Una musica nel profondo del corpo Prima sinfonica a San Pietroburgo per Triàdia di Francesco Hoch / 24.04.2017 di Zeno Gabaglio «Il mio rapporto con la Russia è iniziato nel 1986, quando la cortina di ferro era ben lungi dal dissolversi. Mi trovavo a Mosca in visita privata e capitò l’occasione d’incontrare Edison Denisov – grande compositore e inarrestabile agitatore culturale – che mi fece conoscere una scena musicale moderna e contemporanea estesa ben oltre le maglie dello stereotipo di cultura sovietica (censoria, retrograda, liberticida) che l’Occidente aveva adottato per decenni». A parlare è il compositore ticinese Francesco Hoch, e tale premessa è di dovere perché – di fronte a un’occasione importante come la prima esecuzione assoluta di un suo brano da parte di un’orchestra sinfonica pietroburghese – l’inevitabile domanda è «com’è nato tutto questo?». L’appuntamento fisso sul calendario è quello del prossimo 5 maggio, quando al Teatro Music Hall di San Pietroburgo – una struttura storica e celebre per la programmazione trasversale ai generi – il brano Triàdia per orchestra verrà proposto nel contesto di un programma dedicato alla musica svizzera per orchestra comprendente (sotto la direzione di Fabio Mastrangelo) anche pagine di Frank Martin, Arthur Honegger ed Ernest Bloch, oltre al Doppio concerto dello stesso Hoch. Un programma articolato e dalla forte importanza culturale – svizzera e svizzero-italiana – che non dispiacerebbe poter ascoltare anche dalle nostre parti. Sarebbe anzi un dovere, ben oltre le soggettive diatribe di gusto, e ineludibile è perciò la domanda: forse ai russi interessa la cultura musicale svizzera più che ai ticinesi? «In Russia – malgrado una recente tendenza al disimpegno sociale e culturale, che sorprendentemente tocca anche lo sconfinato e proverbiale amore per la letteratura – c’è sempre stata un’attenzione verso le forme d’espressione artistiche ad ampio raggio. Oltre all’azione di Denisov mi piace ricordare come ogni grande ente musicale avesse, e in parte ancora possiede, una parte di attività dedicata alla produzione contemporanea». E il pensiero va in particolare all’attività del direttore Alexander Lazarev nel contesto del Teatro Bol’šoj, con un «ensemble stabile dedicato all’esecuzione di musica nuova. Ve lo sareste mai immaginato un Herbert von Karajan – o ancora oggi un Riccardo Muti – a dirigere regolarmente opere nuove, della nostra cultura attuale?». L’avvocato del diavolo a questo punto obietterebbe: e perché non prendete l’iniziativa voi compositori, cominciando a scrivere musiche più semplici, più leggibili, magari più orecchiabili, in modo da andare incontro ai gusti del pubblico sinfonico, e quindi anche alle scelte dei programmatori e dei direttori? «Il punto non è tanto quello di assecondare i gusti del pubblico, quanto la sua disponibilità ad aprirsi verso linguaggi e attitudini che non gli sono familiari, ma che in un’idea di trasformazione musicale hanno precise ragioni d’essere. Ed è paradossale osservare come questo avvenga senza nessun problema nel rapporto con le arti visive contemporanee, dove opere anche molto complesse vengono esposte, avvicinate e apprezzate nei più celebri contesti istituzionali». Il tentativo di comprendere la questione giunge qui a un bivio: o da un lato il pubblico è schizofrenico (offre cioè alle arti visive delle disponibilità che invece nega alla musica) oppure c’è una flagrante mancanza di par condicio da parte delle istituzioni culturali. E puntualmente la spiegazione prende una terza via: «è una questione estetica, di come l’oggetto artistico raggiunge il nostro corpo. Malgrado il linguaggio musicale non sia più radicale di quelli pittorici, è il suono a essere più pervasivo, quasi invadente per come coinvolge l’ascoltatore nel profondo. Davanti a un quadro disturbante si può distogliere lo sguardo, affievolire l’attenzione o cambiare sala; in un auditorio l’esperienza sonora è totalizzante per tutta la durata di un brano». Potrebbe sembrare un’apologia della tortura sonora – sta’ fermo, zitto e ascolta fino alla fine! – ma in realtà è l’affermazione dell’incontenibile forza della musica, che si schiude con un semplice cambio di approccio: «se si cercano nella musica contemporanea i riferimenti della classica (melodia, armonia) è chiaro che si resta spaesati, magari anche irritati. Se invece la si avvicina nella sua essenza materico-sonora – senza cioè decodificare con la ragione, ma esperendo con i sensi – la soddisfazione è garantita».