NEUROSCIENZE Come il cervello genera la coscienza Recensione e guida alla lettura di Come pensa il cervello di Walter J. Freeman, Einaudi, Milano, 2000. (Titolo ed edizione originale, How Brains make up their minds, Columbia University Press, 1999) di Eugenio Borrelli [email protected] Informazioni sull'autore Nota bibliografica <<...da alcuni anni il maggior numero di premi Nobel va ai neuroscienziati. Una tale concentrazione di sapere lascia prevedere come prossima la soluzione del problema dei problemi, la risposta alla madre di tutte le domande: che cos'è la coscienza? voglio dire che le neuroscienze, insieme con le scienze cognitive sono oggi l'avanguardia intellettuale che ci farà decifrare l'essenza della specie umana>> Rita Levi Montalcini (La Repubblica, Martedi 10 Ottobre 2000, p. 13, intervista rilasciata in occasione del conferimento del premio Nobel per la Medicina ai tre neuroscienziati Carlsson, Greengard e Kandel) Ormai di frequente i mass-media ci segnalano la sensazionale scoperta del tal gene adibito ad una specifica funzione intellettuale, oppure di una particolare sostanza prodotta dal nostro organismo, la quale determinerebbe particolari aspetti del nostro comportamento normale o deviante. A parte le consuete, inevitabili enfatizzazioni e semplificazioni mediatiche, nessuno può negare il profondo impatto che le moderne scienze naturali del vivente, e prima di tutte la biologia molecolare, hanno prodotto e, ancor di più in futuro, continueranno a provocare sulle nostre esistenze, a partire dalla scoperta della molecola del DNA, avvenuta nel 1953. La cosiddetta terapia genetica, ad esempio, ci dà la possibilità di curare il cancro e le malattie ereditarie ma insieme ci offre in prospettiva la possibilità inquietante di manipolare altre caratteristiche della personalità influenzate dall'ereditarietà, come l'intelligenza o la prestanza atletica. Una potente visione riduzionistica della vita sembra così inevitabilmente imporsi lasciando uno spazio sempre più esiguo al libero arbitrio: gli esseri umani appaiono poco più che automi viventi, il cui unico autentico scopo, sarebbe quello di lottare per la sopravvivenza e la diffusione dei propri geni. Di fronte a questo riduzionismo trionfante gli intellettuali di formazione umanistica appaiono disorientati e oggi più che mai propensi ad isolarsi nell'ambito ristretto delle loro discipline, per perpetuare nei loro testi di carattere storico la celebrazione nostalgica di una grande tradizione ormai tramontata. Ci sono poi gli entusiasti cantori delle "magnifiche sorti e progressive" del sapere scientifico, che abbracciano senza ritegno alcuno il riduzionismo scientista, ritenendolo salutare per il futuro delle nostre istituzioni e della nostra stessa civiltà. Sul versante opposto (e direi, quasi speculare) i filosofi di ascendenza nietzschiano-heideggeriana continuano compiaciuti a profetizzare un fosco destino, di cui già avvertiremmo i segni e in cui ciò che comunemente chiamiamo anima e coscienza (a loro avviso tipiche artificiose invenzioni della cultura occidentale, di origine grecocristiana) saranno inevitabilmente dissolte dall'avanzare cieco e tumultuoso della scienza e della tecnologia. Tuttavia ciò che spesso si ignora è che non necessariamente le rivoluzionarie scoperte scientifiche degli ultimi decenni ci conducano a tali raggelanti visioni riduzionistiche e deterministiche dell'uomo. In questo suo recente testo, basato sui dati sperimentali raccolti in più di trent'anni di attività, il neuroscienziato americano Walter Freeman dimostra la plausibilità di una concezione alternativa, non-riduzionistica, che ci consenta di analizzare e comprendere scientificamente l'attività cerebrale, in termini compatibili con una descrizione fenomenologica delle esperienze soggettive (percezione, ricordo, aspettative, credenze) che viviamo quotidianamente. L'approccio proposto da Freeman allo studio delle basi neuro-fisiologiche della cognizione si contrappone dunque a quelli, tuttora prevalenti, che egli definisce "materialistico" e "cognitivistico". Ed indubbiamente Freeman può essere considerato un vero e proprio pioniere delle nuove neuroscienze cognitive, ossia di quell'approccio non-riduzionistico allo studio della cognizione umana che, seppure ancora minoritario, comincia a diffondersi e a trovare seguaci in tutto il pianeta1. L'elemento centrale che sta a fondamento di tale nuova visione possiamo individuarlo nella convizione che nello studio scientifico-sperimentale della mente è impossibile prescindere dal suo legame strutturale con il cervello (e in generale con il sistema nervoso), come con il resto del corpo. Di conseguenza, piuttosto che di mente, è più opportuno parlare di agente cognitivo nella sua interezza e della sua interazione dinamica con l'ambiente circostante. I cognitivisti, com'è noto, ritengono invece che l'attività mentale possa essere compresa in analogia con il funzionamento del computer e dunque risulta riducibile all'elaborazione meccanica e disincarnata dell'informazione, gli "input", sotto forma di rappresentazioni ricevute dall'esterno. Questa idea della mente computazionale, sganciata dal cervello e dal corpo si è affermata a partire dagli anni cinquanta, dominando le stesse ricerche neuroscientifiche per oltre trent'anni. Similmente al modello cartesiano dell'organismo vivente come congegno ad orologeria, quello del cervello-computer (il cosiddetto "hardware umido") e, corrispondentemente, della mente-software ha avuto un ruolo euristico molto importante, fornendo una cornice concettuale di riferimento che ha consentito di aprire molte strade alla ricerca scientifica sulla cognizione. Tuttavia, già a metà degli anni sessanta tale modello, che all'inizio sollecitava l'esplorazione dei suoi stessi limiti, si era irrigidito fino a divenire di fatto un dogma. Tant'è che a partire dagli anni settanta gran parte della ricerca neurobiologica fu dominata dalla prospettiva dell'elaborazione dell'informazione, senza che ne venissero messi minimamente in discussione le assunzioni di base. Non solo tra gli specialisti del settore ma, come accade ogni volta che un concetto scientifico ottiene un successo schiacciante, anche presso il grande pubblico si è affermata, radicandosi come una sorta di luogo comune, l'idea che il cervello elabora le informazioni fornitegli dagli stimoli provenienti dall'ambiente. In celebri ricerche sperimentali compiute sulla corteccia visiva gli studiosi hanno individuato e proceduto alla classificazione di neuroni corticali, corrispondenti a determinati attributi dell'oggetto percepito, come l'orientamento, il colore, la luminosità, il contrasto e così via. In base all'ipotesi cognitivista-computazionale questi dati sono stati considerati la conferma della concezione secondo la quale il cervello riceve l'informazione visiva dalla retina, mediante specifici neuroni corticali corrispondenti a determinati aspetti dell'oggetto. L'informazione verrebbe così trasmessa ad altre aree del cervello in cui sarebbe sottoposta ad ulteriori elaborazioni: classificazione concettuale, memorizzazione e, infine, impulso all'azione. Ora, bisogna tenere presenti le modalità sperimentali in cui sono stati effettuati tali studi: animali completamente immobilizzati dall'anestesia venivano messi di fronte ad immagini visive. Gli stessi esperimenti compiuti da altri ricercatori in condizioni meno artificiali di queste, ossia su animali svegli e liberi di agire, mostrano che gli stimoli attivano neuroni diffusi e sparpagliati, non localizzabili in aree rigide (pag. 122). In definitiva l'inadeguatezza del modello causale lineare, del tipo sensazione/input - elaborazione output/risposta, è l'immediata e ineludibile conseguenza dell'enorme complessità del cervello. Esso contiene circa dieci miliardi di cellule nervose o neuroni, che sono connessi in un'intricatissima rete non continua mediante mille miliardi di contatti sinaptici discontinui. Il modo migliore per comprendere il funzionamento di una rete siffatta consiste nel ricorrere al modello fornitoci dalla moderna teoria dei Sistemi Dinamici non lineari (o complessi)2 , la cui proprietà fondamentale è quella dell'auto-organizzazione o emergenza: già sistemi molto più semplici di quelli viventi, come ad esempio uno strato di fluido o una miscela di prodotti chimici, caratterizzati da un alto numero di entità microscopiche interagenti, sotto certe condizioni possono generare delle proprietà globali macroscopiche che non esistono al livello delle entità di base e che vengono designate come "fenomeni emergenti". Tali proprietà globali dipendono dalle configurazioni (patterns) risultanti da interazioni non lineari tra le entità elementari. Da un punto di vista fisico questo legame non lineare è dato dai cosiddetti "anelli di retroazione" (feedback loops) in cui le componenti del sistema si connettono circolarmente, in maniera tale che ogni elemento agisce sul successivo, finché l'ultimo ritrasmette l'effetto al primo. Grazie a questa disposizione circolare l'azione di ciascun elemento risentirà e in qualche modo verrà influenzata da quella degli altri. Ciò consentirà al nostro sistema di due o più componenti di autoregolarsi, fino al raggiungimento di uno stato di equilibrio dinamico. In tal caso accade che gli elementi che compongono il sistema vengono vincolati da quello stato globale che essi stessi hanno generato cooperando insieme. L'interazione circolare o ad anello consente dunque al sistema di auto-organizzarsi spontaneamente senza che ci sia alcun agente esterno che controlli tale organizzazione. Per cui possiamo affermare che nei sistemi auto-organizzati le azioni delle componenti generano il comportamento collettivo e, contemporaneamente, questo guida vincolandole le azioni delle parti3. Un esempio a tutti familiari di questo fenomeno ci è dato dal comportamento di una folla di pendolari in una stazione all'ora di punta. Il comportamento individuale in tal caso consiste nel tentativo di dirigersi il più in fretta possibile in direzione del treno. L'omogeneità di azione consente al comportamento degli individui di combinarsi, per dar luogo al movimento collettivo della folla nella direzione prefissata. L'azione collettiva a sua volta plasma e guida l'attività dei singoli, in modo da mantenere e rinforzare la direzione dello spostamento del gruppo. In modo del tutto simile questa causalità circolare si manifesta al livello dell'attività cerebrale, per cui il cervello deve essere considerato un sistema dinamico (altamente) complesso (Cfr. pag. 157). Questa attività globale è il risultato delle interazioni tra i neuroni, i quali si connettono, costituendo molteplici raggruppamenti chiamati popolazioni neurali (neuronal ensenbles). L'attività di ogni neurone consiste nella trasmissione ad altre cellule nervose di un impulso elettrico, detto "potenziale d'azione". Gli impulsi giungono al neurone tramite i suoi numerosi dendriti (filamenti ramificati che complessivamente presentano l'aspetto di un cespuglio), i quali li convertono in onde. Queste arrivano così al corpo cellulare che provvede a sommarle e a diffonderne il segnale risultante all'assone, un lungo filamento, anch'esso ricco di ramificazioni, unico per ciascun neurone (si veda la figura seguente). Nella "zona d'innesco" (il segmento iniziale dell'assone) il segnale viene riconvertito in un treno d'impulsi, i quali percorrono l'assone giungendo alle sue terminazioni, le sinapsi. Qui gli impulsi elettrici liberano particolari sostanze chimiche, i neuromediatori, che attraversano lo spazio sinaptico per portare il segnale ai dendriti del neurone successivo. Come abbiamo anticipato sopra, non si tratta di una semplice trasmissione unidirezionale dell'impulso elettrico da un neurone ad un altro, bensì di un vero e proprio circuito di retroazione, la quale può avere un carattere positivo o negativo (pag. 62). Si parla di retroazione positiva quando l'effetto dell'interazione consiste nella conservazione della tendenza iniziale: se, ad esempio, un neurone ne eccita un altro, che a sua volta eccita il primo, avremo una retroazione cosiddetta "cooperativa", la quale è una forma di retroazione positiva in quanto la tendenza positiva iniziale dell'azione si conserva. Un secondo tipo di retroazione positiva, detta "competitiva" si verifica quando una coppia di neuroni si inibiscono reciprocamente. Nel caso invece della retroazione negativa un neurone eccitatorio stimola un neurone inibitorio, da cui in seguito viene inibito, di conseguenza il carattere iniziale dell'azione viene invertito. L'opera di "costruzione" del senso intenzionale, o noema (secondo la terminologia utilizzata dal fondatore della fenomenologia Edmund Husserl4) che ha luogo nella percezione sensoriale secondo Freeman può essere compresa efficacemente soltanto esaminando l'attività, simultanea e cooperante mediante tali anelli di retroazione, di milioni di neuroni sparsi in tutta la corteccia cerebrale. La percezione è secondo tale prospettiva un'attività globale, una "Gestalt" dinamica, il cui comportamento non può essere compreso indipendentemente da quello dei singoli neuroni, tuttavia nemmeno ridotto alla loro semplice somma. Le ricerche sperimentali compiute in tanti anni da Freeman e dai suoi collaboratori sviluppano e corroborano questa idea guida, la quale, lo ribadiamo, si contrappone all'impostazione riduzionistica di ispirazione cognitivista-computazionale, che pregiudizialmente ancora prevale in campo neuroscientifico e, in generale, in tutte le scienze cognitive. L'approccio dello scienziato americano è innovativo innanzitutto a livello sperimentale: anziché studiare artificiosamente la risposta delle singole cellule nervose di animali immobilizzati, sottoposti a stimoli esterni, Freeman ha introdotto alcuni elettrodi nel bulbo olfattivo di conigli liberi di muoversi. In tal modo, mediante l'elettroencefalogramma (EEG), ha misurato l'attivita neuronale di quella particolare area della corteccia (pag. 29), mentre l'animale interagiva liberamente con l'ambiente circostante, annusando alcuni oggetti. Freeman ha così potuto scoprire che praticamente tutti i neuroni del bulbo contribuiscono alla generazione di ciascuna percezione olfattiva (pag. 89). In altri termini, in risposta allo stimolo esterno i neuroni danno vita ad un'attività collettiva globale (registrata dall'EEG) "caotica", ma dotata di una certa struttura ordinata. Tant'è che se lo stimolo muta anche minimamente, i neuroni di colpo generano simultaneamente un'altra configurazione, piuttosto complessa ma pur sempre ordinata. Tali configurazioni risultano in fin dei conti <<dipendenti dal contesto, dalla storia e dal rilievo - in una parola dal significato>> (pag. 96) Di conseguenza la percezione olfattiva (e la stessa cosa secondo l'autore si può dimostrare per la visione) non può essere affatto considerata come una mappatura "fotografica", completamente passiva di alcune caratteristiche del mondo esterno, risulta invece una produzione creativa di significati a partire dalla storia e dal rilievo delle esperienze che l'animale ha intrattenuto, per mezzo del proprio corpo con l'ambiente circostante. Per comprendere il modo in cui le proprietà strutturali della popolazione neurale (e in generale dell'intero animale inteso quale agente cognitivo) emergono dall'interazione con l'ambiente è molto utile ed intuitivo riferirsi al concetto di attrattore della teoria dei sistemi dinamici. Gli attrattori sono forme geometriche che caratterizzano il comportamento a lungo termine nello spazio degli stati, uno spazio astratto le cui coordinate rappresentano le componenti fisiche principali del sistema nel suo complesso. I tipi fondamentali di attrattore sono tre: gli attrattori a punto fisso o puntiformi, a cui corrispondono quei sistemi che raggiungono un equilibrio completamente stabile; gli attrattori periodici, corrispondenti a oscillazioni periodiche da parte dei sistemi; gli attrattori strani o caotici (vedi come esempio la figura seguente) a cui corrispondono sistemi dal comportamento non-lineare. La straordinaria complessità di queste traiettorie (frutto di una disposizione spaziale che non è affatto casuale, bensì dotata di un ordine morfodinamico molto sofisticato) ci fornisce l'evidenza visiva dell'impossibilità di prevedere in maniera completamente deterministica il comportamento a lungo termine dei sistemi dinamici non lineari come il cervello, a partire dalle interazioni tra le entità elementari, nel nostro caso i neuroni, che lo compongono. È proprio la mancanza di prevedibilità certa la fonte permanente della creazione di novità, che dipendono ma non sono totalmente riconducibili agli stimoli che nel corso del tempo il sistema riceve dall'esterno. Freeman ha dimostrato che il sistema olfattivo tende a mantenere una stabilità di fondo (pag. 107), governata da un attrattore caotico5. Se infatti il sistema viene perturbato, mediante stimoli olfattivi o con dei farmaci, dopo un po' esso ritorna ad uno stato caratterizzato da un attrattore caotico. Quando poi l'esposizione al nuovo stimolo è piuttosto prolungata e in grado di destare l'attenzione dell'animale, l'attrattore presenta una configurazione piuttosto diversa rispetto a quella dell'attrattore precedente. Ciò significa che il sistema conserva in sé la memoria dell'esperienza passata, apprende, potremmo dire, da essa6. Di conseguenza le configurazioni del sistema <<sono uniche come la storia dell'individuo, poiché derivano dall'esperienza passata che ha modellato le connessioni sinaptiche>> (pag. 112). In conclusione ci preme sottolineare che il rifiuto da parte delle nuove (neuro)scienze cognitive (a cui senza dubbio questo testo fornisce un apporto rilevante) del modello cognitivista-computazionale non equivale ad un atteggiamento oscurantista nei confronti delle nuove tecnologie informatiche. Al contrario senza di esse questo nuovo approccio (come in genere tutta l'ampia galassia di studi sui sistemi non-lineari comunemente nota come scienza della complessità), non sarebbe nemmeno sorto e né si sarebbe sviluppata, come è avvenuto negli ultimi anni. A tal riguardo Freeman sottolinea che il suo tentativo di comprendere l'attività cerebrale, tenendo in debita considerazione la descrizione fenomenologica dei vissuti corrispondenti, si sta sviluppando grazie al recente sviluppo di due nuovi settori scientifici. (pag. 9), le neuroimmagini e la dinamica cerebrale non-lineare (nota anche come neurodinamica). Entrambi questi settori si avvalgono di computer digitali molto potenti e sofisticati che le nuove tecnologie informatiche hanno messo a disposizione solo da pochi anni. Note al testo Per le informazioni riguardo a tale nuovo approccio e alla possibilità di un suo incontro con la fenomenologia di ispirazione o origini husserliane mi permetto di rimandare al mio articolo "Naturalizzare la fenomenologia" (Borrelli (2000 b) e ai relativi riferimenti bibliografici. Tale teoria, che Capra definisce giustamente "matematica della complessità" (Cfr. Capra (1996), § 6, pp. 130-170 della trad. it.), è stata sviluppata solo in tempi recenti, anche se le sue basi vennero poste alla fine dell'ottocento dal grande matematico ed epistemologo francese Jules Henri Poincaré. Si veda al riguardo Clark (1999), p. 91. Cfr. Husserl Edmund, Idee per una fenomenologia pura ed una filosofia fenomenologica, a cura di E. Filippini, 3 voll., Einaudi, Torino, 1976. Il sistema permane nello stato corrispondente all'attrattore puntiforme soltanto in assenza di attivita neurale (p. 108). <<Gli attrattori - scrive Freeman - non vengono modellati direttamente dagli stimoli, ma dall'esperienza precedente [unita] con quegli stessi stimoli>> (p. 79). Riguardo alla scienza della complessità, a cui, come si è visto, le nuove scienze cognitive sono strettamente legate Coveney e Highfield osservano quanto segue: <<Prima dell'avvento del computer digitale, era impossibile per qualunque persona sedersi e introdurre migliaia, perfino milioni di numeri in un sistema di equazioni che descrivono un dato problema complesso - un'intera vita sarebbe trascorsa senza la probabilità di ottenere un singolo risultato utile. La scienza della complessità è intimamente connessa e crucialmente dipendente dalla tecnologia informatica. Il vertiginoso incremento della potenza dei computer negli ultimi cinquant'anni ha consentito agli scienziati e ai matematici di modellare e simulare fenomeni progressivamente più complessi e più interessanti>> (Coveney e H Highfield (1995), p. 15). Informazioni sull'autore Walter J. Freeman è docente della "Graduate school" alla University of California, Berkeley, presso la quale insegna neuroscienze da quarant'anni. E' autore di numerosi articoli di tre libri, Mass Action in the Nervous System, Societies of Brains, e Neuro Dynamics. Sito Web Walter J. 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