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editoriale*
La parola e l’ascolto
C’è un tema che attraversa, non senza drammi laceranti e strappi dolorosi,
tutta la storia del cristianesimo (e anche di altre religioni seppure con modalità
differenti): il rapporto tra fede e ragione. La modernità sembra avere esasperato in qualche misura tale confronto ponendo questi due dati dell’esperienza
umana come irriducibilmente antitetici e, dunque, luogo di non sempre pacifici schieramenti.
In realtà, già Tertulliano (160-230 d.C.) si poneva la famosa domanda (retorica, essendo la risposta implicita per l’apologeta cartaginese): «Che cosa
hanno in comune Atene e Gerusalemme?». Così scriveva: «Che c’è dunque di
comune tra Atene e Gerusalemme? Che di comune all’Accademia e alla Chiesa? Che di comune agli eretici e ai cristiani? Il nostro ammaestramento viene
dal Portico di Salomone...1 Occorre cercare il Signore con la semplicità del cuore».2
Nulla dunque in comune, per Tertulliano, assolutamente nulla, tra Atene e
Gerusalemme, fra la cultura della ragione e della libera investigazione e la cultura della fede, fra la razionalità (intesa in senso moderno) e la gnosis, quella conoscenza intima, cioè, centrata sulla rivelazione personale. Credo non quod,
sed quia absurdum est (Credo non ciò che è assurdo ma perché è assurdo), come d’altronde ribadirà, due secoli più tardi, Agostino d’Ippona (354-430 d.C.).
E la Sacra Scrittura sembrerebbe avallare questa tesi. Dio non si giustifica mai,
non fornisce prove ed argomentazioni, non presenta la sua verità secondo un
modello metafisico, non esiste per lui la forma dimostrativa, così cara ad Aristotele, la verità è «rivelata», non «giustificata».
Lo stesso San Paolo, che pure si cimentò (invero con non molto successo...)
nell’esame non facile, soprattutto per un Ebreo, dell’Areopago di Atene, ribadisce: «Nessuno si illuda. Se qualcuno tra voi si crede un sapiente in questo
mondo, si faccia stolto per diventare sapiente, perché la sapienza di questo
mondo è stoltezza davanti a Dio» (1 Cor 3,18-19); la giustificazione si ottiene
* Di Luigi Ghia, della redazione di Famiglia Domani.
1
Attorno al tempio di Gerusalemme, Erode fece costruire un portico al quale venne dato il nome del famoso re d’Israele: anche Gesù vi passeggiava, insegnando e guarendo.
2
TERTULLIANO, «O misero Aristotele», De praescriptione haereticorum, cap. 2.
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solo per mezzo della fede in Gesù: «Noi... sapendo tuttavia che l’uomo non è
giustificato per le opere della Legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù
Cristo, abbiamo creduto anche noi in Cristo Gesù per essere giustificati per la
fede in Cristo e non per le opere della Legge; poiché per le opere della Legge
non verrà mai giustificato nessuno» (Gal 2,15-16). Sì, la fede per Paolo basta
a se stessa; non le servono, a sostenerla, argomenti razionali; essa, dirà l’autore della Lettera agli Ebrei, «è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che
non si vede» (Eb 11,1). Ciò che mi fa cristiano non è quanto faccio io, ma sono
le meraviglie che Dio ha compiuto e compie in me attraverso Gesù. Non è facendo le cose giuste che divento giusto, ma se io sono giusto farò le cose giuste... Parole forti in un tempo, come il nostro, in cui si tende a ridurre il cristianesimo a morale.
Atene e Gerusalemme... Mondi irriducibili, dunque? Alcuni teologi sono
saldamente orientati su questa tesi, fra tutti Karl Barth il quale, ad esempio, afferma senza mezzi termini che «la possibilità dell’uno era l’impossibilità dell’altro, il non essere del primo mondo era l’essere del secondo, precisamente come il secondo aveva la sua ragion d’essere nel non essere del primo...».
E non è un gioco di parole... Eppure, si tratta davvero di una irriducibilità totale? Il «cavaliere della fede» di Kierkegaard, Abramo, disposto addirittura ad
immolare il proprio figlio su ordine di un Dio del quale non comprende le ragioni, è davvero incompatibile con l’uomo della modernità che, con G.E. Lessing, si dichiara disposto a rinunciare alla verità, che pure Dio sarebbe disposto
ad offrirgli, a condizione di poter andare errando alla perenne ricerca di essa?
* * *
Forse quella strana donna di Samaria, che non finisce mai di stupirci e che
nell’Evangelo di Giovanni assume una statura davvero straordinaria, può aiutarci se non a dare una risposta, almeno a trovare un varco angusto per addentrarci in questo percorso così arduo. «Abbiamo udito...». Che cosa? Una parola.
Giovanni è davvero audace quando nel prologo del quarto Evangelo collega ed identifica il Logos, cioè la Parola, con il Cristo. Pur essendo il più «greco» degli evangelisti, non gli doveva essere ignota la diffidenza dei suoi contemporanei delle comunità cristiane nei confronti del pensiero classico. Ma la
«parola», il logos giovanneo, è davvero lo stesso logos dei filosofi greci, di
Eraclito in particolare? Non è la stessa parola, se la parola dei filosofi greci
conteneva in sé un germe di violenza che si è poi sviluppata in tutta la cultura
fino ai nostri giorni,3 mentre il logos giovanneo è estraneo alla violenza, ad
ogni violenza (così radicata in tanta cultura umana); è un logos, una parola, an3
Per approfondire questo tema si veda: R. GIRARD, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Adelphi, Milano 1983, in particolare alle pp. 328-348.
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EDITORIALE
zi, che i discorsi dei «sapienti» proprio nel senso esplicitato da Paolo continuano ad espellere, una parola che rivela la violenza dei nostri modelli culturali
facendosi espellere da essi, e che dunque rende sempre incompatibile la violenza con la pace. «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio... La luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta... Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Era nel mondo e
il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto...» (Gv 1,1-11).
Grazie a quella donna (della quale non conosciamo neppure il nome) che
parla del suo incontro con Gesù, metafora del suo incontro con un Dio completamente diverso da quello adorato dai suoi padri, un Dio in cui non c’è violenza, che la accoglie com’è e non come vorrebbe che fosse, viene suscitato in
una comunità di espulsi il desiderio di incontrare il Messia. Non c’è fede senza desiderio. La fede e l’amore non sono disgiungibili... «E ora crediamo, perché lo abbiamo udito...». Potenza della parola. I samaritani credono non «nonostante lei», ma «a motivo di lei». Da donna espulsa a donna autorevole.
Questi sono i miracoli della parola non violenta dell’Evangelo. Del Dio non
violento che non si impone mai, del Dio misericordioso, il cui cuore umile e povero è così diverso dal nostro, del Dio la cui verità va ricercata umilmente, non
imposta (e quante volte lo è anche con le armi non metaforiche!). Ed è un miracolo che può e deve attraversare le povere storie delle nostre famiglie.
* * *
«...Chiudete gli occhi per un attimo e guardate il mondo non in orizzontale
o in verticale, non in bianco o in nero, non dividendolo tra “buoni” e “cattivi”... è troppo facile, questo lo sanno far tutti... Guardatelo per un attimo in trasversale...». Così scriveva, alla fine del 2004, Manuela Dviri Vitali Norsa, una
commediografa italo-israeliana, scrittrice e giornalista, che dopo la morte del figlio minore Jori, avvenuta in combattimento ai confini del Libano nel 1998, si
è dedicata interamente alla ricerca del dialogo tra Palestinesi e Israeliani e autrice della favola «Abir, la bambina che ascoltava con gli occhi».4 Uno sguardo in trasversale, un ascolto con gli occhi desideranti – privo di ogni violenza
e di ogni tentativo di colonizzazione culturale e religiosa –, è quello che ha generato il dialogo e l’ascolto tra una donna di Samaria, i suoi concittadini e Gesù. Può essere anche l’occasione per l’incontro, non formale e non strumentalizzabile, tra Atene e Gerusalemme.
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MANUELA DVIRI, La bambina che ascoltava con gli occhi, pubblicazione a cura del Comitato Amici
Centro Peres per la Pace, Progetto Saving Children, Cooperativa Sociale Impressioni Grafiche, Acqui Terme (AL).
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