I test neurocomportamentali in medicina del lavoro

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G Ital Med Lav Erg 2004; 26:3, 1-30
www.gimle.fsm.it
© PI-ME, Pavia 2004
Elisa Albini, Laura Benedetti
I test neurocomportamentali in medicina del lavoro: fra diagnostica
e prevenzione
Relazione presentata al meeting interno della Scuola di Specializzazione in Medicina del Lavoro dell’Università
degli Studi di Brescia del 13/02/03
Scuola di Specializzazione in Medicina del Lavoro, Università degli Studi di Brescia
INDICE
Introduzione.......................................................................2
1. Cenni storici.................................................................3
2. Organo bersaglio, effetto critico, effetto avverso ........4
3. Effetti dei neurotossici................................................5
4. Metodi dell’indagine neurotossicologica.....................7
Es.: questionari utilizzati in caso di esposizione
a solventi......................................................................7
5. Il comportamento.........................................................8
6. Tono dell’umore e performance ..................................8
7. Indicatori di performance ..........................................10
8. I test neurocomportamentali ......................................11
8.1 Sviluppo dei test ................................................11
8.2 Caratteristiche dei test........................................11
8.3 Batteria di test ....................................................11
8.4 Vantaggi e svantaggi delle batterie
computerizzate ...................................................12
9. Uso dei test neurocomportamentali: premesse..........13
10. Possibili contesti applicativi ......................................13
10.1 Indagine sperimentale con volontari .................13
10.2 Studio semi - sperimentale sui lavoratori
esposti ................................................................14
10.3 Studi epidemiologici su lavoratori esposti ........14
10.3.1 Esempio: funzioni neurocomportamentali
in personale di sala operatoria esposto
a gas anestetici........................................15
10.3.2 Esempio: studi epidemiologici sugli
effetti a basse dosi dello stirene .............16
10.4 Studi di follow-up ..............................................18
10.4.1 Esempio: studio della reversibilità
degli effetti neurocomportamentali
dovuti all’esposizione occupazionale
a manganese ...........................................18
10.5 Diagnostica clinica.............................................19
10.5.1 Esempio: diagnosi di encefalopatia
cronica da solventi (SRCE) .......................20
10.6 Sorveglianza sanitaria ........................................20
10.6.1 Esempio: il Neutest.................................20
10.6.2 Utilità dei test nella sorveglianza
sanitaria (S. Guirguis).............................21
10.7 Idoneità lavorativa .............................................22
10.7.1 Esempio: il lavoratore affetto
da depressione. .......................................23
10.8 Definizione dei valori limite..............................24
10.8.1 Significato dei test neurocomportamentali
per la definizione dei valori limite
d’esposizione occupazionale l’esempio svedese...................................25
11. Aspetti critici .............................................................26
11.1 Differenze interculturali.....................................26
11.2 Modalità di somministrazione dei test...............26
11.3 Necessità di modelli teorici ...............................27
11.4 Problemi economici/informatici ........................28
Conclusioni......................................................................29
Ringraziamenti ................................................................29
Bibliografia......................................................................29
2
Introduzione
I test neurocomportamentali, derivano da due approcci
psicologici diversi: i test neuropsicologici tradizionali,
utilizzati per la diagnosi di disfunzioni cerebrali, e la psicologia sperimentale cognitiva, che studia i normali processi cognitivi e di apprendimento (Fiedler 1996). Una
breve disanima dei progenitori degli strumenti attualmente utilizzati nella valutazione degli effetti conseguenti ad
esposizioni a sostanze neurotossiche può facilitare la comprensione delle loro caratteristiche e delle diverse possibilità di utilizzo.
Un test psicologico, secondo le attuali definizioni
(Anastasi, 2002), “consiste essenzialmente in una misurazione obiettiva e standardizzata di un campione di comportamento”.
Gli psicologi sperimentali del XIX secolo non erano
tanto interessati alla misurazione delle differenze individuali (una delle funzioni principali attualmente attribuite ai
test psicologici), quanto alla descrizione generale del comportamento umano. I problemi studiati nei loro laboratori
(es. a Lipsia, nel laboratorio di Wundt) erano soprattutto
connessi con la sensibilità agli stimoli visivi, uditivi e altri
stimoli sensoriali, e con i tempi di reazione semplici. Questo rilievo dato ai fenomeni sensoriali si riflesse sulla natura dei primi test psicologici.
È interessante notare come già a quest’epoca siano presenti alcune delle tematiche che si ritroveranno poi nei metodi neurocomportamentali, dai tempi di reazione, fra i test più diffusi in assoluto, ai test neurofisiologici, verso i
quali sono maggiormente concentrate le risorse della ricerca in quest’ultimo periodo.
Già i primi esperimenti psicologici misero in evidenza
la necessità di controllare in modo rigoroso le condizioni
nelle quali venivano compiute le osservazioni, e di ricorrere per tutti i soggetti a condizioni standardizzate.
Se i primi psicologi sperimentali (Galton, Catell, Kraepelin, etc) ritenevano possibile misurare le funzioni intellettuali per mezzo di test di discriminazione sensoriale
(forza muscolare, velocità di movimento, sensibilità al dolore, acuità visiva e uditiva, etc.) e dei tempi di reazione,
altri, primo fra tutti Binet, cercarono di realizzare strumenti per la misura dell’intelligenza, tramite la misurazione diretta di funzioni intellettuali complesse: nel 1905
comparve la prima scala Binet-Simon. Negli anni successivi venne pubblicata un’altra scala per la misurazione dell’intelligenza, la Wechsler-Bellevue Intelligence Scale
(1939), a partire dalla quale venne poi sviluppata l’attuale
WAIS-Wechsler Adult Intelligence Scale, suddivisa in una
scala di performance e una verbale. La WAIS e molti dei
suoi test sono tuttora ampiamente utilizzati da psicologi,
neupsicologi e all’interno di batterie di test neurocomportamentali.
Un altro campo di applicazione dei test psicologici riguarda gli aspetti emotivi del comportamento, attraverso
valutazioni della personalità. Kraepelin, nel 1892, valutò
gli effetti psicologici della stanchezza, della fame e della
assunzione di stupefacenti attraverso uno dei primi test di
personalità, il “test di libere associazioni”. Possiamo rav-
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visare in questi primi esperimenti un interesse verso la misurazione di quanto caratteristiche del mondo esterno
(“ambiente”) siano in grado di provocare effetti nei soggetti “esposti”.
L’altro “progenitore” degli attuali test neurocomportamentali va identificato con la neuropsicologia.
Anch’essa parte da una definizione di comportamento,
quella formulata da Cartesio, che riconosceva due livelli
fondamentali del sistema nervoso, uno inferiore e uno superiore: la neuropsicologia è quella disciplina che studia
con mezzi sperimentali i processi che nello schema cartesiano (fig. 1) appartengono al livello mentale (Danes e Pizzamiglio, 1996)
Una prima evoluzione della disciplina neuropsicologica
(fine ‘800-inizi ‘900) terminò nella formulazione di teorie
comportamentiste, partite dagli studi di Broca, Wernicke e
rafforzate dagli esperimenti russi di Pavlov (1927) e americani di Thorndike (1932) e Watson (1914). Secondo tali
modelli il cervello risultava organizzato secondo una precisa corrispondenza fra aree cerebrali e funzioni sottese, il
compito del neuropsicologo non era più quello di spiegare
le funzioni mentali, la cui esistenza veniva negata, ma consisteva nel localizzare le aree in cui avvenivano le associazioni responsabili dei vari comportamenti. Nel dopoguerra
si riapre il problema mente-cervello, negli anni Settanta del
secolo scorso la neuropsicologia si evolve da comportamentista a cognitivista: da un problema di localizzazione
neurologica si passa ad un problema che concerne l’attenzione, la rappresentazione mentale ed i rapporti che questi
termini “mentalistici” hanno con l’organizzazione neurofisiologica cerebrale. In Italia, a causa del clima storico-culturale neoidealista che riteneva la psicologia una pseudoscienza, l’area delle funzioni cognitive divenne appannagio
dei neurologi, che allora si occupavano dello studio della
malattia mentale e nervosa. In altri paesi, quali ad esempio
l’Inghilterra, la presenza di forte tradizione di psicologia
sperimentale fece sì che fossero gli psicologi, più che i neurologi, ad interessarsi a tali argomenti, e qui si sviluppò
l’approccio cognitivista alla disciplina, che sosteneva la necessità di costruire modelli teorici per spiegare il normale
funzionamento della mente umana.
Figura 1. Rappresentazione della concezione cartesiana del
sistema nervoso centrale (tratta da G. Denes e L. Pizzamiglio
Manuale di neuropsicologia - Normalità e patologia dei processi cognitivi, Zanichelli ed. 1996)
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Gli strumenti utilizzati per l’assessment neuropsicologico prevedono la somministrazione di stimoli e la misurazione della prestazione del soggetto nei compiti assegnati, valutando l’accuratezza delle risposte (n° risposte corrette/errori) e/o i tempi di reazione.
Uno degli obiettivi che tali misurazioni si pongono è
la discriminazione fra soggetto sano e soggetto malato,
per tale motivo ogni test neuropsicologico pubblicato contiene i valori normativi, costruiti su popolazioni di riferimento, generalmente corretti rispetto ai fattori età, scolarizzazione, sesso.
I test neuropsicologici tradizionali vennero utilizzati
anche per le prime valutazioni effettuate su lavoratori
esposti a neurotossici negli anni ’60 del secolo scorso
(Hanninen, 1966). I primi studi neurotossicologici presero
in esame soggetti affetti da intossicazioni clinicamente
conclamate (encefalopatie tossiche), nei quali risultava
“naturale” applicare quei test che la neuropsicologia tradizionale aveva sviluppato e validato per la diagnostica clinica dei danni cerebrali. Da subito però si realizzò una distinzione fra batterie di test utilizzabili per la ricerca epidemiologica (FIOH battery, Hanninen e Lindstrom, 1989)
e batterie di screenig, utilizzabili per la prima fase della
diagnostica individuale (NPS battery, Hanninen, 1990).
Questa distinzione resta fondamentale, uno dei possibili
errori in questo ambito riguarda infatti l’applicazione in
contesti clinici di batterie sviluppate per la ricerca o, viceversa, l’uso in studi epidemiologici di batterie clinche.
Con la progressiva riduzione delle dosi di tossici cui i
lavoratori risultavano esposti divenne evidente come gli
strumenti tradizionali neuropsicologici non fossero sufficientemente sensibili poiché i primi effetti che si manifestavano riguardavano spesso la sfera dell’umore, personalità, funzioni cognitive, e l’entità di tali effetti era di difficile misurazione nel singolo, non si trattava quindi più di
indagare singoli casi clinici di soggetti intossicati ma di
valutare gli effetti precoci, subclinici, in gruppi di lavoratori esposti.
In realtà i test neuropsicologici non vennero abbandonati, ne venne fatto un uso diverso da quello tradizionale.
Nella valutazione degli effetti neurotossici precoci in gruppi di lavoratori esposti non ha più importanza disporre di test con valori normativi di riferimento poiché ciò che interessa mettere in luce è l’esistenza o meno di effetti all’interno della popolazione esposta che siano riconducibili all’esposizione a uno o più tossici noti. Per fare ciò è più utile il confronto con una popolazione di controllo, il più possibile simile a quella dei lavoratori eposti rispetto ad una serie di caratteristiche definite (età, sesso, scolarizzazione,
carico di lavoro, turni, assunzione di alcol, etc.) ma differente per quanto concerne il fattore esposizione. In questo
caso non ci aspettiamo di trovare nei lavoratori esposti dei
valori dei test francamente patologici, quanto di evidenziare alcune differenze fra i due gruppi nelle prestazioni ai test, differenze che, a parità di quelle caratteristiche sopra accennate, che di per sé potrebbero influenzare la performance, risultano attribuibili all’esposizione indagata.
La scelta dei test dovrà basarsi sia su quanto noto sulla
tossicologia della sostanza cui i lavoratori sono esposti che
su quanto riportato nella letteratura scientifica sull’argo-
3
mento. L’utilizzo di una batteria completa, che valuti tutte
le aree funzionali possibilmente lese dai neurotossici (attenzione e funzioni esecutive, abilità visuospaziali, tono
dell’umore, memoria, abilità linguistiche e di ragionamento, abilità motorie) risulta certamente utile quando si vogliano indagare gli effetti di una sostanza ancora poco caratterizzata. Quando invece si conducono studi su soggetti
esposti a sostanze ormai già valutate per quanto concerne
gli effetti neurotossici precoci, è più indicato l’utilizzo di
quei test che si sono maggiormente dimostrati sensibili all’esposizione e in grado di discriminare fra esposti e non
esposti, con l’aggiunta di nuovi test che esplorino le medesime funzioni in modi diversi.
Nel paragrafo dedicato agli studi epidemiologici verranno illustrati i requisiti delle batterie da utilizzare in quel
contesto, mentre nella sezione sulla diagnostica individuale si tratteranno le caratteristiche delle batterie di valutazione cliniche.
Anche i test psicologici e neuropsicologici intesi in
senso tradizionale riguardano ancora oggi il medico del lavoro, infatti, un settore della Medicina del Lavoro oggi in
forte sviluppo è rappresentato da quanto si può generalmente indicare come “psicopatologie da disadattamento
lavorativo”, ovvero le patologie da stress, il mobbing, il
burn-out, etc.
Questo campo chiama di nuovo in causa i progenitori
dei test neurocomportamentali: la valutazione di una sospetta psicopatologia da lavoro prevede necessariamente
un inquadramento psicodiagnostico, quindi l’esecuzione di
test di personalità, la valutazione del tono dell’umore, delle capacità intellettive di base (vedi ad esempio la recente
circolare INAIL per il riconoscimento dei casi di mobbing), valutazione che il medico del lavoro affiderà allo
psicologo.
Test psicologici e neuropsicologici si rendono necessari anche nella valutazione del giudizio di idoneità lavorativa specifica di pazienti con problemi psichici e/o neurologici che possono compromettere capacità cognitive, attentive, motorie etc. richieste dal compito lavorativo specifico, da un lato per la valutazione delle capacità residue del
lavoratore valutate in funzione delle richieste della mansione cui sarà adibito, dall’altro per ponderare gli effetti
della specifica attività lavorativa (valutata anche dal punto
di vista del rischio psichico) sulla salute psicofisica del
soggetto.
È necessario pertanto che il medico del lavoro sia a conoscenza dell’esistenza di tali strumenti, dei rispettivi
campi di utilizzo, sappia quando farvi ricorso e sia in grado di interloquire con gli specialisti psicologi, psichiatri e
neuropsicologi, sia per indirizzarli nelle loro valutazioni,
ponendo ad essi quesiti precisi relativi alle problematiche
lavorative, affinché non venga effettuata una valutazione
generica e non utile per gli scopi del medico del lavoro,
che per poter leggere e discutere le successive risposte.
1. Cenni storici
Le prime indicazioni sulla conoscenza di effetti neurocomportamentali e neuropsichiatrici conseguenti ad espo-
4
sizione a neurotossici si possono far risalire ad epoche remote: per esempio, i Romani condannavano gli Slavi e i
prigionieri ad estrarre il mercurio da miniere in Spagna
non solo per la gravosità del lavoro ma anche per il rischio
tossico che esso comportava. Nel 370 a.C. il medico greco
Ippocrate descriveva una colica addominale in un uomo
addetto alla lavorazione del piombo; nel primo secolo d.C.
Dioscoride, un altro medico greco, notò che, oltre alle coliche addominali, l’esposizione a piombo poteva causare
paralisi e delirio.
L’inizio dell’osservazione sistematica si ritrova nel
“De Morbis Artificum Diatriba”, nel quale Bernardino Ramazzini descrive, agli inizi del XVIII secolo, come i medici dell’epoca andassero incontro ad intossicazione da
mercurio applicando sulla cute di pazienti affetti da sifilide pomate a base di mercuriali, e gli effetti dello stesso
neurotossico sui fabbricatori di specchi a Venezia.
Negli anni ’40 e ’50 si ritrovano descrizioni della “follia dei cappellai pazzi” (già descritta nel 1862 da Lewis
Carroll in “Alice nel paese delle meraviglie”) e della psicosi maniaco-depressiva negli esposti a solfuro di carbonio
(Hanninen 1971; Vigliani e coll., 1953, 1954). Di questi
anni sono le descrizioni di intossicazioni “epidemiche” da
piombo e mercurio, che tuttavia vengono descritte senza
l’effettuazione di valutazioni di tipo quali/quantitativo e
senza relazionarle al tipo e all’entità dell’esposizione.
La nascita della neurotossicologia del comportamento,
in relazione all’esposizione ad agenti potenzialmente neurotossici presenti nell’ambiente di vita e di lavoro, come
disciplina autonoma viene fatta risalire agli studi della
scuola finlandese a cavallo degli anni ’50-’60 e, in particolare, ai lavori di Helena Hanninen (1966). I finlandesi
per primi si occupano di una valutazione quali/quantitativa degli effetti riscontrati e di una loro correlazione con
l’esposizione.
Fino agli anni ’60 la letteratura scientifica riportava
prevalentemente descrizioni di quadri clinici di soggetti intossicati; a partire dagli anni ’60-’70 iniziano le prime indagini su numeri elevati di lavoratori esposti, utilizzando
prima metodi esclusivamente clinici (Hanninen 1971;
Repko e coll., 1979), e a partire dagli anni ‘80, mediante
batteria di test di personalità e di abilità psicomotoria
(Hanninen e coll., 1982; Cassitto e coll., 1978; Gilioli e
coll., 1978; Camerino e coll., 1981).
A metà anni ’70 l’interesse scientifico inizia a rivolgersi anche verso le esposizioni ambientali, in particolare a
piombo: nelle vicinanze delle fabbriche si studiano i lavoratori esposti e le loro famiglie (ivi residenti), in particolare i bambini in collaborazione con i pediatri, con riscontro
di ritmi evolutivi più lenti e disturbi del comportamento
correlati all’esposizione a piombo durante il periodo evolutivo (Winneke e coll., 1983). Contemporaneamente iniziano i primi studi sperimentali, in camera di esposizione,
per lo studio degli effetti neurocomportamentali in soggetti esposti a solventi (Gamberale e coll., 1974, 1976).
Negli anni ’60-’70 veniva ancora attribuita scarsa rilevanza ad alterazioni del sistema nervoso centrale che non
fossero neurologicamente e/o psichiatricamente conclamate, come le citate psicosi maniaco-depressive da solfuro di carbonio, o le follie dei cappellai esposti a mercurio
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o le demenze, clinicamente diagnosticabili, da esposizione a piombo. A quel tempo l’individuazione dei quadri
psicopatologici era relativamente facile per il fatto che le
situazioni allora riscontrabili, pur non raggiungendo la
gravità delle patologie appena ricordate, ovvero quadri
clinici di intossicazione conclamata, erano pur sempre facilmente diagnosticabili mediante misure del comportamento che nettamente distinguevano soggetti esposti dai
controlli o, individualmente, patologie neuropsicologiche
determinate da neurotossici e patologie neuropsichiche a
diversa eziologia.
Inoltre, sia il sistema nervoso centrale (SNC) che il sistema nervoso periferico (SNP) erano quasi sempre contemporaneamente interessati e la diagnosi differenziale ne
risultava pertanto facilitata. Inoltre, l’entità dell’esposizione era ben documentabile all’anamnesi lavorativa.
Il ruolo dei fattori di confondimento, peraltro assai poco controllati a quel tempo, era sufficientemente neutralizzato dai livelli di esposizione notevolmente più elevati degli attuali e quindi strettamente correlati con la soggettività
denunciata.
Successivamente le ricerche hanno proceduto lungo le
seguenti direttive:
1. differenziazione qualitativa e quantitativa fra effetti cognitivi, psicomotori, neurovegetativi e sensoriali dovuti all’esposizione ai singoli neurotossici;
2. individuazione delle condizioni di esposizione che più
facilmente potessero creare situazioni di rischio;
3. definizione delle popolazioni e/o individui maggiormente suscettibili (ad esempio bambini, anziani, soggetti già emotivamente disturbati e/o portatori di patologia neurologica).
La ricerca cominciò inoltre ad individuare significative
corrispondenze tra alterazioni funzionali misurabili a livello comportamentale e/o neurofisiologico e gli eventi ad esse sottesi a livello cellulare e molecolare, anche se gran
parte dei meccanismi responsabili delle alterazioni del
comportamento restano ancora da chiarire.
2. Organo bersaglio, effetto critico, effetto avverso
L’obiettivo prioritario della tossicologia occupazionale
e ambientale è quello di migliorare la prevenzione degli effetti sulla salute conseguenti all’esposizione ad agenti nocivi. Da questo punto di vista assume particolare importanza l’identificazione degli effetti avversi precoci, sulla
base dell’assunto che prevenire o limitare gli effetti precoci possa proteggere dall’insorgenza di conseguenze più serie per la salute. Questo approccio è stato applicato ai metalli pesanti da parte del Gruppo di Lavoro sulla Tossicità
dei Metalli (Nordberg 1976), che ha prodotto le seguenti
definizioni:
– concentrazione critica cellulare: la concentrazione per
la quale nella cellula si verificano alterazioni funzionali avverse, reversibili o meno
– concentrazione critica d’organo: la concentrazione
media nell’organo nel momento in cui le popolazioni
cellulari più sensibili raggiungono la concentrazione
critica
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– organo critico: quel particolare organo che per primo
raggiunge la concentrazione critica del metallo in determinate condizioni di esposizione e in una determinata popolazione
– effetto critico: punto definito nella relazione dose-effetto nell’individuo, ovvero il punto in cui si verifica
un effetto avverso nella funzionalità cellulare dell’organo critico. Per esposizioni a livelli inferiori rispetto
a quelle che producono la concentrazione critica del
metallo nell’organo critico si possono comunque verificare effetti che non compromettono la funzione cellulare ma sono indagabili attraverso test biochimici o
altri mezzi.
Sono state formulate anche altre definizioni, ad es. la
WHO nel 1989 ha definito l’effetto critico come “il primo
effetto avverso che compare quando nell’organo critico
viene raggiunta la concentrazione o dose critica di soglia.
La decisione sul fatto che un effetto sia o meno critico
spetta al giudizio di esperti”. Nel Programma Internazionale per la Sicurezza da agenti Chimici (IPCS), l’effetto
critico viene indicato come “l’effetto avverso giudicato
più appropriato per determinare l’intake tollerabile”. Secondo la terminologia corrente per effetto avverso si intende una “modificazione nella morfologia, fisiologia,
crescita, sviluppo o durata di vita di un organismo che
comporta una riduzione della capacità di compenso rispetto a stress addizionali o un’aumentata suscettibilità rispetto agli effetti nocivi di altri fattori ambientali. La decisione sul fatto che un effetto sia o meno critico spetta al
giudizio di esperti”
In neurotossicologia si intende per effetto avverso
“qualunque effetto che, pur senza evidenza di lesione
strutturale specifica, compromette una funzione oppure riduce l’abilità di un organismo a rispondere a situazioni non routinarie” (Cassitto, 1996). In questo caso
i livelli di effetto dipendono non dalla gravità del deficit
ma dal fine che l’organismo vuole raggiungere, da quanto
è in grado di utilizzare adeguatamente le risorse psicofisiche disponibili in base al suo precedente stato di salute o
malattia, e da quanto tali effetti sono reversibili.
3. Effetti dei neurotossici
Gli effetti neurotossici possono essere raggruppati in
diverse categorie:
1. disturbi soggettivi,
2. alterate prestazioni ai test neuropsicologici,
3. alterazioni neurofisiologiche/neurosensoriali,
4. alterazione neuroendocrine e biochimiche.
Se l’entità di questi effetti é significativa o se le manifestazioni appartenenti alle diverse categorie sono contemporaneamente presenti così da confermarsi reciprocamente, allora si può parlare di sindromi cliniche (riscontrate e
diagnosticate sul singolo soggetto).
Se, al contrario, ci si confronta con sintomi isolati o
con effetti che possono essere individuati solo grazie a
sofisticati procedimenti statistici, si parla di effetti subclinici (generalmente identificati sul gruppo di soggetti
esposti).
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Le caratteristiche principali di questi effetti consistono in:
modesta rilevanza come fattore invalidante soggettivamente percepito;
effetti sostanzialmente aspecifici, che possono creare
problemi eziologici non facilmente risolvibili (ad
esempio, difficoltà di diagnosi eziologica in soggetto di
età elevata, esposto a neurotossici, discreto consumatore di alcolici e in condizione sociale svantaggiata);
valori individuali al test che tipicamente fluttuano all’interno di fasce di normalità;
necessità di riferire gli indicatori comportamentali a
dati statistici e interindividuali e non a casi singoli;
anche se gli effetti osservati corrispondono a quelli della condizione patologica sospettata e giustificano il loro inquadramento come subclinici, tuttavia quasi mai
rispondono completamente ai requisiti della condizione clinica.
Poiché le condizioni di lavoro, almeno nei Paesi industrializzati, sono andate progressivamente migliorando in
maniera significativa, quelli che si osservano oggi in ambito lavorativo sono quasi esclusivamente effetti subclinici, ad eccezione di singoli casi di intossicazione accidentale o di particolari realtà in cui ancora non si è raggiunto un
controllo ottimale dei livelli di esposizione.
Nella considerazione dell’entità (intensità e durata) e
della pericolosità dell’esposizione, i livelli medio-bassi e
protratti nel tempo sono quelli per cui i rischi di danno irreversibile sono maggiori.
Al fattore durata, infatti, sono imputabili gli effetti di
accumulo nell’organismo, effetti che sono certi per quanto
riguarda alcuni metalli dotati di neurotossicità (piombo,
mercurio, alluminio,..), mentre per quanto riguarda solventi ed altri agenti potenzialmente neurotossici l’esistenza di effetti a lungo termine è tuttora oggetto di studio.
Inoltre, in caso di esposizioni protratte a basse dosi, le
latenze di comparsa degli effetti sono più lunghe e favoriscono la comparsa di due meccanismi, quello di omeostasi e quello di compensazione.
Il meccanismo di omeostasi, che opera a livello biochimico, è un meccanismo di autoregolamentazione grazie
al quale l’organismo adatta il proprio metabolismo alla
presenza del tossico finché questo non ne supera le capacità di adattamento.
Il meccanismo di compensazione, invece, coinvolge
le strutture centrali, rientra nei normali modelli di risposta
alle situazioni ambientali, può essere cosciente o volontario o rivestire carattere automatico. Consiste sostanzialmente nella capacità di risolvere una difficoltà non in maniera diretta ma attraverso soluzioni sostitutive quando
quelle dirette non sono disponibili o non funzionano.
Tali soluzioni sostitutive vengono normalmente utilizzate da chiunque si trovi in situazioni di difficoltà ed il loro utilizzo aumenta con l’aumentare dell’età (per esempio,
gli anziani suppliscono ai deficit di memoria utilizzando
catene associative). Il ricorso a questi meccanismi può durare anni, avvenire in maniera automatica e non preoccupare nemmeno i diretti interessati, che al massimo avvertono una maggiore difficoltà nella gestione del quotidiano,
ma lo leggono in termini di affaticamento da super-lavoro
o stress. Nel caso di esposizione a neurotossici questi mec-
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canismi possono mascherare l’effetto avverso sulle strutture centrali. Anche gli esami specifici di funzionalità mentale non scoprono facilmente la presenza di questi meccanismi, in quanto i risultati agli esami possono rientrare nelle fasce di prestazioni normali e solo la disomogeneità
qualitativa delle risposte e l’allungamento dei tempi di risposta possono far sospettare una riduzione di funzionalità. È difficile prevedere le conseguenze di questi effetti a
carico della salute o più in generale, dell’adattamento del
soggetto al suo ambiente di vita e di lavoro. Ad esempio,
quanto è rilevante una diminuzione media della velocità di
conduzione nervosa di pochi m/s se questo valore rientra
nei range della variabilità normale? E ancora, quanto è importante la caduta di pochi punti di un quoziente intellettivo se il valore è ancora al di sopra dell’attesa media di
100? In entrambi i casi, è la riserva funzionale che risulta
ridotta e questo impoverimento può avere conseguenze assai gravi nel caso in cui altri insulti, quali malattie che abbiano conseguenze a carico del SN o traumi cranici, provochino danni che limitino ulteriormente l’integrità neurologica del soggetto. Anche spostamenti teoricamente non
significativi dai valori di riferimento “normali” possono
assumere un diverso peso e potenziale di pericolosità: è
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stato dimostrato da Needleman che aumenti dell’ordine di
10 µg/dl di piombemia sono causa di un decremento del livello intellettivo (QI) di 4-6 punti. Inoltre, in due popolazioni infantili con diversi livelli di piombemia (bassa e alta) è stato osservato che una differenza di 6 punti di piombemia causava un aumento di 4 volte di QI inferiori ad 80
nei soggetti con piombemia più elevate e un decremento
analogo di soggetti con QI oltre 120 (figura 2). Questo dato dimostra come modeste elevazioni della piombemia nella popolazione generale possano comportare conseguenze
sanitarie e sociali molto serie.
L’importanza di una tempestiva individuazione degli
effetti precoci indotti da neurotossici è sostenuta anche da
alcune iniziali evidenze cliniche che proverebbero la loro
effettiva interazione con il normale processo di invecchiamento cerebrale, che comporta un progressivo decremento fisiologico della riserva funzionale a partire dai 25
anni di età. La sovrapposizione di una esposizione anche a
basse dosi di neurotossici può accelerare tale processo di
invecchiamento e modeste accelerazioni, pari allo 0,1%
della curva di declino, comporterebbero un’età mentale di
67-68 anni in un soggetto con età cronologica di 55 anni
(figura 3).
Figura 2. Effetti sulla popolazione adulta di riduzione del potenziale intellettivo in età evolutiva causata da esposizione a tossici esogeni, ad es. il piombo (Weiss B, 1988; citato in Ambrosi, Foà Trattato di Medicina del Lavoro, 1996)
a: distribuzione dei punteggi ai test d’intelligenza. La media è designata per un QI di 100; la DS è di 15. In una popolazione
di 100 milioni di persone, 2,3 milioni (area grigia) avranno un QI>130
b: distribuzione dei punteggi ai test d’intelligenza che evidenzia uno spostamento del 5% con una media di 95. In questo caso
il numero di soggetti con QI>130 si riduce a 990000, con un aumento corrispondente di soggetti con QI<70.
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Figura 3. Accelerazione dei processi di invecchiamento (Weiss B, 1990; citato in Ambrosi, Foà Trattato di Medicina del Lavoro, 1996)
La linea più spessa esprime il declino della capacità funzionale cerebrale (densità neuronale, consumo di ossigeno, metabolismo del glucosio) dall’età di 25 anni in avanti. Una modesta accelerazione dello 0,1% annuale produce una differenza rilevante in età avanzata.
4. Metodi dell’indagine neurotossicologica
I metodi di valutazione utilizzati in neurotossicologia
sono costituiti da un complesso di strumenti che si sono dimostrati molto sensibili, ma al tempo stesso poco specifici, e necessitano quindi di essere applicati globalmente.
Essi sono rappresentati da:
1. questionari per la raccolta sintomi soggettivi: questionari standardizzati che consentono di ottenere punteggi grezzi successivamente corretti in rapporto alle variabili individuali (quali ad esempio età, sesso, scolarizzazione). Sono disponibili diversi questionari mirati
alla esplorazione di funzioni differenti: motorie, cognitive, vegetative e tono dell’umore. Il questionario serve ad identificare i sintomi riferibili all’esposizione e la
valutazione che i soggetti ne danno, e a rilevare alcune
caratteristiche dell’ambiente di lavoro e/o del lavoro
stesso così come viene percepito dai lavoratori. Il questionario rappresenta inoltre uno strumento importante
per la diagnosi individuale, purché integrato da altri
criteri diagnostici. É riconosciuta la sua sensibilità e la
sua funzione guida per l’operatore nella ricerca della
sintomatologia.
Es.: questionari utilizzati in caso di esposizione a
solventi
L’esposizione occupazionale prolungata a solventi organici
è in grado di produrre effetti cognitivi e psicologici irreversibili (WHO, 1985). Lavoratori con esposizioni molto lunghe e
con un determinato profilo di sintomi e di deficit, peraltro
piuttosto diffusi e non-specifici (sintomi affettivi ed astenoemozionali, come stanchezza, irritabilità, labilità emotiva, e
deficit delle funzioni cognitive quali attenzione, concentra-
zione e memoria) sono riconosciuti affetti da encefalopatia
cronica tossica. (Cranmer e Golberg, 1987). Qualora si sospettino, sia in un individuo che nel gruppo di lavoratori
esposti, effetti cronici legati ai solventi, possono essere utilizzati questionari di screening per la raccolta dei sintomi. Lo
screening con questionari ha infatti evidenziato diversi vantaggi: l’individuazione precoce di lavoratori con disturbi legati ai solventi organici ha permesso di ridurre o eliminare la
loro esposizione o di ricevere un trattamento qualora altri fattori fossero responsabili del malessere evidenziato.
Il questionario svedese Q16 è il più utilizzato: esso contiene
16 domande sui sintomi, selezionate attraverso una procedura
di validazione (Hogstedt e coll., 1984). Ulteriori accertamenti sono indicati qualora vengano segnalati 4 o più sintomi da
parte di soggetti con meno di 28 anni, oppure 6 o più sintomi
in soggetti con oltre 28 anni. Le risposte alle domande sono
del tutto soggettive e quindi soggette a bias; la presenza di una
domanda di controllo (numero 16) fornisce indicazioni sulla
validità delle risposte precedenti. Il Q16 contiene solo domande utili per il monitoraggio di sintomi neuropsichiatrici, e
non può essere utilizzato per indagare gli effetti acuti indotti
dai solventi, o effetti sugli altri organi o sistemi.
Il questionario di soggettività EUROQUEST (EQ) è stato sviluppato nel 1992 da un gruppo di medici e ricercatori provenienti da Finlandia, Germania, Italia, Paesi Bassi, Svezia e
Stati Uniti (Chuoanière e coll., 1997). L’EQ è un Consensus
Document, messo a punto per valutare con sensibilità e specificità gli effetti conseguenti ad un’esposizione occupazionale
a lungo termine a solventi organici. Un’importante caratteristica del questionario è la sua utilizzabilità in diverse traduzioni e per diverse culture. Il questionario originale fu sviluppato in lingua inglese e furono fornite specifiche istruzioni per
la traduzione (esso è ora disponibile in più di 10 lingue differenti). L’EQ è stato concepito per l’auto-somministrazione,
con 83 domande divise in 10 “dimensioni di contenuto” all’interno di 3 principali categorie: una legata agli effetti croni-
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ci dei solventi (6 dimensioni), una legata agli effetti irritativi
e tossici determinati dall’esposizione acuta (1 dimensione), e
una legata alle caratteristiche della personalità del soggetto (3
dimensioni). I sintomi legati all’esposizione cronica a solventi sono raggruppati nelle seguenti 6 dimensioni: disturbi neurologici, sintomi psicosomatici, labilità del tono dell’umore,
difficoltà di memoria e di concentrazione, stanchezza e disturbi del sonno. Il soggetto ha 4 possibilità di risposta
(mai/raramente, talvolta, spesso, molto spesso). Le rimanenti
4 dimensioni includono effetti acuti, suscettibilità individuale,
valutazione soggettiva della personalità e dello stato di salute.
2. test neurocomportamentali: sono test psicodiagnostici
in grado di evidenziare le modificazioni dei sistemi
funzionali correlati alle facoltà psichiche superiori, ovvero l’attenzione, la vigilanza, la concentrazione, la risposta psicomotoria, la memoria, le capacità cognitive
complesse e lo stato dell’umore.
3. test neurofisiologici/neurosensoriali: esplorano differenti sezioni del sistema nervoso:
elettroencefalografia,
contrasto visivo,
potenziali evocati,
elettronistagmografia,
elettroneurografia,
elettromiografia,
estesiometria,
soglia olfattiva
visione dei colori
tremorimetria,
posturografia
4. indicatori neuroendocrini/biochimici (prolattina, mono-amino-ossidasi tipo B, dopamina-β-idrossilasi, etc.)
5. consulenze specialistiche (neurologica, psicodiagnostica, psichiatrica): sono necessarie per la diagnosi differenziale con le noxae non-professionali.
In questa esposizione si farà riferimento esclusivamente ai test neurocomportamentali e quindi alle alterazioni
del comportamento.
capacità di utilizzare le informazioni provenienti dall’ambiente: richiede, oltre all’integrità dei canali sensoriali, una sufficiente integrità delle funzioni cognitive per poter riconoscere uno stimolo come significativo o neutro. La funzione “memoria” deve consentire al
soggetto un confronto con l’esperienza precedente per
riconoscere le differenze e, se necessario, apportare le
necessarie modifiche. Una volta che la situazione sia
stata chiaramente caratterizzata, tutte queste informazioni devono poter essere utilizzate per l’elaborazione
di una strategia operativa adeguata;
capacità di reazioni emotive congruenti con la situazione: questa funzione implica che il soggetto possa riconoscere l’importanza dello stimolo nel contesto in
cui opera, nel proprio contesto personale e l’importanza relativa ad entrambi i contesti. Un equilibrio emotivo adeguato gli permetterà di sperimentare e riconoscere correttamente la reazione emotiva suscitata dallo stimolo e l’eventuale reazione somatica che l’accompagna;
capacità di emettere una risposta finalizzata e controllare le modalità di espressione: è il terzo insieme funzionale che deve potersi attivare. I due momenti precedenti, “piano d’azione” e “risposta emotiva”, dovranno
risultare integrati, il ritmo d’azione modulato a seconda dell’obiettivo e modificato in funzione dei risultati
e, nel caso si tratti di una risposta motoria, la percezione e il movimento dovranno risultare coordinati.
Pertanto, qualunque strumento o batteria diagnostica si
decida di utilizzare, si otterrà una risposta coerente soltanto se si dispone di un indicatore di funzionamento per
ognuna di queste tre funzioni.
I test neurocomportamentali indagano sia la capacità di
reazione emotiva congruente, attraverso la valutazione del
tono dell’umore, che il processo di elaborazione delle
informazioni e di produzione di una risposta adeguata attraverso la misura della performance.
6. Tono dell’umore e performance
5. Il comportamento
Esistono diverse definizioni di comportamento. Esso
viene sinteticamente definito come “il movimento di un
organismo o di una sua parte in un contesto temporale e
spaziale, mentre, da un punto di vista sperimentale, può essere considerato composto da unità chiamate risposte che
covariano insieme a variabili chiamate stimoli. L’analisi
funzionale del comportamento riguarda le relazioni fra stimoli, comportamento e le conseguenze del comportamento sull’ambiente” (Tilson, 1987).
Il comportamento può anche essere definito come “il
risultato finale di una serie di complesse unità di risposta
attraverso cui il soggetto seleziona lo schema più adeguato di risposte parziali che consentono il raggiungimento di
uno specifico obiettivo. La qualità di queste operazioni dipende dall’integrità delle strutture centrali e dall’integrazione del loro funzionamento” (Cassitto, 1982).
Il comportamento risulta dall’attivazione di almeno tre
funzioni fondamentali, ovvero:
Una modificazione del tono dell’umore può costituire
talora un effetto non trascurabile dell’esposizione a sostanze neurotossiche. D’altro canto, il tono dell’umore
può influenzare la qualità della prestazione ai test, e andrebbe pertanto valutato in ogni caso, considerato di volta in volta come effetto, nel caso di esposizione a sostanze (es. solventi) la cui capacità di azione in tale ambito è
risaputa, o come fattore in grado di modificare la prestazione negli altri casi.
L’individuazione di metodi validi ed affidabili per
valutare il tono dell’umore è pertanto importante in diversi contesti applicativi. A questo proposito un quesito
centrale è rappresentato dalle dimensioni dell’umore e
cioè da quante e quali dimensioni dovrebbero essere impiegate per descriverlo. Solo con l’avvento dell’analisi
fattoriale e di altre tecniche multivariate si sono resi possibili gli studi empirici sulla struttura dell’umore. La
maggior parte di questi studi è stata basata sull’impiego
di liste di aggettivi che descrivono diversi stati d’animo,
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a ciascuno dei quali è accoppiata una scala dei valori. pio, il punteggio di un test di memoria a breve termine si
Secondo la maggior parte degli studi esistono fonda- riduce durante una determinata esposizione, è difficile
mentalmente due dimensioni dell’umore: lo stress e l’at- stabilire se tale deterioramento rifletta un deficit di aptivazione (arousal).
prendimento o di elaborazione, se rifletta cioè un deficit
Uno degli strumenti realizzati per valutare il tono del- di attenzione o di memoria.
l’umore basato su stress e arousal è la Mood Scale (KjelLa scelta dei test da utilizzare in uno studio specifico
lberg e Iwanowsky, 1989), nella quale le polarità positiva dipende dal tipo di alterazioni che si vogliono misurare.
e negativa di entrambe le dimensioni sono descritte da tre Quando l’ambiente interferisce direttamente su apparati
aggettivi, per un totale di dodici (figura 4). Al soggetto sensoriali o funzioni motorie le alterazioni sono specifiviene chiesto di descrivere il proprio stato d’animo nei che e mediate da disfunzioni di strutture periferiche, ridieci giorni precedenti la somministrazione del test utiliz- sulta in questo caso piuttosto semplice la scelta dei test
zando i dodici aggettivi, ad ognuno dei quali deve attri- più idonei alla misura di tali effetti: esempio effetti uditibuire una risposta scelta fra cinque possibilità che variano vi da rumore o misurazione della soglia vibrotattile in
da “per niente” a “moltissimo”. Il test fornisce un punteg- esposti a basse temperature.
gio per ognuna delle due dimensioni, che viene confronQuando l’oggetto dello studio è rappresentato da ditato con valori di riferimento.
sfunzioni del SNC la scelta è invece più complessa. Dal
I test di performance sono stati sviluppati ed applicati punto di vista della teoria dell’elaborazione dell’informain diversi campi della ricerca psicologica. Questo è uno zione, può essere suggestivo ritenere che un determinato
dei motivi per cui non esiste una tassonomia universal- agente alteri una fase specifica dell’elaborazione, analomente accettata e quindi non vi è accordo tra i ricercatori gamente a quanto si verifica per le disfunzioni periferiche.
rispetto all’identificazione, alla definizione e alla misura In realtà gli effetti sono raramente ben focalizzati e più
di funzioni che potrebbero essere pertinenti nella valuta- spesso sembrano dipendere da uno stato generale del sogzione degli effetti conseguenti all’esposizione a diverse getto piuttosto che da specifiche fasi dell’elaborazione
condizioni ambientali. Nell’esecuzione di un test di dell’informazione.
performance sono coinvolti diversi fattori (figura 5): processi
sensoriali, processi percettivi e
attenzione, memoria di lavoro,
memoria a lungo termine, processi centrali e specifici, risposta motoria effettrice. Secondo
questo modello il processo inizia con una quantità infinita di
informazioni che raggiungono
gli organi di senso; parte di questa informazione è selezionata,
organizzata, e identificata attraverso i processi percettivi e l’attenzione. Le parti pertinenti dell’informazione selezionata vengono immagazzinate nella meFigura 4. Valutazione del tono dell’umore (tratta da Kjellberg e Iwanowski, 1989)
moria di lavoro in cui restano
disponibili per ulteriori elaborazioni basate su nozioni richiamate dalla memoria a lungo termine. In base al risultato dell’elaborazione viene scelta ed eseguita la risposta.
In tutte le fasi, limitazioni
di varia natura possono disturbare l’elaborazione o deteriorare la prestazione. In tabella I
vengono riassunti i diversi tipi
di disfunzione insieme ai compiti tipicamente assegnati per
evidenziarli. Questa schematizzazione evidenzia la difficoltà
ad identificare la fase responsabile di eventuali alterazioni Figura 5. Misura delle prestazioni (modello psicologico dell’elaborazione dell’informadelle prestazioni. Se, ad esem- zione) (Gamberale e coll, 1989)
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Tabella I. Esempi di disfunzioni psicologiche e compiti assegnati per evidenziarle (Gamberale e coll, 1989)
DISFUNZIONI
TEST
Omissione dello stimolo pertinente (o ritardata risposta allo stimolo) a causa di:
Ridotta sensibilità recettori
Stimoli liminari
Deviazioni dell’attenzione
Vigilanza
Introduzione elementi di distrazione
Inadeguata analisi percettiva
Ricerca di elementi (omissioni)
Vigilanza
Introduzione stimoli non pertinenti
Distrazione
Monitoraggio con distrattori
Inadeguata analisi percettiva
Ricerca di elementi (falsi allarmi)
Deficit di elaborazione
Deficit della memoria di lavoro
Esercizi di memoria a breve termine
Disfunzione del “processore” centrale o di “processori” specifici
Soluzione di problemi aritmetici o verbali,ecc.
Incapacità a rispondere o selezionare le risposte
Selezione non corretta delle risposte
TR a scelta multipla con stimoli facilmente discriminabili,
ma incompatibili con la risposta.
Idem, ma con pochi segnali e semplici relazioni
Incapacità a rispondere
Test manuali, tapping
La base teorica più valida ed accettata per interpretare
gli effetti dell’ambiente di lavoro sulle prestazioni è rappresentata dalla teoria dell’attivazione comportamentale,
secondo la quale lo stato di un individuo può essere descritto come una posizione sull’intervallo continuo che
comprende, a un estremo, uno stato di sonnolenza, e all’estremo opposto, una condizione di grande eccitazione. Gli
effetti dei fattori ambientali sono stati considerati in funzione delle loro ripercussioni sul livello di attivazione: stimoli monotoni e di bassa intensità lo riducono, mentre stimoli intensi e variabili dovrebbero attivare l’individuo in
esame. In base alla teoria dell’attivazione, l’ambiente può
produrre i suoi effetti alterando lo stato generale dell’individuo indipendentemente dagli specifici processi eventualmente coinvolti rispetto ai quali non vengono ricavate
informazioni.
7. Indicatori di performance
Il principale indicatore di performance utilizzato negli
studi psicologici e neuropsicologici tradizionali è la frequenza di risposte corrette (o di errori). In psicologia tradizionale, d’altra parte, e negli studi sull’ambiente di lavoro di carattere non clinico, i tempi di risposta si sono rivelati egualmente importanti. La frequenza degli errori può
essere importante per diverse ragioni, in quanto alcuni fattori ambientali possono influenzare più questa variabile
che non i tempi di reazione. Lo svantaggio principale della frequenza degli errori è che il test deve essere reso abbastanza difficile da causare qualche errore anche nei soggetti più abili: in caso contrario, la misura dell’errore diviene poco sensibile e riproducibile. Inevitabilmente, però,
il test diventa estremamente frustante per gli individui me-
no dotati e determina effetti indesiderati sul livello delle
loro prestazioni.
Quando si misurano i tempi di risposta vengono valutate tutte le risposte, corrette e non, in tal modo si ottiene
una misura più affidabile. Il fatto che il tempo di reazione
dia una misura graduata della risposta a ciascun elemento
della prova significa anche che può evidenziare effetti non
sufficienti a causare un errore, ma in grado di ritardare l’esecuzione della risposta. Questo significa anche, d’altra
parte, che si può rendere il test abbastanza semplice e non
frustrante, senza perdere troppo in termini di sensibilità.
I tempi di reazione, nelle loro diverse forme di presentazione, rappresentano i test più sensibili ai fattori disattivanti, poiché consistono generalmente in compiti semplici
e monotoni che richiedono attenzione prolungata e con
scarsa informazione al soggetto circa la qualità delle sue
prestazioni. Fattori come la monotonia del lavoro, l’esposizione a solventi, l’esposizione prolungata a bassi livelli
di rumore o vibrazioni o a stress termico generalmente riducono il livello di attivazione del soggetto, e possono
condurre a una ridotta capacità di risposta allo stimolo critico, che si manifesta con omissioni o rallentamento della
risposta.
Altri fattori, ad esempio organizzativi quali carichi di
lavoro intensi oppure stimolazioni ambientali variabili,
possono condurre ad un effetto opposto, cioè ad uno stato
di attivazione superiore rispetto a quello ottimale. Gli effetti di questa esposizione sulle prestazioni sono molto meno
coerenti di quelli di un livello di attivazione troppo basso. I
test più sensibili sembrano quelli che impongano conflitti e
“divisione” dell’attenzione, dell’elaborazione dell’informazione e della memoria. Inoltre, la riduzione della performance è tipicamente rivelata da un’aumentata frequenza di
errori, piuttosto che da un rallentamento della risposta.
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Un esempio di questi test è rappresentato dal test di
Stroop, che mette in evidenza l’interferenza nell’elaborazione di informazioni incongruenti, ad esempio leggere la
parola “verde” scritta con il colore rosso (test ripreso nel
“Color Word” della batteria SPES): il soggetto deve rispondere solo quando gli stimoli sono congruenti, quindi
quando la parola “verde” è scritta in colore verde.
8. I test neurocomportamentali
8.1 Sviluppo dei test
I primi metodi utilizzati per individuare disfunzioni
psicologiche furono derivati prevalentemente dalla letteratura neuropsicologica, nella quale l’attenzione è focalizzata sulla valutazione del profilo psicologico del singolo
individuo, per identificare deficit correlati a patologie e
identificare l’eziologia del disturbo. I neuropsicologi hanno sviluppato un range molto vasto di test per la valutazione delle capacità cognitive sensibili al danno cerebrale, a questi hanno attinto gli psicologi per la valutazione
degli effetti in caso di sospetta intossicazione da neurotossici (es. piombo, solventi), di conseguenza le iniziali
procedure di valutazione si rifacevano essenzialmente ai
test clinici prevalenti per l’indagine delle funzioni psichiche (WAIS, Benton etc.). Questi test però, non sono sensibili ad alterazioni precliniche. Un ulteriore, importante
contributo è stato poi quello fornito dalla psicologia sperimentale cognitiva, sviluppatasi per indagare i normali
processi cognitivi coinvolti nell’elaborazione delle informazioni e nell’apprendimento.
8.2 Caratteristiche dei test
I diversi test possono soddisfare in varia misura alle caratteristiche generali richieste ad una valutazione psicometrica in termini di affidabilità, sensibilità, specificità, interpretabilità teorica, appropriato livello di difficoltà, durata,
riproducibilità ed accettabilità per i soggetti esaminati.
L’importanza relativa di queste caratteristiche varia in funzione degli obiettivi e del disegno dello studio. Ad esempio,
la ripetibilità del test è di cruciale importanza quando debbano essere eseguite misure ripetute, il che accade spesso
negli studi sperimentali di laboratorio e sarà elemento da
considerare qualora si introducessero i test neurocomportamentali nella pratica della sorveglianza sanitaria.
Negli studi sui luoghi di lavoro è quasi sempre necessario impiegare test di breve durata per limitare le interferenze nei processi produttivi. In questi studi, l’accettabilità
per i soggetti indagati è un’altra caratteristica importante
dei test, che devono apparire ragionevoli ai soggetti che si
sottopongono all’esame.
8.3 Batteria di test
Una batteria è un insieme di test aggregati per esplorare funzioni diverse ed ottenere un’immagine integrata delle prestazioni del SNC nella sua globalità. La batteria differisce dall’insieme di test per l’articolazione e la
complementarietà dei compiti, che devono essere multipli e
bilanciati. Il concetto di batteria è stato sviluppato da Wechsler (1939) e trova applicazioni prevalentemente cliniche
in quanto l’analisi del profilo risultante dall’esame consente di identificare specifiche aree funzionalmente lese.
Tabella II. Domini funzionali e test corrispondenti
Funzione
Test rappresentativo
Capacità cognitive globali, verbali
Vocabolario (WAIS-R)
Boston Naming Test
Capacità cognitive globali, spaziali
Block Design (WAIS-R)
Completamento di figure (WAIS-R, Wartegg)
Ricostruzione di oggetti (WAIS-R)
Concentrazione, attenzione
Tempi di reazione semplici
Color Word (test di Stroop)
Continuos performance test (NES-2)
Abilità motorie
Finger Tapping
Santa Ana
Pursuit aming (NCTB)
Coordinazione visuo-motoria
Symbol-Digit
Trail Making A e B
Memoria verbale
Logic memory (WMS)
Paired Associate Learning (WMS)
Digit Span (WAIS-R)
Memoria visiva
Visual reproduction (WMS)
Benton Visual retention (NCTB)
Digit Span (SPES)
Serial Digit (MANS)
Tono dell’umore/personalità
POMS
MMPI-2
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In neurotossicologia comportamentale l’evidenza empirica indica che le batterie neuropsicologiche tradizionalmente intese sono di scarsa utilità ed applicabilità nello
studio di popolazioni a rischio mentre alcuni test sono stati identificati da un gruppo di esperti dell’OMS e del NIOSH come nucleo centrale (core) di qualunque batteria, in
ragione della loro sensibilità. Una batteria dovrebbe quindi includere la valutazione di quanti più domini cognitivi
possibili: attenzione e funzioni esecutive, abilità visuospaziali, affettività, memoria (anterograda e retrograda), capacità linguistiche e di ragionamento, abilità motorie.
É peraltro evidente come gli obiettivi specifici condizionino anche la scelta dell’approccio. Ad esempio, una
batteria appare più utile per studiare effetti cronici (in
esposti a metalli, ad es. si possono utilizzare MANS,
SPES, NES, etc.), mentre un set di test di performance
sembra più appropriato per lo studio degli effetti acuti (es.
in esposti a solventi test su tempi di reazione semplici e
complessi, Digit Span). Una discussione più approfondita
deve quindi tener conto del contesto applicativo in cui l’indagine neurocomportamentale si colloca.
La prima batteria di test neurocomportamentali per l’utilizzo in studi sull’ambiente lavorativo è stata sviluppata
da Helena Hanninen (Hanninen Test Battery, Hanninen e
Lindstrom 1979). In un periodo di meno di 15 anni sono
state sviluppate almeno 16 batterie complete e numerosi
test singoli utilizzati per misurare effetti tossici sul funzionamento neurocomportamentale negli uomini. Il progresso
in questo campo riconosce come pietre miliari i meeting
scientifici internazionali focalizzati su tale argomento: il
primo a New York nel 1975, interamente dedicato all’area
della tossicologia comportamentale; il successivo nel 1982
a Como, organizzato dalla Clinica del Lavoro di Milano e
sponsorizzato dalla WHO e dalla ICOH, dedicato ai metodi neurocomportamentali in Medicina del Lavoro (Gilioli,
Cassitto, Foà 1983), primo di una serie di Simposii organizzati dall’ICOH committee, tenuti poi con cadenza triennale, che a partire dal 1991 si sono occupati anche di problematiche di tossicologia ambientale.
In questo periodo si assiste alla comparsa di due fra le
principali batterie neurocomportamentali, la NES (Neurobehavioral Evaluation System), sviluppata della scuola
americana, e la SPES (Swedish Performance Evaluation
System), sviluppata dalla scuola svedese.
Alla grande quantità di dati ottenuti nei diversi studi sugli effetti neurotossici non è però corrisposta una adeguata
possibilità di confronto dei risultati. La grande varietà di test utilizzati rappresentava un notevole impedimento per lo
sviluppo del campo della tossicologia neurocomportamentale a causa dell’impossibilità di confronto fra i risultati delle ricerche. Due fattori principali furono identificati come i
maggiori ostacoli per la confrontabilità: primo, le batterie
di test non utilizzavano né gli stessi test né test simili fra loro; secondo, molti test erano probabilmente influenzati dalle differenze culturali. Come risposta a queste problematiche nel 1983 un gruppo di lavoro del NIOSH e del WHO
sviluppò una batteria costituita da un core di sette test carta-penna che, secondo le raccomandazioni degli autori,
avrebbero dovuto essere inclusi in tutti i successivi studi
neurocomportamentali che utilizzassero i test (NCTB -
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Neurobehavioral Core Test Battery). Nel disegnare la
NCTB si cercò di includere test sensibili ed affidabili (per
affidabilità si intende la possibilità di ripetere la misurazione dello stesso fenomeno in tempi successivi o da parte di
osservatori diversi, con risultati simili) che potessero essere utilizzati anche nei Paesi in via di sviluppo senza che ci
fosse la necessità di utilizzo di strumenti complessi o costi
eccessivi. Questi test furono scelti sulla base della loro dimostrata sensibilità nell’identificare gli effetti dei neurotossici, specialmente solventi e metalli pesanti. Successivamente, a Milano, fu sviluppata la versione computerizzata
della batteria, MANS (Milan Automated Neurobehavioral
System) (Cassitto, Gilioli, Camerino; 1989).
Negli anni successivi si è comunque assistito ad un
continuo sviluppo di test e batterie.
Da un lato, i produttori delle batterie avevano visto
l’importanza di sviluppare test sensibili e che coprissero
un ampio range di funzioni, ad esempio poche batterie
comprendevano test che esplorassero anche le funzioni
sensoriali. Nel 1992, venne sviluppata dall’Agency for
Toxic Substances and Disease Registry la AENTB (Adult
Enviromental Neurobehavioral Test Battery), che comprende test tratti dalla NCTB, una batteria computerizzata
quale la NES, e altri test non inclusi in queste batterie, fra
questi anche test in grado di valutare la funzioni visiva e
somato-sensoriale.
D’altro canto, il continuo sviluppo di nuovi test utilizzati nelle batterie rimane un importante ostacolo per il confronto dei risultati ottenuti.
8.4 Vantaggi e svantaggi delle batterie computerizzate
I principali vantaggi sono:
somministrazione dei test semplice e standardizzata;
possibilità di registrare molti dati inerenti ad un solo test (esempio, velocità di risposta nei vari momenti di
esecuzione del test, numero e tipo di errori ecc.);
tempi di somministrazione più brevi;
non necessitano di elevata professionalità nella somministrazione.
Gli svantaggi sono rappresentati da:
mancanza di familiarità con lo strumento;
modalità di presentazione degli stimoli: limitazione
nella quantità di informazioni o nella lunghezza del
materiale del test che può essere presentata contemporaneamente e sul tipo di materiali che possono essere
presentati;
fattori legati all’interazione fra il soggetto e il materiale del test, ad esempio la somministrazione col computer non consente di rivedere e/o modificare gli items;
fattori relativi al ruolo del somministratore, quindi da
un lato la possibilità che i test siano utilizzati anche da
persone non qualificate, dall’altro il rischio che il somministratore diventi più un tecnico che una figura che
partecipa interattivamente alla sessione di test;
rischio che si attribuiscano obiettività ed accuratezza ai
test semplicemente perché effettuati tramite una macchina, eliminando l’elemento di soggettività introdotto
da un somministratore “umano”.
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9. Uso dei test neurocomportamentali: premesse
10. Possibili contesti applicativi
La corretta impostazione del rapporto “contesto di
somministrazione-tipo di strumenti da utilizzare” è fondamentale per la significatività dei risultati.
La puntuale definizione delle caratteristiche della situazione da esplorare consente di definire finalità, ipotesi da verificare, risorse da utilizzare, professionalità richieste e anche, soprattutto, consente il controllo di tutte o della maggior
parte delle variabili che possono introdurre bias nei risultati.
In ogni contesto di utilizzo dei test neurocomportamentali, è da sottolineare la necessità di un controllo rigoroso dei meccanismi di confondimento e/o dei modificatori, che sono molto numerosi e possono portare a delle conclusioni errate sui risultati ottenuti.
Per esempio, l’età è un tipico fattore di confondimento
ove non se ne valuti il peso nel confronto fra esposti e controlli, o all’interno della stessa popolazione esposta, ma è
anche un modificatore di performance in quanto riflesso
dei normali meccanismi fisiologici dell’invecchiamento.
I fattori di confondimento più importanti nell’ambito
della neurotossicologia del comportamento sono:
età,
sesso,
scolarizzazione,
potenziale intellettivo,
grado di stabilità emotiva,
presenza/assenza di disturbo psichiatrico,
abitudini di vita (assunzione di alcol, droga, farmaci, etc.),
disfunzioni del SNC e SNP a diversa eziologia,
esposizione ad altri neurotossici o la contemporanea presenza di sostanze ad effetto sinergico e/o antagonista,
caratteristiche del lavoro svolto,
fattori di stress psicosociale,
meccanismi di adattamento ai neurotossici, di compensazione, d’apprendimento,
atteggiamento nei confronti dell’esame.
Con un peso diverso, a seconda degli obiettivi di indagine e della popolazione studiata, sono comunque sempre presenti e responsabili sia dei falsi negativi che dei falsi positivi
quando non vengono controllati o, per lo meno, identificati.
Si possono identificare otto tipi di contesti nei quali i
test neurocomportamentali possono essere applicati, ciascuno con finalità e quindi con requisiti specifici:
1. studi sperimentali con impiego di volontari,
2. studi semi-sperimentali, su popolazioni esposte,
3. studi epidemiologici su popolazioni esposte e di controllo,
4. studi di follow-up,
5. sorveglianza sanitaria sui luoghi di lavoro,
6. diagnostica clinica,
7. definizione del giudizio di idoneità lavorativa specifica,
8. definizione dei valori limite.
10.1 Indagine sperimentale con volontari
Si tratta di uno studio sugli effetti acuti di un neurotossico: le condizioni di esposizione ed i test utilizzati determinano il livello di validità dei risultati. I test si svolgono generalmente in camera di inalazione in cui i livelli di esposizione sono ben controllati. Il paradigma è rigido e può essere variato solo all’interno della sequenza
test pre-esposizione, esposizione, test post-esposizione.
Si possono inserire delle misure all’interno del periodo di
esposizione.
Le misure utilizzate devono essere semplici e sensibili
alle minime variazioni dell’esposizione ed alla sua durata,
ossia misure di rapidità o accuratezza di risposta, sensibili
agli stati di affaticamento o alla riduzione dei livelli di vigilanza. Dovranno però essere tali da non attivare meccanismi di compensazione, ossia quelle strategie mentali universalmente usate per risolvere situazioni di difficoltà
quando la soluzione diretta non è accessibile per incapacità, affaticamento, patologia. É inoltre essenziale che non
solo le condizioni sperimentali ma anche lo sperimentatore rimangano gli stessi per tutta la durata dello studio. In
letteratura si trovano esempi molto corretti di pianificazione sperimentale, per esempio gli studi di Gamberale negli
anni ’70 (tabella III).
Tabella III. Batteria sperimentale per la misura degli effetti neurocomportamentali conseguenti all’esposizione
a dosi controllate di solventi entro tempi prefissati (da Gamberale e coll., 1978)
TEST
DESCRIZIONE
CRITICAL FLICKER FUSION (CFF)
Determinazione della soglia di fusione dello stimolo luminoso inviato da uno strumento a stimolazione
monoculare con luminosità decrescente a partire dai 55 Hz. Vengono somministrate 3 serie di quattro
somministrazioni ciascuna
RAPIDITÀ ADDITIVA
Vengono presentate 32 serie, ciascuna di 3 cifre, per la durata di 0.4 s ad intervalli di 0.1 s di cui si
deve dare il totale nel minor tempo possibile
TEMPI DI REAZIONE SEMPLICI
11 serie di 16 stimoli luminosi vengono presentati ad intervalli variabili tra 2.5 e 5.0 secondi.
Vengono valutate la mediana degli ultimi 160 stimoli e la mediana di ogni serie
MEMORIA A BREVE TERMINE
10 serie di numeri progressivamente aumentate da 4 a 10, devono essere riprodotte immediatamente
dopo la presentazione. Vengono considerati 2 parametri: il numero di serie correttamente riprodotte
espresso in percentuale del numero totale degli stimoli e lo span totale di memoria
TEMPI DI REAZIONE COMPLESSI
2 cifre sono presentate su uno schermo e il soggetto deve indicare se si tratta di numeri pari, dispari o
misti. La misura utilizzata è il valore medio dei tempi di reazione per 72 stimoli
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10.2 Studio semi - sperimentale sui lavoratori esposti
Un altro tipo di studio che riguarda ancora effetti acuti è lo studio semi-sperimentale sui lavoratori esposti che
viene condotto generalmente sul luogo di lavoro. Anche
in questo caso l’obiettivo è l’accertamento della presenza
di effetti avversi correlati a parametri di esposizione in un
tempo prefissato. Come nel primo tipo di studio, i tempi
di esame rispondono a ipotesi precise sugli effetti di una
data sostanza in un tempo x. Il paradigma può essere inizio-fine giornata, inizio-fine settimana, inizio-fine del periodo di esposizione. Anche in questo caso il controllo degli intervalli di somministrazione dei test sarà rigido con
utilizzo dello stesso esaminatore almeno per lo stesso soggetto, ove non possibile per l’intera indagine. La batteria
dei test sarà semplice, corta, mirata agli effetti attesi, sensibile ai livelli di esposizione, tale da non consentire l’utilizzo dei meccanismi di apprendimento. Ove non evitabili, si utilizzeranno test dotati di forme multiple. I test più
adatti saranno i tempi di reazione semplici e complessi, i
test di memoria meccanica come cifre e/o materiale senza
significato logico e le prove di abilità manuale. Ove possibile, è preferibile disporre di un gruppo di controllo appaiato. Un esempio di studio semisperimentale è quello
condotto da Jegaden (1993) sui lavoratori esposti a stirene (tabella IV).
10.3 Studi epidemiologici su lavoratori esposti
In questo caso vengono generalmente ricercati effetti
cronici, su lavoratori esposti da un minimo di 5 anni. Si
utilizza quasi sempre un gruppo di controllo omogeneo
con la popolazione degli esposti (meglio se con accoppia-
mento uno a uno in base ai fattori di confondimento quali
età, scolarità, abitudini di vita, tipo di lavoro, etc.). In questo tipo di studio la scelta degli strumenti e l’estensione
della batteria utilizzata dipendono da quanto si conosce degli effetti neurocomportamentali di una data sostanza. La
batteria sarà più specifica nel caso di una sostanza ben conosciuta (Pb, CS2), maggiormente differenziata quando gli
effetti neurocomportamentali sono ipotizzati ma non dimostrati (es. alcuni solventi, pesticidi, manganese). Va ricordato che l’affermazione “effetti non ben dimostrati” riguarda i livelli di esposizione che oggi si trovano nei nostri ambienti di lavoro (tutti conosciamo gli effetti ad alte
dosi del manganese e dell’alluminio).
L’obiettivo in questo caso è la valutazione di effetti
neurocomportamentali su base di gruppo.
La scelta dei test si basa spesso su quanto riportato in
letteratura (test dimostratisi più sensibili rispetto all’esposizione a una determinata sostanza), questo criterio non è
però il più informativo, poiché utilizzando sempre gli stessi test non si possono acquisire nuove conoscenze.
Nello sviluppo delle batterie si devono considerare misure quantitative della validità (sensibilità, specificità, valore predittivo) e affidabilità degli specifici test selezionati. È necessaria poi una adeguata attenzione alle misure
statistiche relative alla distribuzione dei risultati dei test.
Vanno preferiti test con una distribuzione continua dei risultati (un si/no è poco significativo), con un doppio cut off, così da evidenziare alterazioni sia in eccesso che in difetto. I test dovranno avere un’adeguata distribuzione delle risposte: un numero troppo ridotto di risposte possibili si
traduce in ridotta sensibilità, una variazione eccessiva delle risposte possibili riduce invece la comprensibilità.
Nella scelta dei test si deve essere certi della loro sensibilità nell’evidenziare alterazioni a carico del SNC, in-
Tabella IV. Indagine semisperimentale in esposti a stirene (da Jègaden e coll., 1993)
OBBIETTIVO
Studio neurotossicità stirene a bassi livelli d’esposizione in fabbrica di barche in vetroresina
PARADIGMA
Indagine condotta il lunedì, dopo 2 giorni di riposo. Batteria di test somministrata a 30 soggetti esposti e 30 soggetti
appaiati, all’inizio e alla fine del turno di lavoro. Esposizione misurata mediante: determinazione ac. mandelico e ac.
fenilgliossilico all’inizio e alla fine del turno, campionatore personale e prelievi ambientali
REQUISITI
Intervallo tra gli esami: 8 ore. Stessa sequenza di somministrazione per tutti. Un solo esaminatore impiegato con modalità
di somministrazione fisse e prestabilite
BATTERIA
Batteria computerizzata:
– Tempi di reazione semplici (30 stimoli luminosi)
– Tempi di reazione complessi (30 stimoli, risposta prevista solo quando lo stimolo compare in alto sullo schermo)
– Digit span (WAIS) (riproduzione automatica di sequenze numeriche progressivamente più lunghe - da 2 a 9 cifre - sia in
avanti che al contrario. La risposta del soggetto non viene data sulla tastiera del computer ma scritta su un foglio)
RISULTATI
Esposizione: valore medio d’esposizione giornaliera 22.68 ppm, valori estremi: 4-55.
Metaboliti urinari:
– al mattino: media pari a 37.6 mg/g creatinina, valori estremi 0-165
– alla sera: media pari a 574.8 mg/g creatinina, valori estremi 90-2180
Batteria:
– miglioramento delle prestazioni, sia in termini di medie che di deviazione standard in entrambi i gruppi, nella
somministrazione a fine turno = apprendimento
– al contrario, nel confronto tra i risultati degli esposti e quelli dei controlli, i primi hanno ottenuto valori significativamente
inferiori in tutti i test, indipendentemente dagli anni di esposizione
Conclusioni:
– assenza di neurotossicità acuta
– possibile presenza di neurotossicità cronica anche per esposizioni inferiori ai 50 ppm
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fatti l’alterata prestazione ai test può dipendere anche da
deficit motori secondari a neuropatia periferica (molti test
prevedono infatti una risposta di tipo motorio la cui integrità rappresenta pertanto un prerequisito essenziale) o da
variabili demografiche e culturali (utilizzo nei Paesi in via
di sviluppo di test concepiti per i Paesi occidentali). I test
neuropsicologici tradizionali, come già esemplificato nella
tabella II, sono in grado di suggerire una relazione fra un
deficit funzionale e la sottostante alterazione a carico del
SNC: specifici tipi di neuropatologie sono associate con
alterate prestazioni in specifici test.
Quando si vogliono valutare gli effetti conseguenti ad
esposizione a sostanze nuove, sospettate di effetti neurotossici, è utile disegnare una batteria che esplori vari tipi di
capacità cognitive per ottenere un adeguato quadro delle
capacità compromesse e di quelle conservate a seguito dell’esposizione.
Le batterie per gli studi epidemiologici dovrebbero includere compiti che consentano all’investigatore di considerare deficit cognitivi di elaborazione specifici che possono contribuire alla perdita intellettiva osservata durante
i test. Ad esempio, problemi di attenzione possono determinare prestazioni alterate ai test di memoria a breve termine o problemi motori possono avere ripercussioni sulla
prestazione nei compiti visuospaziali. Dovrebbero essere
inclusi test che prevedano più di una modalità di risposta
(motorie, verbali, etc), con forme multiple in previsione di
possibili follow-up. I risultati vanno poi analizzati in funzione dei dati di esposizione o di assorbimento e, quando
possibile, di un indice cumulativo di esposizione.
Non è possibile stabilire una corrispondenza precisa fra
sostanza neurotossica cui i lavoratori sono stati esposti e tipo di test neurocomportamentali da adottare nel protocollo d’indagine. Si possono comunque fornire indicazioni
generali: ad esempio, nel caso di esposizione a sostanze
con effetto a carico dei sistemi di controllo motorio (manganese, mercurio) si possono includere prove di destrezza
manuale quali il Finger Tapping (SPES), il LURIA (apertura-chiusura mano dominante e non dominante, contatto
pollice-dita), il BAMT (contatto mano ginocchia secondo
sequenza stabilita), prove di coordinazione visuo-motoria
(Symbol Digit), etc. Nel caso di esposizione a sostanze
quali i solventi si utilizzeranno test che indaghino il tono
dell’umore, i tempi di reazione, reazioni emotive e affettive, etc.; negli esposti a gas anestetici si valuteranno i tempi di reazione, negli esposti a piombo anche le funzioni cognitive più complesse (es. con test tratti dalla WAIS).
10.3.1 Esempio: funzioni neurocomportamentali in personale di sala operatoria esposto a gas anestetici
In uno studio trasversale pubblicato da Lucchini e coll.
nel 1995, furono esaminate le funzioni neurocomportamentali in 62 soggetti (40 maschi e 22 femmine) professionalmente esposti a gas anestetici (strumentisti e infermieri di sala) e i risultati confrontati con quelli ottenuti in
un gruppo di controllo costituito da lavoratori ospedalieri
non esposti. Il test dei Tempi di Reazione Semplici, selezionato dalla batteria computerizzata MANS, fu somministrato prima e dopo il turno di lavoro, all’inizio e alla fine
della settimana lavorativa, allo scopo di valutare gli effet-
15
ti acuti e sub-acuti sulla performance. Inoltre fu somministrata la batteria completa di test durante un turno di lavoro in cui il personale era occupato in attività non esponenti
a gas anestetici. Nell’ultimo giorno della settimana lavorativa, le concentrazioni atmosferiche di protossido d’azoto (N2Oa) risultarono comprese fra 7 e 553 ppm (media
geom. 62,6) e le concentrazioni atmosferiche di etrano
(ETHa) risultarono comprese fra 0,1 e 18,8 ppm (media
geom. 1,3). L’N2O urinario (N2Ou) risultò compreso fra 4
e 297 µg/l (media geom. 26,8). Alla fine del turno di lavoro dell’ultimo giorno della settimana, fu osservato un
rallentamento della risposta al test Tempi di Reazione negli esposti rispetto ai controlli (figura 6). Tale differenza
fu osservata considerando anche i soggetti con valori individuali di N2Ou inferiori a 55 µg/l (valore biologico
equivalente al valore limite di 100 ppm, allora proposto in
Italia per l’N2Oa). Non fu osservata alcuna differenza tra
esposti e controlli negli altri test neurocomportamentali né
alcuna relazione fra i tempi di reazione e gli indicatori di
esposizione a gas anestetici (N2Oa, ETHa, N2Ou). Questi
risultati hanno suggerito che alterazioni transitorie e reversibili della vigilanza e della risposta psicomotoria potevano verificarsi a livelli di esposizione inferiori ai valori limite allora proposti in Italia per i gas anestetici (100
ppm per N2Oa nelle sale operatorie già esistenti, 2 ppm
per l’ETHa, 55 µg/l per l’N2Ou). A tali livelli di esposizione, altri fattori quali lo stress e l’organizzazione del lavoro sono inoltre parsi coinvolti nella genesi delle alterazioni neurocomportamentali.
Uno studio successivo sul medesimo argomento venne
pubblicato da Lucchini e coll. nel 1996. Furono indagati
30 addetti alla sala operatoria esposti a N2O e ad alotano e
20 soggetti di controllo non esposti a gas anestetici. Le misurazioni ambientali vennero condotte all’inizio e alla fine
della settimana lavorativa, i valori di N2O (media geometrica) risultarono rispettivamente pari a 50,9 ppm e 54,2
ppm; l’indicatore biologico (N2O urinario, valori medi) risultò pari a 21,54 µg/l all’inizio della settimana e 25,67
µg/l al termine. Nei lavoratori addetti alla sala operatoria
venne riscontrato un aumento dei tempi di reazione semplici (SPES) al termine della settimana lavorativa, non presente nei soggetti di controllo (figura 7).
Figura 6. Risultati dei Tempi di Reazione Semplici nel primo
studio di Lucchini e coll. (1995)
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µg/l per l’isoflurano urinario, corrispondenti rispettivamente alle concentrazioni atmosferiche di 25 ppm e 0,5
ppm (valori limite proposti per la Regione Lombardia) sono parsi pertanto adeguatamente protettivi per l’integrità
delle funzioni neuropsichiche esplorate.
Figura 7. Risultati dei Tempi di Reazione Semplici nel secondo
studio di Lucchini e coll. (1996)
Il più recente studio sull’argomento pubblicato da Lucchini e coll. risale al 1997. In questo caso si trattò di uno
studio multicentrico che prese in esame 112 lavoratori
esposti a gas anestetici (protossido d’azoto e isoflurano) e
135 soggetti non esposti appartenenti a 10 ospedali del
Nord Italia. I lavoratori vennero esaminati ad inizio e fine
turno, il primo e l’ultimo giorno della settimana lavorativa,
secondo un protocollo che prevedeva la valutazione dei
tempi di reazione complessi (Stroop Color Word), un questionario per i sintomi neuro-psicologici (EUROQUEST),
il Block Design (WAIS). Il protossido d’azoto urinario
(media geometrica) di fine turno nei soggetti esposti risultò pari a 7,1 µg/l e 7,8 µg/l rispettivamente il primo e
l’ultimo giorno della settimana lavorativa. Negli stessi
giorni l’isoflurano urinario (media geometrica) risultò rispettivamente pari a 0,7 µg/l e 0,8 µg/l. Nessuna differenza statisticamente significativa venne evidenziata fra esposti e controlli nelle prove neuropsicologiche e nei sintomi
raccolti tramite questionario, e non fu riscontrata alcuna
relazione dose-effetto fra indicatori di esposizione e i risultati delle prove (figura 8). Quindi, per i livelli di esposizione misurati, i tets impiegati non hanno evidenziato effetti a carico del sistema nervoso centrale: i valori limite
biologici di 13 µg/l per il protossido d’azoto urinario e 1,8
Figura 8. Risultati dei Tempi di Reazione Complessi nel terzo
studio di Lucchini e coll. (1997)
10.3.2 Esempio: studi epidemiologici sugli effetti a basse
dosi dello stirene
Vengono di seguito considerati gli studi epidemiologici condotti per valutare gli effetti neurotossici dovuti all’esposizione protratta in ambito lavorativo a stirene pubblicati nel periodo 1976-1994.
In generale, ai livelli di esposizione attualmente presenti nei luoghi di lavoro, la neurotossicità dello stirene
sembra interessare più frequentemente, per quanto riguarda il SNP, la velocità di conduzione sensitiva; per quanto
riguarda il SNC, un allungamento dei tempi di reazione,
una diminuzione dell’abilità percettiva e la compromissione della capacità di coordinazione visivo-motoria (più raramente deficit di memoria).
Meno frequentemente sono state evidenziate discromatopsia, anomalie dei potenziali evocati somatosensoriali
così come un complesso sintomatologico suggestivo di
una sindrome narcotica.
In generale, gli effetti a carico del SNC hanno un’insorgenza precoce ma una possibilità di rapida regressione
qualora l’esposizione venga sospesa, mentre gli effetti a
carico del SNP si verificano con una maggiore latenza ma
richiedono tempi più lunghi per la remissione.
L’elemento comune a queste alterazioni a carico del sistema nervoso centrale sembra essere un insufficiente livello di attivazione conseguente a ridotti livelli di vigilanza.
Da sottolineare, come vedremo nel successivo esempio, è il verificarsi di questi effetti a livelli vicini o inferiori agli attuali TLV/TWA (valore limite di soglia-media
ponderata nel tempo: concentrazione media ponderata nel
tempo, su una giornata lavorativa convenzionale di otto
ore e su 40 ore lavorative settimanali, alla quale si ritiene
che quasi tutti i lavoratori possano essere ripetutamente
esposti giorno dopo giono, senza effetti negativi).
In tabella V è riportata una revisione della letteratura
recente (tratto da Kishi 2000) sugli effetti neurocomportamentali dell’esposizione occupazionale a bassi livelli di
stirene (si ricorda che l’attuale valore limite di esposizione
TLV/TWA dell’ACGIH è di 20 ppm).
Le maggiori differenze fra esposti e non esposti sono
state più comunemente osservate nei test che valutano le
funzioni psicomotorie come il Reaction Time ed il Santa
Ana. In alcuni studi le basse performance negli esposti sono risultate ben correlate ad elevati livelli di acido mandelico (MA) urinario.
Per quanto riguarda la velocità visuo-motoria, Letz e
coll. (1990) hanno riscontrato una significativa relazione
fra la performance a fine turno al Digit Symbol e le concentrazioni di MA urinario di 105 lavoratori esposti a stirene (concentrazione media di esposizione: 29,9 ppm). Il
dato è sostenuto anche dallo studio di Chia e coll. (1994)
(21 esposti a concentrazioni inferiori a 30 ppm, e 21 controlli), dove tutti i risultati ai test neurocomportamentali
della batteria NCTB erano peggiori negli esposti rispetto ai
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Tabella V. Revisione della letteratura sugli effetti neurocomportamentali dell’esposizione protratta
a bassi livelli di stirene (tratta da Kishi 2000, modificata)
Autore
(anno, Paese)
N° soggetti
Livelli esp.
(ppm)
Durata esp.
(anni)
Funzioni indagate
Psicomotorie
Velocità
visuo-motoria
Esp*
Ctr#
Fallas
1992
France
60
60
24.3
6.5
Yokoyama
1992
Japan
11
11
26
4
–
Digit Symbol
Edling
1993
Sweden
20
20
8.6
9
–
–
Reaction Time Digit Symbol
Jegaden
1993
France
30
30
22.7
5
+
Reaction Time
Chia
1994
Singapore
21
21
10
18.8
–
Santa Ana
Aiming
+
Digit Symbol
Lindstrom
1976
Finland
98
43
25
4.9
+
Mira Test
Cherry
1980
England
26
26
92
n.s.
+
–
Reaction Time Digit Symbol
Cherry
1981
England
17
0
20
n.s.
+
Reaction Time
Mutti
1984
Italy
50
50
10-300
(range)
8.6
Flodin
1989
Sweden
17
0
5.9
11.6
Schoenhuber
1989
Italy
55
0
25
n.s.
–
–
Reaction Time Digit Symbol
Letz
1990
USA
105
0
29.9
2.9
+
Digit Symbol
–
–
Reaction Time Digit Symbol
Santa Ana
+
Cylinders
Memoria
Cognitive
Personalità
e umore
Corr.
con I.B
–
Digit Span
–
MMPI
+
Digit Span
Choice
Reaction Time
–
Digit Symbol
+
Digit Span
Benton
–
+
+
Visual
Analogue
Scales
+
Logical
Memory
+
Bolck Design
–
Benton
–
Block Design
+
Digit Span
+
+
+
+
Legenda:
* esposti
# controlli
I.B.: indicatori biologici
controlli, ma in misura significativa per quanto riguarda il
Digit Span, il Digit Symbol e il Benton. Tuttavia non è stata evidenziata in questo caso una correlazione fra i punteggi di performance e i livelli urinari di MA e fenilgliossilico (PGA). Altri Autori (Flodin e coll. 1989, Fallas e
coll. 1992, Schoenhuber e Gentilini 1989, Edling e coll.
1993 e Yokoyama e coll. 1992) non hanno invece riportato alcuna differenza significativa nelle performance ai test
visuo-motori fra esposti e controlli.
Per valutare la funzione memoria sono spesso utilizzati il Benton Visual Retention ed il Digit Span. Fallas e coll.
(1992) e Flodin e coll. (1989) non hanno riscontrato significative differenze fra esposti e non esposti, mentre Jega-
den e coll. (1993) hanno riscontrato risultati peggiori negli
esposti. Lo studio di Schoenhuber e Gentilini (1989) ha
evidenziato una significativa compromissione della memoria a breve termine nei soggetti con più alti livelli di
esposizione (>700 mg/l PGA+MA). Mutti e coll. (1984)
hanno valutato la funzione memoria verbale a lungo termine utilizzando il Logic Memory Test, mostrando punteggi significativamente più bassi nei lavoratori con i più alti
livelli di MA e PGA (più alti di 300 mmol/mol creatinina,
corrispondenti a un livello di esposizione di più di 50 ppm)
Per valutare le funzioni cognitive, Jegaden e coll.
(1993) hanno utilizzato un choice reaction time, che ha
evidenziato tempi di reazione sempre superiori nei sogget-
18
ti esposti rispetto ai controlli. Inoltre, Mutti e coll. (1984)
hanno evidenziato come le funzioni cognitive visuo-spaziali, valutate mediante il test del Block Design, erano significativamente compromesse nei lavoratori con elevati
livelli di esposizione (>50 ppm). Flodine e coll. (1989),
tuttavia, riportano differenze non significative nelle funzioni memoria e cognitività fra esposti e controlli.
Yokoyama e coll. (1992), utilizzando l’MMPI (Minnesota Multiphasic Personality Inventory), ovvero la metodica di misura obiettiva della personalità e dei disturbi dell’emotività più comunemente utilizzata, hanno valutato le
differenze nella personalità di lavoratori esposti e non
esposti a stirene, riportando una non significativa differenza fra i due gruppi. Cherry e coll. (1981) hanno invece valutato lo stato dell’umore dei lavoratori esposti, che in misura maggiore rispetto ai controlli riferiscono di sentirsi
eccessivamente stanchi.
10.4 Studi di follow-up
Gli studi di follow-up derivano direttamente dai precedenti in quanto hanno come obiettivo il controllo nel tempo dei risultati di soggetti esposti già precedentemente esaminati. Si studia l’evoluzione di effetti già riscontrati e/o il
risultato sul benessere di bonifiche ambientali attuate. Il
paradigma applicato è lo stesso utilizzato nello studio di
base e così pure i requisiti. I test utilizzati possono essere
le seconde forme dei test dimostratisi più discriminativi
nello studio di base se l’intervallo di tempo fra le somministrazioni è tale da prevedere il realizzarsi di un effetto
apprendimento. Generalmente, ad esempio, i test di memoria visiva prevedono la somministrazione delle medesime figure o serie di numeri, tuttavia sono disponibili forme alternative alle quali si può fare ricorso.
Se l’intervallo tra le somministrazioni successive supera i due anni o i test utilizzati non sono tali da consentire
l’utilizzo di seconde forme, si usano gli stessi test utilizzati nella prima sessione.
Nei follow-up è consigliabile studiare anche aspetti diversi delle funzioni già esaminate.
10.4.1 Esempio: studio della reversibilità degli effetti neurocomportamentali dovuti all’esposizione occupazionale a manganese
Un esempio di studio di follow-up basato sull’utilizzo di
test neurocomportamentali è rappresentato dal lavoro di
Roels e coll. pubblicato nel 1999 (figura 9).
La ricerca partiva da uno studio trasversale condotto
dagli stessi autori nel 1987 su 92 lavoratori esposti a
biossido di manganese impiegati presso un impianto di
produzione di batterie alcaline in Belgio e 101 soggetti
di controllo non esposti a neurotossici. Questo primo
studio aveva mostrato nei lavoratori esposti, suddivisi in
tre sottogruppi in base all’entità dell’esposizione (“bassa”, “media”, “elevata”, per concentrazione di manganese nelle polveri totali (MnT) media rispettivamente di
400, 600, 2000 µg Mn/m3), alterazioni neurocomportamentali subcliniche correlate ai livelli di esposizione al
neurotossico.
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Figura 9. Studio di follow-up di lavoratori esposti a basse
dosi di manganese (tratta da Roels e coll. 1999)
I test neurocomportamentali somministrati valutavano:
la coordinazione visuo-motoria (precisione movimenti mano-avambraccio con ortochinesimetro e metronomo);
le funzioni motorie (stabilità della mano, ovvero l’assenza di tremori, con un tremorimetro);
i tempi di reazione (tempo di reazione semplice visivo)
Sulla coorte dei lavoratori esposti (ridottisi alla fine
dello studio a 34 soggetti), su un gruppo di ex lavoratori e
sui soggetti di controllo venne condotto uno studio longitudinale di otto anni al fine di valutare se gli effetti precoci evidenziati dallo studio trasversale fossero reversibili in
seguito al successivo abbattimento dei livelli di esposizione a Mn verificatosi nell’azienda.
La riduzione progressiva, dall’88 al ’95, dei valori di
MnT risultò correlata in maniera significativa con un miglioramento della performance al test di coordinazione visuo-motoria (figure 10 e 11). Nel sottogruppo a “bassa”
esposizione la performance di coordinazione visuo-motoria si normalizzò quando i livelli di MnT diminuirono da
circa 400 a 130 µg Mn/m3 alla fine dello studio. La prognosi dei due sottogruppi a media ed elevata esposizione
rimane incerta: il miglioramento solo parziale della loro
performance potrebbe essere indicativo di un danno irreversibile a carico della funzione indagata, verosimilmente
attribuibile agli elevati livelli di esposizione pregressa.
L’andamento nel tempo degli altri due test (tempi di reazione semplici e test di stabilità/fermezza manuale) hanno
mostrato l’assenza di qualsiasi miglioramento, suggerendo
l’irreversibile compromissione delle due funzioni.
Lo studio di follow-up condotto su 39 dei soggetti di
controllo, rivalutati 10 anni dopo la prima valutazione del
1987, ha escluso l’età come fattore di confondimento in
questo studio prospettico.
I risultati del sopra citato studio longitudinale effettuato sui lavoratori esposti sono stati confermati dallo studio
di follow-up condotto nel 1996 su un gruppo di 24 ex-lavoratori esposti, che ha mostrato un significativo miglioramento della performance al test di coordinazione visuomotoria dopo almeno tre anni dalla cessazione dell’esposizione a biossido di manganese; non è stato invece riscontrato alcun miglioramento significativo nei test di stabilità
manuale e tempi di reazione semplici (figura 12).
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19
10.5 Diagnostica clinica
Figura 10. Medie annuali della concentrazione di manganese nelle polveri totali (’87-’95) - sottogruppi coorte (tratta da Roels e coll. 1999)
Figura 11. Coordinazione visivo-motoria esposti (tratta da Roels e coll. 1999)
Figura 12. Coordinazione visivo-motoria ex-esposti (tratta da Roels e coll. 1999)
Questa situazione, pur essendo la più
complessa, è anche quella che ha minori
vincoli nella scelta degli strumenti da utilizzare. Ha come scopo la caratterizzazione, il più esauriente possibile, dell’insieme di segni e sintomi che consentano o di
escludere la presenza di disturbi neurologici o psichiatrici di diversa eziologia in
grado di spiegare le alterazioni osservate
o, in molti casi, di verificare il loro ruolo
di cofattori nella genesi della patologia,
congiuntamente all’esposizione al tossico.
Allo stesso modo i risultati dell’esame
possono essere utilizzati per controllare
l’evoluzione dello stato clinico, i risultati
terapeutici, le funzioni che risultano integre e che garantiscono il benessere emotivo e cognitivo del soggetto nella vita quotidiana.
L’obiettivo in questo caso è la formulazione di una diagnosi individuale.
Anche in questo contesto, come nell’applicazione dei test negli studi epidemiologici, esistono alcuni criteri che possono aiutare nella scelta dei test/batterie
più idonei allo scopo specifico.
Generalmente un paziente con una
storia di esposizione professionale a neurotossici viene sottoposto a valutazione
clinica o perché egli stesso lamenta anomalie cognitive o personologiche o perché tali anomalie vengono riscontrate nel
corso di una visita medica o da parte dei
parenti/conviventi.
Il primo oggetto della valutazione clinica sarà pertanto l’esistenza o meno di
alterazioni cognitive e/o comportamentali
e la loro caratterizzazione. Questa fase
può avvenire tramite una valutazione
neuropsicologica tradizionale, che è in
grado di fornire informazioni esaurienti
sulle funzioni cognitive, umore e personalità. Il passo successivo è l’individuazione, quando possibile, delle strutture
cerebrali dannaggiate sulla base dei test
neuropsicologici. La domanda seguente
riguarda l’eziologia dei disordini cognitivi e comportamentali osservati, uno dei
punti più critici del processo valutativo.
Da un lato, il pattern di alterazioni della
performance ai test neuropsicologici è
stato individuato e descritto per numerose
condizioni neurologiche e psicologiche, il
neuropsicologo sarà quindi sovente in
grado di fornire un giudizio diagnostico
sulla probabile eziologia delle anomalie
osservate ai test. D’altro canto, in letteratura sono riportate le anomalie cognitive e
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testistiche osservate in esposti a numerosi neurotossici, anche questi dati possono essere d’aiuto nella formulazione
di un giudizio eziologico. Ciò nonostante, non sempre è
possibile giungere all’identificazione di una encefalopatia
tossica. Infatti, si può verificare il caso in cui un paziente
per cui si sospetti una encefalopatia tossica in realtà abbia
prestazioni conservate ai test e quindi, in quel preciso momento, non mostri segni di un’encefalopatia clinicamente
evidenziabile. Si può inoltre verificare il caso in cui il paziente abbia prestazioni compromesse ai test ma non mostri quelle anomalie che sono tipicamente riscontrate nel
caso di encefalopatia tossica: esse rifletterebbero pertanto
un’altra condizione patologica.
Un altro aspetto da valutare nella diagnostica clinica è
la modificazione nel tempo delle alterazioni comportamentali riscontrate, al fine di documentare:
1. miglioramento delle funzioni nell’intossicato dopo un
periodo di non esposizione (vedi esempio seguente);
2. modifiche funzionali dopo trattamento dell’intossicazione (es. chelazione);
3. documentazione dello stato cognitivo in condizioni di
esposizione protratta, dopo esposizione a un nuovo
neurotossico o dopo alterazioni dello stato di salute.
La batteria adottata quindi dovrà includere sia test non
sensibili al tossico in questione che test sensibili a quella
specifica esposizione: se il paziente fallisce nei primi si
può ragionevolmente considerare un’eziologia diversa da
quella lavorativa. Dovranno essere presenti test che consentano al clinico di stimare le capacità intellettive di base
del paziente, basandosi su test resistenti all’esposizione la
cui correlazione con le funzioni intellettive di base sia nota. Per giungere alla diagnosi differenziale la batteria deve
includere test con sensibilità nota verso altri fattori eziologici, ad esempio test di abilità verbale e linguistica per indagare disfunzioni riconducibili a malattie neurologiche
quali ictus, demenza di Alzheimer, etc. Per valutare possibili malattie psichiatriche quali psicosi, disturbi di somatizzazione, disturbi del tono dell’umore, si può far ricorso
a valutazioni di personalità.
10.5.1 Esempio: diagnosi di encefalopatia cronica da solventi (SRCE)
I test neurocomportamentali sono ampiamente utilizzati, per esempio, nella diagnosi di encefalopatia tossica
cronica da solventi. In Germania, nel 1997 Dietz e coll.,
2003), sono stati stabiliti sei criteri diagnostici per il riconoscimento di tale malattia professionale, uno dei quali è
l’assenza di progressione dei deficit ai test neurocomportamentali dopo la cessazione dell’esposizione, gli altri sono: presenza della tipica psicosindrome organica; alti livelli di esposizione, oltre i TLV; lunga durata -esposizione oltre 10 anni; effetti acuti prenarcotici; sintomi legati
ad altri organi come il fegato. Esistono infatti, tuttora, notevoli difficoltà nelle diagnosi individuali e nell’identificazione dei casi allorquando non vengano effettuate valutazioni di follow-up. Per la diagnosi precoce nei lavoratori esposti, valutazioni neurocomportamentali periodiche
sono necessarie tanto quanto quelle previste nel follow-up
dei pazienti con presunta SRCE al fine di una corretta diagnosi differenziale.
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Molti studi e case-report hanno dimostrato che i test
neurocomportamentali sono più sensibili rispetto ai metodi neurologici e neurofisiologici nel riconoscimento degli
effetti neurotossici precoci, ancora reversibili, sul SNC.
10.6 Sorveglianza sanitaria
La sorveglianza sanitaria per sua natura non deve richiedere l’impiego di strumentazione sofisticata e/o costosa o che richieda professionalità non disponibili in una
realtà lavorativa.
Lo strumento più adeguato agli scopi è il questionario
di soggettività, ovviamente specifico al contesto e al neurotossico per cui viene utilizzato, in grado di identificare
quei soggetti per cui è indicato un approfondimento specialistico.
Ove possibile, ma ad intervalli più lunghi, una breve
batteria di base può essere impiegata.
Entrambi questi strumenti richiedono solo un minimo
addestramento degli operatori sanitari in quanto di semplice utilizzo. Inoltre, non sono tali da portare ad una diagnosi ma sono sufficienti ad indicare la presenza di effetti avversi e orientano verso altri esami più approfonditi o, laddove il fenomeno interessi un numero elevato di soggetti,
a riconsiderare le condizioni di esposizione all’interno della fabbrica.
10.6.1 Esempio: il Neutest
Il Neutest (Buselli, Moscatelli, Guglielmi, Gattini, Gabellieri, Foddis, Verola, Ottenga, Cristaudo, Cassitto, Gilioli), presentato durante l’ottavo Symposium “Neurobehavioral methods and effects in occupational and environmental health” tenutosi a Brescia nel 2002, è una batteria
di test neurocomportamentali nata dalla necessità di disporre di uno strumento specifico per la sorveglianza sanitaria, che rispondesse ai requisiti di rapidità, semplicità,
economicità, in grado di valutare le principali funzioni
neurocomportamentali raccogliendo il maggior numero di
informazioni nel minor tempo possibile.
I test inclusi sono:
Mood Scale di Kjellberg e Iwanowsky: versione abbreviata e computerizzata di quella svedese, valuta i livelli di stress e di attivazione;
Matrici Progressive di Raven 1947 serie I Adulti: in un
tempo medio di 10 minuti valuta tutti i processi intellettivi inclusi nel gruppo delle Matrici Progressive;
CBTT (Computerized Blocking Tapping Test): valuta la
memoria a breve e a lungo termine. Viene mostrata una
serie di quadrati che si accendono e spengono in sequenza sullo schermo; il soggetto deve ripetere la sequenza nello stesso ordine proposto. Ogni quadrato ha
al centro una croce che il soggetto dovrà cliccare/toccare (nella versione dotata di touch screen) il più precisamente e velocemente possibile. Ciò permette inoltre di
valutare abilità psicomotorie quali la precisione e la velocità. Il test è diviso in due sottounità che valutano la
memoria a breve e a lungo termine: nella prima parte la
sequenza di quadrati è inizialmente di due e quindi aumenta fino a che il soggetto è in grado di ripeterla; la se-
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conda parte propone una sequenza fissa di otto quadrati e registra il numero di tentativi compiuti dal soggetto
per ripeterla in modo corretto per due volte consecutive.
Il CBTT è inoltre in grado di fornire un ulteriore parametro detto “random score”, che è un indice che rivela
se il soggetto ha affrontato il test casualmente o utilizzando una strategia basata su criteri di logica.
V-task: valuta i tempi di reazione e le capacità di attenzione protratta attraverso l’utilizzo di falsi allarmi.
Consiste nella presentazione di due differenti stimoli,
ammettendo una sola modalità di risposta. Viene mostrata una candela; il compito è rispondere quando la
candela si spegne. Falsi allarmi sono presentati casualmente, ovvero a volte la fiamma della candela non
scompare ma diviene più piccola. Il test è strutturato in
blocchi della durata di due minuti, ed il numero di
blocchi può essere aumentato fino a dieci, a seconda
dell’esigenza di una più o meno accurata valutazione
dell’attenzione protratta. Viene registrato il tempo di
reazione a ciascuno stimolo, il numero di risposte corrette, il numero di falsi allarmi cui il soggetto ha risposto per sbaglio, il numero di omissioni, il numero di
falsi allarmi correttamente riconosciuti, e il numero di
false risposte ovvero delle risposte del soggetto in assenza di stimolo. Anche in questo caso viene fornito un
parametro aggiuntivo che indica la strategia utilizzata
del soggetto, ovvero se ha valorizzato la precisione o la
rapidità delle risposte.
Al termine dell’esecuzione della batteria (in media 25
minuti), il Neutest fornisce un commento finale sui risultati conseguiti, che si basa su frasi standardizzate connesse
con punteggi specifici. L’esaminatore può comunque facilmente modificare il resoconto finale se non condivide la risposta automatica.
Si tratta di uno strumento che rivela come l’interesse
verso questi argomenti sia molto vivo. Una volta validato
e costruiti i valori di riferimento, l’utilizzo diffuso nei luoghi di lavoro potrebbe fornire importanti contributi anche
nel campo della ricerca, costituendo un osservatorio naturale per la valutazione longitudinale degli eventuali effetti
neurotossici nei lavoratori esposti.
10.6.2 Utilità dei test nella sorveglianza sanitaria (Guirguis, 1996)
Come visto in precedenza, i test neurocomportamentali sono utilizzati ampiamente negli studi epidemiologici su
gruppi di lavoratori esposti come metodiche non-invasive
per la rilevazione di deficit comportamentali, ovvero variazioni della performance o della personalità/umore, che
sono tra i più precoci indicatori di effetto tossico sul SNC.
Tuttavia, l’opportunità di un loro utilizzo in un programma
di sorveglianza sanitaria per lavoratori esposti ad agenti
neurotossici è stata raramente considerata. In Ontario, Canada, per stabilire se un accertamento medico possa essere
prescritto in un programma specifico di sorveglianza sanitaria, devono essere soddisfatti 10 di criteri di validità raccomandati dal bipartite committee (composto da rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro), ovvero norme basate su valori sociali e considerazioni scientifiche.
Tali criteri sono:
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1. miglioramento della sopravvivenza e /o della funzione
(la procedura non deve semplicemente anticipare il
momento in cui viene effettuata la diagnosi, deve essere in grado di migliorare la sopravvivenza, la funzione
o entrambe, la dimostrazione deve essere supportata da
evidenze sperimentali quali quelle ottenute attraverso
studi randomizzati;
2. conferma diagnostica di test positivi (lo stato delle conoscenze scientifiche deve essere tale da assicurare la
possibilità di conferma diagnostica per i soggetti risultati positivi allo screening);
3. sensibilità e specificità (devono essere note sensibilità
e specificità delle procedure);
4. i risultati devono riflettere una relazione quantitativa
con gli effetti sulla salute;
5. individuazione di effetti subclinici;
6. capacità di individuare rapidamente deviazioni dalla
norma (quando possibile, la deviazione dei risultati dei
test dai valori “normali” dovrebbe aumentare prontamente con l’intensità o la durata dell’esposizione);
7. efficacia delle singole fasi di valutazione (le singole fasi all’interno di un programma di sorveglianza multifase dovrebbero soddisfare i criteri prima di essere proposte come combinazione);
8. rischi per la salute;
9. rapporto rischi/benefici;
10. benefici globali (i benefici globali del programma di
sorveglianza sanitaria devono superare gli effetti negativi, fra cui la possibilità di etichettare un individuo come malato o ad alto rischio).
Guirguis, nel 1996, ha revisionato diversi studi dove
sono stati utilizzati i test neurocomportamentali e ha analizzato la validità di utilizzo di queste metodiche per la sorveglianza sanitaria considerando i criteri valutativi dell’Ontario. I risultati sono i seguenti:
1. miglioramento della sopravvivenza e /o della funzione:
non esistono studi tipo random trials sull’efficacia dei
test neurocomportamentali nel migliorare la sopravvivenza e/o la funzione dei lavoratori testati. I test possono anticipare la diagnosi di compromissione del sistema nervoso; tuttavia non ci sono prove che i provvedimenti presi dopo l’individuazione dei deficit possano migliorare la salute o la funzione del lavoratore
testato. Solo uno studio condotto su lavoratori esposti a
piombo (Yokoyama e coll., 1988), nei quali i livelli di
esposizione sono stati ridotti, ha mostrato una reversibilità dei deficit;
2. conferma diagnostica di test positivi: la conferma di
diagnosi individuali è complicata. Soggetti con risultati alterati necessitano di valutazione neuropsichiatrica
completa, associata ad esame clinico neurologico e test elettrofisiologici. Non ci sono evidenze di test positivi confermati da altri test neurologici;
3. sensibilità e specificità: sebbene i test neurocomportamentali possano essere sensibili nell’evidenziare modificazioni indotte da una compromissione del SNC, tuttavia non sono specifici per quanto riguarda l’eziologia. La compromissione di una funzione può essere
correlata a diversi fattori di confondimento, che vanno
dalla scolarità del soggetto a cause non occupazionali.
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Non c’è uno standard per i risultati normali. Il risultato
alterato dipende dal gruppo di riferimento e dal fatto
che sia stato selezionato correttamente;
4. relazione quantitativa fra risultati dei test ed effetti sulla salute: non ci sono evidenze che indichino l’esistenza di una relazione quantitativa fra decrementi ai test
neurocomportamentali ed esposizione. Alcuni studi
evidenziano una relazione con l’esposizione, ma non
secondo un modello dose-risposta;
5. individuazione di effetti subclinici: i test neurocomportamentali possono certamente valutare gli effetti subclinici. Tuttavia, possono frequentemente essere fonte
di false positività, in particolare quando esposti e gruppo di riferimento non sono confrontabili;
6. capacità di individuare rapidamente deviazioni dalla
norma: non ci sono evidenze che i risultati ai test neurocomportamentali cambino rapidamente con l’intensità o la durata dell’esposizione. Studi trasversali non
hanno chiarito la questione. Il grado di deviazione dalla normalità dipende dal gruppo di riferimento. Alcuni
studi correlano i risultati alterati all’esposizione in
coorti di lavoratori; tuttavia quanto riscontrato sul
gruppo potrebbe non essere applicabile a tutti gli individui della coorte;
7. efficacia delle singole fasi: questo criterio non è applicabile senza che si considerino i test neurocomportamentali come una fase di screening per valutazioni cliniche neurologiche. Non ci sono studi tipo random
trial sull’efficacia dei test neurocomportamentali nel
migliorare la sopravvivenza o la funzione dei lavoratori testati;
8. rischi per la salute: i test non sono invasivi e non comportano alcun rischio per la salute;
9. rapporto rischi/benefici: non ci sono rischi connessi all’utilizzo dei test. Tuttavia, i benefici del loro utilizzo
non sono ancora stati dimostrati;
10. benefici globali: i benefici dell’utilizzo dei test neurocomportamentali nei programmi di sorveglianza sanitaria non sono ancora stati dimostrati. Per di più, a causa dei differenti fattori di confondimento nell’interpre-
tazione dei risultati, un individuo potrebbe essere erroneamente definito malato. Perciò, gli effetti negativi
potrebbero superare quelli positivi.
I test neurocomportamentali soddisfano quindi solo 2
dei 10 criteri: non comportano rischi per la salute e indagano in maniera qualificata gli effetti subclinici, ma
non comportano un beneficio globale. In conclusione,
quindi, secondo l’Autore, i test neurocomportamentali
sono utili per studi epidemiologici di tipo trasversale,
ben controllati, ma non soddisfano ancora i criteri di validità per gli accertamenti da utilizzare nei programmi di
sorveglianza sanitaria per lavoratori esposti ad agenti
neurotossici.
Lo stesso tipo di valutazione è stato utilizzato anche
per stabilire l’applicabilità in sorveglianza sanitaria della
piombemia in esposti a piombo, dei test di funzionalità
epatica in esposti ad acrilonitrile e degli indicatori mercurio urinario, mercurio ematico, mercurio nei capelli, test di
funzionalità renale, test neurocomportamentali e di conduzione nervosa in esposti a mercurio (tabelle VI e VII).
10.7 Idoneità lavorativa specifica (tratto da L’idoneità
difficile, manuale per il medico del lavoro e per gli
operatori del settore, a cura di Moro e Bellina,
2002, modificato)
Nella formulazione del giudizio di idoneità specifica
alla mansione il medico competente deve talvolta fare ricorso alle conoscenze e competenze di altri colleghi quali
cardiologi, pneumologi, immunologi, etc.
Ci sono alcuni casi per cui è necessaria la collaborazione con colleghi psicologi, psichiatri e neurologi che
utilizzino, insieme al loro normale bagaglio clinico, anche test neuropsicologici, i cui risultati possono contribuire in maniera importante alla definizione dell’idoneità
lavorativa di:
lavoratori addetti a guida mezzi di trasporto, compiti
complessi, che richiedono attenzione protratta e comportano rischi per sé e/o per terzi;
Tabella VI. Risultati della valutazione effettuata per le procedure specifiche di sorveglianza sanitaria
prescritte in Ontario: acrilonitrile e piombo
Acrilonitrile
Test di funzionalità epatica
Piombo
Piombemia
1. miglioramento della sopravvivenza, funzione o entrambe
no
sì
2. conferma diagnostica
no
sì
3. sensibilità e specificità
bassa specificità
elevata
no
sì
possibile
sì
Criterio di valutazione
4. relazione quantitativa fra i risultati e gli effetti sulla salute
5. individuazione effetti subclinici
6. capacità di individuare rapidamente deviazioni dalla norma
no
sì
7. efficacia delle singole fasi
no
Non valutabile
minimi
Nulli
no
sì
no
elevati
8. rischi per la salute
9. rapporto rischi/benefici
10. benefici globali
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Tabella VII. Risultati della valutazione svolta sulle procedure per i programmi di sorveglianza sanitaria in esposti a mercurio
Hg nelle
urine
Hg nel
sangue
Hg nei
capelli
Test di
funzionalità
renale
Test
neurocomportamentali
e conduzione nervosa
1. miglioramento della sopravvivenza,
funzione o entrambe
sì
sì
no
no
no
2. conferma diagnostica
sì
sì
no
complessa
complessa
3. sensibilità e specificità
elevata
elevata/
inorganico
bassa
specificità
bassa
specificità
bassa
specificità
4. relazione quantitativa fra i risultati
e gli effetti sulla salute
su gruppo
su gruppo
scarso
no
no
5. individuazione effetti subclinici
su gruppo
su gruppo
no
no
variazioni individuali
sì
sì
no
no
no
non valutabile
non valutabile
non valutabile
no
no
nulli
nulli
nulli
nulli
nulli
sì
sì
non valutabile
no
non valutabile
elevati
elevati
bassi
no
no
Criterio di valutazione
6. capacità di individuare rapidamente
deviazioni dalla norma
7. efficacia delle singole fasi
8. rischi per la salute
9. rapporto rischi/benefici
10. benefici globali
lavoratori affetti da patologie psichiatriche o neurologiche e/o in trattamento farmacologico con possibile ripercussione sui livelli di vigilanza e sulla cognitività.
lavoratori esposti a neurotossici, per valutare il grado
dell’eventuale compromissione già instauratasi in soggetti già esposti, l’ipersuscettibilità di soggetti con malattie neupsichiatriche rispetto all’esposizione a neurotossici, o di soggetti già esposti a un neurotossico rispetto all’esposizione ad un neurotossico differente
Non esistono protocolli già stabiliti che indichino quali test effettuare e in quale caso, i test dovranno essere
scelti in base allo specifico disturbo e alla specifica attività lavorativa.
Il caso sicuramente più frequente è quello della formulazione del giudizio di idoneità in soggetti affetti da
patologie neuropsichiche. In questi casi va evitato che il
medico del lavoro assuma decisioni facendo riferimento
esclusivamente alla diagnosi, che sia disturbo d’ansia o
depressione. La valutazione va posta sul singolo caso, in
maniera individualizzata, comunque durante e dopo il
trattamento, in riferimento cioè al decorso e alla possibile disabilità eventualmente derivante e delle sue ripercussioni sulla capacità lavorativa. Ogni patologia psichica,
dalla più lieve alla più grave, anche in considerazione
dell’estrema variabilità di decorso, va valutata come
qualsiasi patologia somatica, ovvero differenziando l’acuzie e l’insorgenza rispetto alla cronicità, e in questa
considerando tutte le possibili e varie declinazioni in termini di disabilità.
10.7.1 Esempio: il lavoratore affetto da depressione
La depressione rappresenta il disturbo psichiatrico più
frequente sia nella popolazione generale (prevalenza disturbi depressivi 8-15%) che in quella lavorativa.
Non esiste “la depressione” ma esistono “le depressioni”, cioè una varietà di condizioni depressive che
vengono prodotte da una combinazione di differenti fat-
tori biologici, psicologici e sociali, che si curano in maniera differente e rappresentano un continuum che porta
dalla depressione maggiore melanconica alla depressione minore ansiosa.
In generale, sintomi caratteristici sono persistente tristezza e profondo dolore psichico, prostrazione, astenia,
facile esauribiltà, riduzione o scomparsa dell’interesse e
del piacere in tutte le attività e variabile rallentamento psichico e motorio.
I deficit funzionali neurocomportamentali che si riscontrano in tale patologia sono:
variabile depressione del tono dell’umore;
ridotte capacità di concentrazione e di attenzione, con
prolungamento dei tempi di reazione, ridotte capacità
verbali e difficoltà nel prendere decisioni;
prolungamento dei tempi di reazione e compromissione della performance psicomotoria causati dalla terapia
effettuata, in particolare dagli antidepressivi triciclici
con conseguente sonnolenza, tremori e visione sfocata;
assenza di motivazioni, iniziativa, ed energia, con
conseguenti riflessi qualitativi e quantitativi sulla
performance.
La definizione dell’entità di compromissione di tali
funzioni costituisce un importante elemento per valutare
l’opportunità di adibire il lavoratore a mansioni che comportino, per esempio, la guida o l’utilizzo di macchine in
movimento. In alcuni casi la sintomatologia può essere tale da rendere impossibile l’attività lavorativa (condizioni
di cronicità, con fallimento di tentativi terapeutici prolungati nel tempo); in altri, superati gli episodi depressivi acuti che pur ricorrono per esempio con frequenza annuale,
con assenza dal lavoro di qualche settimana, la sintomatologia può andare incontro ad una piena o quasi completa
remissione dopo la terapia. Tali casi, per le conseguenze
sociali che determinano, dovrebbero considerarsi come
analoghi eventi acuti di patologie organiche croniche normalmente asintomatiche.
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10.8 Definizione dei valori limite
La capacità di identificare e caratterizzare la potenziale
neurotossicità di sostanze chimiche costituisce una funzione
importante e necessaria per le agenzie deputate alla regolamentazione delle esposizioni occupazionali. La valutazione
degli effetti neurocomportamentali può rivestire un ruolo
importante a causa della loro relativa sensibilità ad alcune
sostanze e le loro caratteristiche generalmente non invasive.
La definizione originale di TLV (valore limite di soglia)
da parte degli igienisti americani (ACGIH) è la seguente: “i
valori limite di soglia (TLV) si riferiscono a concentrazioni
nell’aria ambiente di sostanze e rappresentano condizioni
sotto le quali si deve ritenere che pressoché tutti i lavoratori possono essere ripetutamente esposti giorno dopo giorno
senza riportare effetti indesiderabili; rappresentano concentrazioni ponderate nel tempo per una giornata lavorativa di
7-8 ore e per una settimana di 40 ore”, tale definizione è
stata successivamente integrata nel 1997 con l’introduzione
dei TLV-TWA, TLV-STEL e TLV-Ceiling.
Gli igienisti russi definivano il MAC (Massima Concentrazione Accettabile) di una sostanza come un limite assoluto che non può essere superato in alcun momento della giornata lavorativa e che “presente nell’aria dell’ambiente di lavoro nel corso di una esposizione giornaliera di 8 ore per tutta l’intera vita lavorativa non è in grado di provocare una
qualsiasi malattia o deviazione dal normale stato di salute
che possa essere messo in luce con i metodi più moderni di
indagine, sia che insorgano al lavoro o in tempi più lunghi”.
Entrambe le scuole di pensiero aderiscono quindi al
concetto di un livello soglia al di sotto del quale nessun effetto viene indotto sull’organismo. Tuttavia, questo livello
soglia è determinato dal tipo di effetto investigato, dalla
sensibilità dei metodi applicati e dalla interpretazione che
si dà al riscontro di questo effetto in rapporto alla rilevanza che viene ad avere sullo stato di salute.
Nella ricerca di criteri sempre più rigidi sui quali basare la determinazione di “limiti permissibili” di una sostanza adeguati ad assicurare validi margini di sicurezza,
i tossicologi hanno affrontato il problema in due modi diversi. Gli igienisti americani hanno messo a punto metodi
sempre più sensibili per mettere in luce alterazioni precliniche, fisiologiche, biochimiche e funzionali, atte a dimostrare gli effetti tossici derivanti da livelli di esposizione
sempre più bassi. In URSS, invece, il problema era stato
affrontato partendo da poli opposti: stabilito uno standard
di normalità per l’animale (o l’uomo) sano, venivano utilizzati metodi di misura altamente sensibili, basati prevalentemente sulla capacità di una sostanza di alterare la
normale risposta condizionata secondo Pavlov; con tali
metodi si stabilivano i limiti accettabili i cui valori erano
quelli immediatamente al di sotto del più basso livello di
esposizione capace di indurre una deviazione statisticamente significativa dalla norma.
Quindi, nel primo caso si ritiene che non vi sia alcun
serio pericolo per la salute finché un determinato livello di
esposizione non sia in grado di indurre nell’organismo
un’alterazione di tipo ed entità riconoscibile come indice
di una malattia potenziale; nel secondo, si affermava che
un potenziale stato di malattia esiste appena l’organismo
va incontro alla sia pur minima e iniziale deviazione dalle
condizioni normali, di qualsiasi genere sia questa deviazione purché misurabile.
Conseguenza dei due diversi approcci è senz’altro la
differenza, talora enorme, che si ritrovava fra i valori limite consigliati dagli igienisti americani e da quelli russi: i
valori russi risultavano talvolta notevolmente inferiori rispetto a quelli americani.
Tabella VIII. Riassunto delle differenze USA-URSS
(Zielhuis, 1974 citata in Sartorelli Trattato di Medicina del Lavoro, 1981, modificata)
USA
URSS
Norme:
Valore limite di soglia (TLV)
Concentrazioni massime permissibili (MAC)
Metodologia di base seguita:
focalizzata su alterazioni a livello cellulare e di organo,
e su informazioni di ordine biochimico
Focalizzata sulla risposta dell’organismo intero con forte enfasi
sulle possibilità di controllo centrale da parte del SN
Effetto accettabile:
Un effetto è negativo quando ha una rilevanza nei confronti
dello stato di salute
Nessuna deviazione dalla normalità o tutto al più nessuna
deviazione eccedente i limiti delle oscillazioni fisiologiche;
non viene preso in considerazione se abbiano o meno rilevanza
nei confronti dello stato di salute
Tipo di effetto:
Focalizzazione sullo stato di malattia, su laterazioni
di ordine biochimico
Sulle alterazioni del comportamento, sul sistema nervoso centrale
Effetti disturbanti:
in quanto coinduttori di malattia
Qualsiasi effetto disturbante
Carico extra:
Dovrebbe essere capace di accordarsi con le “normali richieste”
della vita di ogni giorno
Far fronte a qualsiasi diminuzione della capacità
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L’impiego nei paesi occidentali di test quali i test neurocomportamentali molto verosimilmnete porterà al riscontro di effetti precedentemente non evidenziati né evidenziabili, quindi ad un abbassamento dei valori limite di
esposizione, vedesi in tal senso l’esempio seguente
10.8.1 Significato dei test neurocomportamentali per la
definizione dei valori limite d’esposizione occupazionale - l’esempio svedese
Parte fondamentale della gestione del rischio ricopre la
definizione degli OELs (Occupational Exposure Limits):
indicano la concentrazione massima di sostanza nell’aria
in corrispondenza della zona respiratoria del lavoratore, in
grado di non provocare una alterazione dello stato di salute nel corso dell’intera vita lavorativa). Bisogna ricordare
che non solo i dati scientifici influenzano la definizione
degli OELs, ma anche il rapporto costo-beneficio e la fattibilità tecnica. Durante le ultime decadi, i test neurocomportamentali sono stati utilizzati sempre di più negli studi
sull’uomo per indagare gli effetti delle sostanze neurotossiche sul SNC. Poiché i livelli di esposizione nei luoghi di
lavoro stanno diventando sempre più bassi, l’epidemiologia tradizionale incontrerà sempre maggiore difficoltà nel
rilevare qualsiasi effetto. Di conseguenza, le autorità competenti nella regolazione dell’esposizione a sostanze chimiche devono fare assegnamento sempre di più su dati tossicologici e su risultati da studi sperimentali sull’uomo. Se
i risultati degli studi neurocomportamentali saranno utilizzati per tale scopo, sarà quindi cruciale che vengano stabiliti corretti criteri per la validità di tali studi sull’uomo. A
causa della variabilità delle risposte dell’individuo alle
esposizioni a sostanze chimiche, potrebbe non essere possibile fissare limiti di esposizione che considerino questo
range di suscettibibilà e, quindi, la protezione rispetto all’insorgenza di qualsiasi effetto neuropatico.
Lo studio di Edling e Lundberg (2000) discute l’esperienza svedese nell’utilizzo dei dati neurocomportamentali nella valutazione degli effetti sul sistema nervoso come
effetto critico. Nel decennio 1989-1999, lo Swedish Criteria Group ha pubblicato Consensus Reports sugli effetti
critici di più di 140 sostanze; nel 10% circa dei casi l’effetto critico è stato individuato a carico del SNC. Per sei
sostanze, i risultati ai test neurocomportamentali sono stati essenziali nello stabilire se gli effetti sul sistema nervoso erano effetti critici.
L’effetto critico conseguente all’esposizione alle polveri di alluminio è a carico del SNC così come affermato
in un Consensus Report del 1994 (Lundberg, 1995). É stato segnalato un incremento dei sintomi a carico del SNC
dopo circa 13 anni di saldatura di componenti in alluminio.
I test psicomotori somministrati a 17 saldatori esposti ad
alluminio non hanno evidenziato anormalità. Era presente
comunque un effetto sulla memoria correlato ai livelli di
alluminio urinario (Hanninen e coll. 1994). Un gruppo di
38 saldatori esposti ad alluminio riportò un incremento di
sintomi a carico del SNC rispetto ad un popolazione di
controllo, con un decremento nelle funzioni motorie dosedipendente (Sjogren e coll., 1994). Non sono stati invece
riscontrati chiari effetti nei test per la misura di tempi di
reazione, memoria e funzioni psicomotorie somministrati
25
a 14 lavoratori che effettuavano elettrolisi. C’era comunque un incremento del tremore a carico della mano dominante. In minatori esposti al particolato di alluminio ad un
concentrazione media di 0.6 mg/m3, è stata evidenziata
una probabilità doppia di sviluppare alterazioni a carico
delle funzioni cognitive (Rifat e coll., 1990). Nel 1993
l’OEL svedese per le polveri respirabili di alluminio era
pari a 4 mg/m3, ridotto nel 1996 a 2 mg/m3.
Sono ben noti gli effetti del piombo inorganico sul sistema nervoso. Un Consensus Report del 1990 (Lundberg
1992), riporta che vi sono indicazioni di lievi effetti sul
SNC (sintomi soggettivi e aspecifici, alterata prestazione
ai test psicometrici), per livelli di piombemia pari a 2,5
µmol/L (circa 50 µg/dl). Alcuni dati sembrano indicare
lievi effetti sul SNC a concentrazioni pari a 1.5 µmol/L
(circa 30 µg/dl). Soggetti esposti a Pb senza sintomi di assonopatia possono presentare lievi disfunzioni nervose
(riduzione della velocità di trasmissione all’esame neurofisiologico); questo si può già verificare ad esposizioni
pari a 1,5 µmol/L, che corrispondono a circa 0,03 mg/m3.
Nel 1990 l’OEL svedese per il piombo (polveri respirabili) era di 0,05 mg/m3 e tale è rimasto fino al 1999
(TLV/TWA 2002: 0,05 mg/m3).
Lo Swdish Criteria Group nel corso dell’ultima decade
ha discusso due volte i valori limite del manganese. La prima volta fu nel Consensus Report del 1991. Venne valutato fra gli altri uno studio (Wennberg e coll., 1991) condotto su 30 lavoratori di fonderia esposti al metallo: gli effetti sul SN comprendevano ridotta diadococinesia, incremento dei tempi di reazione e scarsa performance in alcuni test psicometrici. L’esposizione media espressa come
polveri totali era pari a 0,2-0,4 mg/m3, con picchi fino a
1,6. Risultati analoghi furono riportati in un altro studio
(Roels e coll., 1997), condotto su 141 lavoratori esposti ad
un valore medio di 1 mg/m3 per almeno 15 anni. Nel 1990
l’OEL svedese per il manganese -polveri respirabili- era di
1 mg/m3, ridotto a 0,5 nel 1993. Nel 1997 il manganese è
stato nuovamente discusso a causa di numerosi nuovi studi (Chia e coll., 1993; Lucchini e coll., 1997; Mergler e
coll., 1994), tutti dimostravano l’esistenza di effetti a basse dosi di esposizione. Il Criteria Group concluse che
esposizioni a manganese -frazione respirabile- pari a circa
100 mg/m3 possono avere effetti sul sistema nervoso. Lo
Swedish National Borad of Occupational Safety and
Health non ha ancora deciso di ridurre l’OEL per il manganese ma nel 1999 è stato proposto un valore pari a 0,2
mg/m3 (TLV/TWA 2002: 0,2 mg/m3; 0,03 mg/m3- proposta di modifica).
Nel caso dell’acetone, è stato riportato che soggetti
esposti a 200-1250 ppm (475-3000 mg/m3) mostravano
prolungati tempi di reazione e alterazioni elettroencefalografiche e dei potenziali evocati visivi. Misure di effetti
alle concentrazioni più basse sono comunque ancora incerte. Nel 1988, l’OEL svedese per l’acetone era di 600
mg/m3 e tale è rimasto anche nel 1999 (TLV/TWA 2002:
1188 mg/m3).
Lo stirene può essere considerato rappresentativo di un
solvente organico. Nel Consensus Report del 1989 sono riportati studi che hanno evidenziato un incremento dei
tempi di reazione dopo esposizione occupazionale a stire-
26
ne. In uno studio (Mutti e coll. 1984) è stato segnalato un
decremento delle capacità di apprendimento linguistico in
soggetti con esposizione superiore a 25 ppm di stirene. In
un altro studio, (McKay e Kelman 1986) si è notato un incremento dei tempi di reazione conseguente ad esposizioni superiori a 110 mg/m3. D’altro canto, nessuna alterazione dei tempi di reazione è stata osservata in uno studio
condotto su 12 maschi esposti a concentrazioni di stirene
pari a 50 mg/m3 (Edling e Ekberg, 1985). In uno studio
condotto su 21 lavoratori professionalmente esposti, è stato riportato un incremento di sintomi neuropsichiatrici per
esposizioni inferiori a 25 mg/m3. L’OEL svedese per lo stirene nel 1989 era 110 mg/m3, ed è stato ridotto nel 1990 a
90 mg/m3 (TLV/TWA 2002: 85 mg/m3).
Il cloruro di metile è un altro esempio di solvente organico con effetti sul sistema nervoso. Nel Consensus Report
del 1992 è segnalato che lavoratori professionalmente esposti a circa 35 ppm di cloruro di metile per più di due anni
mostrano una performance significativamente ridotta rispetto ai controlli nei test di vigilanza e di coordinazione. Volontari esposti a 100 o 200 ppm di cloruro di metile hanno
mostrato risultati peggiori nei test di percezione e di vigilanza per il gruppo esposto a concentrazioni maggiori. A
quell’epoca l’OEL per il cloruro di metile era pari a 100
mg/m3, ridotto a 20 nel 1996 (TLV/TWA 2002: 103 mg/m3).
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no-americani, afro-americani, nativo-americani, ceppo europeo, di età compresa fra 26 e 45 anni, con scolarizzazione variabile fra 0 e 18 anni (Anger e coll., 1997). L’analisi dei risultati di tale studio ha evidenziato che i test motori e quelli cognitivi sono fortemente influenzati sia dal livello di scolarizzazione che dal gruppo culturale di appartenenza: questi fattori spiegano il 5-10% della varianza dei
test motori e, in alcune prove, anche più del 20% della varianza dei test cognitivi, non influenzano invece le prestazioni ai test sensoriali o che esplorino il tono dell’umore.
Questi due esempi indicano come questo tipo di variabili (scolarizzazione, gruppo culturale), siano fattori importanti da considerare nel disegno dello studio, attraverso
la scelta di gruppi omogenei o la suddivisione in sottogruppi per il confronto dei risultati. Anche la scelta dei valori di riferimento è influenzata da queste variabili: non si
possono infatti adottare valori ottenuti in un paese ad elevato indice di scolarizzazione come riferimento per test
eseguiti in paesi meno sviluppati e scolarizzati, addirittura,
in gruppi a bassissima scolarizzazione la prestazione di base ai test nei soggetti non esposti potrebbe essere così scarsa, come indicato da Anger (1997), da non poter nemmeno
consentire un confronto in grado di evidenziare eventuali
effetti neurotossici.
11.2 Modalità di somministrazione dei test
11. Aspetti critici
Verranno ora ripresi alcuni concetti accennati in precedenza, integrati con alcune riflessioni su presente e futuro
dei test neurocomportamentali.
11.1 Differenze interculturali
Un primo importante aspetto riguarda l’utilizzo delle
batterie anche in Paesi in via di sviluppo, dove l’uso dei
neurotossici non è regolamentato come nei paesi industrializzati, e in gruppi culturalmente differenti. La
NCTB, ad esempio, è stata testata per valutarne l’applicabilità anche in Paesi culturalmente diversi, in 10 stati di
Europa, Nord e Centro America, Asia, su più di 2300 soggetti non esposti a tossici, di età compresa fra 16 e 65 anni. I risultati hanno indicato che la prestazione in due dei
test (Simple Reaction Time e Benton Visual Retention) è
molto simile in molte nazioni, e che la performance in altri quattro test (Santa Ana, Digit Symbol, Digit Span, Aiming) è relativamente più variabile da paese a paese, in
entrambi i sessi. In ogni caso, i dati raccolti su soggetti
con bassissima scolarizzazione in un Paese hanno mostrato un livello di prestazione molto basso, indicando che la
NCTB potrebbe non essere in grado di produrre un adeguato gruppo di riferimento per identificare effetti neurocomportamentali in tali popolazioni.
In seguito sono state condotte altre indagini per valutare l’impatto di variabili soggettive nella prestazione ai test, ad es. Anger e coll, negli anni ’90, hanno somministrato 18 test tratti da batterie di ampio utilizzo (NCTB, NES
2, AENTB) a 715 soggetti di diversi gruppi culturali: lati-
Un altro aspetto, non completamente distinto da quello sopra descritto, riguarda la modalità di somministrazione dei test. In molti test computerizzati si presta poca attenzione alle istruzioni fornite, in alcuni casi esse sono
semplicemente la trasposizione di quelle usate per i test
“carta-matita”. È di importanza fondamentale assicurarsi
che tutti i soggetti abbiano compreso il compito prima
della sua esecuzione, questo non sempre avviene e, a volte, i soggetti devono attendere la fase esecutiva del test
per capire come esso sia strutturato e quale sia il loro
compito. Inoltre, i test potrebbero essere somministrati
anche a soggetti analfabeti o con bassissima scolarizzazione, non in grado di leggere e comprendere complesse
istruzioni visive. La lingua originale in cui le istruzioni
sono fornite è quasi sempre l’inglese, esistono quindi anche problemi di traduzione in altre lingue, che introducono variabili addizionali nelle procedure.
Un tentativo di risposta a questi problemi è rappresentato dal BARS (Behavioral Assessemnt and Research System), un metodo per la somministrazione delle istruzioni
sviluppato presso il Centro per la Ricerca sulla Tossicologia Occupazionale ed Ambientale dell’Università dell’Oregon, per la sperimentazione con gli animali di laboratorio, utilizzato poi in studi di ricerca sul comportamento e
infine per fornire istruzioni sullo svolgimento di un test, il
Symbol Digit. Questa metodica può essere utilizzata secondo due modalità: una prima forma, detta shaping, che
fa riferimento ad un ampio range di tecniche che includono il rinforzo di successive approssimazioni, la scomparsa dello stimolo, la simulazione (con animazione), e una
seconda (BARS written) che prevede l’integrazione con
un breve testo scritto.
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Anger e coll.(1996) hanno sperimentato la metodica
shaping con quattro test: Symbol Digit, Digit Span, Simple
Reaction Time e Vigilance Attention Task-VAT, derivato
dalla letteratura sperimentale. I test sono stati somministrati con le tradizionali istruzioni scritte, con le istruzioni
della NES-2 e con la modalità shaping, a step successivi
che simulano la fase di test spiegata e necessitano della risposta corretta da parte dell’utilizzatore affinché la spiegazione possa proseguire. In questo studio si è dimostrata la
capacità di produrre un’adeguata performance ai test da
parte delle istruzioni shaping in tre dei test impiegati; l’unico nel quale non si sono rivelate valide è il test dei tempi di reazione, nel quale non si è riusciti a trasmettere efficacemente il concetto di “più rapidamente possibile”. Questo tipo di istruzioni potrebbe rivelarsi utile per la somministrazione dei test più complessi in soggetti non di lingua
inglese o con bassa scolarizzazione.
La forma BARS written riprende il concetto delle
istruzioni shaping di spezzettare il processo di apprendimento del test, integra gli esempi grafici con alcune frasi
essenziali che riconoscono un linguaggio preciso, focalizza l’attenzione dell’esecutore usando le varie parti del
monitor (es. scritte lateralizzate a seconda dell’area dello
schermo dove si dovrà concentrare l’attenzione), utilizza
27
istruzioni interattive: i soggetti devono eseguire ciascuna
fase o sequenza del test non appena la apprendono, con un
feed-back sulla risposta (es. faccina sorridente per risposta corretta). Anche questa metodica è stata testata su circa 80 soggetti, da parte di Rohlman e coll. (1996), ai quali sono stati somministrati due test: Symbol Digit e Simple
Reaction Time, sia con istruzioni tradizionali (NES 2), che
con le due forme del BARS, scritta (written) e a fasi (shaping). Anche in questo caso si è dimostrata l’utilità delle
istruzioni BARS, che appare evidente per compiti particolarmente complessi quali il Symbol Digit, mentre non apporta significativi vantaggi per test più semplici quali il
Simple Reaction Time.
11.3 Necessità di modelli teorici
All’inizio degli anni ’90, Helena Hanninen pubblicò
una review sui metodi neurocomportamentali, dividendo
gli utilizzatori in due gruppi: quello “conservatore” e quello “progressista”. Ella affermò che il gruppo conservatore
preferiva vecchi test, tratti preferibilmente dalle batterie
neuropsicologiche, con sensibilità documentata e possibilità di confronto fra i risultati di diversi studi. I progressi-
Figura 13. Esempio di istruzioni somministrate con tecnica BARS - test VAT (Anger e coll., 1996)
Figura 14. Esempio di istruzioni somministrate con tecnica BARS-written - test VAT (Rohlman e coll., 1996)
28
sti, invece, furono definiti come coloro che tentavano di
ampliare la selezione dei test attraverso l’introduzione in
tossicologia neurocomportamentale di recenti progressi
teorici o metodologici raggiunti in varie branche della psicologia. Entrambi gli approcci, secondo l’Autrice, presentano aspetti problematici, quello conservativo a causa dell’affidabilità, spesso questionabile, quello progressista per
la mancanza di dati sulla sensibilità dei test. Molti Autori
riconoscono l’importanza di formulare le batterie sulla base di modelli delle funzioni cognitive. L’uso di tali modelli è utile non solo nella progettazione della batteria, ma anche nell’interpretazione dei risultati ottenuti.
Seguendo un approccio conservativo, avvalorato, secondo chi lo adotta, dalle nostre attuali ridotte conoscenze
sui processi cognitivi “normali”, la selezione dei test dovrebbe basarsi su basi strettamente empiriche. Anche se
questo approccio ha ovvi meriti, risulta difficile comprendere come il nostro stato di “ignoranza” possa essere colmato se non si compiono almeno dei tentativi per comprendere per quale motivo questi test si sono dimostrati
sensibili. Il progresso in questo campo potrà essere raggiunto solo attraverso analisi teoriche di quei test dimostratisi empiricamente sensibili, per determinare quale dei
numerosi processi sottostanti la prestazione sono stati intaccati. Questo non significa che i test tradizionali debbano essere abbandonati in favore di nuovi test cognitivi.
Piuttosto, un approccio basato su teorie cognitive richiede
che si riconosca la complessità della natura della prestazione e che si compiano dei tentativi per restringere il range di interpretazioni possibili dei dati. Ad esempio, nel tentativo di interpretare i dati su una prova di memoria compromessa è importante stabilire se ciò derivi da effetti a carico di 1) registrazione sensoriale iniziale delle informazioni, 2) adeguatezza dei processi di decodifica, 3) trasferimento dell’informazione alla memoria a lungo termine,
4) perdita dell’informazione archiviata dovuta a decadimento o interferenze e 5) efficienza nell’utilizzo di meccanismi di recupero nella fase di richiamo o riconoscimento.
La non adeguata funzionalità di qualunque combinazione
di questi processi porterà ad una alterata performance alle
prove di memoria. In tal modo, se non si compirà alcun
tentativo di specificare o restringere il numero delle possibili cause del deficit osservato, resterà solo il dato empirico che la memoria, così come misurata da quel compito, è
compromessa, e non ci saranno progressi nel riconoscimento del tipo di danno.
Al livello più semplice, un approccio basato sulle teorie cognitive cerca di fornire una precisazione più dettagliata del deficit scoperto dai test psicologici. L’obiettivo,
qui, è la caratterizzazione del deficit della performance nei
termini di un ipotetico sottosistema cognitivo, con il conseguente risultato di rendere più semplice la futura selezione delle metodiche una volta nota la natura del disturbo
sottostante. Come primo passo ciò include la localizzazione, quando possibile, del deficit in uno o più processi distinti. Ad esempio, un test come il Symbol Digit è noto per
la sua sensibilità a numerosi tossici. Anche nel caso di un
test eseguito senza errori, una scarsa performance al test
può dipendere da almeno sei fonti, che comprendono la velocità di 1) codificare il simbolo, 2) cercare sullo schermo
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il numero associato, 3) cercare sulla tastiera il tasto corrispondente al numero, 4), esecuzione della risposta, 5) apprendimento dell’associazione fra simboli e numeri, 6) fine coordinamento di tutte queste attività. Partendo dalla
suddivisione fornita dall’analisi del compito, si possono
condurre diversi esperimenti che prevedano diverse modalità di sostituzione simbolo-numero, per precisare quale
dei processi sopra menzionati abbia il maggiore impatto
sulla performance. Ad esempio, si possono condurre varie
manipolazioni della struttura spaziale e organizzativa della griglia simboli-numeri (ordine ascendente/casuale dei
numeri) che permettono di esplorare gli effetti sulla capacità di ricerca all’interno della griglia. Similarmente, si
possono esaminare i processi mnesici valutando il grado di
miglioramento della prestazione ad ogni sostituzione simbolo-numero, o facendo eseguire la sostituzione in assenza della griglia di esempio. Dall’analisi funzionale dei deficit della prestazione diventa possibile localizzare il processo sottostante il deficit stesso. Non si tratta di un mero
esercizio accademico, in quanto vi è la possibilità di sviluppare un mezzo per migliorare la sensibilità dei compiti
focalizzandosi su quelle aree che sono essenziali nella generazione della scarsa prestazione in quel determinato
compito. Ad esempio, in uno studio sugli effetti dell’esposizione a basse dosi di piombo, si è trovato che i test di ragionamento sintattico, ragionamento semantico, i tempi di
reazione a cinque scelte e la memoria a medio termine risultavano tutti alterati per piombemie superiori a 52 µg/dl
(Strollery, 1991). Come discusso in quel lavoro, l’analisi
teorica dei compiti ha dimostrato che la base funzionale di
gran parte del deficit era relativa alle richieste senso-motorie di ciascun test. Ad esempio, i tempi per il ragionamento semantico erano rallentati indipendentemente dalla
complessità del compito proposto, indicando pertanto che
il rallentamento senso-motorio ne era responsabile, piuttosto che un rallentato accesso alle conoscenze semantiche.
Tutti i test somministrati prevedevano la valutazione della
velocità di risposta, con il coinvolgimento di una funzione
senso-motoria. L’analisi teorica ha quindi dimostrato che
l’alterata prestazione ai test dipendeva da un generale rallentamento senso-motorio, senza questo tipo di analisi si
sarebbe concluso erroneamente attribuendo al piombo una
serie di effetti sulle funzioni cognitive che non gli appartengono.
11.4 Problemi economici/informatici
Lo sviluppo di nuovi hardware e software, l’aggiornamento continuo dei sistemi operativi renderebbe necessario un costante aggiornamento anche delle versioni computerizzate delle batterie di test, con un impegno economico notevole. Questo processo è stato attuato solo per alcune di queste, ad esempio la NES, che ha raggiunto la terza
edizione, ma non è nemmeno iniziato per altre, ad esempio
la SPES, che è rimasta ferma alla prima edizione, ormai incompatibile con gli attuali sistemi operativi in uso. I fondi
della ricerca attualmente sono forse più utilizzati per lo
sviluppo di nuove metodiche per l’indagine psicofisiologica, ad esempio per la valutazione della soglia vibrotattile,
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per la registrazione dei tremori, per l’analisi della funzione visiva, settori poco esplorati dalle batterie tradizionali,
come più sopra riportato. L’integrazione dei dati ottenuti
tramite queste metodiche, e i nuovi domini funzionali indagati, con i dati ottenuti dai test tradizionali potranno
aprire nuove strade per la comprensione dei meccanismi e
delle sedi di produzione del danno conseguente all’esposizione a neurotossici, aiutando così chi opera in campo preventivo nell’individuazione di effetti sempre più precoci
per la formulazione di valori limite realmente protettivi.
Contemporaneamente lo sviluppo di agili batterie per l’utilizzo in sorveglianza sanitaria potrebbe fornire a chi quotidianamente segue soggetti esposti a neurotossici nuovi
strumenti per una sempre più efficace tutela della salute
psicofisica degli stessi.
Conclusioni
L’applicazione dei test neurocomportamentali in Medicina del Lavoro riguarda prioritariamente, al giorno d’oggi,
il campo della ricerca, nel quale i test vengono utilizzati per
indagare l’esistenza di effetti precoci in soggetti esposti,
con il risvolto applicativo, di frequente riscontro, di incidere sulla definizione dei valori limite di esposizione.
Anche in questo campo, pur essendo quello maggiormente rappresentato, molto resta da fare: abbiamo visto
come la scelta dei test sia ancora guidata da criteri piuttosto empirici, come si basi prevalentemente sulla letteratura già esistente, come poco sia noto sulle sedi di effetto a
questi livelli di esposizione e sui correlati biochimici/neuroendocrini, anche se in questo settore specifico gli sviluppi di nuove conoscenze sono promettenti. I risultati positivi o negativi di tali indagini vanno letti in funzione di un
numero notevole di possibili fattori di confondimento, non
da ultimo va considerata anche la scelta dei test: difficilmente potranno essere messi in luce effetti conseguenti all’esposizione ad una sostanza se non vengono utilizzati almeno quei test che empiricamente si sono dimostrati più
sensibili, in questo caso nessuna inferenza potrebbe essere
dedotta da eventuali risultati negativi. Più interessante invece il riscontro di risultati negativi in lavori rigorosi, ben
disegnanti e controllati, con una buona definizione dei livelli di esposizione e che abbiano operato una corretta selezione dei test: in questo caso risultati negativi potrebbero portare alla definizione di valori soglia al di sotto dei
quali l’effetto neurocomportamentale non si manifesta (vedi l’esempio sui gas anestetici, paragrafo 10.3.1).
Un altro interessante risvolto dell’applicazione dei test
nella ricerca riguarda la possibilità di indagare gli effetti
cronici conseguenti ad una esposizione protratta a neurotossici, con le possibili ripercussioni sulla perdita di riserva funzionale e di accelerazione della curva fisiologica di
decremento della funzionalità mentale. Gli studi condotti
con disegno longitudinale rappresentano però al giorno
d’oggi, purtroppo, solo una parte esigua dei lavori pubblicati, per motivi che sono già stati discussi.
Pare poco realistico affermare, oggi, che i test abbiano
una reale applicazione anche al fuori della ricerca: nell’ambito della sorveglianza sanitaria ci sono state alcune
29
proposte che però non si possono ancora considerare di
reale applicabilità, per la mancanza di valori di riferimento adeguati e per una validazione dei metodi tuttora non
ancora completata.
In altri settori della nostra disciplina si può fare ricorso
a test molto semplici, quali i tempi di reazione, con valori
di riferimento generalmente differenziati per sesso ed età,
ad esempio come ausilio nella definizione di alcuni giudizi di idoneità specifici per mansioni che richiedano un notevole e costante impegno della capacità attentive (lavori
nel traffico stradale, conduzione di macchine complesse,
guida di veicoli, etc.).
Infine, test di personalità e neuropsicologici tradizionali
interessano il medico del lavoro nella definizione e valutazione di tutte quelle patologie che possono da un lato riconoscere il lavoro, nei suoi aspetti organizzativi e relazionali,
come possibile causa o concausa di patologie professionali
(psicopatologie da lavoro) e dall’altro di quelle patologie
neuro-psichiche che non riconoscono un’eziologia lavorativa ma che comportano una serie di complesse analisi per la
definizione della compatibilità fra il soggetto portatore di tali quadri patologici e la mansione lavorativa specifica.
Ringraziamenti
I nostri più sinceri ringraziamenti per i preziosi suggerimenti, il materiale fornito e la paziente opera di correzione alla dott.ssa Maria Grazia
Cassito, della Clinica del Lavoro di Milano, il cui apporto è stato indispensabile per la stesura di questo elaborato che in larga misura è stato
improntato dal contenuto delle lezioni e dispense del corso da lei tenuto
per gli specializzandi della Scuola di Specializzazione in Medicina del
Lavoro di Milano, cui abbiamo avuto l’opportunità di partecipare.
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