1 Lucio Gentilini LA “NUOVA FILOSOFIA” FRANCESE Premessa Il 10 giugno 1976 il ventisettenne Bernard-Henri Lévy mise a rumore l’ambiente culturale parigino e francese annunciando su un dossier di otto pagine, allegato al n° 2536 de “Les Nouvelles littéraires”, la nascita della corrente filosofica dei “Nouveaux philosophes”. L’operazione ebbe fortuna e i mass media si gettarono sulla schiera di questi giovani ‘nuovi filosofi’ che, subito balzati alla ribalta, presto varcarono con facilità ed irruenza i confini della Francia e si fecero sentire anche in Italia. Lévy sotto questa etichetta aveva unificato un gruppo di giovani pensatori (Philippe Némo, Guy Lardreau, Christian Jambet, Michel Guérin, Philippe Sollers, Paul Dollé e, soprattutto, André Glucksmann) e si era dimostrato estremamente capace di sfruttare i mezzi di comunicazione per diffondere e reclamizzare le opere dei suoi autori - in genere pubblicate dalla casa editrice Grasset della quale era redattore -, ma fu proprio questa sua abilità che gli attirò l’accusa secondo cui questa ‘nuova filosofia’ in definitiva era solo un’operazione di marketing. I suoi detrattori reputarono che i metodi con cui si pubblicizzano e si vendono prodotti e merci non possono essere adottati per affermare una filosofia: invece era successo proprio questo ed ebbero ragione Aubral e Dalcourt quando notarono che il battage pubblicitario era riuscito tanto bene che “All’estero i ‘nuovi filosofi’ hanno fatto parlare di sé molto prima che i loro libri fossero tradotti” (1) e che nonostante tanti ne parlassero “a cominciare dai giornalisti, pochi sono coloro che in Francia hanno letto i libri dei ‘nuovi filosofi’.” (1) Tuttavia, se tutto questo è sicuramente vero, non è però affatto vero che “Senza questo frastuono pubblicitario i ‘nuovi filosofi’ non sarebbero niente” (2): a parte il fatto che gli stessi sopracitati detrattori affermarono subito dopo che, comunque, i loro libri “per poterli giudicare occorre una solida cultura filosofica” (1), la proposta in essi contenuta merita invece di essere meditata e riflettuta ed è proprio ciò che cercherà di fare questo saggio. 2 L’esperienza del Sessantotto Nell’articolo di apertura del dossier sui ‘nuovi filosofi’ Lévy segnala che uno dei motivi che li accomunavano era che essi “al tempo del ’68 ebbero spesso una ventina d’anni; e che giunsero alla politica, sia che partecipassero che non, all’ombra dell’epopea maoista.” (3) A sottolineare ancor più quest’ultima affermazione, a fianco dello stesso articolo sulla prima pagina compare la fotografia, piuttosto grande, di un gruppo di cinesi, tutti nella tenuta in voga durante la Rivoluzione Culturale (pantaloni larghi, giubba e berretto con la stella rossa), con la didascalia che dice “Perchè senza l’immagine della Cina ...” (4): ma cosa significa ‘senza l’immagine della Cina’? Ebbene, per i ‘nuovi filosofi’ senza la Cina il Sessantotto non sarebbe stato il Sessantotto. Tutti i ‘nuovi filosofi’ furono segnati dagli eventi poi riassunti col nome di ‘Sessantotto’, che essi vissero intensamente e che per loro significò un vero e proprio battesimo culturale, politico e umano; e fra le innumerevoli anime di quell’epoca di contestazione (la parola più giusta per esprimerla), di quel groviglio di esperienze, di riflessioni, di lotte, di prese di coscienza e di infinite proteste, essi furono maoisti. Per i futuri ‘nuovi filosofi’ il Sessantotto, cui tanto intensamente aderirono, fu essenzialmente il tentativo di vivere nella dimensione della Rivoluzione Culturale cinese e di adattarla alla Francia ed all’Europa. Rivoluzione culturale, dunque, non ideologica: mentre infatti per loro una rivoluzione ideologica è in definitiva il passaggio da un’ideologia ad un’altra – e quindi da un dominio ad un altro – una rivoluzione culturale (come anche quella cristiana delle origini) vuole invece distruggere tutte le ideologie. Attraverso un’autentica ribellione una rivoluzione culturale vuole far cessare il potere dell’ideologia dominante (qualunque essa sia) senza sostituirla con nessun’altra. Un’ ideologia per loro è sapere-potere, pretesa di conoscere il mondo e, ipso facto, sottometterlo ed assoggettarlo: il sapere-potere domina infatti individuo e società (ecco il potere) in base alla sua visione del mondo (ecco il sapere). Contro il sapere-potere insorge la ribellione dell’individuo quando rifiuta che l’ideologia (qualsiasi ideologia) ordini e razionalizzi la società e la sua stessa vita soffocandolo nel suo abbraccio: se egli però, dopo aver combattuto e vinto l’ideologia dominante, la sostituisce con un’altra (cioè se fa una rivoluzione ideologica) non esce affatto dal circolo del dominio, anzi, passando da un sapere-potere ad un altro, lo approfondisce addirittura. 3 Ecco allora che – così come in Cina – secondo i futuri ‘nuovi filosofi’ anche in Francia (ed in Europa) nel Sessantotto si affrontarono due linee: una era quella della rivoluzione culturale (la ‘linea rossa’ in Cina) che voleva la liberazione della società e dell’individuo dal potere di ogni ideologia, cioè da ogni logica dell’inquadramento della società e dell’asservimento dell’individuo, mentre l’altra (la ‘linea nera’ in Cina) era quella della rivoluzione ideologica che voleva, sì, distruggere un saperepotere (quello borghese), ma per instaurarne subito un altro, quello marxista, passando semplicemente da un sistema di dominio ad un altro - oltretutto molto più oppressivo del precedente. I futuri ‘nuovi filosofi’ si impegnarono, o sperarono, nella prima linea, nella ribellione, nella rivoluzione culturale, nella liberazione continua ed ininterrotta, ma fu la seconda a prevalere. L’esperienza del fallimento Per i ‘nuovi filosofi’ il Sessantotto fu insomma tradito, fallì rischiando così di rafforzare ancor più quelle catene che pure era nato per spezzare: gli anni della loro giovinezza portano indelebile il segno della delusione e dell’errore e netto fu il loro rifiuto di tale esito. Guai però ad accostarli alla schiera dei conservatori e dei reazionari, di quelli che ancor oggi – a più di quarant’anni di distanza! – condannano quel periodo come dissacrazione distruttrice di serietà e valori e lo vivono (ancora!) come una minaccia sempre presente; guai a considerarli pecorelle che tornarono all’ovile del buon tempo andato, quando tutto andava così bene; guai a trattarli come se avessero mai sostenuto che la contestazione del Sessantotto fu fuori luogo, senza motivi; che fu un vero e proprio traviamento del pensiero e che, dati i guasti che avrebbe prodotto, non si sarebbe dovuta ripetere più sotto nessuna forma! La ‘nuova filosofia’compie infatti ben altra analisi del Sessantotto e se non la si comprende – avverte a chiare lettere Lévy – non si comprende nemmeno tutto il resto. Non era la conservazione che andava sostenuta nè fu la ribellione ad essere sbagliata: il problema fu che la rivoluzione del Sessantotto, anzichè culturale, finì per essere ideologica: “data da allora” dice Lévy “la marxistizzazione dell’insieme della vita francese e probabilmente non soltanto della Francia. La cosa ‘riuscita bene’ nel ’68 è che per la prima volta il partito socialista si è integralmente allineato al marxismo. ... il 99 per cento degli intellettuali, gli intellettuali degli apparati, delle case editrici, 4 ecc., si accalcano sulle tribune del programma comune [del P.S.F. e del P.C.F. – ndr]. ... E così oggi [agosto 1977 – ndr] la vecchia tentazione dell’intellettuale di lucidare gli stivali al principe si traduce nell’allineamento coi partiti marxisti, nuovi prìncipi.” (5) Ecco dunque la delusione dei ‘nuovi filosofi’, il fallimento di cui sentirono il morso: Glucksmann a proposito del Sessantotto affermò che “noi non eravamo di quelli che passavano da un principe ad un altro” (6), ma ciò non tolse che per loro la lotta per l’emancipazione senza soste dell’individuo attraverso un’incessante rivoluzione culturale venne troncata dal trionfo della nuova ideologia (il marxismo) che, dilagata per ogni dove, bloccò ogni istanza di vera liberazione col sottometterla alla sua logica ed al suo ordine. Si passò proprio da un principe ad un altro: il maggio ’68 venne completamente annullato dagli intellettuali che lo marxistizzarono e gli tolsero così ogni carica liberatrice. Ecco la disillusione dei ‘nuovi filosofi’: essi sentirono di aver involontariamente lavorato per il ‘principe’ marxista (di qui anche il loro risentimento) mentre avevano voluto lottare per tutt’altro: essi negavano valore al Sessantotto perchè era sfociato in esiti peggiori dei mali che aveva voluto curare, ma non rinnegarono affatto ciò che avevano sperato di raggiungere in quell’incredibile anno in cui sembrava che tutto potesse e dovesse accadere, anzi, essi continuarono a combattere la stessa battaglia. Essi continuarono a ribellarsi come avevano fatto nel Sessantotto e quindi trattarli come se avessero giudicato come sbagliata la loro lotta passata è dire l’esatto opposto di quel che in realtà fecero. Il Sessantotto continua Certamente, dal Sessantotto il nemico era cambiato, l’ideologia dominante che i ‘nuovi filosofi’ avevano combattuto allora non era più la stessa perchè ora essa era diventata il marxismo, ma, come allora, i ‘nuovi filosofi’ vollero combattere per la stessa causa, la liberazione, cioè la cessazione del potere dell’ideologia: essi continuarono a rimanere contro ogni ideologia in quanto tale perchè ognuna di esse annulla e sottomette al suo dominio l’individuo così come tutto ciò che le oppone resistenza. Nel Sessantotto il marxismo aveva lottato contro l’ideologia di allora (borghese) e fra gli intellettuali aveva vinto, ma così si rischiava paradossalmente un potere ancora più soffocante, quello della nuova ideologia (il marxismo stavolta): ecco perchè i ‘nuovi filosofi’ – dice ancora di loro il vecchio ‘zio’ Clavel – sono “Quei ragazzi, evidentemente portati alla filosofia, usciti per lo più dal maggio ’68, che adesso 5 contestano non solo le ideologie che già contestavano nel maggio ’68, ma anche le ideologie in nome delle quali contestavano nel maggio ’68. E’ stato un grande lavoro anti-ideologico.” (7) Anti-ideologica, ecco qual’è la ribellione dei ‘nuovi filosofi’ (e per questo, come per il fatto che giudicarono quella cristiana una autentica rivoluzione culturale, vennero chiamati anche ‘cristo-gauchisti’). Stabilitone allora il perchè, dobbiamo ora chiederci come e la loro lotta continuò e quali caratteristiche ebbe. La metafisica contro il totalitarismo Nella sua sopracitata presentazione dei ‘nuovi filosofi’ Lévy afferma che tutti loro hanno “questo dato comune, che sono anzitutto filosofi, cioè metafisici. Tutti si riallacciano ai problemi più antichi della più antica tradizione.” (8) Questo è un punto essenziale perchè l’indicazione di tornare ad occuparsi dei problemi classici della metafisica segna lo stacco irreparabile dalle ideologie politiche moderne – soprattutto dal marxismo – che, tutto al contrario, avevano voluto seppellire la filosofia sostituendo lei ed i suoi problemi (metafisici) con quella che essi definiscono la ‘concezione politica del mondo’. La concezione politica del mondo è la visione delle cose secondo la quale l’uomo sarebbe immerso soltanto nella storia e la sua esistenza si risolverebbe completamente nella pratica sociale e politica del tempo in cui vive e dal quale non può in alcun modo uscire: nulla esisterebbe sopra e fuori questo uomo storico, nè alcun Dio od alcun Essere troverebbe posto al di là ed al di fuori della storia; la trascendenza – cioè il riconoscimento che Qualcosa sfugge al divenire del tempo e che questo Qualcosa “è” – si risolverebbe in un patetico arcaismo; la pretesa che la ragione, quell’attività conoscitiva superiore che una volta si riteneva potesse mettere l’uomo in contatto con l’Essere o con Dio, svincolandolo così dalla prigionia del finito e del tempo, sarebbe un’astratta sciocchezza. L’unica ragione che esiste sarebbe la facoltà umana con la quale l’uomo organizza la sua vita nell’ambito della società nella quale conduce la sua esistenza. La filosofia diviene così semplice riflessione sull’agire umano ed inevitabilmente si trasforma in ideologia; la morale si identifica col comportamento politicamente corretto; il pensiero non trova più limiti e diviene unico ed onnicomprensivo, quindi totalitario. Nella storia poi vengono trovate e scoperte delle leggi che, visto che essa coincide col mondo - l’unica realtà -, assumono lo status di vere e proprie strutture ontologiche: 6 nasce così la scienza della storia ed essa non può che pretendere di essere la verità ultima: e questo sapere assoluto non può essere altro che una dottrina politica. L’uomo, padrone ed artefice del mondo, dopo aver tanto errato sulle chimeriche vie della metafisica, sarebbe così giunto (finalmente!) al sapere ultimo, ma per i ‘nuovi filosofi’ è proprio questa la radice del totalitarismo: credere che il mondo coincida con la storia interamente conoscibile. Nella concezione politica del mondo la ragione è sempre totalitaria: la copertina originale de “I padroni del pensiero” di Glucksmann (il testo qui giudicato il più rappresentativo della ‘nuova filosofia’) mostra un gruppo di guardie rosse sovietiche, o di SS, o di soldati, o di guardiani di un lager (non si capisce bene), che ascolta uno di loro che parla in piedi su un piedistallo: il messaggio – la filosofia come verità politica - non potrebbe essere più chiaro. L’abbandono della metafisica è in definitiva la causa ultima dell’éra del totalitarismo, della ‘barbarie moderna’. Tutte le ideologie moderne (soprattutto il marxismo) per Lévy trovano insomma il loro fondamento in questo concetto fondamentale: finita la trascendenza, abolito come inesistente il problema dell’Essere o di Dio, l’uomo perde completamente quel sentimento di precarietà, di mistero, di creaturalità, di limite, che fino a quel momento aveva avvolto la sua esistenza ed illuminato la sua riflessione; è finito il tempo della speculazione, della contemplazione, del bisogno e del desiderio di elevazione. La concezione politica del mondo rende l’uomo il padrone assoluto di tutto perchè nulla c’è al di sopra o al di fuori di lui ed è lui il signore della Terra e della storia (che è la sua storia): negata la trascendenza ed abbattuti Essere e Dio, l’uomo non poteva che mettersi al loro posto e diventare a sua volta onnisciente ed onnipotente. Inevitabilmente poi la concezione politica del mondo porta anche all’ottimismo in filosofia: come non vedere nella storia – dove l’uomo agisce da signore e padrone – un’evoluzione, un progresso, un’avanzata, continui? I totalitarismi che nascono e si moltiplicano nel Novecento sono dunque fondati su dottrine che parlano di felicità, di realizzazioni, di soluzione di problemi. Nell’ambito della concezione politica del mondo molteplici ideologie (capitalismo, razzismo, fascismo, nazionalismo, marxismo, nazismo, ecc.) si scontrano anche duramente fra loro, ma il problema della liberazione non si risolve sostituendone una con un’altra (mediante una rivoluzione ideologica) perchè ognuna di esse vuole dominare (e opprimere) in nome della sua verità che, abbiamo visto, ritiene assoluta. E’ questa la barbarie moderna di cui parlano tanto i ‘nuovi filosofi’ e l’unico modo di sfuggirle è sfuggire alla concezione politica del mondo, cioè tornare a considerare la realtà nella sua interezza, quel che fa la filosofia metafisica. 7 Per i ‘nuovi filosofi’ nella storia reali sono solo i poteri che opprimono ed ai quali non si sfugge finchè non si sfugge alla storia stessa e l’unica opposizione alla storia è la filosofia, cioè la metafisica. Finchè si rimane prigionieri della storia ogni tentativo per sfuggire alla logica del dominio e dell’oppressione risulta vano: bisogna quindi uscire dalla storia e l’unica che permette ciò è la filosofia metafisica. Ecco il punto di contatto fra i ‘nuovi filosofi’ e gli autentici cristiani, il rifiuto dell’uguaglianza mondo = storia, cioè della concezione politica del mondo. Aubral e Dalcourt, misconoscendo questo dato fondamentale, devono confessare la loro incomprensione della ‘nuova filosofia’ (che pure tanto offendono) ammettendo che per loro “L’alleanza dei ‘nuovi filosofi’ atei, ex maoisti, con un cristiano fanatico come Clavel ... risulta un enigma” (9), ma in un errore simile non cade certo un filosofo come Abbagnano: posto che l’uguaglianza mondo = storia lui la chiama ‘umanesimo’ e non ‘concezione politica del mondo’, egli vede bene che “all’umanesimo, che ha portato alle ideologie rivoluzionarie, le quali rendono più forte ed oppressivo il Potere, i giovani filosofi contrappongono, come unica via d’uscita, un appello alla Trascendenza, una ricerca diretta a vedere in essa almeno quel tanto che può far uscire gli uomini di oggi dalla barbarie senza speranza in cui si trovano.” (10) La filosofia, distrutta la Trascendenza, inevitabilmente era divenuta ideologia e, per combattere questa chiusura soffocante, era dunque necessario ristabilirla – in altri termini, non pretendere di sapere tutto ed essere padroni di tutto. La riscoperta della Trascendenza, di ciò che non potremo mai dominare e di fronte al quale non potremo che restare in un atteggiamento di riverenza, ci preserverà dal totalitarismo. Nella concezione politica del mondo non c’è spazio e possibilità per la morale perchè finchè si rimane al suo interno, impossibilitati per definizione ad uscire dalla storia, non si può che accettare tutto quello che è successo e che succede senza poterlo mai condannare o rifiutare: e così, posti di fronte a tutto l’orrore del Novecento, non si può che ordinarlo e catalogarlo. I ‘nuovi filosofi’ invece tutto questo male non l’accettano e netto è il loro rifuto: essi abbandonano la storia così come l’intendono le ideologie (nel loro linguaggio immaginifico essi “si ritirano nel deserto” e ritirarsi nel deserto significa scindere il pensiero dalla politica e dalla storia), proclamano il loro bisogno di purificarsi nella morale, lontani dall’ideologia: ancora Clavel interpreta bene questo loro sentimento (anche se da un punto di vista strettamente cristiano) quando afferma che Dio trascendente è incompatibile con qualsiasi politica. “Clavel dice semplicemente che se bisogna disperare di questo mondo, è su un altro mondo che si deve tentare di 8 scommettere; che se sopra questo mondo regna dovunque il Principe, bisogna scappare per sventare le sue astuzie; che se non è possibile altro che una rivoluzione illusoria, allora bisogna puntare sull’impossibile per superare questa illusione.” (11) Quanto detto finora costituisce il fondamento filosofico dei ‘nuovi filosofi’ e fu su questo fondamento che negli anni Settanta essi condussero con grande energia e decisione la loro battaglia contro il marxismo. L’opposizione al marxismo La ‘nuova filosofia’ all’atto pratico si risolse in uno scontro frontale col marxismo che venne completamente rigettato in ogni suo aspetto e certamente non fu un caso od una coincidenza se essa prese posizione e conobbe la sua brillante e fortunata, seppur breve, parabola proprio nella seconda metà degli anni Settanta, quando in Francia la marcia del P.C.F. e del P.S.F., uniti nel ‘programma comune’, appariva ormai vincente ed in Italia il P.C.I. era prossimo all’area di governo. Ridurre la ‘nuova filosofia’ a questa sua dimensione contingente sarebbe tuttavia una seria incomprensione di essa perchè in realtà il suo radicale antimarxismo fu una conseguenza della sua impostazione, figlia, continuatrice ed erede del Sessantotto di cui intese proseguire la lotta per la liberazione (insomma, tempo che vai, ideologia da combattere che trovi). Vediamo allora di puntualizzare i capisaldi dell’antimarxismo dei ‘nuovi filosofi’. Innanzitutto, secondo loro il marxismo, incarnando perfettamente i caratteri dell’ideologia, non solo rappresentava la forma più compiuta della concezione politica del mondo ma, soprattutto, era una concretissima ed attualissima tragedia per mezza umanità ed una minaccia per l’altra metà. Come si è ripetutamente detto, quella marxista è una rivoluzione ideologica, con la quale si opera cioè il passaggio da un regime ad un altro, quindi con essa si è semplicemente in presenza di un’ulteriore articolazione del Potere. Glucksmann (soprattutto ne “La cuoca e il mangia-uomini”) illustra in modo molto convincente questo punto mostrando come nell’U.R.S.S. non si era affermato un regime qualitativamente diverso da quelli dell’Europa occidentale; che non c’era vera alterità fra la nostra realtà e quella sovietica; e che l’U.R.S.S. con tutto il suo orrore ci parlava anche del nostro. In U.R.S.S. infatti si erano compiutamente sviluppate le politiche e le dinamiche degli ultimi tre secoli della storia europea, di quella operazione plurisecolare per rinchiudere, omogeneizzare e razionalizzare la società; per trasformarla da agricola in 9 industriale; per assoggettare la forza-lavoro; per massacrare la plebe e per inserirla a forza in strutture che le erano estranee, quelle dello Stato; e per imporre infine i suoi bisogni ed i suoi meccanismi anche ben al di fuori dei suoi confini. La logica del Dominio – lo Stato sempre più onnipotente – era sempre la stessa! Pretendere che in Occidente ne fossimo immuni o ne fossimo usciti era falso e ridicolo: capitalismo, imperialismo, colonialismo, razzismo, guerre sempre più devastanti, ... erano tutti lì a mostrarci che esisteva un’ evidente linea di continuità dell’U.R.S.S. con l’Europa degli ultimi tre secoli, anche se in U.R.S.S. i meccanismi dell’universo concentrazionario erano sicuramente più sviluppati e le condizioni in cui si esercitavano ben più tiranniche: “... la Russia sovietica ... colleziona tecniche inventate da millenni per domare le plebi. Non ci rivela granchè di nuovo ma riunisce quanto di peggio conoscevamo in materia di addestramento e di selezione.” (12) Come dopo ogni rivoluzione ideologica! Come dopo ogni passaggio da uno stadio all’altro del Potere! Come accade dopo ogni perfezionamento dello Stato, questa incarnazione del Dominio nel regno ben ordinato della Storia! In U.R.S.S. c’era comunque resistenza, sia quella senza voce della plebe, che per la sua stessa natura non si inseriva – nè, data la sua natura, può mai inserirsi - nelle maglie soffocanti della società razionale, meccanica e livellata (i ‘Prolet’ del 1984 orwelliano!), sia quella dei dissidenti, degli esuli, degli scampati al G.U.Lag., che ne denunciavano ed attestavano l’esistenza, ma la cui voce non era ascoltata. Il G.U.Lag. era la realtà dell’U.R.S.S. così come i bambini nelle fabbriche inglesi lo erano stati del capitalismo ed i milioni di morti nei campi di sterminio lo furono del Terzo Reich ... e via dicendo nella interminabile litania del Dominio Un regime lo si conosce dalle sue vittime eppure, nonostante in Europa il sistema repressivo sovietico fosse conosciuto fin troppo bene, nonostante le mille accuse e le mille strazianti testimonianze, in Occidente si taceva sul G.U.Lag.. Il merito principale della ‘nuova filosofia’ consistette invece proprio nella denuncia di questa cecità, nella condanna di questi silenzi ... nello smascheramento di questa complicità. 10 Lo scontro con gli intellettuali marxisti Per la ‘nuova filosofia’ “il reale è pura oppressione, niente è reale se non i poteri” (13) che loro chiamano anche il ‘Maestro’ “... e il Maestro regna anche su ... la lingua, che gli permette di stabilire il suo dominio sul sapere.” (13) “Nel sapere sta la maggior parte del potere” (14) non si stanca di sottolineare Glucksmann e forse sarebbe meglio dire ‘nella pretesa di sapere’, ma in ogni caso far accettare il Potere e lo Stato che è al vertice del suo ordine è essenziale al Potere stesso che non può reggersi soltanto sulla violenza cieca. Il dominio sui corpi si accompagna sempre a quello sulle anime, sulle menti, delle persone: bisogna che queste vengano persuase che, nonostante tutto, si è e si rimane comunque nel vero e nel giusto e che, in definitiva, vivono nel migliore dei mondi possibili. Glucksmann chiarì con l’abituale precisione che “Il nostro amore per le definizioni sapientemente teoriche è direttamente proporzionale al nostro disprezzo per le sofferenze della plebe russa e alla nostra voluta ignoranza della sua resistenza” (15). Ecco allora che la cultura marxista, con la sua davvero insopportabile pretesa di essere giunta alla verità definitiva, era essenziale all’U.R.S.S. (così come alla società socialista prossima ventura nell’Europa occidentale). Tutto disse – e dice? - pur di salvare la teoria marxista, il dogma infallibile superiore a tutte le deviazioni, le imperfezioni, i casi deplorevoli, le applicazioni mancate o mal eseguite - gli “errori”. Quanti si affannarono a chiedersi (e si chiedono?) ‘e chi non sbaglia mai?’? Quanti ragionevolmente affermarono (ed affermano?) che ’non bisogna buttare via il bambino con l’acqua sporca!’? Non era questa la stessa posizione di chi sospirò, e sospira, di fronte alle tragedie dello sfuttamento capitalistico (ma erano purtroppo necessarie ed inevitabili!), a proposito della infinita violenza colonialistica (quanto costa il progresso!), sui massacri delle guerre (ma per avere la pace!), sull’inferno del genocidio (ma sono cose del passato!), ... ecc., ecc., ecc.? Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire e l’Occidente non voleva sentire, abbagliato, chiuso, accecato, dal marxismo e dai suoi numerosissimi intellettuali, sempre pronti a portare il discorso altrove. L’intellighenzia francese (e non solo lei!) passava sotto silenzio l’universo concentrazionario! Quando pure doveva trattarne tentava di giustificarlo! Parlava di ‘errori’, certamente esecrabili, ma, insomma, non tali da inficiare la bontà di fondo del sistema che li perpetrava! Discettava se gli scampati all’inferno concentrazionario erano o no di sinistra, se la loro posizione politica era corretta! Faceva le pulci alla situazione ed ai supposti interessi di chi denunciava l’orrore assoluto! O lo 11 giustificava con motivazioni ‘storiche’, rifacendosi alle situazioni particolari in cui era maturato, ... e via dicendo con questo mare di incredibili quanto vergognose sciocchezze!!! Questo dicevano allora gli intellettuali marxisti quando trattavano delle realizzazioni delle ‘democrazie popolari’, del ‘socialismo reale’, ... ecc.ecc. ecc., e la ‘nuova filosofia’ combattè con tutte le sue forze la follia, l’ipocrisia e la complicità di questa massa di pensatori asserviti al padrone di turno. Ancora Glucksmann riassunse ed espresse benissimo questa situazione quando ricordò l’ amarissima affermazione di Foucault secondo cui “I filosofi antichi ci hanno insegnato ad accettare la nostra morte; i filosofi del XIX secolo ci hanno insegnato ad accettare la morte degli altri” (16) Ecco allora che la battaglia per ristabilire la realtà dei fatti - e per smascherare la cultura dei nuovi padroni e dei loro servi - era di fondamentale importanza, visto che non tutti erano disposti a chiudere gli occhi (ed i cuori): come Glucksmann ricordava, c’erano anche “quelli che non disperano di sentire una buona volta una risata oceanica coprire questi dibattiti, saviamente condotti all’ombra delle forche” (17) ed il maggior pregio della ‘nuova filosofia’ consistette proprio nella loro denuncia dell’insensibilità e del silenzio – della complicità - del mondo intellettuale nei confronti del marxismo realizzato (e da realizzare). Era il solito Glucksmann che già l’anno precedente alla nascita della ‘nuova filosofia’ si era chiesto “Cosa ci ha reso così ciechi di fronte alle lacrime e al sangue che bagnano il nostro presente?” (18) Sulla strada dell’antimarxismo i ‘nuovi filosofi’ procedettero come uno schiacciasassi e senza tanti complimenti sgombrarono il campo dalle mille sottigliezze, distinguo, sfumature e quant’altro messo in campo pur di non vedere l’ovvio e l’evidente. Quella dei ‘nuovi filosofi’ non era nemmeno una denuncia, bensì una constatazione: il marxismo era uno ed il G.U.Lag. la sua applicazione; ne rivelava la natura in modo così evidente e così lampante, che ignorarlo non era possibile e se ciò avveniva, avveniva per accordo e complicità. In Francia ed in Europa negli anni Settanta i marxisti dominavano la scena intellettuale, guidavano sempre di più il pensiero e l’opinione pubblica e, secondo i ‘nuovi filosofi’, stavano avviando l’Europa sulla stessa strada dell’U.R.S.S. – proprio come se il G.U.Lag. non avesse insegnato niente!!! Ancora Glucksmann per tutti sfoga la sua amarezza ed incredulità di fronte a questa assurdità: “Visti dalla Russia, e da chi è scampato ai campi di concentramento, dai loro parenti, dagli ospiti attuali degli ospedali psichiatrici della polizia politica, dagli ultimi esiliati in Siberia, noi dobbiamo sembrare dei cretini senza scampo” (19) 12 Il nuovo impegno Da tutto quel che s’è detto finora potrebbe forse sembrare che i ‘nuovi filosofi’ siano stati dei pessimisti senza rimedio che, distrutta ogni fiducia nel futuro, non poterono far altro che disperarsi e fuggire da questo mondo così oppressivo e senza speranza (insomma, che conclusero come Horkheimer ed Adorno nella “Dialettica dell’illuminismo”). Ritirarsi nel deserto e abbandonare ogni impegno potrebbe sembrare l’unica opzione per loro possibile, invece non fu con un messaggio di remissività o di ritiro eremitico nella metafisica che i ‘nuovi filosofi’chiusero il loro percorso. In effetti essi non ebbero proposte da avanzare per risolvere i mali del mondo (sarebbe stato ricadere nella logica della rivoluzione ideologica!) e ciò suscitò critiche e condanne nei loro confronti: essi “collocandosi nella prospettiva della ‘philosophia perennis’ si appostano sulle cime del loro Sapere Assoluto per rendere ragione ‘sub specie aeternitatis’ della totalità delle problematiche storiche.” (20) Quest’affermazione, nonostante volesse essere di scherno, rende correttamente l’intenzione e la posizione dei ‘nuovi filosofi’ – il cui caso più esemplare in questo senso fu “L’angelo” di Lardreau e Jambet – ma non la esaurisce. E’ vero infatti che, arrivati alla filosofia, essi non procedettero oltre; è vero che ritennero impossibile la liberazione; ma è anche vero che essi, nella nuova situazione francese ed europea, vollero proseguire la loro ribellione iniziata nel Sessantotto – e questa, nonostante l’apparenza, non fu una contraddizione. Niente di questo mondo può cambiarne l’ordine – per sovvertirlo il punto d’appoggio andrebbe cercato fuori di esso – ma ciò non significa offrire ai sottomessi, agli oppressi, ai dominati ed ai reclusi, solo rassegnazione ed impotenza. Questi figli e continuatori del Sessantotto proposero in realtà un impegno nuovo: l’impegno di chi, attraverso una continua lotta per interrompere la barbarie del Dominio e del Potere con tutte le loro abiezioni, denuncia il Male e smaschera le menzogne che cercano di celarlo e/o di giustificarlo. Non si possono eliminare il Male e la barbarie del Dominio e dell’onnipresenza dell’ideologia che lo sostiene, ma si può – e si deve – opporre loro una resistenza continua per smascherarli, limitarli, interromperli, disarticolarli, ridurli. Il pensiero può e deve ribellarsi all’ideologia dominante ed al suo ordine soffocante; può e deve rifiutarsi di cedere a qualsiasi ideologia. Per comprendere ancora meglio la qualità della loro ribellione può essere utile conoscere in che modo essi intesero ed apprezzarono Socrate e Nietzsche. 13 Ancora Clavel parla per tutti loro quando chiarisce che “Socrate non è venuto a portare alla Grecia un ‘logos’ in più, è venuto a interrompere il ‘logos’ dominante ... è stato il padre dell’interruzione liberatrice della filosofia come ideologia e saperepotere dominante” (21) Come Socrate anche i ‘nuovi filosofi’ rifiutavano il sapere del loro tempo, quel sapere che coltivava l’illusione rivoluzionaria, e quando parlavano di ‘illusione rivoluzionaria’ essi non pensavano che la rivoluzione fosse soltanto un sogno, ma, ben diversamente, l’illusione per loro stava nella credenza che la rivoluzione avrebbe portato libertà e liberazione mentre, in verità, una volta compiuta, essa avrebbe asservito ancor più al potere (ed alla sua ideologia). Secondo loro anche Nietzsche aveva scorto questi pericoli e, temendo che di rivoluzione in rivoluzione il dominio sarebbe divenuto sempre più assoluto, aveva passato la vita a guardare in faccia il pericolo della sottomissione a causa ed in seguito alla rivoluzione senza fare nessuno sforzo per giustificarlo, abbellirlo o renderlo in qualche modo accettabile. E’ questa la ribellione alla concezione politica del mondo, l’irriducibile anticonformismo di chi – come Socrate e Nietzsche – non ha ricette e soluzioni da proporre (ricadrebbe nell’ideologia!) ma sa negare l’ordine esistente e la sua impalcatura teorica. Il Male può essere limitato, ridotto, rivelato – interrotto insomma. Dice Glucksmann che “Non è quando desiderano fondare il paradiso in terra che gli uomini riescono a mettersi d’accordo, ma quando vogliono evitare un inferno comune.” (22) Così, per esempio, il rispetto dei diritti civili – in sè pure astrazioni fuori della realtà – anche se non apre nessuna età felice può però frenare la guerra o i suoi eccessi. Dice ancora Glucksmann che “Noi non siamo dei “nuovi” filosofi, siamo soltanto gente che ha preso coscienza di quello che ha dimostrato Sartre ai tempi della guerra di Algeria, Chomsky contro la guerra in Vietnam, Solgenitsin contro il Gulag: ci hanno insegnato che l’unico dovere di un intellettuale, se appena possiede un’oncia di potere in materia di comunicazione, è di dire la verità su e contro tutto, mai di mentire. Non mentire fa molto male alle istituzioni? E chi se ne importa!” (23) “... la democrazia nasce e vive della possibilità di insorgere quotidianamente contro la legge dei potenti” (24) “... il desiderio di non essere oppressi è puramente negativo” (25) conclude Glucksmann, ma ci parla – eccome! - della realtà proprio negando validità alla teoria che la mistifica: “gli avvenimenti hanno una loro realtà. La teoria deve affrontare questa realtà, non giudicarla, ma lasciarsene spezzare:” (26) 14 E’ questa una posizione da metafisici? Certamente! “Se la metafisica non è che una speculazione su ciò che non ha corrispondente nel mondo fisico, allora tutti i ‘nuovi filosofi’ sono dei metafisici” (27). Conclusione I ‘nuovi filosofi’ hanno esaurito presto il loro ruolo sulla scena culturale e filosofica francese ed europea, ma Glucksmann e Lévy, i due pensatori di gran lunga più capaci del gruppo, hanno continuato fino ad oggi (siamo nel 2010) a scrivere ed a impegnarsi con determinazione contro la barbarie del totalitarismo e delle ideologie che lo sostengono. Seppur volgendosi sempre più favorevolmente verso la civiltà occidentale, che almeno lascia spazio alla parola ed all’opposizione, hanno però saputo rimanere fedeli all’impegno ed all’atteggiamento della loro gioventù. Tanto per fare qualche esempio, Glucksmann, schierandosi contro il pacifismo ed il suo inaccettabile “meglio rossi che morti”, si pronunciò apertamente a favore degli euromissili ed in seguito assunse una posizione molto dura contro il fondamentalismo islamico algerino; Lévy affrontò anche lui il fondamentalismo islamico e – inspiegabilmente – si è recentemente pronunciato contro l’estradizione in Italia di Cesare Battisti (!). Ma non è con osservazioni di questo tipo che qui si vuole concludere, bensì ricordando che, se i ‘nuovi filosofi’ ripeterono sempre che il marxismo era uno e le particolarità che assumeva nelle diverse situazioni erano semplici variazioni sul tema che non ne alteravano la natura, ebbene questo doveva valere anche per il maoismo, parte integrante del marxismo: i ‘nuovi filosofi’, quasi tutti maoisti nel Sessantotto, aprirono poi gli occhi e riuscirono a considerarlo per quel che davvero era. Anche in questo caso seppero insomma andare oltre la lettera della loro posizione giovanile mantenendone però intatto lo spirito ribelle e contestatore - e questa è veramente una bella lezione. 15 Note 1) Francois Aubral e Xavier Delcourt: “Contro i ‘nuovi filosofi’“, Pamphlets Mursia, Milano 1978, pagg. 241-242. 2) Ibid., pag. 173. 3) “eurent bien souvent vingt ans autour de ’68: qu’ils vinrent à la politique, qu’ils en fussent ou n’en fussent pas, dans l’ombre de l’epopée mao.” “Les nouvelles littéraires” n° 2536 , Paris 10.06.76, pag. 16. 4) ”Parce que sans l’image de la Chine ...”, ibid. pag. 15. 5) AA.VV.: “Tra il principe e le masse”, Cappelli editore, Bologna 1978, pag. 115. 6) André Glucksmann, intervista a “la Repubblica” del 19.06.1977. 7) Maurice Clavel, intervista a “la Repubblica” del 01.02.1978. 8) Levy riportato in Aubral e Dalcourt, op. cit. pag.59. 9) Maurice Clavel, intervista a “la Repubblica” del 01.02.1978. 10) “ce point commun d’étre d’abord philosophes, c’est à dire mètaphysiciens. Tous renouent avec les plus antiques questions de la plus antique tradition.” “Les nouvelles littéraires” cit. Pag. 15. 11) Aubral e Dalcourt, op. cit., pag.20. 12) Levy riportato in Aubral e Dalcourt, op. cit. Pag. 17. 13) A. Glucksmann: “La cuoca e il mangia-uomini”, ed. L’erba voglio, Milano 1977, pagg.100-101. 14) Intervista di Glucksmann su “la Repubblica” del 19 giugno 1977. 15) A. Glucksmann: “La cuoca e il mangia-uomini”, op. cit., pag. 167. 16) Intervista di Glucksmann su “la Repubblica” del 29 luglio 1979. 17) Glucksmann: “La cuoca e il mangia-uomini”, op. cit., pag.69. 18) Ibid. pag. 9. 19) Aubral e Dalcourt, op. cit., pag. 62. 20) Nicola Abbagnano articolo su “Il giornale nuovo” del 23.06.1977 riportato in “Tra il principe e le masse”, op. cit., pag. 44. 21) A. Glucksmann: “La cuoca e il mangia-uomini”, op.cit., pag. 35. 22) A. Glucksmann, intervista a “la Repubblica” del 02 dicembre 1983. 23) A. Glucksmann ne “Tra il Principe e le masse”, op. cit., pag. 127. 24) A. Glucksmann: “La cuoca e il mangia-uomini”, op. cit., pag 230. 25) A. Glucksmann in “Tra il Principe e le masse”, op. cit., pag. 171. 26) Aubral e Dalcourt, op. cit., pag. 125. 27) A. Glucksmann: “La cuoca e il mangia-uomini”, op. cit, pag. 231.