Ulisse è un
esempio di come un interprete debba
ri-costruire un nuovo testo, fornendo
“veste” sonora (nel caso sia solo una
versione discografica) a questa partituracanovaccio: in prima istanza si potrebbe
dire che si tratta di dare materia ad una
forma. La caratteristica principale dei
criteri di scelta di Cavina è la varietà,
seguendo le peculiarità della poetica
monteverdiana che, come è noto, trova
nella parola il veicolo per esprimere
il continuo cambiamento di affetti.
Significato e prosodia del testo hanno
guidato l’articolazione del discorso
musicale e la traduzione del testo in una
forma concreta e in materia sonora.
NEL «RITORNO DI ULISSE» DI CLAUDIO MONTEVERDI
TUTTI GLI ESECUTORI CONCORRONO AD UN PROGETTO
INTERPRETATIVO COMPLESSIVO VOLTO AL CONTEMPO
A FAR RISALTARE L’IMPORTANZA DI QUEST’OPERA ED
A SUSCITARE IL PIACERE DELL’ASCOLTO
allora che il susseguirsi di declamati, ariosi,
concitati estendono quella sperimentazione
che dai madrigali monteverdiani conduce
alle più ampie narrazioni delle prime opere
in musica.
I cambiamenti di tempo all’interno della
frase non hanno un carattere enfatico,
come nella tradizione romantica, ma
forniscono respiro sia ai singoli passaggi,
sia a tutto il racconto che evidenzia, oltre
alla bellezza di questa composizione,
anche il carattere cruciale che essa
ricopre.
Varietà agogica e strumentale
Se la preoccupazione della prima
generazione di esecutori “filologici” era
restituire centralità al testo e “ripulire”
l’interpretazione dai “vezzi” della tradizione
romantica, i loro successori hanno ereditato
tale rigore senza essere vincolati ad esso:
così i tempi di questo Ulisse non risultano
metronomici, come quelli ad esempio
della storica incisione di Harnoncourt,
ma più flessibili e adeguati a quelli della
parola e degli affetti. Se a questo scopo
Cavina utilizza soprattutto l’agogica, lo
stacco più o meno veloce dei tempi serve
a caratterizzare sia gli interventi dei
diversi personaggi, sia i vari momenti dei
monologhi, come quello di Penelope che
apre il primo atto. La medesima funzione è
assunta dalla strumentazione che cambia ad
ogni nuova intenzione del canto, al sorgere
di ogni nuovo affetto: scopriamo allora che
non è la forma ad assumere una materia,
ma essa nasce solo dalla materia e può
esistere solo nella concretezza, annullando
così ogni antica dicotomia. Questo appare
evidente nel dialogo tra Penelope e Melanto
dove gli strumenti che accompagnano le
voci cambiano non solo ad ogni intervento
di un personaggio, ma anche all’interno di
ognuno di essi, passando ad esempio da un
semplice utilizzo del clavicembalo a quello
degli archi.
Fluente dialogo tra voce e strumenti
L’importanza fondamentale della parola
Si comprende allora come Cavina sottolinei
la continuità tra la ricerca che Monteverdi
ha compiuto nella sua produzione
madrigalistica e i suoi drammi per musica:
il fondamentale principio formale di
questa musica è la parola concretamente
pronunciata e cantata, essa cioè diviene
formante solo nel momento in cui acquista
un tempo e si declina in dinamica, agogica
e timbro. In particolare l’attento lavoro
sul timbro, materia della musica, come il
marmo o il bronzo lo possono essere di
una statua, evidenzia ancora una volta
la modernità di questa registrazione
(ricordiamo infatti che si tratta di un
parametro fondamentale dal ‘900 in
poi), un’attualità che, paradossalmente,
può emergere solo da un atteggiamento
filologico volto a restituirci lo spirito
innovativo, il continuo cambiamento e
la costante ricerca di sonorità che hanno
guidato la composizione di queste pagine e
le loro prime realizzazioni.
L’alternanza dei modi in cui la musica
diviene forma-materia crea una storia: ecco
Il progetto di Cavina è supportato dagli
interpreti vocali, instaurando in primo
luogo un dialogo tra canto e strumenti,
dialogo che assume una funzione
fondamentale nel rendere percepibile il
fluire della narrazione. Oltre alla consueta
attenzione per la pronuncia richiesta
dal direttore, si segnala l’ulteriormente
accentuata naturalezza del canto, che
rafforza la sua funzione di amplificare il
significato e la dimensione affettiva della
parola e del discorso.
Esemplari da questo punto di vista sono
José Maria Lo Monaco nella parte di
Penelope e Francesca Lombardi in quella
di Melanto, che trovano il giusto equilibrio
tra la volontà di caratterizzare in modo
espressivo ogni accento e quello di
allontanarsi da una retorica ampollosa. In
particolare, fin dal suo grande monologo,
la regina appare caratterizzata da una
tristezza che svanisce solo nella dolcezza
del “duetto” finale con Ulisse, il cui
personaggio è qui affidato alla bella
voce di Anicio Zorzi Giustiniani. Roberta
Mameli risolve con la solita maestria
le inside del personaggio di Minerva.
|| Claudio Monteverdi
MONTEVERDI C.,
“Il ritorno d’Ulisse in patria”
Ensemble “La Venexiana”
Claudio Cavina, direttore
Glossa
920920
3 CD
Anicio Zorzi Giustiniani, Ulisse
Josè Maria Lo Monaco, Penelope
Roberta Mameli, Minerva
Makoto Sakurada, Telemaco,
Eurimaco
Giorgia Milanesi, Giunone, La
Fortuna
Salvo Vitale, Nettuno, Il Tempo
Vincenzo Di Donato, Giove
Francesca Lombardi, Melanto
Luca Dordolo, Iro
Marta Fumagalli, Ericlea
Paolo Antognetti, Eumete
Claudio Cavina, L’Umana Fragilità
Francesca Cassinari, Amore
Roberto Balconi, Anfinomo, Feacio
I
Alessio Tosi, Pisandro, Feacio II
Marco Bussi, Antinoo, Feacio III
Rispetto a “L’Orfeo” ed alla Poppea, appare
ancor più evidente in questa registrazione
come tutti gli esecutori concorrano ad un
progetto interpretativo complessivo volto
al contempo a far risaltare l’importanza
di quest’opera ed a suscitare il piacere
dell’ascolto.
8
musica
mercoledì, 29 gennaio 2014
la Voce
del popolo
LA NOTIZIA
MEDICI IN MUSICA: NASCE
l’«ITALIAN DOCTORS OrCHESTRA»
F
ormare una “Italian Doctors
Orchestra”, ovvero un’orchestra
interamente composta da medici
italiani. Questa l’iniziativa lanciata dal
dottor Massimo Ferrucci, medico chirurgo
presso il Policlinico A. Gemelli di Roma,
che ha avviato un “censimento” su base
nazionale, con la collaborazione degli
Ordini dei Medici e degli Odontoiatri, di
tutti i musicisti medici italiani diplomati
al Conservatorio e con esperienza
cameristica e sinfonica che desiderino
partecipare all’iniziativa.
Il binomio musica-medicina, già esistente
all’epoca dei Greci che attribuirono ad
un’unica divinità, Apollo, la protezione
sia dell’arte della musica che di quella
medica, viene spesso visto come relazione
tra la musica e la cura, che trova
applicazione nella moderna musicoterapia. Non viene colto invece quanto
ambedue le arti possano suscitare la
medesima passione in persone che
abbiano la capacità’ di approfondirle
entrambe, diventando buoni medici e
continuando a dedicarsi a suonare uno
strumento o a comporre musica a livelli
professionistici.
Esistono celebri esempi di medici che
sono stati anche grandi musicisti: Theodor
Billroth, grande chirurgo tedesco,
fondatore della moderna chirurgia
addominale, era un musicista di talento,
stimato da Johannes Brahms. Medico e
compositore fu il russo Alexander Borodin,
amico sia di Mendeleev che di Musorgskij,
così come il padre della semeiotica
percussoria del torace, l’austriaco Joseph
Leopold Auenbrugger, fu anche un
violinista dotato di straordinario orecchio
musicale. Tornando indietro nel tempo,
nella “Domus del Chirurgo”, splendida
testimonianza della vita di un medico del
III secolo, di recente portata alla luce a
Rimini, è stata trovata, accanto alla sala
degli strumenti chirurgici, una stanza,
cosiddetta di Orfeo, destinata alla musica,
a testimonianza della convivenza delle due
arti.
La passione dei medici per la pratica
dell’arte della musica è ancora ai nostri
tempi così diffusa da aver stimolato la
creazione di vere e proprie orchestre
sinfoniche formate da medici. Quasi tutte
le nazioni europee, come per altro gli
USA, il Giappone, l’Australia, hanno una
propria Doctors Orchestra, costituita da
medici in possesso di certificate qualità
artistiche in campo musicale, che si
riuniscono 2-3 volte l’anno per preparare
e poi eseguire in pubblico, in particolari
occasioni, importanti programmi sinfonici.
I criteri organizzativi sono analoghi a
quelli adottati dall’European Doctors
Orchestra, fondata nel 2004, e dalla più
recente (2008) World Doctors Orchestra.
L’Italia è tra i pochi Paesi Europei a non
aver organizzato una propria Doctors
Orchestra, nonostante molti siano i
medici musicisti italiani. Basti pensare che
nella sola Facoltà Medica dell’Università
Cattolica quattro medici sono musicisti
professionisti.
la Voce
del popolo
Anno 10 /n. 78 / mercoledì, 29 gennaio 2014
IN PIÙ Supplementi è a cura di Errol Superina
[email protected]
Edizione
Progetto editoriale
Caporedattore responsabile
Errol Superina
MUSICA
Silvio Forza
Redattore esecutivo
Patrizia Venucci Merdžo
Impaginazione
Annamaria Picco
Collaboratori
Sandro Damiani, Daria Deghenghi, Helena labus Bačić
Foto
Goran Šebelić
La più bella canzone d’amore
San Valentino è alle porte e anche la musica lo festeggia. Per
l’occasione MTV ha lanciato sul suo sito una gara per eleggere le
migliori canzoni d’amore dei giorni nostri. Tra gli artisti scelti dal
pubblico on-line ci sono anche alcuni italiani molto amati dalle
giovani generazioni come ad esempio Marco Mengoni, i Modà,
Alessandra Amoroso ed Emma, ma anche “veterani” come Laura
Pausini e Ligabue. I musicisti internazionali più votati sono stati
Miley Cyrus con “Wrecking Ball”, gli One Direction con “Story
Of My Life”, Rihanna con “Stay”, Rihanna ft. Shakira con “Can’t
Remember To Forget You”, Beyoncé con “XO”, Justin Bieber con
“All That Matters”, Lana Del Rey con “Summertime Sadness”,
Katy Perry con “Unconditionally”, Avril Lavigne con “Let Me Go” e
Britney Spears con “Parfume”.
Le canzoni d’amore italiane più belle, secondo le preferenze dei
fan della Rete, sono state invece “L’Essenziale” di Marco Mengoni,
“Non È Mai Abbastanza” dei Modà, “L’Amore Non Mi Basta” di
Emma, “Fuoco d’Artificio” di Alessandra Amoroso, “Se Non Te” di
Laura Pausini e “Tu Sei Lei” di Ligabue. Complimenti a tutti e agli
innamorati un felice San Valentino! (ip)
ANEDDOTI
Per la solenne inaugurazione del
monumento a Ludwig van Beethoven
(1770-1827) giunsero a Bonn personalità
da tutta l’Europa. La tribuna per gli
illustri ospiti sfortunatamente però era
stata messa in modo tale che la statua
di Beethoven si vedeva girata di spalle.
Quando venne scoperto il monumento
tutti restarono sbigottiti, ma il cerimoniere
non si perse d’animo e disse:
– Lor signori perdonino! In vita era un
po’ zotico e tale è rimasto anche dopo la
morte!
***
Una solista cantava un’aria volgendo le
spalle al direttore d’orchestra austriaco
Herbert von Karajan (1908-1989). Egli
durante l’intervallo si rivolse all’artista:
– Mi scusi, signora, ma se io dirigo con
il tempo di tre quarti, non agiti il sedere
con il tempo di quattro quarti, perché mi
confonde!
Un pianista principiante e presuntuoso
chiese al compositore e pianista italiano
Franco Alfano (1876-1954):
– Sopra al pianoforte dovrei appendere il
ritratto di Chopin o quello di Mozart?
– Meglio quello di Beethoven.
– Perché proprio Beethoven, e non Chopin
o Mozart?
– Perché Beethoven era sordo!
***
Un giovane musicista chiese al
compositore francese Hector Berlioz
(1803-1869) un giudizio sulle sue
composizioni. Berlioz, dopo aver dato loro
un’occhiata, dichiarò:
– Mi dispiace, ma devo confessarle che
lei non ha alcun talento musicale. Finché
è ancora in tempo, si scelga un’altra
professione.
Quando il giovane avvilito era già in
strada, Berlioz si affacciò alla finestra
gridando:
– Ragazzo! Devo anche confessare che
quando avevo la tua età, i professori mi
dissero esattamente la stessa cosa!
***
Hans von Bülow (1830-1894) prima
di un concerto stava salendo di corsa
le scale verso il suo guardaroba, e
inavvertitamente urtò un uomo che stava
scendendo.
– Somaro! – gridò lo sconosciuto.
– Hans von Bülow – rispose il musicista.
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