`nuova filosofia` francese

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Lucio Gentilini
LA “NUOVA FILOSOFIA” FRANCESE
Premessa
Il 10 giugno 1976 il ventisettenne Bernard-Henri Lévy mise a rumore l’ambiente
culturale parigino e francese annunciando su un dossier di otto pagine, allegato al n°
2536 de “Les Nouvelles littéraires”, la nascita della corrente filosofica dei “Nouveaux
philosophes”.
L’operazione ebbe fortuna e i mass media si gettarono sulla schiera di questi giovani
‘nuovi filosofi’ che, subito balzati alla ribalta, presto varcarono con facilità ed
irruenza i confini della Francia e si fecero sentire anche in Italia.
Lévy sotto questa etichetta aveva unificato un gruppo di giovani pensatori (Philippe
Némo, Guy Lardreau, Christian Jambet, Michel Guérin, Philippe Sollers, Paul Dollé
e, soprattutto, André Glucksmann) e si era dimostrato estremamente capace di
sfruttare i mezzi di comunicazione per diffondere e reclamizzare le opere dei suoi
autori - in genere pubblicate dalla casa editrice Grasset della quale era redattore -, ma
fu proprio questa sua abilità che gli attirò l’accusa secondo cui questa ‘nuova
filosofia’ in definitiva era solo un’operazione di marketing.
I suoi detrattori reputarono che i metodi con cui si pubblicizzano e si vendono
prodotti e merci non possono essere adottati per affermare una filosofia: invece era
successo proprio questo ed ebbero ragione Aubral e Dalcourt quando notarono che il
battage pubblicitario era riuscito tanto bene che “All’estero i ‘nuovi filosofi’ hanno
fatto parlare di sé molto prima che i loro libri fossero tradotti” (1) e che nonostante
tanti ne parlassero “a cominciare dai giornalisti, pochi sono coloro che in Francia
hanno letto i libri dei ‘nuovi filosofi’.” (1)
Tuttavia, se tutto questo è sicuramente vero, non è però affatto vero che “Senza
questo frastuono pubblicitario i ‘nuovi filosofi’ non sarebbero niente” (2): a parte il
fatto che gli stessi sopracitati detrattori affermarono subito dopo che, comunque, i
loro libri “per poterli giudicare occorre una solida cultura filosofica” (1), la
proposta in essi contenuta merita invece di essere meditata e riflettuta ed è proprio
ciò che cercherà di fare questo saggio.
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L’esperienza del Sessantotto
Nell’articolo di apertura del dossier sui ‘nuovi filosofi’ Lévy segnala che uno dei
motivi che li accomunavano era che essi “al tempo del ’68 ebbero spesso una ventina
d’anni; e che giunsero alla politica, sia che partecipassero che non, all’ombra
dell’epopea maoista.” (3) A sottolineare ancor più quest’ultima affermazione, a
fianco dello stesso articolo sulla prima pagina compare la fotografia, piuttosto grande,
di un gruppo di cinesi, tutti nella tenuta in voga durante la Rivoluzione Culturale
(pantaloni larghi, giubba e berretto con la stella rossa), con la didascalia che dice
“Perchè senza l’immagine della Cina ...” (4): ma cosa significa ‘senza l’immagine
della Cina’?
Ebbene, per i ‘nuovi filosofi’ senza la Cina il Sessantotto non sarebbe stato il
Sessantotto.
Tutti i ‘nuovi filosofi’ furono segnati dagli eventi poi riassunti col nome di
‘Sessantotto’, che essi vissero intensamente e che per loro significò un vero e proprio
battesimo culturale, politico e umano; e fra le innumerevoli anime di quell’epoca di
contestazione (la parola più giusta per esprimerla), di quel groviglio di esperienze, di
riflessioni, di lotte, di prese di coscienza e di infinite proteste, essi furono maoisti.
Per i futuri ‘nuovi filosofi’ il Sessantotto, cui tanto intensamente aderirono, fu
essenzialmente il tentativo di vivere nella dimensione della Rivoluzione Culturale
cinese e di adattarla alla Francia ed all’Europa.
Rivoluzione culturale, dunque, non ideologica: mentre infatti per loro una rivoluzione
ideologica è in definitiva il passaggio da un’ideologia ad un’altra – e quindi da un
dominio ad un altro – una rivoluzione culturale (come anche quella cristiana delle
origini) vuole invece distruggere tutte le ideologie.
Attraverso un’autentica ribellione una rivoluzione culturale vuole far cessare il potere
dell’ideologia dominante (qualunque essa sia) senza sostituirla con nessun’altra.
Un’ ideologia per loro è sapere-potere, pretesa di conoscere il mondo e, ipso facto,
sottometterlo ed assoggettarlo: il sapere-potere domina infatti individuo e società
(ecco il potere) in base alla sua visione del mondo (ecco il sapere).
Contro il sapere-potere insorge la ribellione dell’individuo quando rifiuta che
l’ideologia (qualsiasi ideologia) ordini e razionalizzi la società e la sua stessa vita
soffocandolo nel suo abbraccio: se egli però, dopo aver combattuto e vinto l’ideologia
dominante, la sostituisce con un’altra (cioè se fa una rivoluzione ideologica) non esce
affatto dal circolo del dominio, anzi, passando da un sapere-potere ad un altro, lo
approfondisce addirittura.
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Ecco allora che – così come in Cina – secondo i futuri ‘nuovi filosofi’ anche in
Francia (ed in Europa) nel Sessantotto si affrontarono due linee: una era quella della
rivoluzione culturale (la ‘linea rossa’ in Cina) che voleva la liberazione della società e
dell’individuo dal potere di ogni ideologia, cioè da ogni logica dell’inquadramento
della società e dell’asservimento dell’individuo, mentre l’altra (la ‘linea nera’ in
Cina) era quella della rivoluzione ideologica che voleva, sì, distruggere un saperepotere (quello borghese), ma per instaurarne subito un altro, quello marxista,
passando semplicemente da un sistema di dominio ad un altro - oltretutto molto più
oppressivo del precedente.
I futuri ‘nuovi filosofi’ si impegnarono, o sperarono, nella prima linea, nella
ribellione, nella rivoluzione culturale, nella liberazione continua ed ininterrotta, ma fu
la seconda a prevalere.
L’esperienza del fallimento
Per i ‘nuovi filosofi’ il Sessantotto fu insomma tradito, fallì rischiando così di
rafforzare ancor più quelle catene che pure era nato per spezzare: gli anni della loro
giovinezza portano indelebile il segno della delusione e dell’errore e netto fu il loro
rifiuto di tale esito.
Guai però ad accostarli alla schiera dei conservatori e dei reazionari, di quelli che
ancor oggi – a più di quarant’anni di distanza! – condannano quel periodo come
dissacrazione distruttrice di serietà e valori e lo vivono (ancora!) come una minaccia
sempre presente; guai a considerarli pecorelle che tornarono all’ovile del buon tempo
andato, quando tutto andava così bene; guai a trattarli come se avessero mai sostenuto
che la contestazione del Sessantotto fu fuori luogo, senza motivi; che fu un vero e
proprio traviamento del pensiero e che, dati i guasti che avrebbe prodotto, non si
sarebbe dovuta ripetere più sotto nessuna forma!
La ‘nuova filosofia’compie infatti ben altra analisi del Sessantotto e se non la si
comprende – avverte a chiare lettere Lévy – non si comprende nemmeno tutto il
resto.
Non era la conservazione che andava sostenuta nè fu la ribellione ad essere sbagliata:
il problema fu che la rivoluzione del Sessantotto, anzichè culturale, finì per essere
ideologica: “data da allora” dice Lévy “la marxistizzazione dell’insieme della vita
francese e probabilmente non soltanto della Francia. La cosa ‘riuscita bene’ nel ’68 è
che per la prima volta il partito socialista si è integralmente allineato al marxismo. ...
il 99 per cento degli intellettuali, gli intellettuali degli apparati, delle case editrici,
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ecc., si accalcano sulle tribune del programma comune [del P.S.F. e del P.C.F. – ndr].
... E così oggi [agosto 1977 – ndr] la vecchia tentazione dell’intellettuale di lucidare
gli stivali al principe si traduce nell’allineamento coi partiti marxisti, nuovi prìncipi.”
(5) Ecco dunque la delusione dei ‘nuovi filosofi’, il fallimento di cui sentirono il
morso: Glucksmann a proposito del Sessantotto affermò che “noi non eravamo di
quelli che passavano da un principe ad un altro” (6), ma ciò non tolse che per loro la
lotta per l’emancipazione senza soste dell’individuo attraverso un’incessante
rivoluzione culturale venne troncata dal trionfo della nuova ideologia (il marxismo)
che, dilagata per ogni dove, bloccò ogni istanza di vera liberazione col sottometterla
alla sua logica ed al suo ordine. Si passò proprio da un principe ad un altro: il maggio
’68 venne completamente annullato dagli intellettuali che lo marxistizzarono e gli
tolsero così ogni carica liberatrice.
Ecco la disillusione dei ‘nuovi filosofi’: essi sentirono di aver involontariamente
lavorato per il ‘principe’ marxista (di qui anche il loro risentimento) mentre avevano
voluto lottare per tutt’altro: essi negavano valore al Sessantotto perchè era sfociato in
esiti peggiori dei mali che aveva voluto curare, ma non rinnegarono affatto ciò che
avevano sperato di raggiungere in quell’incredibile anno in cui sembrava che tutto
potesse e dovesse accadere, anzi, essi continuarono a combattere la stessa battaglia.
Essi continuarono a ribellarsi come avevano fatto nel Sessantotto e quindi trattarli
come se avessero giudicato come sbagliata la loro lotta passata è dire l’esatto opposto
di quel che in realtà fecero.
Il Sessantotto continua
Certamente, dal Sessantotto il nemico era cambiato, l’ideologia dominante che i
‘nuovi filosofi’ avevano combattuto allora non era più la stessa perchè ora essa era
diventata il marxismo, ma, come allora, i ‘nuovi filosofi’ vollero combattere per la
stessa causa, la liberazione, cioè la cessazione del potere dell’ideologia: essi
continuarono a rimanere contro ogni ideologia in quanto tale perchè ognuna di esse
annulla e sottomette al suo dominio l’individuo così come tutto ciò che le oppone
resistenza.
Nel Sessantotto il marxismo aveva lottato contro l’ideologia di allora (borghese) e fra
gli intellettuali aveva vinto, ma così si rischiava paradossalmente un potere ancora
più soffocante, quello della nuova ideologia (il marxismo stavolta): ecco perchè i
‘nuovi filosofi’ – dice ancora di loro il vecchio ‘zio’ Clavel – sono “Quei ragazzi,
evidentemente portati alla filosofia, usciti per lo più dal maggio ’68, che adesso
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contestano non solo le ideologie che già contestavano nel maggio ’68, ma anche le
ideologie in nome delle quali contestavano nel maggio ’68. E’ stato un grande lavoro
anti-ideologico.” (7)
Anti-ideologica, ecco qual’è la ribellione dei ‘nuovi filosofi’ (e per questo, come per
il fatto che giudicarono quella cristiana una autentica rivoluzione culturale, vennero
chiamati anche ‘cristo-gauchisti’).
Stabilitone allora il perchè, dobbiamo ora chiederci come e la loro lotta continuò e
quali caratteristiche ebbe.
La metafisica contro il totalitarismo
Nella sua sopracitata presentazione dei ‘nuovi filosofi’ Lévy afferma che tutti loro
hanno “questo dato comune, che sono anzitutto filosofi, cioè metafisici. Tutti si
riallacciano ai problemi più antichi della più antica tradizione.” (8)
Questo è un punto essenziale perchè l’indicazione di tornare ad occuparsi dei
problemi classici della metafisica segna lo stacco irreparabile dalle ideologie
politiche moderne – soprattutto dal marxismo – che, tutto al contrario, avevano
voluto seppellire la filosofia sostituendo lei ed i suoi problemi (metafisici) con quella
che essi definiscono la ‘concezione politica del mondo’.
La concezione politica del mondo è la visione delle cose secondo la quale l’uomo
sarebbe immerso soltanto nella storia e la sua esistenza si risolverebbe
completamente nella pratica sociale e politica del tempo in cui vive e dal quale non
può in alcun modo uscire: nulla esisterebbe sopra e fuori questo uomo storico, nè
alcun Dio od alcun Essere troverebbe posto al di là ed al di fuori della storia; la
trascendenza – cioè il riconoscimento che Qualcosa sfugge al divenire del tempo e
che questo Qualcosa “è” – si risolverebbe in un patetico arcaismo; la pretesa che la
ragione, quell’attività conoscitiva superiore che una volta si riteneva potesse mettere
l’uomo in contatto con l’Essere o con Dio, svincolandolo così dalla prigionia del
finito e del tempo, sarebbe un’astratta sciocchezza.
L’unica ragione che esiste sarebbe la facoltà umana con la quale l’uomo organizza la
sua vita nell’ambito della società nella quale conduce la sua esistenza. La filosofia
diviene così semplice riflessione sull’agire umano ed inevitabilmente si trasforma in
ideologia; la morale si identifica col comportamento politicamente corretto; il
pensiero non trova più limiti e diviene unico ed onnicomprensivo, quindi totalitario.
Nella storia poi vengono trovate e scoperte delle leggi che, visto che essa coincide col
mondo - l’unica realtà -, assumono lo status di vere e proprie strutture ontologiche:
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nasce così la scienza della storia ed essa non può che pretendere di essere la verità
ultima: e questo sapere assoluto non può essere altro che una dottrina politica.
L’uomo, padrone ed artefice del mondo, dopo aver tanto errato sulle chimeriche vie
della metafisica, sarebbe così giunto (finalmente!) al sapere ultimo, ma per i ‘nuovi
filosofi’ è proprio questa la radice del totalitarismo: credere che il mondo coincida
con la storia interamente conoscibile.
Nella concezione politica del mondo la ragione è sempre totalitaria: la copertina
originale de “I padroni del pensiero” di Glucksmann (il testo qui giudicato il più
rappresentativo della ‘nuova filosofia’) mostra un gruppo di guardie rosse sovietiche,
o di SS, o di soldati, o di guardiani di un lager (non si capisce bene), che ascolta uno
di loro che parla in piedi su un piedistallo: il messaggio – la filosofia come verità
politica - non potrebbe essere più chiaro.
L’abbandono della metafisica è in definitiva la causa ultima dell’éra del
totalitarismo, della ‘barbarie moderna’.
Tutte le ideologie moderne (soprattutto il marxismo) per Lévy trovano insomma il
loro fondamento in questo concetto fondamentale: finita la trascendenza, abolito
come inesistente il problema dell’Essere o di Dio, l’uomo perde completamente quel
sentimento di precarietà, di mistero, di creaturalità, di limite, che fino a quel
momento aveva avvolto la sua esistenza ed illuminato la sua riflessione; è finito il
tempo della speculazione, della contemplazione, del bisogno e del desiderio di
elevazione.
La concezione politica del mondo rende l’uomo il padrone assoluto di tutto perchè
nulla c’è al di sopra o al di fuori di lui ed è lui il signore della Terra e della storia (che
è la sua storia): negata la trascendenza ed abbattuti Essere e Dio, l’uomo non poteva
che mettersi al loro posto e diventare a sua volta onnisciente ed onnipotente.
Inevitabilmente poi la concezione politica del mondo porta anche all’ottimismo in
filosofia: come non vedere nella storia – dove l’uomo agisce da signore e padrone –
un’evoluzione, un progresso, un’avanzata, continui?
I totalitarismi che nascono e si moltiplicano nel Novecento sono dunque fondati su
dottrine che parlano di felicità, di realizzazioni, di soluzione di problemi.
Nell’ambito della concezione politica del mondo molteplici ideologie (capitalismo,
razzismo, fascismo, nazionalismo, marxismo, nazismo, ecc.) si scontrano anche
duramente fra loro, ma il problema della liberazione non si risolve sostituendone una
con un’altra (mediante una rivoluzione ideologica) perchè ognuna di esse vuole
dominare (e opprimere) in nome della sua verità che, abbiamo visto, ritiene assoluta.
E’ questa la barbarie moderna di cui parlano tanto i ‘nuovi filosofi’ e l’unico modo di
sfuggirle è sfuggire alla concezione politica del mondo, cioè tornare a considerare la
realtà nella sua interezza, quel che fa la filosofia metafisica.
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Per i ‘nuovi filosofi’ nella storia reali sono solo i poteri che opprimono ed ai quali
non si sfugge finchè non si sfugge alla storia stessa e l’unica opposizione alla storia è
la filosofia, cioè la metafisica.
Finchè si rimane prigionieri della storia ogni tentativo per sfuggire alla logica del
dominio e dell’oppressione risulta vano: bisogna quindi uscire dalla storia e l’unica
che permette ciò è la filosofia metafisica.
Ecco il punto di contatto fra i ‘nuovi filosofi’ e gli autentici cristiani, il rifiuto
dell’uguaglianza mondo = storia, cioè della concezione politica del mondo. Aubral e
Dalcourt, misconoscendo questo dato fondamentale, devono confessare la loro
incomprensione della ‘nuova filosofia’ (che pure tanto offendono) ammettendo che
per loro “L’alleanza dei ‘nuovi filosofi’ atei, ex maoisti, con un cristiano fanatico
come Clavel ... risulta un enigma” (9), ma in un errore simile non cade certo un
filosofo come Abbagnano: posto che l’uguaglianza mondo = storia lui la chiama
‘umanesimo’ e non ‘concezione politica del mondo’, egli vede bene che
“all’umanesimo, che ha portato alle ideologie rivoluzionarie, le quali rendono più
forte ed oppressivo il Potere, i giovani filosofi contrappongono, come unica via
d’uscita, un appello alla Trascendenza, una ricerca diretta a vedere in essa almeno
quel tanto che può far uscire gli uomini di oggi dalla barbarie senza speranza in cui si
trovano.” (10)
La filosofia, distrutta la Trascendenza, inevitabilmente era divenuta ideologia e, per
combattere questa chiusura soffocante, era dunque necessario ristabilirla – in altri
termini, non pretendere di sapere tutto ed essere padroni di tutto.
La riscoperta della Trascendenza, di ciò che non potremo mai dominare e di fronte al
quale non potremo che restare in un atteggiamento di riverenza, ci preserverà dal
totalitarismo.
Nella concezione politica del mondo non c’è spazio e possibilità per la morale
perchè finchè si rimane al suo interno, impossibilitati per definizione ad uscire dalla
storia, non si può che accettare tutto quello che è successo e che succede senza
poterlo mai condannare o rifiutare: e così, posti di fronte a tutto l’orrore del
Novecento, non si può che ordinarlo e catalogarlo.
I ‘nuovi filosofi’ invece tutto questo male non l’accettano e netto è il loro rifuto: essi
abbandonano la storia così come l’intendono le ideologie (nel loro linguaggio
immaginifico essi “si ritirano nel deserto” e ritirarsi nel deserto significa scindere il
pensiero dalla politica e dalla storia), proclamano il loro bisogno di purificarsi nella
morale, lontani dall’ideologia: ancora Clavel interpreta bene questo loro sentimento
(anche se da un punto di vista strettamente cristiano) quando afferma che Dio
trascendente è incompatibile con qualsiasi politica. “Clavel dice semplicemente che
se bisogna disperare di questo mondo, è su un altro mondo che si deve tentare di
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scommettere; che se sopra questo mondo regna dovunque il Principe, bisogna
scappare per sventare le sue astuzie; che se non è possibile altro che una rivoluzione
illusoria, allora bisogna puntare sull’impossibile per superare questa illusione.” (11)
Quanto detto finora costituisce il fondamento filosofico dei ‘nuovi filosofi’ e fu su
questo fondamento che negli anni Settanta essi condussero con grande energia e
decisione la loro battaglia contro il marxismo.
L’opposizione al marxismo
La ‘nuova filosofia’ all’atto pratico si risolse in uno scontro frontale col marxismo
che venne completamente rigettato in ogni suo aspetto e certamente non fu un caso
od una coincidenza se essa prese posizione e conobbe la sua brillante e fortunata,
seppur breve, parabola proprio nella seconda metà degli anni Settanta, quando in
Francia la marcia del P.C.F. e del P.S.F., uniti nel ‘programma comune’, appariva
ormai vincente ed in Italia il P.C.I. era prossimo all’area di governo.
Ridurre la ‘nuova filosofia’ a questa sua dimensione contingente sarebbe tuttavia una
seria incomprensione di essa perchè in realtà il suo radicale antimarxismo fu una
conseguenza della sua impostazione, figlia, continuatrice ed erede del Sessantotto
di cui intese proseguire la lotta per la liberazione (insomma, tempo che vai, ideologia
da combattere che trovi).
Vediamo allora di puntualizzare i capisaldi dell’antimarxismo dei ‘nuovi filosofi’.
Innanzitutto, secondo loro il marxismo, incarnando perfettamente i caratteri
dell’ideologia, non solo rappresentava la forma più compiuta della concezione
politica del mondo ma, soprattutto, era una concretissima ed attualissima tragedia
per mezza umanità ed una minaccia per l’altra metà.
Come si è ripetutamente detto, quella marxista è una rivoluzione ideologica, con la
quale si opera cioè il passaggio da un regime ad un altro, quindi con essa si è
semplicemente in presenza di un’ulteriore articolazione del Potere.
Glucksmann (soprattutto ne “La cuoca e il mangia-uomini”) illustra in modo molto
convincente questo punto mostrando come nell’U.R.S.S. non si era affermato un
regime qualitativamente diverso da quelli dell’Europa occidentale; che non c’era vera
alterità fra la nostra realtà e quella sovietica; e che l’U.R.S.S. con tutto il suo orrore ci
parlava anche del nostro.
In U.R.S.S. infatti si erano compiutamente sviluppate le politiche e le dinamiche
degli ultimi tre secoli della storia europea, di quella operazione plurisecolare per
rinchiudere, omogeneizzare e razionalizzare la società; per trasformarla da agricola in
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industriale; per assoggettare la forza-lavoro; per massacrare la plebe e per inserirla a
forza in strutture che le erano estranee, quelle dello Stato; e per imporre infine i suoi
bisogni ed i suoi meccanismi anche ben al di fuori dei suoi confini.
La logica del Dominio – lo Stato sempre più onnipotente – era sempre la stessa!
Pretendere che in Occidente ne fossimo immuni o ne fossimo usciti era falso e
ridicolo: capitalismo, imperialismo, colonialismo, razzismo, guerre sempre più
devastanti, ... erano tutti lì a mostrarci che esisteva un’ evidente linea di continuità
dell’U.R.S.S. con l’Europa degli ultimi tre secoli, anche se in U.R.S.S. i meccanismi
dell’universo concentrazionario erano sicuramente più sviluppati e le condizioni in
cui si esercitavano ben più tiranniche: “... la Russia sovietica ... colleziona tecniche
inventate da millenni per domare le plebi. Non ci rivela granchè di nuovo ma riunisce
quanto di peggio conoscevamo in materia di addestramento e di selezione.” (12)
Come dopo ogni rivoluzione ideologica! Come dopo ogni passaggio da uno stadio
all’altro del Potere! Come accade dopo ogni perfezionamento dello Stato, questa
incarnazione del Dominio nel regno ben ordinato della Storia!
In U.R.S.S. c’era comunque resistenza, sia quella senza voce della plebe, che per la
sua stessa natura non si inseriva – nè, data la sua natura, può mai inserirsi - nelle
maglie soffocanti della società razionale, meccanica e livellata (i ‘Prolet’ del 1984
orwelliano!), sia quella dei dissidenti, degli esuli, degli scampati al G.U.Lag., che ne
denunciavano ed attestavano l’esistenza, ma la cui voce non era ascoltata.
Il G.U.Lag. era la realtà dell’U.R.S.S. così come i bambini nelle fabbriche inglesi
lo erano stati del capitalismo ed i milioni di morti nei campi di sterminio lo furono
del Terzo Reich ... e via dicendo nella interminabile litania del Dominio
Un regime lo si conosce dalle sue vittime eppure, nonostante in Europa il sistema
repressivo sovietico fosse conosciuto fin troppo bene, nonostante le mille accuse e le
mille strazianti testimonianze, in Occidente si taceva sul G.U.Lag..
Il merito principale della ‘nuova filosofia’ consistette invece proprio nella denuncia
di questa cecità, nella condanna di questi silenzi ... nello smascheramento di questa
complicità.
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Lo scontro con gli intellettuali marxisti
Per la ‘nuova filosofia’ “il reale è pura oppressione, niente è reale se non i poteri”
(13) che loro chiamano anche il ‘Maestro’ “... e il Maestro regna anche su ... la
lingua, che gli permette di stabilire il suo dominio sul sapere.” (13)
“Nel sapere sta la maggior parte del potere” (14) non si stanca di sottolineare
Glucksmann e forse sarebbe meglio dire ‘nella pretesa di sapere’, ma in ogni caso
far accettare il Potere e lo Stato che è al vertice del suo ordine è essenziale al
Potere stesso che non può reggersi soltanto sulla violenza cieca.
Il dominio sui corpi si accompagna sempre a quello sulle anime, sulle menti, delle
persone: bisogna che queste vengano persuase che, nonostante tutto, si è e si rimane
comunque nel vero e nel giusto e che, in definitiva, vivono nel migliore dei mondi
possibili.
Glucksmann chiarì con l’abituale precisione che “Il nostro amore per le definizioni
sapientemente teoriche è direttamente proporzionale al nostro disprezzo per le
sofferenze della plebe russa e alla nostra voluta ignoranza della sua resistenza” (15).
Ecco allora che la cultura marxista, con la sua davvero insopportabile pretesa di
essere giunta alla verità definitiva, era essenziale all’U.R.S.S. (così come alla società
socialista prossima ventura nell’Europa occidentale).
Tutto disse – e dice? - pur di salvare la teoria marxista, il dogma infallibile
superiore a tutte le deviazioni, le imperfezioni, i casi deplorevoli, le applicazioni
mancate o mal eseguite - gli “errori”.
Quanti si affannarono a chiedersi (e si chiedono?) ‘e chi non sbaglia mai?’? Quanti
ragionevolmente affermarono (ed affermano?) che ’non bisogna buttare via il
bambino con l’acqua sporca!’? Non era questa la stessa posizione di chi sospirò, e
sospira, di fronte alle tragedie dello sfuttamento capitalistico (ma erano purtroppo
necessarie ed inevitabili!), a proposito della infinita violenza colonialistica (quanto
costa il progresso!), sui massacri delle guerre (ma per avere la pace!), sull’inferno del
genocidio (ma sono cose del passato!), ... ecc., ecc., ecc.?
Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire e l’Occidente non voleva sentire,
abbagliato, chiuso, accecato, dal marxismo e dai suoi numerosissimi intellettuali,
sempre pronti a portare il discorso altrove.
L’intellighenzia francese (e non solo lei!) passava sotto silenzio l’universo
concentrazionario! Quando pure doveva trattarne tentava di giustificarlo! Parlava di
‘errori’, certamente esecrabili, ma, insomma, non tali da inficiare la bontà di fondo
del sistema che li perpetrava! Discettava se gli scampati all’inferno concentrazionario
erano o no di sinistra, se la loro posizione politica era corretta! Faceva le pulci alla
situazione ed ai supposti interessi di chi denunciava l’orrore assoluto! O lo
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giustificava con motivazioni ‘storiche’, rifacendosi alle situazioni particolari in cui
era maturato, ... e via dicendo con questo mare di incredibili quanto vergognose
sciocchezze!!!
Questo dicevano allora gli intellettuali marxisti quando trattavano delle realizzazioni
delle ‘democrazie popolari’, del ‘socialismo reale’, ... ecc.ecc. ecc., e la ‘nuova
filosofia’ combattè con tutte le sue forze la follia, l’ipocrisia e la complicità di questa
massa di pensatori asserviti al padrone di turno.
Ancora Glucksmann riassunse ed espresse benissimo questa situazione quando
ricordò l’ amarissima affermazione di Foucault secondo cui “I filosofi antichi ci
hanno insegnato ad accettare la nostra morte; i filosofi del XIX secolo ci hanno
insegnato ad accettare la morte degli altri” (16)
Ecco allora che la battaglia per ristabilire la realtà dei fatti - e per smascherare la
cultura dei nuovi padroni e dei loro servi - era di fondamentale importanza, visto che
non tutti erano disposti a chiudere gli occhi (ed i cuori): come Glucksmann ricordava,
c’erano anche “quelli che non disperano di sentire una buona volta una risata
oceanica coprire questi dibattiti, saviamente condotti all’ombra delle forche” (17) ed
il maggior pregio della ‘nuova filosofia’ consistette proprio nella loro denuncia
dell’insensibilità e del silenzio – della complicità - del mondo intellettuale nei
confronti del marxismo realizzato (e da realizzare).
Era il solito Glucksmann che già l’anno precedente alla nascita della ‘nuova filosofia’
si era chiesto “Cosa ci ha reso così ciechi di fronte alle lacrime e al sangue che
bagnano il nostro presente?” (18)
Sulla strada dell’antimarxismo i ‘nuovi filosofi’ procedettero come uno schiacciasassi
e senza tanti complimenti sgombrarono il campo dalle mille sottigliezze, distinguo,
sfumature e quant’altro messo in campo pur di non vedere l’ovvio e l’evidente.
Quella dei ‘nuovi filosofi’ non era nemmeno una denuncia, bensì una constatazione:
il marxismo era uno ed il G.U.Lag. la sua applicazione; ne rivelava la natura in
modo così evidente e così lampante, che ignorarlo non era possibile e se ciò
avveniva, avveniva per accordo e complicità.
In Francia ed in Europa negli anni Settanta i marxisti dominavano la scena
intellettuale, guidavano sempre di più il pensiero e l’opinione pubblica e, secondo i
‘nuovi filosofi’, stavano avviando l’Europa sulla stessa strada dell’U.R.S.S. –
proprio come se il G.U.Lag. non avesse insegnato niente!!!
Ancora Glucksmann per tutti sfoga la sua amarezza ed incredulità di fronte a questa
assurdità: “Visti dalla Russia, e da chi è scampato ai campi di concentramento, dai
loro parenti, dagli ospiti attuali degli ospedali psichiatrici della polizia politica, dagli
ultimi esiliati in Siberia, noi dobbiamo sembrare dei cretini senza scampo” (19)
12
Il nuovo impegno
Da tutto quel che s’è detto finora potrebbe forse sembrare che i ‘nuovi filosofi’ siano
stati dei pessimisti senza rimedio che, distrutta ogni fiducia nel futuro, non poterono
far altro che disperarsi e fuggire da questo mondo così oppressivo e senza speranza
(insomma, che conclusero come Horkheimer ed Adorno nella “Dialettica
dell’illuminismo”).
Ritirarsi nel deserto e abbandonare ogni impegno potrebbe sembrare l’unica opzione
per loro possibile, invece non fu con un messaggio di remissività o di ritiro eremitico
nella metafisica che i ‘nuovi filosofi’chiusero il loro percorso.
In effetti essi non ebbero proposte da avanzare per risolvere i mali del mondo
(sarebbe stato ricadere nella logica della rivoluzione ideologica!) e ciò suscitò critiche
e condanne nei loro confronti: essi “collocandosi nella prospettiva della ‘philosophia
perennis’ si appostano sulle cime del loro Sapere Assoluto per rendere ragione ‘sub
specie aeternitatis’ della totalità delle problematiche storiche.” (20)
Quest’affermazione, nonostante volesse essere di scherno, rende correttamente
l’intenzione e la posizione dei ‘nuovi filosofi’ – il cui caso più esemplare in questo
senso fu “L’angelo” di Lardreau e Jambet – ma non la esaurisce.
E’ vero infatti che, arrivati alla filosofia, essi non procedettero oltre; è vero che
ritennero impossibile la liberazione; ma è anche vero che essi, nella nuova situazione
francese ed europea, vollero proseguire la loro ribellione iniziata nel Sessantotto –
e questa, nonostante l’apparenza, non fu una contraddizione.
Niente di questo mondo può cambiarne l’ordine – per sovvertirlo il punto d’appoggio
andrebbe cercato fuori di esso – ma ciò non significa offrire ai sottomessi, agli
oppressi, ai dominati ed ai reclusi, solo rassegnazione ed impotenza.
Questi figli e continuatori del Sessantotto proposero in realtà un impegno nuovo:
l’impegno di chi, attraverso una continua lotta per interrompere la barbarie del
Dominio e del Potere con tutte le loro abiezioni, denuncia il Male e smaschera le
menzogne che cercano di celarlo e/o di giustificarlo.
Non si possono eliminare il Male e la barbarie del Dominio e dell’onnipresenza
dell’ideologia che lo sostiene, ma si può – e si deve – opporre loro una resistenza
continua per smascherarli, limitarli, interromperli, disarticolarli, ridurli.
Il pensiero può e deve ribellarsi all’ideologia dominante ed al suo ordine soffocante;
può e deve rifiutarsi di cedere a qualsiasi ideologia.
Per comprendere ancora meglio la qualità della loro ribellione può essere utile
conoscere in che modo essi intesero ed apprezzarono Socrate e Nietzsche.
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Ancora Clavel parla per tutti loro quando chiarisce che “Socrate non è venuto a
portare alla Grecia un ‘logos’ in più, è venuto a interrompere il ‘logos’ dominante ...
è stato il padre dell’interruzione liberatrice della filosofia come ideologia e saperepotere dominante” (21)
Come Socrate anche i ‘nuovi filosofi’ rifiutavano il sapere del loro tempo, quel
sapere che coltivava l’illusione rivoluzionaria, e quando parlavano di ‘illusione
rivoluzionaria’ essi non pensavano che la rivoluzione fosse soltanto un sogno, ma,
ben diversamente, l’illusione per loro stava nella credenza che la rivoluzione avrebbe
portato libertà e liberazione mentre, in verità, una volta compiuta, essa avrebbe
asservito ancor più al potere (ed alla sua ideologia).
Secondo loro anche Nietzsche aveva scorto questi pericoli e, temendo che di
rivoluzione in rivoluzione il dominio sarebbe divenuto sempre più assoluto, aveva
passato la vita a guardare in faccia il pericolo della sottomissione a causa ed in
seguito alla rivoluzione senza fare nessuno sforzo per giustificarlo, abbellirlo o
renderlo in qualche modo accettabile.
E’ questa la ribellione alla concezione politica del mondo, l’irriducibile
anticonformismo di chi – come Socrate e Nietzsche – non ha ricette e soluzioni da
proporre (ricadrebbe nell’ideologia!) ma sa negare l’ordine esistente e la sua
impalcatura teorica.
Il Male può essere limitato, ridotto, rivelato – interrotto insomma. Dice
Glucksmann che “Non è quando desiderano fondare il paradiso in terra che gli
uomini riescono a mettersi d’accordo, ma quando vogliono evitare un inferno
comune.” (22) Così, per esempio, il rispetto dei diritti civili – in sè pure astrazioni
fuori della realtà – anche se non apre nessuna età felice può però frenare la guerra o i
suoi eccessi.
Dice ancora Glucksmann che “Noi non siamo dei “nuovi” filosofi, siamo soltanto
gente che ha preso coscienza di quello che ha dimostrato Sartre ai tempi della guerra
di Algeria, Chomsky contro la guerra in Vietnam, Solgenitsin contro il Gulag: ci
hanno insegnato che l’unico dovere di un intellettuale, se appena possiede un’oncia di
potere in materia di comunicazione, è di dire la verità su e contro tutto, mai di
mentire. Non mentire fa molto male alle istituzioni? E chi se ne importa!” (23) “... la
democrazia nasce e vive della possibilità di insorgere quotidianamente contro la legge
dei potenti” (24) “... il desiderio di non essere oppressi è puramente negativo” (25)
conclude Glucksmann, ma ci parla – eccome! - della realtà proprio negando validità
alla teoria che la mistifica: “gli avvenimenti hanno una loro realtà. La teoria deve
affrontare questa realtà, non giudicarla, ma lasciarsene spezzare:” (26)
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E’ questa una posizione da metafisici? Certamente! “Se la metafisica non è che una
speculazione su ciò che non ha corrispondente nel mondo fisico, allora tutti i ‘nuovi
filosofi’ sono dei metafisici” (27).
Conclusione
I ‘nuovi filosofi’ hanno esaurito presto il loro ruolo sulla scena culturale e filosofica
francese ed europea, ma Glucksmann e Lévy, i due pensatori di gran lunga più capaci
del gruppo, hanno continuato fino ad oggi (siamo nel 2010) a scrivere ed a
impegnarsi con determinazione contro la barbarie del totalitarismo e delle ideologie
che lo sostengono. Seppur volgendosi sempre più favorevolmente verso la civiltà
occidentale, che almeno lascia spazio alla parola ed all’opposizione, hanno però
saputo rimanere fedeli all’impegno ed all’atteggiamento della loro gioventù.
Tanto per fare qualche esempio, Glucksmann, schierandosi contro il pacifismo ed il
suo inaccettabile “meglio rossi che morti”, si pronunciò apertamente a favore degli
euromissili ed in seguito assunse una posizione molto dura contro il fondamentalismo
islamico algerino; Lévy affrontò anche lui il fondamentalismo islamico e –
inspiegabilmente – si è recentemente pronunciato contro l’estradizione in Italia di
Cesare Battisti (!).
Ma non è con osservazioni di questo tipo che qui si vuole concludere, bensì
ricordando che, se i ‘nuovi filosofi’ ripeterono sempre che il marxismo era uno e le
particolarità che assumeva nelle diverse situazioni erano semplici variazioni sul tema
che non ne alteravano la natura, ebbene questo doveva valere anche per il maoismo,
parte integrante del marxismo: i ‘nuovi filosofi’, quasi tutti maoisti nel Sessantotto,
aprirono poi gli occhi e riuscirono a considerarlo per quel che davvero era.
Anche in questo caso seppero insomma andare oltre la lettera della loro posizione
giovanile mantenendone però intatto lo spirito ribelle e contestatore - e questa è
veramente una bella lezione.
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Note
1) Francois Aubral e Xavier Delcourt: “Contro i ‘nuovi filosofi’“, Pamphlets
Mursia, Milano 1978, pagg. 241-242.
2) Ibid., pag. 173.
3) “eurent bien souvent vingt ans autour de ’68: qu’ils vinrent à la politique,
qu’ils en fussent ou n’en fussent pas, dans l’ombre de l’epopée mao.”
“Les nouvelles littéraires” n° 2536 , Paris 10.06.76, pag. 16.
4) ”Parce que sans l’image de la Chine ...”, ibid. pag. 15.
5) AA.VV.: “Tra il principe e le masse”, Cappelli editore, Bologna 1978, pag. 115.
6) André Glucksmann, intervista a “la Repubblica” del 19.06.1977.
7) Maurice Clavel, intervista a “la Repubblica” del 01.02.1978.
8) Levy riportato in Aubral e Dalcourt, op. cit. pag.59.
9) Maurice Clavel, intervista a “la Repubblica” del 01.02.1978.
10) “ce point commun d’étre d’abord philosophes, c’est à dire mètaphysiciens.
Tous renouent avec les plus antiques questions de la plus antique tradition.”
“Les nouvelles littéraires” cit. Pag. 15.
11) Aubral e Dalcourt, op. cit., pag.20.
12) Levy riportato in Aubral e Dalcourt, op. cit. Pag. 17.
13) A. Glucksmann: “La cuoca e il mangia-uomini”, ed. L’erba voglio, Milano 1977,
pagg.100-101.
14) Intervista di Glucksmann su “la Repubblica” del 19 giugno 1977.
15) A. Glucksmann: “La cuoca e il mangia-uomini”, op. cit., pag. 167.
16) Intervista di Glucksmann su “la Repubblica” del 29 luglio 1979.
17) Glucksmann: “La cuoca e il mangia-uomini”, op. cit., pag.69.
18) Ibid. pag. 9.
19) Aubral e Dalcourt, op. cit., pag. 62.
20) Nicola Abbagnano articolo su “Il giornale nuovo” del 23.06.1977 riportato
in “Tra il principe e le masse”, op. cit., pag. 44.
21) A. Glucksmann: “La cuoca e il mangia-uomini”, op.cit., pag. 35.
22) A. Glucksmann, intervista a “la Repubblica” del 02 dicembre 1983.
23) A. Glucksmann ne “Tra il Principe e le masse”, op. cit., pag. 127.
24) A. Glucksmann: “La cuoca e il mangia-uomini”, op. cit., pag 230.
25) A. Glucksmann in “Tra il Principe e le masse”, op. cit., pag. 171.
26) Aubral e Dalcourt, op. cit., pag. 125.
27) A. Glucksmann: “La cuoca e il mangia-uomini”, op. cit, pag. 231.
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