Corso di
FILOSOFIA DELLA STORIA
Anno Accademico 2010-2011
Prof. Franco Biasutti
MODELLI DI FILOSOFIA
DELLA STORIA
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SOMMARIO
MODELLI DI FILOSOFIA DELLA STORIA
I - PER UNA DEFINIZIONE DEL CONCETTO DI STORIA
1.1 Aristotele e Tucidide
1.2 Res gestae e historia rerum gestarum
1.3 Interpretazione e tradizione
1.4 Il problema del classico
II - GIOVAN BATTISTA VICO: LA STORIA COME SCIENZA NUOVA
2.1 Metafisica come Scienza Nuova
2.2 La Storia come Scienza
2.3 Natura e Storia
III - GEORG WILHELM FRIEDRICH HEGEL: LIBERTÀ E STORIA
3.1 La collocazione sistematica della storia
3.2 La natura della storia
3.3 Il soggetto della storia
3.4 Le epoche della storia
IV - WILHELM DILTHEY: SCIENZE DELLO SPIRITO E CRITICA DELLA RAGIONE STORICA
4.1 La distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito
4.2 Critica della ragione storica
V - JÜRGEN HABERMAS: LA MODERNITÀ COME PROGETTO INCOMPIUTO
5.1 Moderno e post-moderno
5.2 Il concetto hegeliano della modernità
5.3 Nietzsche e il post-moderno
5.4 Per una autentica critica alla filosofia del soggetto
3
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I
PER UNA DEFINIZIONE DEL CONCETTO DI STORIA
1.1 ARISTOTELE E TUCIDIDE
Il primo problema che si deve affrontare è spiegare di che cosa si
tratta, quando si parla di modelli di filosofia della storia.
Aristotele nei Topici (1) dice che quando dobbiamo fare una indagine, per scoprire la verità, possiamo cominciare a partire da quella che è
l'opinione più accreditata, l'opinione dei più sapienti o di coloro che sono reputati tali. Quindi per definire quello che è l'oggetto della filosofia
della storia faremo riferimento ad alcuni autori tra i più sapienti
nell'ambito della materia per cercare di capire che cosa è la filosofia della storia, per cercare di capire che cosa vuol dire mettere in relazione il
pensiero filosofico con il sapere storico. Con il termine modelli si intende
quindi fare riferimento ad alcune prospettive filosofiche, che possono
avere acquisito un valore emblematico nell'ambito di quella che è stata
la filosofia della storia. Se possiamo dare per il momento come non problematizzato che cosa sia filosofia, resta tuttavia da precisare cosa si
intende per storia. Non si tratta qui di dare una valutazione metafisica
del termine storia, ma semplicemente spiegare il significato del vocabolo.
I termini greci hístor e historía derivano entrambi dalla radice Fid
del verbo oráo = vedo, il cui perfetto oĩda significa ho visto e quindi so,
conosco. Il vocabolo hístor significa quindi in prima istanza colui che sa,
colui che conosce, nel senso di colui che ha visto: e quindi, in senso derivato, hístor è il giudice, l'arbitro o il testimone. Sotto questo profilo, la
parola historía viene ad assumere in primo luogo il significato di: a) indagine, ricerca; in secondo luogo b) relazione verbale o scritta relativa
all'indagine fatta, e perciò racconto, esposizione; in terzo luogo c) storia,
opera storica.
Il termine latino historia si presenta in tutto e per tutto come un
calco perfetto di quello greco, anche per quanto riguarda i suoi significa-
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ti: indagine, conoscenza, notizia, racconto orale o scritto, ricerca storica,
storia, ecc.
Dall'originario termine greco è derivato non soltanto il vocabolo latino, ma anche quello in tutte le principali lingue europee moderne: ad
esempio l'italiano storia, il francese histoire, l'inglese history. Una eccezione parziale è offerta dalla lingua tedesca, la quale al calco grecolatino Historie (storia, ma anche storiografia) affianca il termine Geschichte.
Originariamente historía significa perciò svolgere un'indagine, una
ricerca, analizzare osservando di persona determinate cose, determinati
fatti o avvenimenti e quindi presentare una relazione che può essere
verbale o scritta. In questo senso il termine assume il significato di racconto, di esposizione e soltanto in forma derivata significa storia od opera storica. Il significato originario è quindi molto diverso dal modo in cui
noi oggi usiamo correntemente questa parola: un lungo percorso è stato
quindi compiuto e noi possiamo ancora rinvenire una traccia di quello
che era il significato originario non solo nella cultura antica, ad esempio
con la Naturalis historia di Plinio il Vecchio ma anche all'interno della
cultura moderna, ad esempio con l' Histoire naturelle (1749) di Buffon:
tanto nell'un caso come nell'altro historia/Histoire significa esposizione
di una ricerca fatta su vari aspetti delle cose naturali.
Come si arriva a precisare la natura della storia come comunemente la intendiamo oggi?
Probabilmente uno dei primi tentativi di sistematizzazione filosofica
del concetto della storia è rinvenibile nella Poetica di Aristotele. Aristotele prende le mosse da quello che è il significato originario del termine
historía vale a dire racconto, narrazione: però ci sono molti tipi di racconto. Da questo lato l‟ historía nel senso peculiare di storia, si presenta come una forma specifica di narrazione, che segna una differenza
nell'ambito del lógos. Nel caso della storia propriamente detta con quale
tipo di racconto, di discorso abbiamo a che fare? Aristotele tenta una
prima approssimazione della definizione della natura della storia proprio attraverso la distinzione tra poesia e storia: "Da ciò che si è detto è
chiaro che compito del poeta non è dire le cose avvenute, ma quali possono avvenire, cioè quelle possibili secondo verisimiglianza o necessità.
Lo storico e il poeta non si distinguono nel dire in versi o senza versi (si
potrebbero mettere in versi gli scritti di Erodoto e nondimeno sarebbe
sempre una storia, con versi o senza versi); si distinguono invece in
questo: l'uno dice le cose avvenute, l'altro quali possono avvenire. Perciò
la poesia è cosa di maggior fondamento teorico (philosophóteron) e più
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importante della storia perché la poesia dice piuttosto gli universali, la
storia i particolari" (2).
Tanto la poesia quanto la storia sono assunte da Aristotele come
un modo del léghein, del dire o del raccontare, però sono due modi differenti e opposti di racconto. Il problema è cogliere questa differenza: essa comunque non risiede nel diverso modo di esporre, ovvero nel fatto
che nel primo caso avviene in versi, nel secondo in prosa. Una narrazione di Erodoto, anche se venisse trasposta in versi, resterebbe sempre e
comunque una narrazione storica e non diventerebbe mai poesia. Quindi, dal punto di vista aristotelico, la forma dell'esposizione è indifferente
a caratterizzare la natura della storia rispetto alla poesia. La differenza è
soprattutto una questione di contenuto: la poesia, infatti, racconta le
cose quali possono avvenire, il terreno della poesia è il possibile, la storia invece racconta le cose che sono avvenute: ciò che è già avvenuto è
qualcosa di specifico, determinato e immodificabile. Mentre tutto ciò di
cui la storia parla deve essersi realizzato, non tutto ciò di cui parla la
poesia deve necessariamente realizzarsi. Incentrando il discorso sul
contenuto Aristotele trae delle conseguenze che non possono essere
considerate di poco conto. Dato che la sua sfera d'azione coincide con il
campo della possibilità, la poesia ha per oggetto l'universale; la storia,
muovendosi nell'ambito di ciò che è già avvenuto, ha per oggetto il particolare, nel senso del determinato. Ma questo a sua volta significa che
la poesia, proprio perché ha di mira ciò che è universale, deve essere
considerata più filosofica e più importante della storia. Questo è il paradosso del pensiero aristotelico Per noi è naturale parlare di scienze storiche, ma dal punto di vista aristotelico la storia non è scienza Se uniamo
questo discorso al precedente che egli ha fatto, e cioè che la scienza è
solo dell'universale e mai del particolare (3), si vede chiaramente che,
dal punto di vista aristotelico, alla storia sembra essere preclusa la possibilità di realizzarsi come scienza.
Dovendo affrontare il problema della natura della storia è forse opportuno, a questo punto, passare ad esaminare anche il punto di vista
degli storici: la figura di Tucidide, uno dei più grandi storici dell'antichità, può costituire un buon punto di riferimento.
Per Tucidide la storia si qualifica in primo luogo a) come "ricerca
della verità (zétesis tès aletheías)"; in quanto ricerca della verità essa
possiede una caratteristica peculiare, nel senso che richiede b) "la maggiore esattezza (akríbeia) possibile"; sulla base di queste premesse, il
contenuto della storia sono le opere, "i fatti (tà érga)" (4).
Il termine greco érgon significa esecuzione, opera, fatto pratico,
concreto, e come tale si oppone ad esempio a mŷthos (racconto) o a ló-
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gos (parola). In quanto ricerca della verità attuata con la maggiore esattezza e precisione possibile, la storia è un discorso, una narrazione orientata alla concretezza, ovvero alla realtà effettuale.
Quello che è innanzitutto interessante notare è che anche Tucidide,
così come Aristotele, tenta in prima istanza una definizione della storia
attraverso un confronto con la poesia. Anche per Tucidide la poesia si
contrappone alla storia: la poesia è indirizzata al mito, che non ha la
pretesa di avere un aggancio con la realtà; la storia, viceversa, ha come
obiettivo non le belle parole o i discorsi eleganti, ma il vero, la realtà
concreta. Tucidide, tuttavia, capovolge la concezione aristotelica: per
Aristotele la differenza, come si è visto, era data dalla natura dell'oggetto; per Tucidide, invece, la differenza è data dal fine radicalmente diverso che i due tipi di narrazione si propongono. Secondo lo storico ateniese, infatti, poesia e storia possono avere lo stesso oggetto, raccontare gli
stessi avvenimenti, ma lo scopo è totalmente diverso: la poesia è una
narrazione mitica, fantastica dei fatti, la storia è un racconto vero, preciso. Lo storico, secondo Tucidide, non si preoccupa di abbellire il racconto, e non si prefigge di impressionare i propri lettori.
Dal punto di vista di Tucidide, tuttavia, la storia è anche una ricerca difficile, problematica. Nel capitolo XXII del libro I della Guerra del
Peloponneso, Tucidide inserisce una specie di parentesi di tipo metodologico, in cui spiega i criteri che hanno caratterizzato la sua opera di
storico: "I fatti concreti (tà érga) degli avvenimenti di guerra non ho considerato opportuno raccontarli informandomi dal primo che capitava, né
come pareva a me, ma ho raccontato quelli a cui io stesso fui presente e
su ciascuno dei quali mi informai dagli altri con la maggior esattezza
(akríbeia) possibile. Difficile era la ricerca, perché quelli che avevano
partecipato ai fatti non dicevano tutti le stesse cose sugli stessi avvenimenti, ma parlavano a seconda del loro ricordo o della loro simpatia per
una delle due parti" (5).
Tucidide parla qui da vero hístor, da testimone, da colui che sa
perché ha visto e quindi può essere giudice e valutare i fatti. La storia,
tuttavia, non è il racconto delle cose secondo "opinione (dóxa)": se la
storia non può accontentarsi di semplici opinioni, allora essa contiene
al proprio interno anche l'opposizione tra dóxa e verità. Al servizio della
verità sta, come si è visto, la precisione del racconto: ma proprio qui è
contenuto un problema, perché la precisione può essere ottenuta solamente "per quanto è possibile", non c'è mai una esattezza assoluta.
Se da un lato Tucidide racconta gli avvenimenti di cui è stato presente, ciò non esclude, dall'altro, la necessità di informarsi anche da
altri testimoni: proprio questo rende la ricerca difficile, perché, avverte
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sempre Tucidide, coloro che sono stati presenti ai fatti possono non dire
tutti le stesse cose sugli stessi avvenimenti, in quanto ciascuno parla a
seconda del proprio ricordo, o della simpatia per l'una o l'altra delle parti in conflitto. Questo significa che la storia è sì la ricostruzione dei fatti
così come essi sono accaduti secondo verità, ma essa restituisce i fatti
attraverso:
a) la mediazione del testimone;
b) la mediazione della memoria;
c) la mediazione tra molti punti di vista.
Ciò di cui Tucidide si fa interprete è che il problema della verità
della storia nasce sempre e comunque attraverso una dialettica dell'opinione. Il che vuol dire che per quanto lo storico operi con il massimo di
akríbeia, questa volontà di precisione non può mai essere assoluta, perché comunque deve fare i conti con i propri limiti strutturali, che sono
dati dal problema delle testimonianze, dal problema delle fonti e dal
problema della loro credibilità.
1.2 RES GESTAE E HISTORIA RERUM GESTARUM
Le annotazioni metodologiche di Tucidide possono risultare utili
per focalizzare un aspetto specifico dell‟essere storico, quello per cui
questo presenta una sua natura particolare, di essere impastato di interpretazioni: non può essere sottaciuta la insopprimibile presenza della soggettività dello storico.
È stato osservato che esiste una ambiguità di fondo, contenuta nel
termine storia, ambiguità che accomuna tutte le lingue europee moderne, nel senso che il significato tende a sdoppiarsi lungo due direzioni: a)
la storia intesa come res gestae, le cose accadute, la “realtà storica”,
cioè i fatti (il senso oggettivo della storia); b) la storia intesa come historia rerum gestarum, come narrazione delle cose che sono accadute, come
“conoscenza storica”, come scienza che regola la conoscenza dei fatti,
l‟interpretazione dei fatti (il senso soggettivo della storia) (6). Il problema
su cui è opportuno ancora riflettere è il rapporto che esiste tra significato, valore oggettivo della storia (res gestae) e quello che abbiamo definito
come significato soggettivo della storia (historia rerum gestarum).
Va in primo luogo osservato che i fatti lontani nel tempo noi li possediamo soltanto attraverso il racconto, ed in questo caso un ruolo essenziale è giocato appunto dalla memoria. Il tempo, da questo lato, non
significa soltanto lontananza: esso è anche ciò che rende presente, è la
via attraverso a cui le cose non più presenti giungono fino a noi. Per i
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fatti non più immediatamente presenti, quindi, la historia rerum gestarum è essenziale al costituirsi delle res gestae. Ma anche per i fatti che
costituiscono la nostra attualità storica avviene qualcosa di simile. A
causa infatti della sfera limitata della coscienza, la realtà viene a noi
anche attraverso gli altri e ci viene data nel suo complesso grazie ad un
insieme di rapporti intersoggettivi: la nostra esperienza storica non è
mai qualcosa di immediato, ma piuttosto qualcosa che dipende da un
flusso continuo di mediazioni: anche i fatti che compongono il nostro
presente ci sono dati attraverso il racconto ed in questo senso sono storia.
Quella tra res gestae e historia rerum gestarum è quindi una distinzione che può essere fatta solo a posteriori: nell'effettualità della vita e
dell'esperienza, il punto di vista oggettivo dell'evento, in quanto è un
evento oggettivamente accaduto e non modificabile e unico nel suo genere, si sintetizza necessariamente e in maniera indissolubile con quello
che è il punto di vista della sua interpretazione, della sua valutazione.
La prospettiva autentica non è che i fatti esistono, e solo successivamente vengono rivestiti di interpretazioni. Il fatto storico si presenta a
noi come qualcosa di già in sé interpretato. Un primo, elementare esempio di questo processo può essere costituito dalla selezione, che viene fatta già a priori rispetto alla narrazione della storia, tra ciò che è
storico e ciò che non lo è, tra quei fatti che sono "degni" di far parte della storia e quelli che non sono ritenuti tali da diventare oggetto di considerazione storica. Questa selezione tra ciò che resta in quanto viene
trattenuto dalla memoria e ciò che viene lasciato cadere, perso dalla
memoria, è già frutto di una valutazione, di una interpretazione. Si può
quindi parlare di una funzione ontologica dell'interpretazione, in quanto
questa assume un ineliminabile valore costitutivo nei confronti dei fatti.
Sulla base di queste considerazioni appare evidente che quella tra res
gestae e historia rerum gestarum è quindi una distinzione che può essere
fatta solo a posteriori: come Tucidide ha mostrato, l'insopprimibile soggettività dello storiografo fa sì che l'essere storico è sempre l'essere in
quanto interpretato. La storia, certamente, non è riducibile soltanto ad
interpretazione, ma senza interpretazione non ci possono essere accadimenti, fatti, e quindi nemmeno storia.
1.3. INTERPRETAZIONE E TRADIZIONE
All'interpretazione deve essere riconosciuta una valenza costitutiva,
produttiva nei confronti del manifestarsi di ogni fatto storico. In assenza
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di interpretazione l'oggetto storico sarebbe per così dire privato di una
parte di sé, di qualcosa di essenziale al suo modo di essere. Tucidide ha
mostrato come vi sia un rapporto costitutivo tra storia e verità.
L'esattezza del racconto non è un fine, ma piuttosto un mezzo, in
quanto il racconto storico, come si è visto, aspira ad essere narrazione
di cose vere e quindi esso stesso un racconto vero. Ma la pretesa di
verità accampata dallo storico in rapporto ai fatti passa a sua volta
necessariamente attraverso l'interpretazione.
Il problema della verità si intreccia originariamente con quello del
costituirsi dell'oggetto storico: ogni interpretazione di fatti storici, in
quanto interpretazione, aspira alla verità, quindi ad essere
interpretazione vera. Questo pone l'ermeneutica storica di fronte ad una
aporia: da un lato, infatti, ogni interpretazione, in quanto pretende di
essere vera, tende per ciò ad escludere tutte le altre; dall'altro lato, però,
l'esistenza di molte interpretazioni è un fatto incontestabile, che deve
essere almeno in prima istanza accettato. Il diventare consapevoli di
questa aporia strutturale implica il riconoscimento di quella che,
preliminarmente, può essere definita come una dialettica della verità
immanente ad ogni situazione ermeneutica. Il problema che a questo
punto si pone, non è quello di esibire un criterio, individuare un
sistema di regole che permettano di riconoscere l'interpretazione vera e
di isolarla in questo modo dalle altre. Il problema originariamente
contenuto nella situazione ermeneutica è piuttosto, in primo luogo,
quello di vedere in base a quale concetto di verità si debba pensare il
rapporto tra verità ed interpretazione. In relazione alla prima
determinazione dialettica della questione, lo spazio all'interno del quale
procedere alla identificazione del problema va ricercato operando
all'interno delle possibilità che si aprono dopo aver escluso i due
estremi: a) quello per cui una sola è l'interpretazione vera; b) quello per
cui tutte le interpretazioni sono, indistintamente, vere. Deve essere
esclusa ogni forma di dogmatismo assoluto (una sola è l'interpretazione
autentica), in quanto provoca, di fatto, l'annullamento, il soffocamento
dell'oggetto, poiché gli si impedisce di parlare ulteriormente. Ma deve
essere del pari esclusa ogni forma opposta di relativismo assoluto (tutte
le interpretazioni, in quanto tali, sono vere), poiché in questo modo
l'oggetto viene annullato egualmente, polverizzandolo nella molteplicità
indefinita delle interpretazioni stesse.
Adattando a questa situazione una nota espressione kantiana, si
potrebbe arrivare a dire che questo è il factum della ragione
ermeneutica. Dato che si deve escludere sia il relativismo assoluto, sia
il dogmatismo assoluto, ogni interpretazione presuppone altre
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interpretazioni, che si distendono non solo parallelamente, in modo
sincronico, ma anche in serie, diacronicamente. Ogni interpretazione
non solo nasce in un costitutivo rapporto con le interpretazioni passate,
che la hanno preceduta, ma si proietta in un implicito ed altrettanto
costitutivo rapporto anche con le interpretazioni che la seguiranno.
Diventa legittimo parlare di verità dialogica proprio in quanto ogni
pretesa di verità avanzata dall'interpretazione deve saper convivere,
nell'ambito di un dialogo/confronto, con altre pretese di verità. Nasce da
qui, proprio all'interno dell'interpretazione, il concetto di tradizione. In
base a questa prospettiva, la tradizione non è semplicemente il
presupposto della interpretazione, nel senso di ciò che precede: prima
viene la tradizione, e poi la si interpreta. Si deve piuttosto ammettere
che c'è tradizione solo nell'interpretazione e per l'interpretazione. La
tradizione non è la cosa che deve essere interpretata, quanto piuttosto
da un lato il luogo in cui si realizza, scorre il processo
dell'interpretazione, e dall'altro questo processo stesso, considerato nel
suo accumularsi e consolidarsi in risultati. Così come la tradizione non
è una cosa già costituita prima dell'interpretazione, altrettanto la verità,
in rapporto a cui l'interpretazione stessa viene pensata, non si
costituisce come una cosa, ma come processo, all'interno del quale i
termini di essenza, di manifestarsi e di verità stessa diventano concetti
equivalenti. Dato che qui fenomeno non è la rivelazione parziale,
imperfetta di una fantomatica cosa, ma è piuttosto, colto nel suo darsi
storico, il mostrarsi della cosa così come essa è (in questo senso quindi
la sua verità), si viene ad accettare implicitamente che ciò che non
giunge a manifestarsi è appunto il non-vero: il mistero, ciò che programmaticamente si sottrae alla manifestazione, diventa il principio del falso.
Alla luce di queste considerazioni, diventa evidente che l'interpretazione
è destinata ad assumere un ruolo costitutivo/produttivo tanto nel
costituirsi della tradizione, quanto nel manifestarsi della verità: non c'è
tradizione senza interpretazione, così come senza interpretazione non
c'è nemmeno verità. In questa ottica, il concetto di classico si presta in
modo opportuno ad illustrare e chiarire proprio quello che deve essere
considerato come una delle basi, dei fondamenti di quella che potrebbe
essere definita come la ragione ermeneutica, vale a dire appunto il ruolo
costitutivo/produttivo dell'interpretazione nei confronti della verità e
della tradizione.
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1.4 IL PROBLEMA DEL CLASSICO
Nel "Poscritto" alla terza edizione di Verità e metodo Gadamer
sottolinea la rilevanza del concetto di classico, definendolo come "la
categoria par excellence" della coscienza ermeneutica intesa come
coscienza storica (7). Nell'ambito di questa prospettiva si deve perciò
pensare che il concetto di classico assuma valore esemplare in relazione
all'ermeneutica storica proprio perché certi determinati aspetti
dell'interpretazione sono in esso evidenziati, diventando così più visibili.
Giova probabilmente a questo punto ripercorrere brevemente la storia
della parola. Nella lingua latina, come è noto, classicus era un termine
che riguardava le "classi" dei cittadini romani, ed indicava appunto un
"cittadino della prima classe"; con la tarda latinità il termine ha
acquisito un significato traslato, venendo a designare ciò che è
eccellente nella sua classe o ciò che in generale appartiene ad una
classe eccellente: classicus scriptor significa quindi scrittore di
prim'ordine, scrittore esemplare, e quindi infine classico semplicemente,
nel senso di autore tenuto come modello. Il termine classico ha avuto
perciò sin dalle origini una applicazione problematica ed in un certo
senso ambigua, in quanto può designare: a) un'opera o un autore
appartenente ad una cultura superiore, venendo così ad esprimere un
giudizio di valore; b) un ideale di perfezione, espressione di un mondo,
l'antichità greca e romana, da cui il presente si è allontanato,
esprimendo in questo modo un giudizio storico di valore; c) un concetto
stilistico, designando ciò che è dotato di determinate caratteristiche,
quali l'armonia, la compostezza, l'equilibrio formale, esprimendo in
questo caso un valore assoluto di perfezione. Da classico deriva
ovviamente classicismo, con cui si intende un movimento, un
atteggiamento culturale che attribuisce valore esemplare ai modelli di
arte e di pensiero dell'antichità classica. Corrispondentemente alla
pluralità di significati impliciti nel termine classico, anche il concetto di
classicismo ha potuto designare una molteplicità di atteggiamenti
culturali: per il passato, comunque, classico e classicismo, hanno
potuto conservare un significato sostanzialmente equivalente, in quanto
mantenevano come punto di riferimento un quadro omogeneo di
contenuti e di valori, vale a dire la classicità o antichità greca e romana.
Occorre tuttavia riconoscere che attualmente, considerato come
categoria storiografica, il concetto di classico trova un uso più ampio
rispetto a quello che un tempo veniva definito dal riferimento ai
contenuti del classicismo ovvero dell'antichità classica: il concetto di
classico non è più espressione di una determinata esperienza storica e
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quindi, di conseguenza, non definisce più un concetto stilistico univoco.
Si parla infatti, indifferentemente, di "classici del pensiero medievale" e
di "classici del pensiero contemporaneo", oppure di "classici della
letteratura inglese" accanto ai "classici della letteratura italiana", in
riferimento perciò sia ad epoche storiche diverse come a situazioni
culturali geograficamente diversificate. In questo modo Dante,
Shakespeare, Kant, Hegel, Leopardi, Heidegger, così come i molti altri
esempi che potrebbero essere ancora enumerati, sono tutti a pari titolo
e motivatamente considerati dei "classici", in relazione tuttavia ad una
molteplicità di esperienze storico-culturali e quindi come espressione di
una molteplicità di stili. In questo modo il concetto di classico non solo
è più esteso in senso quantitativo, occupa, per così dire, più spazio
rispetto al passato, ma si è anche arricchito di contenuto: esso va
quindi ripensato a partire da questo suo nuovo uso. Il problema che si
pone a questo punto non è, ovviamente, quello relativo a chi siano i
classici, ma piuttosto quello relativo a che cosa, in un'opera, la renda
effettivamente un classico.
In Verità e metodo Gadamer comincia con l'osservare che il concetto
di "classico", usato in riferimento all'antichità classica e quindi agli
autori canonici della "scuola", indica in prima istanza soprattutto
un'epoca ed uno stile; dato però che viene usato in connessione con
l'idea di un nuovo umanesimo, classico non indica semplicemente
un'epoca od uno stile, ma qualcosa di diverso che nello stesso tempo è
anche qualcosa di più di tutto questo: nella misura in cui il concetto di
classico opera come categoria storica, non può costituire l'idea di un
valore soprastorico (8). Di esso si può dire piuttosto che si tratta di una
categoria storica che opera in modo particolare. Secondo questa
prospettiva, possiamo allora considerare il classico come "una specie di
presente fuori del tempo, che è contemporaneo ad ogni presente": in
questo senso si potrebbe dire che classico è bensì ciò che si trova "fuori
del tempo, ma in modo tale che questa sua eternità è un modo proprio
dell'essere storico, quindi, di nuovo, un modo di essere nel tempo;
possiamo dire allora che, come carattere generale, nel classico si
esprime quell'aspetto per cui l'essere storico "è conservazione nel
trascorrere distruttivo del tempo" (9). A partire da questo punto di vista,
Gadamer può affermare che in ogni opera (ed in questo caso si può
parlare di ogni forma di espressione, sia essa linguistica oppure no)
sono implicati "tutti i possibili destinatari di oggi e di domani" (10). Una
tale condizione è osservabile ad ogni modo in maniera più macroscopica
nel caso delle arti figurative. L'oggetto artistico, in quanto oggetto
storico, anche in virtù della sua pregnanza fisica (una statua, un
14
monumento, un edificio), continua anche al di là delle intenzioni
dell'autore: l'opera dura nel tempo e viene così "letta", interpretata da
più soggetti, diacronicamente. Si potrebbe ricavare da qui il principio
generale per cui le possibilità
dell'interpretazione non sono mai
completamente disgiunte dai mezzi materiali a cui una cultura ha
affidato la propria sopravvivenza.
Finora, tuttavia, sono state evidenziate certamente delle proprietà
fondamentali, ma non ancora l'essenza. Infatti, non tutto ciò che si
conserva è un classico. Classico è semmai ciò che si conserva in un
certo modo e questo concerne non solo un problema di trasmissione nel
tempo (conservazione), ma anche di comunicazione. Classico allora
potrebbe essere definito ciò che è sempre immediatamente accessibile
ed è quindi sottratto non solo alla mutevolezza dello scorrere del tempo,
ma anche al variare del gusto: in quanto tale, esso possiede una forza
comunicativa immediata ed in linea di principio illimitata (11). Da
questo lato Gadamer si trova a condividere in pieno una affermazione di
F. Schlegel: "Una scrittura classica non deve mai essere intesa
appieno"(12). È tuttavia possibile obiettare che non è così semplice
riuscire a vedere nel classico un serbatoio illimitato di senso. Se si
ammette, infatti, che la dimensione del classico è un carattere dell'essere storico, ne consegue allora che, proprio in quanto legato ad una
precisa epoca storica, il classico possiede comunque un contenuto
storicamente determinato e quindi di per sé limitato. Resta a questo
punto ancora insoluta la domanda: da dove proviene il conferimento di
senso?
Gadamer osserva che nel concetto di classico confluiscono, per
riunirsi, un aspetto storico da un lato, ed un aspetto normativo (che
coincide con il significato originario di classico) dall'altro: ciò significa
che una determinata fase dello sviluppo storico dell'uomo viene
considerata anche come configurazione matura e completa dell'umano
(13) e quindi, in questo senso, anche come valore. Classico è perciò la
trasmissione/conservazione (aspetto storico) di un contenuto
normativo: ciò che è mantenuto, deve essere sentito in più come norma
o valore. Sotto questo profilo il problema del classico coincide, almeno
per il suo aspetto formale, con quello del valore; a questo punto,
tuttavia si pone il problema: i valori (il significato normativo del classico)
sono voluti in quanto valgono, oppure essi valgono in quanto sono
voluti? Gadamer, per parte sua, sembra propendere per la prima
ipotesi. Classico è ciò che non richiede innanzitutto il superamento
della distanza storica, poiché esso stesso compie, attraverso una
mediazione costante, tale superamento (14). Questo per quanto
15
riguarda l'aspetto storico: ma una analoga autosufficienza sembra vada
riconosciuta, secondo Gadamer, anche per quanto concerne l'aspetto
più propriamente normativo. Classico, da questo lato, è ciò che si
mantiene
valido
di fronte
alla
critica
storica
(di
fronte
all'interpretazione), in quanto la "potenza obbligante della sua validità
che dura e si tramanda, precede ogni riflessione storica e si fa valere in
essa" (15). Rispetto al punto di vista gadameriano va comunque
osservato che indubbiamente nel concetto di classico si esprime un
valore oggettivo: il problema reale, che Gadamer però non affronta, è
piuttosto riuscire a comprendere come ciò avvenga, ossia in quale modo
il contenuto storico, che si esprime nel classico, possa essere elevato a
norma; ma anche come tale contenuto possa acquistare prima e
mantenere poi il proprio valore oggettivo in senso diacronico.
Per quanto concerne le tematiche fin qui discusse, in Verità e
metodo si fa riferimento al Congresso dedicato al concetto di classico,
tenutosi a Naumburg nel 1930 e che fu dominato dalla personalità di
Werner Jaeger (16). L'avvenimento del Congresso è ricordato da
Gadamer anche nella sua autobiografia (17) come un episodio culturalmente importante ed in quella sede viene tributato un ulteriore omaggio
a quello che può essere considerato come il padre spirituale del "neoumanesimo". Proprio a partire dalle pagine di Paideia, sicuramente la
più celebre delle opere di W. Jaeger, che costituisce ancora oggi una
delle testimonianze più lucide e letterariamente più efficaci per quanto
concerne il significato della cultura antica nel nostro secolo, può
cominciare un approfondimento della problematica relativa al significato
del classico.
Nella "Prefazione" alla prima edizione del volume primo di Paideia,
che porta la data significativa dell'ottobre 1933, W. Jaeger chiarisce che
scopo del suo libro è innanzitutto quello di "esporre il processo
formativo storico dell'uomo greco", vale a dire, come viene precisato più
avanti, "la paideia, nella sua peculiarità e nel suo sviluppo storico
inconfondibili" (18). Il fine che l'opera si propone è quindi, in primo
luogo, quello di una precisa ricostruzione storica, che trova tuttavia la
sua giustificazione da un lato nella "importanza storica dei Greci quali
educatori",
dall'altro
nella loro "influenza imperitura" (19).
Coerentemente con questa prospettiva, il processo di formazione
dell'uomo greco non rappresenta un "mero complesso di idee astratte",
ma deve essere assunto come espressione della "storia stessa della
Grecia nella concreta realtà delle vicende vissute" (20). Proprio perché,
ai suoi occhi, l'ideale umano dei Greci non costituisce un vuoto schema,
collocato fuori dello spazio e del tempo, Jaeger può sviluppare una
16
critica decisa del classicismo ed umanismo antistorico che ha dominato
il campo in epoche passate, ed il cui errore fondamentale è stato proprio
quello di concepire l'antichità classica "quale espressione di un'umanità
assoluta, fuori del tempo": ogni volta che questo accade ci si trova di
fronte a quella che potrebbe essere definita una "teologia classicista
dello spirito". Anche se, nella situazione del presente, il pericolo può
provenire da una direzione opposta, quella cioè di "uno storicismo senza
limiti e senza meta", risulta evidente, che i "valori permanenti dell'antichità classica" e in modo particolare "la loro virtù formativa" possono
essere scoperti e rivelati soltanto come forze operanti nella vita storica,
a quel modo in cui sorsero ed agirono nel loro tempo (21). Come si può
vedere, secondo Jaeger, il contenuto ed il significato normativo del
classico non possono essere colti al di fuori di un momento storico
specifico, quindi soltanto come contenuto storicamente determinato,
compiuto e quindi limitato. Ciò che vi è di peculiare nell'esperienza dei
Greci è costituito dal fatto che quella storia vissuta è diventata per sé
una "forma eterna" (22). Spiegare il concetto di classico significa
spiegare, rendere ragione di questo passaggio, di questa trasformazione,
per cui qualcosa, non di illimitato, ma di finito e di intrinsecamente
determinato, ha acquisito un significato universale.
Come è noto, Jaeger guarda ai principi informatori del mondo
classico come ai valori permanenti in vista di un "futuro umanismo": ciò
non vuol dire appunto innalzare i Greci a "idolo extratemporale", ma
all'opposto che la loro importanza storica è data dal fatto che essi
"sembrano fondersi in un'unità col mondo europeo dell'età moderna",
alla luce di una "affinità spirituale fissata dal destino, ancor viva e
operante in noi"; da questo punto di vista, occorre riconoscere che in
realtà compiono uno spostamento antistorico di prospettiva proprio
coloro che si adoperano per separare il mondo dell'antichità classica da
quello delle nazioni occidentali (23). Nella prospettiva di Jaeger significato normativo e significato storico del classico si fondono insieme, nel
senso che la possibilità di riconoscere l'antichità come valore ha il suo
fondamento in un atto di consapevolezza storica, ossia nel prendere
coscienza che "la nostra storia non comincia propriamente che con
l'Ellade". È tuttavia importante notare che qui cominciamento non
significa soltanto "inizio temporale", ma vera e propria "arché", ovvero
fondamento, "origine spirituale, cui si risale da ogni gradino per trarne
orientamento" (24). Si può comprendere appieno il significato
dell'atteggiamento di W. Jaeger se si tiene ben presente il contesto
storico immediato in cui egli si trovava ad operare: dalle pagine di
Paideia, infatti, emerge con viva drammaticità la preoccupazione per
17
"l'ora presente", in cui una intera cultura, "sconvolta da un'immane
esperienza storica propria", ha avvertito la necessità di iniziare una
"revisione dei propri fondamenti" (25). In questo senso, perciò,
diventano pienamente evidenti le ragioni per cui è possibile affermare
che nel nostro atteggiamento di fronte all'umanesimo del passato si
tratta, in realtà, di noi medesimi e non semplicemente solo dei Greci: il
riaccostarsi alla grecità, infatti, ha come fine di conservare non i Greci,
quanto piuttosto la nostra civiltà (26).
Sulla base delle precedenti osservazioni, siamo probabilmente più
prossimi alla soluzione del problema da cui erano state prese le mosse.
Appare innanzitutto l'insufficienza della posizione gadameriana,
secondo cui il classico è, di per sé, immediatamente in grado di colmare
la distanza storica, e come tale il suo valore normativo viene accettato
perché si pone appunto come norma prima di ogni riflessione storica.
Classico è viceversa ciò che il presente riconosce sia come proprio inizio,
stabilendo una unità di passato e di presente, sia come proprio
fondamento, quindi come valore. Ciò che viene definito come classico
rappresenta, sia nel suo aspetto di conservazione, di continuità storica,
sia nel suo aspetto normativo, un momento in cui il presente inizia una
revisione dei propri fondamenti e come tale quindi è sempre il risultato
di un nostro atteggiamento nei confronti del passato. Senza una
coscienza storica che interpreta, ossia che conserva come memoria ed
unifica nella continuità, non vi sarebbe inizio, né fondamento, e quindi
non vi sarebbe classico. La memoria opera in modo selettivo. In
relazione a questo fatto si può probabilmente parlare di qualcosa come
l'inconscio storico, da intendersi come una sorta di serbatoio che
contiene in modo uniforme la storia, concepita appunto come "il
passato" in generale. In virtù dell'operazione di selezione messa in atto
dalla memoria, certe cose emergono, in quanto sono selezionate e
portate a consapevolezza. Certamente il "classico" è qualcosa che
emerge dall'inconscio storico, ma c'è bisogno di qualcosa che
continuamente lo richiami alla consapevolezza: questa funzione è svolta
dal presente, che si impone a sua volta come inizio e fondamento di ciò
che è classico. Il presente è qualcosa di storicamente determinato, così
come la stessa coscienza storica del presente è un qualcosa di limitato e
di finito. Il classico, quindi, non solo è inizio in rapporto a qualcosa di
determinato e di limitato, ma esso stesso ha un fondamento limitato e
determinato. Perdurare nel tempo da parte del classico significa aver
dato luogo a molti inizi e fondamenti, ossia a molti "presenti": nessuno
di essi è tuttavia determinabile a-priori, nel senso che esso sia
analiticamente per così dire già contenuto nel classico fin da principio.
18
Ciascun cominciamento si aggiunge sinteticamente al contenuto
originario, a quella specifica esperienza storico-culturale che il classico
in sé è stato. Ciò che assume valore di classico rappresenta un inizio
diverso in relazione ad epoche storiche diverse e ciò significa che esso
veicola un significato sempre differente. In sé, il classico non è soltanto
ciò che ha la capacità di mantenersi nel senso della conservazione di
fronte alla coscienza storica, ma anche di diversificarsi in se stesso: in
quanto dice cose sempre diverse, continuamente si trasforma. Questo
diversificarsi è frutto dell'interpretazione come tale. Un classico diventa
tale vivendo dentro la molteplicità delle sue interpretazioni, che
aggiungono ad esso sempre nuova verità, cioè nuova essenza, in quanto
portano a manifestazione sempre nuovi significati. In questo senso il
classico è uno dei segni più visibili del ruolo costitutivo
dell'interpretazione nei confronti dell'essere storico.
***
A partire dalle precedenti osservazioni è possibile prendere in considerazione alcune prospettive ovvero alcuni modelli di filosofia della
storia, intendendo quest'ultima come punto di contatto tra progetto filosofico e fatti storici. Esaminando in successione le prospettive assunte
da G. B. Vico, G. W. F. Hegel, W. Dilthey e J. Habermas si cercherà di
portare alla luce le modalità attraverso cui è possibile l'approccio tra
filosofia e sapere storico. Questi autori sono rappresentativi sia in rapporto a se stessi, ossia per il valore intrinseco della loro proposta filosofica, sia in rapporto a paradigmi più generali, ovvero per il significato
storico assunto dal loro pensiero.
Vico rappresenta indubbiamente una delle prime prese di posizione
consapevoli della modernità nei confronti del tema della storia.
Le Lezioni di filosofia della storia tenute da Hegel quando era docente a Berlino rappresentano un modello ancora non superato per quanto
riguarda le ambizioni e l'ampiezza del progetto. Nell'ambito del rapporto
tra filosofia e storia il pensiero di Hegel, in positivo o in negativo, è un
punto di riferimento, un passaggio obbligato da cui non si può prescindere.
Dilthey rappresenta da un lato la reazione allo storicismo di tipo
idealistico e dall'altro uno dei primi atti di fondazione dell'ermeneutica
contemporanea, intesa come metodologia e scienza dell'interpretazione.
19
Habermas, per parte sua, tenta di formulare una teoria organica
della razionalità alla luce di quello che viene considerato un mutamento
di paradigma fondamentale nello sviluppo storico della cultura filosofica
della Modernità, ovvero il passaggio a quella che viene definita come la
“filosofia del soggetto”.
NOTE
1) Cfr. Aristot. Top., 100 b 22-23.
2) Cfr. Aristot. Poet., 51 a 36 - 51 b 19.
3) Cfr. Aristot. De an., 417 b 23.
4) Cfr. Thucid., I, 20, 3, 21, 1 (cfr. trad. it. La guerra del Peloponneso,
con testo greco a fronte, a cura di F. Ferrari, Rizzoli, Milano 1985, I, p.
107).
5) Ivi, p. 109.
6) Cfr. H.I. Marrou, De la connaissance historique, Éditions du Seuil,
Paris 1954, pp. 38-39.
7) H.-G. Gadamer, Gesammelte Werke, Band 2, Mohr, Tübingen 1986,
p. 476 (H.-G. Gadamer, Verità e metodo 2. Integrazioni, trad. it. di R.
Dottori, Bompiani, Milano 1996, p. 29).
8) Cfr. H.-G. Gadamer, Wahrheit und Methode. Grundzüge einer
philosophischen Hermeneutik, in H.-G. Gadamer, Gesammelte Werke,
Band 1, Mohr, Tübingen 1986, pp. 292-293 (H.-G. Gadamer, Verità e
metodo, trad. it. di G. Vattimo, Bompiani, Milano 1988, pp. 336-337).
9) Ivi, pp. 293-295 (pp. 337-339).
10)
Gadamer, Gesammelte Werke, Band 2 cit., p. 476 (p. 29).
11) Gadamer, Wahrheit und Methode cit., p. 293 e p. 295 (p. 337 e
p. 339).
20
12) Cfr. F. Schlegel, Frammenti critici e scritti di estetica, trad. it. di V.
Santoli, Sansoni, Firenze 1967, p. 21.
13)
Gadamer, Wahrheit und Methode cit., p. 291 (p. 335).
14)
Ivi, p. 295 (p. 339).
15)
Ivi, p. 292 (p. 336, corsivo mio).
16)
Ivi, p. 291 (p. 335).
17) Cfr. H.-G. Gadamer, Maestri e compagni nel cammino del pensiero.
Uno sguardo retrospettivo, trad. it. di G. Moretto, Queriniana, Brescia
1980, pp. 39-40.
18) Cfr. W. Jaeger, Paideia. Die Formung des griechischen Menschen,
Erster Band, De Gruyter & Co., Berlin und Leipzig 19362, p. V e p. 5
(W. Jaeger, Paideia. La formazione dell'uomo greco, Volume I, trad. it. di
L. Emery e A. Setti, La Nuova Italia, Firenze 1967, p. IX e p. 6).
19)
Ivi, p. 8 e p. V (p. 9 e p. IX).
20)
Ivi, p. 5 (p. 6).
21)
Ivi, pp. 14-16 (pp. 16-17).
22)
Ivi, p. 5 (p. 6).
23)
Ivi, p. 15, p. 8 e p. 4 (p. 17, p. 9 e pp. 4-5).
24)
Ivi, pp. 3-4 (pp. 4-5).
25)
Ivi, p. 19 (p. 22).
26)
Ivi, pp. V-VI (pp. X-XI).
21
22
II
G. B. VICO: LA STORIA COME SCIENZA NUOVA
G. B. Vico nasce a Napoli nel 1668, e muore sempre a Napoli nel
1744. La vita di Vico si distribuisce in mezzo a due generazioni di filosofi moderni, da una parte quella rappresentata ad esempio da Locke
(1632-1704), Newton (1642-1727) e Liebniz (1646-1716) e dall'altra
quella costituita ad esempio da Voltaire (1694-1778), Hume (17111776) e Rousseau (1712-1778). La sua opera fondamentale è la Scienza
Nuova, di cui abbiamo a disposizione tre edizioni che corrispondono ad
altrettante stratificazioni dell'opera stessa: 1725, 1730 e quella postuma
del 1744.
2.1 METAFISICA COME SCIENZA NUOVA
Le opere di filosofia a volte hanno un titolo che non è stato attribuito dal loro autore: ad esempio Metafisica o Etica nicomachea, non sono
stati scelti da Aristotele. Laddove sia l'autore a scegliere il titolo, questo
non ha il valore di semplice etichetta e nemmeno quello di uno slogan
concepito per accattivare il pubblico: esso dice sempre qualcosa di specifico in relazione al contenuto speculativo di cui l'opera parla. E' legittimo pensare che Vico avesse piena consapevolezza storica del fatto che
la propria proposta filosofica, in virtù del suo statuto scientifico, costituisse un progetto nuovo rispetto al passato.
Nel caso vichiano, già il fatto che troviamo in un'opera di filosofia il
termine scienza può costituire un elemento in controtendenza, rispetto
a quelle che sono le abitudini del pensiero contemporaneo, nel senso
che oggi si tende a distinguere in maniera a volte molto radicale ciò
che è scientifico da ciò che è filosofico. Molti settori della filosofia contemporanea si fanno un onore di essere appunto non scientifici. Vico
invece chiama Scienza nuova la sua opera filosofica fondamentale. Non
c'è assolutamente niente di strano, rispetto a quanto avveniva nel passato, prima e dopo Vico, in quanto anche Fichte, ad esempio, scrive (e
riscrive con atteggiamento quasi vichiano) la Dottrina della scienza, Hegel pubblica l'Enciclopedia delle scienze filosofiche, e nella tradizione
precedente a Vico autori come Cartesio, Hobbes o Spinoza non avevano
23
dubbi sul fatto che la filosofia fosse una scienza. Una prima cosa da capire è quindi il titolo dell'opera, in quanto, rapportata ai parametri odierni, la Scienza nuova contiene poco di propriamente scientifico. Si
tratta allora di capire in che senso essa possa fregiarsi del titolo di
scienza. Ma prima ancora è opportuno soffermarsi sull'altro termine, e
chiedersi: perché nuova? Questa parte del titolo è qualcosa che nasce
anche da una precisa presa di coscienza sul piano storico: consapevolmente Vico offre il suo progetto filosofico come qualcosa di diverso rispetto al passato, e a questo proposito si tratta di mettere in luce non
tanto quello che noi potremmo trovare di nuovo leggendo il testo vichiano, ma piuttosto quello che Vico considerava da parte sua come nuovo
nella propria opera.
A questo punto ci troviamo di fronte a quello che possiamo definire
come un paradosso, perché proprio nella introduzione che serve a spiegare l'idea dell'opera, viene ricordato che "questa Nuova Scienza" altro
non è che "la metafisica" (1). Il paradosso sta nel fatto che Vico propone
il suo progetto sotto una veste che, almeno a prima vista, si propone
come ciò che più di tradizionale è possibile trovare in campo filosofico.
La Scienza nuova, proprio in quanto nuova, si presenta come metafisica
e da questo lato rientra apparentemente dentro la tradizione. Bisogna
cercare di capire allora cosa significa metafisica per Vico.
Come è noto, l'idea dell'opera vichiana è illustrata in modo figurato
dalla cosiddetta "dipintura", il cui contenuto è spiegato e commentato
da Vico stesso: qui la metafisica è ritratta nell'aspetto di una "donna
con le tempie alate che sovrasta al globo mondano, o sia al mondo della
natura" (2). Vico definisce quindi la metafisica secondo il significato letterale del termine (tà metà tà physiká), accettandone quindi il concetto
più tradizionale: il sapere che ha come oggetto ciò che va oltre la fisica.
Le analogie con la tradizione però finiscono qui. Per Vico, infatti, il
mondo metafisico rappresenta certamente l'aldilà della fisica, ma non
nel senso del passaggio al sovrasensibile, ovvero dalla physis a Dio. La
metafisica si innalza "sopra l'ordine delle cose naturali, per lo quale finora l'hanno contemplato i filosofi", per risalire fino al "mondo delle
menti umane": il vero "mondo metafisico" è costituito quindi dal "mondo
degli animi umani, ch'è'l mondo civile, o sia il mondo delle nazioni" (3).
Il compito della metafisica è quello di studiare le menti umane, ovvero la
natura dell'uomo dal punto di vista del suo comportamento come essere
sociale; in questo senso l'oggetto della metafisica è il mondo costituito
dalle nazioni, che rappresenta da un lato il vertice e dall'altro il punto di
massima concretizzazione dell'agire dell'uomo. L'idea che la metafisica è
quella forma di sapere che si sviluppa al di sopra del mondo della natu-
24
ra assume per Vico un significato tutto particolare, perché è oltre la fisica si colloca appunto tutta quella parte di realtà che è costituita dalle
azioni dell'uomo. La critica che muove alla tradizione è quella di avere
svolto sostanzialmente una indagine di tipo parziale, "perché i filosofi,
infin ad ora, avendo contemplato la divina provvedenza per lo sol ordine
naturale, ne hanno solamente dimostrato una parte, per la quale a Dio,
come a Mente signora libera ed assoluta della natura (perocché, col suo
eterno consiglio, ci ha dato naturalmente l'essere, e naturalmente lo ci
conserva), si danno dagli uomini l'adorazioni co' sacrifici ed altri divini
onori; ma nol contemplarono già per la parte ch'era più propria degli
uomini, la natura de' quali ha questa principale propietà: d'essere socievoli" (4). Secondo Vico, quindi, è proprio quel campo sconfinato e finora totalmente inesplorato che è costituito dalla "vera civil natura
dell'uomo" (5) ad avere bisogno di un attento ed accurato studio sistematico. Da questo lato la scienza di Vico è nuova proprio perché è metafisica ed è effettivamente meta-fisica perché il mondo delle nazioni, lo
sviluppo degli stati e quindi le varie forme di costituzione, le varie epoche dell'umanità osservate dal punto di vista della loro organizzazione
politica, sono l'oggetto fondamentale della sua indagine. Quindi Vico
pubblicando la Scienza nuova espone in modo consapevole un concetto
storicamente nuovo di metafisica, perlomeno totalmente rinnovato rispetto ai suoi tempi. Sotto questo aspetto, l'innovazione che Vico propone è la trasformazione della metafisica da teologia naturale a teologia
civile: "Perciò questa Scienza, per uno de' suoi principali aspetti, dev'essere una teologia civile ragionata della provvedenza divina. La quale
sembra aver mancato finora, perché i filosofi o l'hanno sconosciuta affatto, come gli stoici e gli epicurei, de' quali questi dicono che un concorso cieco d'atomi agita, quelli che una sorda catena di cagioni e d'effetti strascina le faccende degli uomini; o l'hanno considerata solamente
sull'ordine delle naturali cose, onde «teologia naturale» essi chiamano la
metafisica, nella quale contemplano questo attributo di Dio, e'l confermano con l'ordine fisico che si osserva ne' moti de' corpi, come delle sfere, degli elementi, e nella cagion finale sopra l'altre naturali cose minori
osservata" (6). Il passaggio dalla teologia naturale alla teologia civile
comporta anche la distinzione tra quella metafisica che ha "il cuor terso
e puro... non lordo né sporcato da superbia di spirito o da viltà di corporali piaceri" (7) e la metafisica falsa, che assume una prospettiva di
tipo materialistico e che in un passo della edizione del 1730 della Scienza Nuova viene descritta nei seguenti termini: "La falsa e quindi rea metafisica abbia l'ale delle tempie inchiovate al globo dalla parte opposta
coverta d'ombre, perché non possa (e non può), perché non voglia (né sa
25
perché non vuole) alzarsi sopra il mondo della natura; onde, dentro
quelle sue tenebre, insegni o 'l cieco caso d'Epicuro o 'l sordo fato degli
stoici, ed empiamente oppini che esso mondo sia Dio, o operante per
necessità (quale, con gli stoici, il vuole Benedetto Spinosa), ovvero operante a caso (che va di seguito alla metafisica che Giovanni Locke fa
d'Epicuro), e (con entrambi), avendo tolto all'uomo ogni elezione e consiglio, avendo tolta a Dio ogni provvedenza, insegni che dapperutto debbe
regnar il capriccio, per incontrare o 'l caso o 'l fato che si desidera. Ella
con la sinistra tenga la borsa, perché tali venenose dottrine non son insegnate che da uomini disperati, i quali o, vili, non ebbero mai parte allo
Stato o, superbi, tenuti bassi o non promossi agli onori de' quali per la
lor boria si credon degni, sono malcontenti dello Stato; siccome Benedetto Spinosa, il quale, perché ebreo, non aveva niuna repubblica, truovò la metafisica da rovinare tutte le repubbliche del mondo" (8). Dentro
la falsa metafisica, come si vede, sono implicati secondo Vico anche
nomi significativi della modernità; esempio di "sublime metafisica" è
piuttosto il pensiero del "divino filosofo", cioè di Platone: così come sono
da rifiutare tutte le metafisiche "che tengono diverso cammino dalla platonica", altrettanto i "platonici" sono gli autentici "filosofi politici" (9). La
Scienza Nuova si qualifica perciò come una "metafisica della mente umana" che si deve risolvere in "una storia dell'umane idee": in quanto
tale essa "viene nello stesso tempo a descrivere una storia ideal eterna,
sopra la quale corrono in tempo le storie di tutte le nazioni ne' loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze e fini" (10).
Considerando le cose secondo un simile punto di vista, si potrebbe
dire che, se in Vico troviamo una filosofia della storia, si tratta in primo
luogo di una filosofia politica della storia ovvero di una filosofia della storia politica.
2.2 LA STORIA COME SCIENZA
Resta a questo punto da rispondere alla seconda parte della domanda rivolta alla Scienza nuova: perché scienza? Questa domanda rimanda al rapporto tra filosofia e scienza: in che senso possiamo parlare
di scienza in Vico? Il rapporto tra le varie scienze e la filosofia è un problema che si è sviluppato soprattutto ai nostri giorni: si potrebbe quasi
dire che si tratta di uno dei conflitti speculativi del '900, rispetto al quale si sono sviluppate due orientamenti di pensiero. Da un lato stanno
quanti vorrebbero ricondurre la filosofia sul terreno della scienza e questo significa innanzitutto far accettare alla filosofia le regole, i canoni
26
che stabiliscono la scientificità nell'ambito delle singole scienze positive;
dall'altro lato stanno invece quanti sostengono l‟estraneità e
l‟indipendenza della filosofia dalle scienze positive. Almeno una parte
del dibattito filosofico del '900 si è focalizzata su questa questione: se la
filosofia deve essere scienza e a quali condizioni lo deve essere.
Un simile dibattito presuppone tuttavia che vi sia già una spaccatura tra scienza e filosofia. Il fatto che Vico parli senza remore della sua
opera come di una nuova scienza significa che al suo tempo questa
spaccatura non si era ancora consumata. Anzi il problema fondamentale da cui era nato il pensiero moderno era quello di vedere in che maniera la filosofia potesse riappropriarsi della sua dignità di scienza. Ad esempio, per Galilei, Bacone, Cartesio, Spinoza, Leibniz, per fare riferimento ad alcuni degli autori che Vico cita nelle proprie opere, il problema non era tanto di accertare se la filosofia fosse o no una scienza, ma
importante era soprattutto determinare le condizioni a partire dalle quali la filosofia poteva effettivamente realizzarsi come una forma di sapere
che fosse al tempo stesso scientifico.
La risposta generale che la modernità dà a questo quesito è che la
filosofia potrà riappropriarsi della sua dignità di scienza se saprà darsi il
giusto metodo e il problema del metodo scientifico passa attraverso l'accoglimento dei criteri stabiliti dal metodo matematico. Galilei parla della
natura come di un libro, ma di un libro il cui linguaggio può essere inteso soltanto se noi ci abituiamo a ragionare matematicamente. E questo perché il libro della natura è composto da caratteri che sono figure
geometriche.
Da questo punto di vista Vico intende collocarsi lungo la direzione
segnata dalla modernità; nella Scienza nuova la Sezione quarta del Libro
Primo è dedicata appunto alle questioni di tipo metodologico ed a questo
specifico problema la risposta è la seguente: il contenuto dell'opera è
stato "meditato in idea, giusta il metodo di filosofare più accertato di
Francesco Bacone, signor di Verulamio, dalle naturali, sulle quali esso
lavorò il libro Cogitata et visa, trasportato all'umane cose civili" (11).
Non è forse un caso, da questo lato, che il nome del "Verulamio, gran
filosofo egualmente e politico" (12) sia associato non una sola volta a
quello di Platone (13). L'essenza del metodo baconiano è tradotta da Vico nei due principi del cogitare (il ragionare e la razionalizzazione dei
dati) e del videre (i dati raccolti dall'esperienza) (14). Se Bacone aveva
applicato tale metodo alle cose naturali, Vico intende applicarlo o alle
"umane cose civili": in questo modo con la Scienza nuova egli intende
compiere una doppia operazione: da un lato spostare l'asse dell'interesse dalla natura al mondo dell'uomo; dall'altro applicare al mondo delle
27
umane cose civili quella metodologia che il pensiero moderno si era limitato ad applicare al solo mondo della natura.
Vico però non sembra essere perfettamente coerente con se stesso,
perché proprio mentre fa professione di fede baconiana in realtà aggiunge anche un'altra annotazione: egli infatti che la sua scienza "procede appunto come la geometria, che, mentre sopra i suoi elementi il
costruisce o 'l contempla, essa stessa si faccia il mondo delle grandezze;
ma con tanto più di realità quanta più ne hanno gli ordini d'intorno alle
faccende degli uomini, che non ne hanno punti, linee, superficie e figure" (15). Quando ci si riferisce al problema del metodo, si parla della via
che una determinata forma di sapere deve percorrere per raggiungere i
propri scopi, seguendo determinati punti di orientamento e sviluppandosi secondo determinate successioni. La scienza vichiana intende procedere metodologicamente e svilupparsi come la geometria. L'oggetto
della geometria è il mondo delle grandezze e la sua caratteristica epistemologica più rilevante è costituita dal fatto che l'oggetto che essa tematizza, è un mondo che essa stessa costruisce.
La Scienza nuova procede allo stesso modo, seguendo cioè lo stesso
metodo, con questa unica differenza: mentre la geometria si occupa di
grandezze astratte, la Scienza nuova si occupa di cose concrete, in
quanto tratta le faccende degli uomini. Se guardiamo le cose da questo
punto di vista, allora il termine di riferimento non è tanto la filosofia di
Bacone, quanto piuttosto la filosofia di Hobbes.
Hobbes è un autore che Vico conosceva sicuramente: nei suoi scritti ne parla, al pari di Machiavelli, come un seguace di Epicuro e perciò
come un esempio di quella metafisica materialistica, "falsa e quindi rea"
che sosteneva un determinismo meccanicistico, negatore "della libertà
dell'umano arbitrio" e quindi di ogni possibile virtù (16). Il discorso vichiano relativo al metodo ed all'oggetto specifico della Scienza nuova
presenta delle notevoli analogie con le considerazioni sviluppate da
Hobbes nel Capitolo decimo del De homine, dove viene affrontato il problema della struttura epistemica del discorso scientifico. A questo riguardo Hobbes inizia col distinguere innanzitutto tra scienza e cognizione: "Per scienza si intende la verità dei teoremi, cioè delle proposizioni
generali, vale a dire la verità delle conseguenze. Quando invece si tratta
di verità di fatto, si dice non propriamente scienza, ma semplicemente
cognizione. Quindi la scienza grazie alla quale sappiamo che un teorema
proposto è vero, è una conoscenza a partire dalle cause, cioè dalla generazione dell'oggetto, derivata mediante un retto raziocinio" (17).
Se la dimostrazione a priori, cioè l'autentico metodo scientifico, è
quella che procede dalle cause e si sviluppa fino agli effetti e per causa
28
si deve intendere il processo di generazione della cosa. Se io conosco i
processi che generano la cosa, ne consegue allora che "agli uomini è
stata concessa una scienza con quel tipo di dimostrazione a priori solo
nel caso di quegli oggetti, la cui generazione dipende dall'arbitrio degli
uomini stessi" (18). A partire da questi principi metodologici più generali, Hobbes ricava delle distinzioni più specifiche, in relazione alla qualità
epistemologica delle diverse discipline: infatti "dimostrabili sono... molti
teoremi circa la quantità, la cui scienza si chiama geometria. Poiché infatti le cause delle proprietà che le singole figure hanno risiedono nelle
linee che noi stessi tracciamo, e le generazioni delle figure dipendono
dal nostro arbitrio, non si richiede, alla conoscenza di qualsiasi proprietà di una figura, nulla più della considerazione di tutti gli elementi che
conseguono alla costruzione che noi stessi facciamo delineando la figura. Quindi, che la geometria sia ritenuta e sia dimostrabile dipende dal
fatto che noi stessi creiamo le figure" (19). Ciò che è possibile nel campo
della matematica pura non accade invece nell'ambito delle discipline
che studiano i fenomeni della natura: "Di contro, poiché le cause delle
cose naturali non sono in nostro potere, bensì della volontà divina, e
poiché la loro massima parte, cioè l'etere è invisibile, non possiamo dedurre le loro proprietà dalle loro cause, dato che noi non le vediamo. Ci
è invece concesso procedere deducendo le conseguenze da quelle stesse
proprietà che vediamo, fino a poter dimostrare che le loro cause abbiano
potuto essere tali o talaltre. E questa dimostrazione si chiama a posteriori, e la scienza stessa, fisica" (20). Se nel campo delle cose della natura l'uomo è in grado di costruire soltanto una conoscenza che si sviluppa a posteriori, ossia che dagli effetti risale alle possibili cause, vi sono
tuttavia altre scienze, oltre alla geometria, capaci di dimostrazioni a
priori, ossia di un sapere genetico-sintetico: "Anche l'etica e la politica
d'altronde, cioè la scienza del giusto e dell'ingiusto, dell'equo e dell'iniquo, si possono dimostrare a priori; in quanto che i principi grazie ai
quali si conosce cosa siano il giusto e l'equo, e per contro l'ingiusto e l'iniquo, cioè le cause della giustizia, e precisamente le leggi e i patti, li
abbiamo fatti noi. Infatti, prima della istituzione dei patti e delle leggi,
non vi era alcuna giustizia né ingiustizia, né alcun genere di bene o di
male pubblico tra gli uomini, più che tra le bestie" (21). Geometria, etica
e politica presentano delle evidenti analogie di struttura dal punto di
vista del loro statuto epistemologico perché tanto l'oggetto dell'una,
quanto l'oggetto delle altre è qualcosa di prodotto, di costruito dall'uomo.
Vico individua la stessa analogia strutturale tra la geometria, intesa come scienza della grandezze, e la Scienza nuova come scienza delle
29
"cose morali pubbliche" ovvero dei "costumi civili, co' quali sono provenute al mondo e si conservan le nazioni" (22). Il principio basilare da
cui si sviluppa la metafisica vichiana è sostanzialmente contenuto in
"questa verità, la quale non si può a patto alcuno chiamar in dubbio:
che questo mondo civile egli certamente è stato fatto dagli uomini, onde se
ne possono, perché se ne debbono, ritruovare i principi dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana. Lo che a chiunque vi rifletta, dee recar maraviglia come tutti i filosofi seriosamente si studiarono
di conseguire la scienza di questo mondo naturale, del quale, perché
Iddio egli il fece, esso solo ne ha la scienza; e traccurarono di meditare
su questo mondo delle nazioni, o sia mondo civile, del quale, perché l'avevano fatto gli uomini, ne potevano conseguire la scienza gli uomini"
(23). Come si è visto, la novità della filosofia vichiana è costituita dalla
trasformazione della metafisica da teologia naturale a teologia civile: questo spostamento di prospettiva è anche il luogo su cui Vico costruisce la
scientificità del suo progetto. La Scienza nuova, quindi, "ragione con
uno stretto metodo geometrico, con cui da vero passa ad immediato vero", per cui, al fine di comprenderne il contenuto, "è bisogno di aver fatto l'abito di ragionar geometricamente" (23).
2.3 NATURA E STORIA
Il progetto della Scienza nuova è costruito attraverso una serie di
coppie concettuali, che di volta in volta possono essere viste come dei
binomi o come delle opposizioni: mondo della natura/mondo delle nazioni; teologia naturale/teologia civile; anima (mente)/corpo. Con il pensiero di Vico si ripropone il problema del rapporto tra natura e storia,
che si esprime sia nella forma della differenza che della somiglianza. La
prima differenza riguarda l‟origine del mondo della natura e del mondo
della storia. Dio ha creato la natura; se noi svestiamo questa affermazione dagli echi teologici abbiamo il seguente significato: il mondo della
natura è per l'uomo un mondo trovato, già dato, nei cui confronti si
pongono problemi di adattamento per potervi sopravvivere. La prima
determinazione con cui il mondo della natura si atteggia nei confronti
dell'uomo è in generale quello dell'estraneità, una estraneità che ad esempio il Cristianesimo, proprio svolgendo ed accentuando il dualismo
neo-platonico di anima e corpo, ha tendenzialmente sviluppato e approfondito. Viceversa il mondo della storia è quello che l'uomo contribuisce
a produrre con le sue azioni: il mondo delle nazioni è il mondo fatto
30
dall'uomo e questa è la prospettiva di base attraverso cui guardare
all'universo della realtà storica.
Questa divaricazione tra natura e storia non è senza un rapporto di
analogia. Per certi aspetti anche il mondo della storia è qualcosa di già
dato, che ciascuno di noi trova già fatto. Noi non scegliamo il mondo
storico in cui nascere ma entriamo nel tempo e nella storia trovando
una realtà già costituita e nei confronti della quale dobbiamo adattarci.
Per molti aspetti il problema di un adattamento nei confronti della natura è già risolto all'interno di quella che è la compagine civile in cui ciascuno si trova a vivere. Il rapporto con la natura è mediato dal rapporto
con la società: è la società, intesa anche nel senso di cultura e storia,
che tendenzialmente sceglie il tipo di rapporto che ciascuno di noi deve
di fatto avere con la natura.
Per quanto Vico possa parlare di una provvidenza divina che regge
il fondo del divenire storico, non di meno è chiara in lui la rivendicazione che la storia è fondamentalmente storia dell'uomo e questo suo essere un prodotto dell'uomo è ciò che differenzia il mondo della storia dal
mondo della natura. Il significato originario che il concetto di storia viene progressivamente ad assumere nell'ambito della modernità è appunto questo, la storia rappresenta la sintesi dei comportamenti socializzati
degli uomini, delle varie individualità interagenti le une nei confronti
delle altre e di quelle ulteriori individualità che sono le nazioni.
NOTE
1) Cfr. G.B. Vico, La Scienza Nuova Seconda giusta l'edizione del 1744
con le varianti del 1730 e di due redazioni intermedie inedite, a cura di
F. Nicolini, Laterza, Bari 19423, Parte prima, p. 26.
2) Ivi, I, p. 5.
3) Ivi, I, p. 5.
4) Ivi, I, pp. 5-6.
5) Ivi, I, p. 6.
6) Ivi, I, p. 125.
7) Ivi, II, pp. 171-172.
31
8) Ivi, I, p. 8.
9) Ivi, II, pp. 35, 149, 173, 199, 265 e I, p. 75.
10)
Ivi, I, pp. 127-128.
11)
Ivi, I, p. 131.
12)
Ivi, I, p. 214.
13)
Ivi, I, pp. 55, 151.
14)
Ivi, I, p. 131.
15)
Ivi, I, p. 129.
16)
Ivi, I, pp. 85, 124 e II, p. 164.
17) Cfr. T. Hobbes, De Homine. Sezione seconda degli Elementi di Filosofia, trad. it. di A. Pacchi, Laterza, Bari 19722, p. 143.
18)
Ivi, pp. 143-144.
19)
Ivi, p. 144.
20)
Ivi, p. 144.
21)
Ivi, p. 145.
22) Cfr. Vico, La Scienza Nuova Seconda giusta l'edizione del 1744 cit.,
I, p. 8.
23)
Ivi, I, pp. 116-118.
24)
Ivi, II, p. 173.
32
III
G. W. F. HEGEL: LIBERTÀ E STORIA
Hegel nasce nel 1770 e muore durante una epidemia di colera nel
1831: la morte lo raggiunge nel pieno della sua attività filosofica. L'epoca di Hegel è quella di Beethoven (1770-1827) e di Hölderlin (17701853), suoi contemporanei. I compagni di strada di Hegel sono Kant
(1724-1804), Fichte (1762-1814) e Schelling (1775-1854). Schelling è
stato anche compagno di universtà di Hegel a Tubinga insieme a Hölderlin. La filosofia hegeliana trova in Kant uno dei suoi fondamentali
interlocutori.
Le opere di Hegel possono essere suddivise in due grossi gruppi: le
opere pubblicate da Hegel (Fenomenologia dello spirito, Scienza della logica, Enciclopedia delle scienze filosofiche, Lineamenti di filosofia del diritto); e le sue lezioni universitarie, trascritte dai suoi studenti e poi raccolte e pubblicate: le Lezioni sulla Filosofia della storia, unitamente a quelle
sulla Estetica, sulla Filosofia della religione e sulla Storia della Filosofia,
appartengono a quest'ultimo gruppo.
Quando si parla della filosofia della storia in Hegel ci si riferisce ad
uno degli aspetti, ad una parte della sua filosofia. Generalmente per i
filosofi vale il principio che partendo da un punto specifico è possibile
ricostruire tutto il pensiero ed a maggior ragione per un filosofo dichiaratamente sistematico come Hegel questa operazione diventa ancora più
naturale.
Dal punto di vista hegeliano quattro punti sono da mettere in luce:
1. la collocazione sistematica della storia;
2. la natura della storia;
3. il soggetto della storia;
4. le epoche della storia.
Con questi punti non si mettono a fuoco la totalità delle problematiche sviluppate da Hegel nella filosofia della storia ma se ne evidenziano alcuni nodi fondamentali.
33
3.1 LA COLLOCAZIONE SISTEMATICA DELLA STORIA
Le Lezioni sulla filosofia della storia non danno una risposta alla
domanda su quale sia la collocazione sistematica della storia in Hegel.
Occorre innanzitutto osservare che all'interno del pensiero hegeliano la
filosofia si colloca in un rapporto costitutivo con la storicità e che a sua
volta questo rapporto si sviluppa lungo una molteplicità di percorsi.
Una prima forma in cui si configura il rapporto tra pensiero speculativo e mondo storico è quella che corrisponde alla celebre definizione
contenuta nella Filosofia del diritto, secondo cui la filosofia "è il proprio
tempo appreso in pensieri". Secondo questa prospettiva, allora, "compito
della filosofia" diventa "comprendere (begreifen) ciò che è", e "ciò che è", a
sua volta, è appunto "la ragione". La traduzione in termini razionaliconcettuali di ciò che è, inteso nel senso di ciò che accade nel tempo, presuppone l'identità tra essere e ragione, ovvero si fonda sul celebre principio secondo cui "ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale"
(1).
E' nota anche la tesi hegeliana secondo cui "la storia della filosofia è
la filosofia stessa" (2). Sulla base di questa reciproca coincidenza è possibile delineare una seconda forma di rapporto tra la filosofia ed il tempo
storico, che procede però seguendo un movimento inverso rispetto a quello precedentemente esaminato, in quanto si sviluppa, per così dire, dal
basso. Da questo lato è possibile osservare un duplice svolgimento (Entwicklung) della filosofia. Il primo è quello che si dà nella "forma del puro
pensiero": in questo caso ci troviamo di fronte ad una forma di sviluppo
che cade certamente "anche nel tempo, ma non ancora nella esteriorità
storica", quanto piuttosto "nella interna coscienza di singoli individui". La
seconda forma di svolgimento è quella in cui la "condizione (Zustand) di
un intero popolo viene presentata come momento della filosofia. Questa
necessità ha innanzitutto la forma che il pensiero deve (muss) cadere nel
tempo" (3). E' quindi anche lungo questa seconda prospettiva che si apre
la strada per la considerazione storica della filosofia. In tal modo si configura ancora una volta una relazione di unità/identità tra pensiero e
mondo storico, al cui interno però è quest'ultimo ad avere innanzitutto
un potere di determinazione nei confronti del pensiero filosofico: ogni filosofia appartiene infatti al suo tempo e può esprimersi soltanto nei limiti
del linguaggio della sua propria epoca (4).
Le due definizioni della filosofia fin qui prese in considerazione
fanno entrambe riferimento alla storicità, però non aprono ancora uno
spiraglio in direzione della collocazione sistematica della storia, semmai
la presuppongono. Per affrontare effettivamente un tale problema è op-
34
portuno rifarsi innanzitutto alla Enciclopedia delle scienze filosofiche in
compendio. A questo riguardo, l'Enciclopedia del 1817 sembra presentare delle peculiarità proprio per quanto riguarda la determinazione
dell'essenza della filosofia. Qui infatti si possono mettere in primo luogo
in evidenza due definizioni complementari di filosofia: l'una secondo cui
la filosofia "è essenzialmente enciclopedia"; l'altra secondo cui essa è
"necessariamente sistema" (5). In questo modo l'equivalenza filosofia/enciclopedia/sistema risulta più chiara che non nelle successive edizioni del 1827 e del 1830, dove essa appare enunciata in modo meno
evidente (6).
Ciò che innanzitutto è importante capire è che la struttura sistematica non è semplicemente una sorta di rivestimento, un abito che la
filosofia indossa saltuariamente, ma è qualcosa che inerisce all'essenza
stessa del filosofare: per Hegel sussiste una relazione necessaria tra lo
svilupparsi del pensiero filosofico ed il suo strutturarsi come sistema.
Ponendoci quindi il problema della filosofia della storia di Hegel, uno
degli aspetti da considerare è la collocazione della storia e della sua
problematica a livello di sistema. E' a partire da qui che si svilupperanno gli altri aspetti che sono stati precedentemente individuati: a partire
dalla collocazione sistematica è possibile analizzare la natura della storia, capire quale sia il suo soggetto ed infine determinare le epoche della storia stessa: questa partizione, infatti, è a sua volta in stretta connessione con quello che è l'originario ruolo sistematico assegnato al sapere storico.
Dal punto di vista hegeliano la filosofia è essenzialmente sistema e
il sistema si sviluppa a sua volta come enciclopedia delle scienze filosofiche. Il sistema della Enciclopedia si struttura in una prima grande tripartizione: A. Logica; B. Natura; C. Spirito. La Logica rappresenta il regno
del puro pensiero speculativo: in quanto fondamento assoluto del reale
essa deve essere intesa come l'ossatura del mondo esistente, nella quale
si raccolgono le nervature portanti su cui sono destinati a scorrere il
mondo della Natura e il mondo dello Spirito. La realtà effettuale è costituita quindi dalla Natura intesa come physis, come regno della necessità
e dell'accidentalità, e dallo Spirito, che racchiude il mondo umano, conosciuto nella sua universalità e verità.
A sua volta lo Spirito si suddivide in: a. Spirito soggettivo; b. Spirito
oggettivo; c. Spirito assoluto. La sezione dello Spirito oggettivo è il luogo
sistematico in cui vengono analizzate "tutte le determinazioni della libertà", in relazione sia con il volere soggettivo che oggettivo, vale a dire i
diritti, i doveri, le abitudini, i modi di sentire, i costumi, i comporta-
35
menti (7): entra qui in gioco il problema della vita dell'uomo intesa non
più come semplice vita biologica, ma pensata nel suo senso più pieno.
Lo Spirito oggettivo si suddivide ancora in: a. Diritto; b. Moralità; c.
Eticità. Il Diritto costituisce la sfera che racchiude i rapporti giuridici fra
i singoli individui intesi come persone private: si tratta quindi del diritto
formale ed astratto, che comprende le figure della proprietà e del contratto (8). La Moralità è la sfera della coscienza intesa come "certezza
astratta di se stesso", della "libertà soggettiva" che agisce come volontà
particolare": in questo senso è al contempo il luogo del "dover essere" e
dove operano i concetti di bene e di male (9). L'Eticità costituisce il
"compimento dello spirito oggettivo, la verità dello stesso spirito soggettivo e oggettivo": in questo senso essa rappresenta "il volere razionale
universale in sé e per sé", che ha "la sua realtà come spirito di un popolo"; essendo il luogo dei rapporti intersoggettivi, ovvero dei rapporti sociali intesi come "costume", l'eticità è definita da Hegel "la libertà consapevole di sé, diventata natura" (10).
L'Eticità, intesa come sfera in cui lo spirito si oggettivizza in qualcosa di concreto e visibile che sono le sue azioni, si suddivide a sua volta
in quelli che sono i tre tipi del vivere socializzato che Hegel prende in
esame: a. La Famiglia; b. La Società civile; c. Lo Stato. La Famiglia rappresenta il modello della società naturale, fondata sulla distinzione dei
sessi (11). La Società civile, definita da Hegel come "il sistema dell'atomistica", costituisce il luogo dei rapporti economici, in cui è operante la
divisione del lavoro e la differenza dei vari ceti sociali (12). La forma più
complessa ma al tempo stesso anche più concreta di struttura sociale è
lo Stato, a sua volta definito come "la sostanza etica consapevole di sé, la riunione del principio della famiglia e della società civile". In quanto
luogo dei rapporti politici, lo Stato si pone come "spirito vivente" e come
"totalità organizzata", la cui essenza è l' "universale in sé e per sé, la razionalità del volere" (13). La vita dello Stato si sviluppa tendenzialmente
lungo due direzioni: a) una direzione centripeta, rappresentata dal diritto
interno dello Stato, con cui viene regolata la dialettica che anima i rapporti che intercorrono tra i vari soggetti della vita politica; e b) una direzione centrifuga, rappresentata dalla politica estera, ovvero dall'interagire all'esterno o con una pluralità di soggetti, che sono gli altri stati attorno a lui, sottoposti a quella forma di diritto che è il diritto internazionale.
Hegel colloca la Storia come il momento conclusivo dell'Eticità e la
fa coincidere con la sfera dei rapporto dello stato con gli altri stati: sotto
questo profilo le "vicende della storia" rappresentano "la via per la liberazione della sostanza spirituale" (14). Dal punto di vista hegeliano esi-
36
ste una storia perché esistono degli stati. Il presupposto sistematico della storia è dato dall'esistenza dello Stato, per cui vengono ad assumere
la denominazione di Storia le azioni compiute dagli stati, o le azioni di
quei singoli individui che agiscono in nome degli stati.
La specifica direzione presa dal discorso hegeliano spinge a questo
punto ad affrontare il problema del rapporto tra moralità e storia. Se si
tiene presente che in Hegel il rapporto tra storia e politica è molto stretto, discutere il rapporto tra moralità e storia significa anche toccare il
problema del rapporto tra moralità e politica. Il discorso hegeliano diventa inoltre un‟occasione per analizzare queste problematiche in quella
che è la loro portata più generale. Come si è già ricordato, le articolazioni del sistema sono funzionali all'organizzazione dei rapporti fra le
diverse sfere della vita umana. Hegel colloca Moralità e Storia in due sfere nettamente distinte, separate da un notevole spazio sistematico: non
si tratta, tuttavia, solo di una distanza logica. Quello che è importante
da rilevare è che nel passaggio dalla moralità alla storia cambia in modo
sostanziale anche il soggetto: il soggetto dell'agire morale è la coscienza
singola, individuale, quello della Storia è viceversa lo Stato. Dal punto
di vista di Hegel è attraverso lo Stato, cioè attraverso la mediazione della
società politica, che le singole persone entrano come soggetti nella storia. Il soggetto della storia è un soggetto collettivo, perché chi agisce nella concretezza storica sono i vari popoli in quanto organizzati in quella
comunità politica che si costituisce come Stato.
La Moralità rappresenta la sfera dei comportamenti soggettivi, di
quello che uno fa secondo coscienza, ma anche il comportamento della
coscienza è sottoposto alle condizioni storiche all'interno delle quali la
coscienza vive: l'agire nostro come singoli, l'agire morale è un qualcosa
che accade necessariamente all'interno di una sfera più ampia. Sotto
questo profilo non si tratta tanto di vedere se morale e storia sono in
conflitto tra loro, ma piuttosto di capire quanta parte dell‟agire morale
di un soggetto entra effettivamente nella storia e in che misura questo
agire morale può condizionare ciò che accade a livello di storia.
La Storia è l'ultima figura dello Spirito oggettivo nel senso che è la
realtà in cui vanno a confluire tutte le determinazioni precedenti. In
questo senso la Storia è il luogo della massima concretezza, all'interno
della quale agiscono e si trovano concretamente operanti tutte le sfere
precedenti, quindi anche quella costituita dalla moralità. La coscienza
morale, anche se quando agisce astrae da qualsiasi altro tipo di rapporto, non può escludere il fatto di essere pur sempre membro di una famiglia, di essere comunque parte della società civile e comunque cittadino
37
di uno stato, cioè parte integrante di una comunità politica: l'agire morale è quindi sempre collocato in una situazione.
3.2 LA NATURA DELLA STORIA.
Abbiamo analizzato quella che è la collocazione sistematica della
storia in Hegel e le conseguenze che derivano dal fatto che la storia appartenga ad una determinata sfera di vita. Si tratta ora di determinare
la natura specifica della Storia come tale: a questo riguardo c'è un possibile equivoco da eliminare. In quanto entra a far parte della enciclopedia delle scienze filosofiche e quindi del sistema, la storia riceve una
precisa collocazione sistematica e diventa per questa via un momento
determinato dello sviluppo dell'idea della filosofia. L'essenza filosofica
della storia, vale a dire l'essenza della storia colta dal punto di vista filosofico, diventa pienamente comprensibile soltanto a partire da tale collocazione sistematica. Abbiamo visto la tripartizione della Filosofia dello
Spirito in Spirito soggettivo, Spirito oggettivo e Spirito assoluto. A questo
riguardo la storia è l'ultima e quindi conclusiva figura dello Spirito oggettivo, al di là della quale inizia una ulteriore sfera dello spirito, lo Spirito
assoluto. La Storia si colloca quindi in una posizione cruciale, in un
momento di passaggio tra due fasi ben distinte. Questa collocazione ha
spinto certi interpreti a vedere nella filosofia hegeliana della storia una
sorta di metafisica dell'assoluto. In realtà l'Enciclopedia colloca la Storia
in una dimensione specifica ben diversa.
Considerata alla luce del sistema, la storia, che per Hegel è essenzialmente "Weltgeschichte", cioè storia universale, forma, come si è visto, la figura conclusiva dello "Spirito oggettivo": di conseguenza le sue
determinazioni essenziali più generali saranno desumibili dalle determinazioni della sfera cui appartiene. La "Filosofia dello spirito", considerata come terza parte del sistema, nella sua tripartizione in Spirito soggettivo, oggettivo ed assoluto, si pone complessivamente come "la conoscenza di ciò che è la verità dell'uomo" (15). Più determinatamente la
sua seconda sezione, lo "Spirito oggettivo" costituisce quel grado dello
sviluppo dello spirito in cui questo si trova nella "forma della realtà
(Realität), come di un mondo da produrre e prodotto da esso" (16). All'interno della tripartizione sopra accennata può essere rilevato che la "Filosofia dello spirito" lascia intravedere una ulteriore suddivisione, in due
parti, che si rivela della massima importanza per il tema qui trattato.
Hegel avverte infatti che "le prime due parti della dottrina dello spirito
trattano dello spirito finito": lo "spirito oggettivo" nel suo complesso deve
38
quindi essere inteso in tutta l'estensione dei suoi momenti essenzialmente come "spirito finito", dove la finità va intesa secondo "il suo significato proprio, dell'inadeguatezza tra concetto e realtà" (17). Da questo
lato il discorso hegeliano è molto chiaro: l'oggetto della storia non è lo
Spirito assoluto, ma lo spirito che si mostra nella sua finitezza.
Se, in base alle precedenti osservazioni, si deve concludere che la
storia stessa, proprio in quanto figura dello Spirito oggettivo partecipa
costitutivamente della finitezza di questa sfera, resta tuttavia ancora da
determinare in che modo si caratterizzi questa finità della storia.
Introducendo la seconda sezione della "Filosofia dello spirito", Hegel ricorda che lo "Spirito oggettivo" è sì "l'idea assoluta", ma soltanto
"come idea che è in sé": in questo senso esso si mantiene ancora "sul
terreno della finità" in quanto risulta essere "in relazione con una oggettività esternamente data"; il significato più determinato di tale oggettività è a sua volta individuabile "nei dati antropologici dei bisogni particolari, nelle cose naturali esterne, che sono per la coscienza; e nella
relazione dei voleri singoli ai singoli, i quali hanno l'autocoscienza della
loro diversità e particolarità" (18). Anche la storia, quindi, in quanto
appartenente allo "Spirito oggettivo", ha sempre a che fare con una oggettività esternamente data, per cui la considerazione filosofica del
mondo storico deve costitutivamente tenere conto dei condizionamenti
di tipo antropologico, dei bisogni particolari, degli elementi di tipo naturale, così come delle volontà singole. Già a livello di "Antropologia" Hegel aveva parlato della "vita naturale" dello spirito, che si svolge in maniera ancora confusa (19). A questo proposito veniva osservato che mentre l'animale vive essenzialmente in "simpatia" con il proprio ambiente e
rimane quindi, così come la pianta, sostanzialmente sottoposto alla natura, nell'uomo, viceversa, con il procedere della cultura, un simile legame di dipendenza dall'ambiente perde progressivamente di importanza (20). La storia, intesa come Weltgeschichte, consiste proprio nella
presentazione di questa graduale liberazione dalla natura (21). La dipendenza non è tuttavia eliminabile in modo totale. Le distinzioni dei
climi, la diversa natura delle parti geografiche del mondo, le differenze
di razza, sono tutti elementi che determinano la formazione di "particolari spiriti naturali", ovvero di "spiriti locali", le cui differenze non solo si
"mostrano nella maniera della vita esteriore, occupazione, struttura e
disposizione corporale", ma anche influenzano in modo determinante le
tendenze del carattere intellettuale ed etico dei singoli popoli (22). Nella
storia perciò è destinato a manifestarsi anche tutto questo.
39
3.3 IL SOGGETTO DELLA STORIA.
Se tuttavia si domandasse quale è, dal punto di vista hegeliano, il
soggetto della storia, vale a dire di chi in essa si parla, proprio perché ne
è l'autore, la risposta più frequente sarebbe con tutta probabilità la seguente: soggetto della storia è lo Spirito del mondo. Per quanto una simile risposta possa a prima vista apparire come la più attendibile, occorre tuttavia riconoscere che il concetto di Weltgeist esprime piuttosto
soprattutto un genere; viceversa, dato che essere nella storia significa
essere "nell'esistenza (Dasein)" (23), bisogna ammettere che la storia, in
quanto svolgimento determinato dello spirito, esige un soggetto altrettanto determinato. Lo Spirito del mondo è una specie di ipostasi, mentre ciò
che esiste concretamente nella storia sono le vicende dei singoli popoli
concretamente esistenti. In questo modo, il concetto di Weltgeist rinvia a
quello di Wolksgeist, in quanto ciò che determinatamente esiste nella
storia sono gli spiriti dei vari popoli. L'effettivo problema è quindi piuttosto quello di individuare su quali basi si definisce lo spirito di un popolo.
Si può considerare come caratterizzante la prospettiva hegeliana
l'osservazione che "nell'esistenza di un popolo lo scopo sostanziale è di
essere uno Stato e di mantenersi come tale: un popolo senza formazione
politica (una nazione come tale) non ha propriamente storia; senza storia esistevano i popoli prima della formazione dello Stato, e altri anche
ora esistono, come nazioni selvagge" (24). Lo spirito di un popolo si definisce in chiave fondamentalmente politica: la sua essenza è espressa
dalla organizzazione che esso si dà in quanto Stato. Ciò che quindi propriamente esiste ed agisce nella storia è un popolo concepito quale organismo politico: proprio in quanto "ciò che accade ad un popolo ed ha
luogo entro di esso, ha il suo significato essenziale nella relazione verso
lo Stato" Hegel può affermare che "le mere particolarità degli individui
sono massimamente lontane da quell'oggetto, che è di pertinenza della
storia" (25). Gli stessi individui cosmico-storici, vale a dire hegelianamente i grandi personaggi come Giulio Cesare, Alessandro Magno, Napoleone, ecc., hanno fortemente caratterizzato alcune epoche della storia, ma la loro azione non si è sviluppata in assoluto a partire della loro
individualità singola, ma a partire dal popolo e dallo stato a cui essi
appartenevano. Va riconosciuta dunque una duplice e reciproca implicazione, in quanto il nesso tra spirito del popolo e storia passa attraverso il concetto di Stato, mentre il nesso tra spirito del popolo e Stato apre
le porte alla considerazione della storia. Il presupposto è comunque lo
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Stato, in quanto possiamo parlare di storia solo dopo che si è sviluppato
il concetto di Stato. E' evidente in questo modo che la filosofia hegeliana
della storia riceve un ben preciso orientamento: sono soggetti della storia, della Weltgeschichte, quei popoli che giungono a costituirsi come
Stati, cioè a porsi come organismi politici.
Se lo spirito di un popolo, in quanto soggetto della storia, si caratterizza non in termini antropologici ma in termini politici, si rende allora
a questo punto necessaria una ulteriore domanda: su quali basi si definisce l'essenza dello Stato? Nella Enciclopedia delle scienze filosofiche si
possono trovare molteplici definizioni dello Stato. Così ad esempio esso
è definito come "la realtà immediata di un popolo singolo e naturalmente
determinato" (26); oppure, nel momento in cui è introdotto quale terza e
conclusiva sezione della "Eticità", è presentato come "la sostanza etica
consapevole di sé" (27); poco più oltre l'essenza dello Stato è definita
come "l'universale in sé e per sé, la razionalità del volere" (28). Infine lo
Stato si pone come "spirito vivente", il quale sussiste soltanto "come una
totalità organizzata". Proprio la definizione dello Stato quale organismo
può risultare la più produttiva in relazione alle tematiche qui analizzate.
In quanto organismo, quello che si potrebbe definire il codice genetico
dello Stato è indubbiamente rappresentato dalla costituzione: essa si
pone come la "articolazione (Gliederung) del potere dello Stato" ed è perciò la via attraverso cui il volere razionale giunge alla propria consapevolezza ed è posto nella realtà effettuale (29). Hegel sottolinea in maniera molto evidente la corrispondenza tra Volksgeist e Verfassung: la costituzione presuppone lo spirito di tutto il popolo e quest'ultimo a sua
volta presuppone la costituzione (30). L'una e l'altro formano così due
realtà assolutamente inscindibili, al punto che si può sostenere che "la
questione, a chi, e a quale autorità e come organizzata, spetti di fare
una costituzione, è la medesima che se si domandasse, chi abbia da fare
lo spirito di un popolo. Il separare la rappresentazione di una costituzione da quella dello spirito, come se questo esista, o sia esistito una
volta, senza possedere una costituzione a sé conforme, è un'opinione
che dimostra soltanto la superficialità con cui è stata pensata la connessione dello spirito, della sua autocoscienza e della sua realtà" (31).
Alla luce di questa prospettiva si può affermare che ciò che Hegel costruisce è una filosofia politica della storia, ovvero una filosofia della
storia politica: in questo senso, la Filosofia del diritto, per quanto riguarda l'epoca moderna, individua "l'argomento della storia universale
del mondo" proprio nella storia della "verace configurazione della vita
etica", vale a dire nel processo di perfezionamento dello Stato (32). Proprio perché il concetto di popolo dal punto di vista hegeliano si definisce
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in termini politici, anche la storia nel suo complesso riceve una connotazione fortemente politica: lo spettacolo della storia è lo spettacolo costituito dall'azione di diverse (e anche contrastanti) concezioni politiche,
di diversi modi di organizzare la convivenza sociale degli uomini. Tutto
ciò che di altro si può dire della storia è qualcosa di subordinato rispetto a questo principio.
In virtù di questo costitutivo ed originario nesso di storia e politica
si può forse affermare che la filosofia della storia costituisce in Hegel il
luogo in cui la politica raggiunge la sua massima consapevolezza filosofica.
La storia rappresenta il divenire dello spirito nel tempo e, come tutto ciò che diviene nel tempo, rappresenta il divenire della finitezza. E'
possibile chiedere quale è qui il significato specifico di finitezza. E' molto
nota quella lettera, scritta pochi giorni dopo la battaglia di Jena, in cui
Hegel afferma di aver visto Napoleone, ed era come se si potesse vedere
"lo spirito del mondo" che entrava a cavallo in città (33). Questa espressione indica che Hegel si trova davanti allo spirito del mondo sotto forma di immagine, di rappresentazione, era lo spirito del mondo in una
manifestazione sensibile, finita. E‟ proprio di ogni cosa finita il non essere adeguata al suo concetto. Potremmo tradurre questa affermazione
dicendo che non essere adeguato al proprio concetto significa avere dentro di se qualcosa di non compiuto, e le cose finite non sono come dovrebbero essere, sono altro rispetto a ciò che dovrebbero essere. Qui sta
il germe della loro imperfezione, qui sta l'inizio della loro fine.
Hegel afferma che tutto ciò che accade nel tempo, e quindi ciò che
accade nella storia, non è mai adeguato al suo concetto: ciò significa
che nell'ambito della storia nessuno Stato, in quanto concretamente esistente nella storia, adeguerà, realizzandola compiutamente, quella che
è l'idea, ovvero il concetto dello stato.
In ogni realizzazione storica sarà sempre contenuto un margine di
inadeguatezza, di imperfezione, che in relazione a quella specifica realizzazione rappresenta il suo difetto, ciò per cui necessariamente questa
formazione concreta ad un certo punto si esaurirà, scomparendo. Questo margine di inadeguatezza, o di imperfezione, è anche l'effettivo motore del divenire storico, è ciò che garantisce e assicura una molteplicità
di esperienze. La ricerca dello Stato perfetto è assolutamente priva di
senso, perché ogni stato esistente sarà sempre qualcosa di relativo alla
realtà storica in cui si trova a sussistere. Potremmo parlare dal punto di
vista di Hegel di inadeguatezza reciproca tra concetto e realtà: non è
soltanto la realtà storica ad essere inadeguata al concetto, ma vi possono pure essere dei concetti inadeguati alla propria realtà, per cui certi
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progetti di tipo storico-politico sono falliti per un eccesso di perfezione
delle idee. Ciò che opera nella storia è sempre qualcosa di finito e quindi
ciò che trova realizzazione conterrà sempre in se stesso un margine di
inadeguatezza rispetto al suo concetto. La storia è il punto di massima
maturazione a cui può arrivare la finitezza come tale. Da quanto abbiamo detto consegue che il soggetto della storia non potrà che essere un
soggetto finito.
3.4 LE EPOCHE DELLA STORIA.
Le epoche della storia, così come vengono definite dalla tradizione
storiografica ricevono una partizione per certi aspetti arbitraria (storia
antica, medievale, moderna, ecc.), la cui scansione avviene in maniera
convenzionale (la caduta dell'impero romano, la scoperta dell'America,
ecc.). Rispetto alla tradizione Hegel segue un'altra strada nella periodizzazione della storia, in quanto la fa dipendere dalla consapevolezza filosofica di ciò che la storia è. Sotto questo aspetto, un itinerario comune
porta dalla collocazione sistematica della storia alla determinazione delle epoche storiche e quindi al concreto del vissuto storico.
Come è noto, nel Libro primo della Metafisica si afferma che "ora
così come nel passato, gli uomini hanno cominciato a filosofare in virtù
della meraviglia". Dato che gli uomini "hanno filosofato per fuggire l'ignoranza" (34), Aristotele sembra svolgere un discorso che potrebbe essere definito di tipo storico-sociologico. Essendo di fatto il segno di una
ignoranza, la meraviglia si presenta come qualcosa che è destinato a
diminuire sempre più: se infatti si rimane meravigliati quando per la
prima volta si assiste ad una eclissi di luna, quando se ne sono indagate e scoperte le cause il ripetersi dello stesso fenomeno non stupirà più.
Ciò significa che non soltanto il progredire nella scienza da parte del
singolo soggetto, ma lo stesso accumulo sociale di conoscenza lascerà
sempre meno spazio alla meraviglia, che quindi tenderà progressivamente a scomparire. Individuando nella meraviglia l'atto fondativo del
filosofare Aristotele parlava certamente dell'inizio della filosofia, ma indicava soprattutto le condizioni trascendentali di possibilità della filosofia come tale. Oltre a tali condizioni trascendentali, esiste anche il problema di individuare il quando, perché anche il filosofare cade nel tempo: sappiamo infatti che la filosofia è cominciata in un determinato punto, in un determinato momento del tempo e dello spazio. Storicamente
quali sono le condizioni concrete che hanno reso possibile il filosofare?
43
Hegel si è posto questo problema. Non si tratta di isolare un fatto accidentale: chiedere quando significa anche indicare dove.
Se si dovesse chiedere "dove comincia la filosofia?", la risposta dal
punto di vista hegeliano è: "là, dove il pensiero si espande nell'elemento
della sua libertà" (35). Il determinarsi di questo "dove" non è tuttavia un
evento puramente speculativo, in quanto esige il realizzarsi di precise
condizioni sul piano storico, ossia che sia innanzitutto presente "un certo grado della cultura spirituale" (36). Nelle Lezioni sulla storia della filosofia Hegel accoglie e sviluppa la nota affermazione di Aristotele, secondo cui gli uomini "hanno cominciato a filosofare dopo che si è provveduto alle necessità della vita" (37): questo fa della "filosofia un operare
(Tun) libero, non egoistico... un libero rinvigorirsi, sollevarsi, consolidarsi dello spirito in sé", che è possibile solo dopo che "l'ansia del desiderio
si è dissolta" (38). Ciò comporta che la filosofia, sotto un certo punto di
vista, si presenti effettivamente come un "lusso", ma tuttavia un lusso
che "indica quei godimenti ed occupazioni che non appartengono alla
necessità esteriore come tale" (39). Hegel cerca di spingere questo discorso più avanti e rendere più determinata la risposta alla domanda su
quando e dove di fatto, nella storia è cominciata la filosofia. La risposta
che egli dà a questo problema riconduce al nocciolo delle questioni che
sono state affrontate precedentemente. Il discorso hegeliano, infatti, acquista a questo punto anche una valenza sociale, in quanto ciò che viene chiamato in causa non è il semplice operare del singolo come tale,
quanto piuttosto è lo "spirito di un popolo" ad essersi "tratto di impiccio
dalla indifferente opacità (Dumpfheit) del primo vivere naturale, così
come dagli interessi passionali" (40). La filosofia inizia quindi là dove il
pensiero è presso di sé e si distacca dalla naturalità: che il pensiero sia
libero significa innanzitutto che è " posta in generale una esistenza tale,
una tale coscienza, da essere una coscienza della libertà" (41). Il cominciamento della filosofia fa così tutt'uno con il "cominciamento storico
della filosofia", e perciò con l'inizio stesso della storia della filosofia: tutto questo mantiene una immanente relazione con "la forma concreta"
della vita di un popolo, "il cui principio esprime la coscienza della libertà", così come essa si realizza all'interno della sua propria "costituzione"
(42). Sotto questo profilo "la filosofia compare nella storia soltanto là
dove ed in quanto si formano libere costituzioni": ciò comporta una
stretta "connessione della libertà politica con il farsi avanti della libertà
di pensiero" (43). Nel concetto del pensiero libero, del "pensiero che va
in sé, che è presso di sé", è implicato anche un essenziale "lato pratico",
ossia il fiorire della "libertà effettuale", reale cioè nel senso della "libertà
politica" (44). Lungo questa strada il sorgere della filosofia riceve ulterio-
44
ri determinazioni dal punto di vista storico-concreto: se la "coscienza
della libertà" implica il necessario riferimento alla "libertà civile (bürgerliche)", a "leggi razionali", ad una "costituzione", un simile "concetto della libertà noi lo vediamo farsi avanti innanzitutto nel popolo greco, e
qui perciò comincia la filosofia" (45). Il cominciamento della filosofia esige come sua condizione necessaria il realizzarsi nella storia concreta del
suo fondamento: in tal modo, "con questa determinazione di ciò che è
filosofia, noi guadagniamo anche il punto d'inizio della sua storia" (46).
La libertà è stata la condizione storica di possibilità della nascita di
quella forma di sapere che noi chiamiamo filosofia: non la libertà in
senso astratto o la libertà interiore della coscienza, ma qualcosa di molto concreto che coincide con la libertà politica. La filosofia nasce in Grecia, ma questo fatto, così importante per tutto il successivo destino del
mondo occidentale, non è dovuto ad un bizzarro gioco del caso: la condizione di possibilità perché si realizzasse questo amore per la sapienza
è dovuto al fatto che in Grecia per la prima volta nel mondo sono nati
degli stati fondati su libere costituzioni, ovvero sulla libertà dei loro cittadini. Qui si tocca qualcosa di speculativamente profondo dentro l'architettura del discorso hegeliano, poiché diventa palese un nesso costitutivo tra storia da un lato e filosofia dall'altro. Si è potuto vedere che
uno dei presupposti della storia in quanto tale è l'esistenza di popoli che
si organizzano in una società politica: c'è quindi un nesso costitutivo tra
realtà politica e realtà storica. Però esiste un legame altrettanto stretto
tra il sorgere della filosofia e la presenza di determinate strutture politiche: questo comune punto di riferimento è dato dalla libertà.
Nelle Lezioni sulla filosofia della storia è contenuta una definizione
di ciò che è la storia: "la storia del mondo [la storia universale] è il progresso nella coscienza della libertà" (47); da questo lato sussiste quindi
un nesso molto stretto ed evidente tra il contenuto della storia e il problema della libertà. Ciò che è in gioco è una libertà cosciente, pienamente vissuta, non una libertà inconsapevole. Questa coscienza della libertà
si dispiega nell'ambito di uno sviluppo, il che vuol dire che la libertà ed
il grado di consapevolezza della libertà non rimangono mai uguali a se
stessi. Quali saranno allora dal punto di vista hegeliano le epoche della
storia? Le epoche della storia sono i gradi che contrassegnano delle fasi
omogenee nell'ambito di uno sviluppo della coscienza della libertà. Il
passaggio da un'epoca storica all'altra segna un cambio di marcia, un
ulteriore livello nella realizzazione della libertà. A questo proposito Hegel
scrive: "Si può dire della storia universale che essa è la raffigurazione
del modo in cui lo spirito si sforza di giungere alla cognizione di ciò che
esso è in sé. Gli Orientali non sanno ancora che lo spirito, o l'uomo come
45
tale, è libero in sé. Non sapendolo, non lo sono. Essi sanno solo che uno
è libero; ma appunto perciò questa libertà è arbitrio, barbarie, gravezza
della passione, o magari anche mitezza e mansuetudine della passione
stessa, che anche essa è solo un caso di natura o un arbitrio. Quest'uno
è perciò solo un despota, non un uomo libero, un uomo. Presso i Greci,
per primi, è sorta la coscienza della libertà, e perciò essi sono stati liberi; ma essi, come anche i Romani, sapevano solo che alcuni sono liberi,
non l'uomo come tale. Ciò non seppero né Platone né Aristotele; e perciò
non solo i Greci ebbero schiavi, e la loro vita e il sussistere della loro
bella libertà fu vincolata a tale condizione, ma anche la loro libertà non
fu in parte che una fioritura accidentale, elementare, transitoria e ristretta, e in parte, insieme, una dura schiavitù dell'umano. Solo le nazioni germaniche sono giunte nel cristianesimo alla coscienza che l'uomo
come uomo è libero, che la libertà dello spirito costituisce la sua più
propria natura. Questa coscienza nacque dapprima nella religione, nella
regione più interiore dello spirito; ma permeare di questo principio anche la natura del mondo era compito ulteriore, per assolvere pienamente il quale occorreva una lunga e difficile opera di educazione" (48).
Hegel individua quindi una tripartizione nella suddivisione delle epoche della storia: esse sono definibili come la libertà di uno solo, la libertà di alcuni e la libertà di tutti. Soltanto apparentemente abbiamo una
determinazione di tipo quantitativo, come se si alludesse ad una sorta
di maggiore diffusione della libertà, perché questa progressione -uno,
alcuni, tutti- è in realtà una gradazione di tipo qualitativo. Questa periodizzazione, effettivamente, non è molto utilizzabile dal punto di vista
della storiografia, anche perché si dispiega in forma diseguale, non perfettamente omogenea rispetto alla successione cronologica del tempo. E'
ovvio che qui è in gioco la libertà politica, quindi lo sviluppo della storia è
anche caratterizzato dalla successione di differenti organizzazioni politiche.
Filosoficamente la storia riceve un senso, una direttrice di sviluppo
determinata, a partire dalla libertà, che viene così a svolgere un duplice,
importate ruolo: essa infatti segna, da un lato, la direzione dello sviluppo del mondo storico ma anche, dall'altro lato, l'atto di nascita della filosofia. Il problema del senso della storia si connette in maniera molto
stretta con il problema della nascita della filosofia, quindi la filosofia
hegeliana della storia procede anche in evidente connessione con quelle
che sono le tematiche proprie della filosofia in quanto tale. Il problema
del senso della storia è comunque qualcosa che può essere determinato
solo a posteriori. In una nota pagina della Prefazione della Filosofia del
diritto Hegel scrive: "per dire ancora una parola al proposito del dare in-
46
segnamenti su come dev‟ essere il mondo, ebbene per tali insegnamenti
in ogni caso la filosofia giunge sempre troppo tardi. In quanto pensiero
del mondo essa appare soltanto dopo che la realtà ha compiuto il suo
processo di formazione e s‟ è bell‟ e assestata" (49). Dal punto di vista
hegeliano la filosofia non potrà mai, pena il venir meno alla sua propria
natura, avventurarsi in previsioni su quali ulteriori progressi avrà il
principio della libertà, quali nuove strutture politiche e quali popoli potranno giocare un ruolo preminente nelle vicende storiche. La filosofia
potrà analizzare lo sviluppo della storia, dare un senso a questo sviluppo, attraverso la determinazione delle epoche, però solo a posteriori: lo
sguardo speculativo del pensiero è sempre uno sguardo retrospettivo.
In questo succedersi delle libertà di uno, alcuni, tutti, possiamo
trovare dispiegata una questione già affrontata in uno dei precedenti
paragrafi: quella relativa alla natura della storia. Il mondo storico è il
mondo della finitezza e quindi la filosofia della storia da luogo in Hegel
ad una metafisica del finito e non ad una metafisica dell'assoluto. Abbiamo visto che dal punto di vista di Hegel finitezza significa inadeguatezza tra concetto e realtà. Tutto ciò che trova realizzazione nell'ambito
della finitezza patisce di una sorta di squilibrio tra il concetto della cosa
e la cosa così come si presenta effettivamente. Indubbiamente i gradi di
realizzazione della libertà possono fornire una esemplificazione di cosa
si deve intendere per inadeguatezza tra concetto e realtà e di cosa si deve intendere per regno della finitezza da un punto di vista filosofico.
La libertà di alcuni è qualcosa di qualitativamente più elevato della
libertà di uno solo, e la libertà di tutti è qualitativamente più elevata
della libertà di alcuni. Questa progressione uno-alcuni-tutti non si deve
intendere come progresso in senso quantitativo come una sorta di maggiore diffusione della libertà, ma come un passaggio di tipo qualitativo.
Nel caratterizzare la prima epoca della storia, Hegel ha sicuramente
in mente il mondo orientale, in quanto rappresentato dall'impero persiano, e ciò che lo caratterizza è un‟organizzazione politica che ha come
punto di riferimento il re, signore assoluto di tutto. Nella effettualità la
libertà di uno equivale alla libertà di nessuno e quindi all'assenza di autentica libertà. Laddove uno solo è libero, dove solo il despota può considerarsi tale, non solo non esiste libertà per tutti gli altri, in quanto sono sottoposti ad una volontà che è arbitrio, ma nemmeno quell'uno è in
realtà libero, perché questo uno singolo, che si pone come arbitrio assoluto, non ha la possibilità di riconoscersi come libero in nessun altro
intorno a lui. Questo è un primo livello di inadeguatezza tra concetto e
realtà, perché la libertà di uno è in realtà appunto una non libertà. L'inadeguatezza secondo il concetto della libertà di alcuni è forse più fa-
47
cilmente comprensibile. La libertà di alcuni rappresenta, sul piano della
effettualità storica, il mondo greco-romano ed è l'esistenza di quella libertà che ha reso possibile la filosofia. Il limite più evidente di questa
idea di libertà è dato dalla presenza della schiavitù, che probabilmente
si può considerare come una delle condizioni di possibilità dell'esistenza
stessa del mondo antico. Secondo Hegel la libertà di tutti è il principio
attorno a cui nasce e progressivamente viene costruito il mondo moderno. Anche in questo caso il discorso non è solo di tipo quantitativo. La
modernità è l'epoca della libertà di tutti, nel senso che è quella epoca in
cui per la prima volta, nello sviluppo storico dell'umanità, si è fatto
strada il principio che l'uomo è libero per natura e da questo consegue
che tutti i singoli uomini sono, e quindi devono essere liberi. Anche qui
dobbiamo fare i conti con la finitezza, l'inadeguatezza tra concetto e realtà. Se il concetto della modernità prevede che l'uomo, in quanto uomo,
sia libero, questo concetto trova di fatto una inadeguatezza in quella che
è la sua realizzazione. Che l'uomo sia libero per natura, dice Hegel, non
è originariamente un concetto politico e nemmeno un principio filosofico, è una idea che entra nella realtà storica attraverso la religione: il cristianesimo, sostenendo che ogni uomo è figlio di Dio, sancisce il fatto
che ogni uomo in quanto uomo è libero. L'eguaglianza di tutti gli uomini
viene interpretata da Hegel in tema di libertà: tutti gli uomini sono uguali perché tutti gli uomini originariamente vanno concepiti come liberi. Da un lato con il cristianesimo è entrata nel mondo l'idea che tutti gli
uomini sono figli di Dio e quindi questo significa che tutti gli uomini sono uguali tra loro, ovvero che tutti sono uguali tra loro in termini di libertà. Ma se il principio della libertà di tutti è entrato nella realtà storica con il cristianesimo, molto tempo è dovuto trascorrere perché fosse
riconosciuto. Secondo Hegel questo riconoscimento è avvenuto con la
Riforma protestante, attraverso una rivoluzione all'interno del cristianesimo stesso, e il principio della libertà di tutti si è affermato come principio politico soprattutto a partire dalla Rivoluzione francese: la prima
parola della rivoluzione è libertè, tutti i cittadini sono eguali di fronte
alla legge senza distinzioni di casta, religione e razza. Ora sarebbe altrettanto facile mostrare che il principio dell'eguaglianza politica di tutti
gli uomini ha potuto trovare solo in parte la sua realizzazione. Hegel implicitamente ci avverte che noi non possiamo chiedere alla storia, in
quanto mondo della finitezza, la piena realizzazione di nessuna idea.
Essere nella storia significa avere consapevolezza di vivere nell'ambito di
un paradosso, quello che ci costringe a cercare la migliore delle condizioni possibili di vita, sapendo che comunque le condizioni concrete ed
empiriche non consentiranno la sua completa realizzazione. Il mondo
48
della storia è effettivamente il mondo della finitezza proprio perché è variabile e contraddittorio: esso è quel mondo in cui non ci si accontenta
di una libertà puramente teorica, ma si vuole una libertà nella quale
vivere concretamente la nostra vita di persone morali e di cittadini.
Questa possibilità, il diritto di pretendere la realizzazione di quella che è
la nostra libertà nel tempo, ha un prezzo nel fatto che noi sappiamo di
doverla vivere nella consapevolezza che ci sarà sempre qualcosa di inadeguato tra l'elaborazione teorica che noi possiamo produrre (i concetti
etici e politici) e quello che sarà la loro realizzazione sul piano concreto.
Questa inadeguatezza non è prodotta né da un difetto di teoria e nemmeno da una imperfezione della realtà concreta: la realtà storica è finita
in base alla sua natura, ed in questo senso è anche perfetta.
Il problema non è tanto di vedere se quello in cui viviamo sia il migliore dei mondi possibili, ma quello che conta è che questo è l'unico
mondo reale. Filosofia della storia vuol dire capire a quali condizioni noi
possiamo vivere nell'ambito del mondo in cui di fatto viviamo, che è l'unico mondo reale a nostra disposizione.
NOTE
1) Cfr. G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto. Con le Aggiunte di
E. Gans, trad. it. di G. Marini, Laterza, Roma-Bari 20002, pp. 14-15.
2) Cfr. G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie. Teil
1: Einleitung. Orientalische Philosophie, hrsg. W. Jaeschke, Meiner,
Hamburg 1993, p. 124; cfr. anche pp. 140, 157.
3) Ivi, p. 112.
4) Ivi, pp. 237, 48, 50.
5) Enz. A, § 7.
6) A questo proposito cfr. più in particolare L. Bignami, Concetto e compito della filosofia in Hegel, Pubblicazioni di “Verifiche”, Trento 1990,
147 ss.
7) Cfr. G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, a
cura di B. Croce, Laterza, Bari 1963, § 486.
49
8) Ivi, §§ 487, 488, 493.
9) Ivi, §§ 503 e n., 507, 511.
10)
Ivi, §§ 513, 514.
11)
Ivi, § 518.
12)
Ivi, §§ 523, 524, 525, 527.
13)
Ivi, §§ 535, 539, 537.
14)
Ivi, §§ 536, 549.
15)
Ivi, § 377.
16)
Ivi, § 385.
17)
Ivi, § 386.
18)
Ivi, § 483.
19)
Ivi, § 392.
20)
Ivi, § 392 n.
21)
Ivi, § 392 n.
22)
Ivi, §§ 393, 394.
23)
Ivi, § 549.
24)
Ivi, § 549 n.
25)
Ivi, § 549 n.
26)
Ivi, § 545.
27)
Ivi, § 535.
28)
Ivi, § 537.
50
29)
Ivi, § 539.
30)
Ivi, § 540.
31)
Ivi, § 540 n.
32)
Cfr. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto cit., § 273 n., p. 218.
33)
Cfr. G.W.F. Hegel, Epistolario I. 1785-1808, trad. it. di P. Manganaro, Guida, Napoli 1983, p. 233.
34)
Cfr. Aristot. Metaph., 982 b 12-13.
35) Cfr. Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie Teil 1
cit., p. 134.
36)
Ivi, p. 59.
37)
Cfr. Aristot. Metaph., 982 b, 22-28.
38) Cfr. Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie Teil 1
cit., p. 59.
39)
Ivi, p. 59.
40)
Ivi, p. 59.
41)
Ivi, p. 190.
42)
Ivi, p. 190.
43)
Ivi, p. 266.
44)
Ivi, p. 265.
45)
Ivi, p. 196.
46)
Ivi, p. 14.
51
47) Cfr. G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, trad. it. di G.
Calogero e C. Fatta, La Nuova Italia, Firenze19733, Vol. I, p. 47.
48)
Ivi, I, pp. 46-47.
49)
Cfr. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto cit., p. 17.
52
IV
W. DILTHEY: SCIENZE DELLO SPIRITO
E CRITICA DELLA RAGIONE STORICA
Con Wihelm Dilthey (1833-1911) si entra nella generazione immediatamente successiva ad Hegel, per arrivare fino al nostro secolo. Per
certi aspetti l'età di Dilthey è quella di Nietzsche (1844-1900), e la generazione successiva è quella ad esempio di Henry Bergson (1859-1941),
di Edmund Husserl (1859-1938) e Benedetto Croce (1866-1952). Dilthey
non è un pensatore tra i più noti, tuttavia egli è egualmente molto importante per determinati sviluppi della filosofia tedesca, in particolare
quella di M. Heidegger e di H.-G. Gadamer, e attraverso questi per buona parte della filosofia del Novecento.
Le opere di Dilthey si possono suddividere in due blocchi: i saggi a
carattere storiografico, come ad esempio la biografia di Schleiermacher e
la biografia di Hegel; gli studi a carattere teoretico-metodologico, la cui
serie si sviluppa a partire dall'ultimo ventennio dell'800, con la Introduzione alle scienze dello spirito (1883), La nascita dell’ermeneutica (1900),
per finire con gli ultimi lavori degli anni precedenti alla sua morte, gli
Studi per la fondazione delle scienze dello spirito (1905-10), La costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito (1910). Da qui in poi, l'ermeneutica come tale entra definitivamente a far parte della problematica
filosofica: sostanzialmente quando si parla, nella cultura contemporanea, di ermeneutica ci si riferisce ad uno stile di pensiero che ha le sue
origini nell'opera di Dilthey.
Il tema della filosofia di Dilthey sono le scienze dello spirito. Egli ha
sicuramente determinato non solo le modalità con cui le scienze storiche si sono sviluppate in questo secolo, ma ha, per certi aspetti, anche
condizionato la nostra comprensione storiografica del passato. Se dovessimo sintetizzare in alcuni punti la sua problematica filosofica, potremmo riconoscere almeno due nuclei fondamentali:

la distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito;

il problema della critica della ragione storica.
La distinzione dal punto di vista metodologico tra scienze della natura e scienze dello spirito, è una frattura che si consuma a partire da
53
Dilthey : d'ora in avanti la filosofia si separa, forse in maniera definitiva,
dalle scienze della natura.
4.1 LA DISTINZIONE TRA SCIENZE DELLA NATURA E SCIENZE DELLO SPIRITO
Distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito e critica
della ragione storica costituiscono due problemi per certi aspetti complementari di un unico progetto filosofico. Per quanto riguarda il primo
punto, per la sensibilità contemporanea è abbastanza usuale distinguere tra scienze della natura e scienze dello spirito. Questa situazione di
divaricazione o di conflitto, tuttavia, non è sempre esistita. Agli albori
della Modernità si era viceversa affermata l'idea di racchiudere le diverse forme di sapere (i saperi rivolti verso la natura e quelli rivolti verso il
mondo dello spirito) in un unico sistema. In un celebre passo del Saggiatore, ad esempio, Galilei afferma che la filosofia non è un libro scritto dalla fantasia di un uomo, come potrebbero essere l'Iliade o l'Odissea; la filosofia è invece scritta nel grande libro dell'universo, che sta aperto davanti
agli occhi di ognuno. Tale libro tuttavia non può essere compreso se prima non si impara a conoscere la lingua ed i caratteri con cui è scritto: ed
esso è stato scritto in lingua matematica, ed i suoi caratteri sono triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche; senza questi mezzi è impossibile
comprendere anche il minimo fenomeno naturale (1). E' difficile, leggendo
queste parole, che non venga in mente un passo spinoziano dal suono
molto simile. Nella "Prefazione" alla Parte Terza dell'Etica Spinoza avvisa
il lettore di accingersi a trattare "i vizi degli uomini", con "procedimento
geometrico"; in questo senso egli prosegue: "Tratterò pertanto della natura e delle forze degli affetti, e del potere della mente nei loro confronti col
medesimo metodo con cui, nelle parti precedenti, ho trattato di Dio e della mente e considererò pertanto le azioni umane e gli appetiti come se si
trattasse di linee, superfici o corpi" (2). In questo modo Spinoza dimostra
di essere in sintonia con il punto di vista di Galileo. L'ordine geometrico
(genetico-sintetico) non serve soltanto alla chiarezza espositiva: esso è
l'unico strumento in grado di rendere accessibile all'intelletto umano la
struttura sintetica della Natura (Deus sive Natura). Nella prospettiva spinoziana tuttavia il progetto galileiano viene ulteriormente ampliato ed esteso. Il metodo geometrico, infatti, deve operare non soltanto nella Natura fisica, ma anche nella sfera del mondo umano e di qui far sentire la
propria efficacia anche nella critica della religione. Nel capitolo settimo
del Trattato teologico-politico Spinoza afferma infatti che "il metodo per
l'interpretazione della Scrittura non si differenzia affatto dal metodo per
54
l'interpretazione della natura, ma anzi si accorda in tutto e per tutto con
quello" (3). L'evoluzione del pensiero scientifico è connessa allo sviluppo
del pensiero filosofico. La strada percorsa in questo modo da Spinoza era
stata tuttavia tracciata, nelle sue linee fondamentali, già da Galilei.
Si è già potuto vedere nelle pagine precedenti come una simile impostazione sia per certi aspetti condivisa anche da Vico. La Scienza nuova, la teologia civile, si muove con lo stesso metodo della geometria e
Vico sembra quasi suggerire che la conoscenza del mondo prodotto
dall'uomo si sviluppa secondo una metodologia che questa nuova scienza condivide con le altre scienze della natura. Come la geometria produce essa stessa le grandezze che poi studia, ovvero le figure geometriche,
così la scienza nuova di Vico analizza l'universo della storia che è un
mondo prodotto dagli uomini. L'unica differenza è data dal fatto che l'una studia grandezze astratte, l'altra cose concrete. Il procedimento è però identico, il che vuol dire che il sistema della scienza è unico.
Una situazione per molti aspetti analoga è rintracciabile anche nella filosofia kantiana. In Kant la ragione costruisce un unico sistema dove da un lato si considera la ragione pura, cioè l'attenzione che la ragione ha nei confronti dell'esperienza e della natura (scienza dei fenomeni)
e dall'altro la ragione nel suo aspetto pratico, l'attenzione della ragione
nei confronti di quello che è l'agire umano. Ecco che la conoscenza della
natura e la conoscenza del mondo morale dell'uomo fanno parte di un
unico sistema della scienza. Il punto di tangenza tra questi due sistemi,
e quindi il concetto che è in grado di restituirci l'unità del sistema della
ragione, è la libertà (4). La libertà è la chiave di volta del sistema complessivo della ragione, essa permette il sussistere di entrambi i sottosistemi della ragion teoretica e della ragion pratica. Il concetto di libertà
è sicuramente un concetto pratico, appartiene alla sfera morale, ma
svolge una funzione anche nei confronti del mondo teoretico, della
scienza dell'esperienza. Anche con Kant dunque è possibile concepire
un unico edificio sistematico, uno schema unitario, al cui interno confluiscono le diverse scienze, della natura e dello spirito.
Anche in Hegel troviamo qualcosa di molto simile, in quanto è possibile parlare di un unico sistema: all'interno della Enciclopedia delle
scienze, infatti, trovano posto sia la filosofia dello spirito sia la filosofia
della natura.
Con Dilthey quello che viene a spezzarsi è l'unicità del sistema.
D'ora in poi sistema della natura e sistema dello spirito apparterranno a
due ordini completamente diversi, disomogenei tra loro e non riconducibili l'uno all'altro.
55
Scienze della natura e scienze dello spirito secondo Dilthey si differenziano tra di loro non soltanto perché si riferiscono ad oggetti diversi
ma soprattutto in rapporto alla loro natura di scienze: "Sulla base delle
forme e delle operazioni generali del pensiero si fanno qui valere compiti
specifici, che trovano la loro soluzione nell'intreccio dei propri metodi.
Nell'elaborazione di queste forme di procedimento le scienze dello spirito
sono state sempre influenzate dalle scienze della natura; e poiché queste hanno elaborato prima i loro metodi, si è avuto in un vasto ambito
un adattamento di essi ai compiti delle scienze dello spirito... Anche oggi, nello sforzo di soluzione dei compiti particolari, lo studioso di psicologia, di pedagogia, di linguistica o di estetica si chiede spesso se i mezzi
e i metodi scoperti nelle scienze della natura per la soluzione di problemi analoghi, possano venir sfruttati nel proprio campo. Ma, nonostante
tali particolari punti di contatto, la connessione delle forme di procedimento delle scienze dello spirito è, fin dal suo inizio, del tutto diversa
dalla connessione delle scienze della natura" (5).
Questo è il risultato di uno sviluppo che appartiene anche alla storia della cultura. Un primo punto di riferimento e una delle prime grandi svolte nell'ambito dello sviluppo delle varie forme del sapere è stato
costituito, secondo Dilthey, dal Rinascimento e dalla Riforma protestante, cioè dalla nascita della modernità, che segna una svolta epistemica,
secondo la quale il centro dell'attenzione passa dallo studio della metafisica e della teologia allo studio delle scienze empiriche autonome, delle
scienze della natura: "Grazie al comune lavoro di Keplero, di Galilei, di
Bacone e di Descartes, la scienza matematica della natura si costituì
nella prima metà del secolo XVII come conoscenza dell'ordine legale della natura: e mediante un numero sempre crescente di indagatori essa
ha esplicitato, ancora nello stesso secolo, tutta la sua capacità operativa. Essa ha costituito pure l'oggetto, la cui analisi è stata in prevalenza
compiuta dalla teoria della conoscenza dell'ultimo secolo XVII e del secolo XVIII, per opera di Locke, Berkeley, Hume, d'Alembert, Lambert e
Kant" (6).
Questo comporta che la conoscenza della natura è la prima forma
di sapere che giunge a darsi uno statuto scientifico all'interno della modernità, così da rappresentare non tanto l'attività di singole persone, ma
piuttosto un progetto epistemologico comune, del cui processo di sviluppo Kant rappresenta il culmine ed anche il punto di arrivo.
Il progetto di una fondazione delle scienze dello spirito trova la sua
base nell'oggettività storico-sociale ed il "sistema naturale" di queste
scienze ha il suo punto di riferimento nella religione, nel diritto, nell'eticità, nell'arte. Ma quanto più era destinato a mostrarsi "il carattere sto-
56
rico delle scienze dell'economia, del diritto, della religione, dell'arte",
tanto più, secondo Dilthey, "ciò a cui erano giunte le scienze naturali,
l'elaborazione di un sistema concettuale universalmente valido, si doveva... mostrare impossibile nelle scienze dello spirito, mentre appariva la
diversa natura dell'oggetto nei due campi del sapere" (7). La costituzione
delle scienze della natura è determinata dal modo in cui si presenta il
loro proprio oggetto, vale a dire appunto la natura. Ma la caratteristica
fondamentale della natura, secondo Dilthey, è quella di essere per l'uomo un qualcosa di estraneo: sotto questo profilo essa "è trascendente al
soggetto conoscitivo, ed è appresa da questo in costruzioni strumentali,
mediante il dato fenomenico" (8). "La connessione del mondo spirituale
sorge nel soggetto, ed è il movimento dello spirito fino alla determinazione della connessione di significato di questo mondo che collega tra
loro i processi logici particolari. Così da una parte questo mondo spirituale è la creazione del soggetto conoscitivo, ma d'altra parte il movimento dello spirito è diretto a raggiungere in esso un sapere oggettivo"
(9). La distinzione diltheyana tra scienze della natura e scienze dello
spirito passa attraverso la distinzione-opposizione tra natura e storia:
"nella natura esterna la connessione è riposta al di sotto dei fenomeni,
in un nesso di concetti astratti, mentre nel mondo spirituale la connessione viene immediatamente vissuta e intesa". La configurazione indipendente della costruzione delle scienze dello spirito trova quindi il suo
fondamento nella totale diversità di questa costruzione rispetto alla costruzione delle scienze della natura: le prime, infatti, "ritraducono sempre e principalmente la realtà esterna storico-sociale dell'uomo, che si
estende in una maniera che non consente alcun calcolo, nella vitalità
spirituale da cui essa è scaturita" (10). Per Dilthey la diversità dell'oggetto determina anche una sostanziale diversità nell‟ambito dell‟uso metodologico dei concetti: le scienze dello spirito poggiano su categorie diverse da quelle su cui poggiano le scienze della natura ed anche laddove
le categorie sono le stesse, il procedimento metodologico del loro impiego è sostanzialmente diverso.
Ad esempio, un concetto che trova applicazione tanto nell'ambito
della natura quanto in quello della storia, è il concetto di tempo. Il tempo, così come viene concepito nell'ambito delle scienze della natura è
qualcosa di misurabile in maniera uniforme, e anche qualcosa di reversibile: è possibile scorrere lungo la scala dei valori del tempo e trovare
che la misurazione è fatta per unità identiche, e ciascuna unità indistintamente può occupare lo spazio dell'altra: tutti gli spazi del tempo sono
uguali ed hanno perciò lo stesso valore.
57
Nell'ambito di quello che è il mondo storico il tempo ha un notevole
peso, però esso si dispiega attraverso più dimensioni, il passato, il futuro ed il presente, che può essere considerato come il punto di tangenza
delle prime due e che, osserva Dilthey, è "ciò che esiste sempre, e nulla
esiste che non abbia luogo in esso" (11). Queste dimensioni non sono
uguali e l'esperienza che il soggetto storico fa del tempo è diversa in relazione a quale delle tre dimensioni egli di volta in volta si rapporta: in
questo senso "le parti del tempo reale non sono differenti tra loro soltanto qualitativamente, ma, se guardiamo dal presente indietro verso il
passato e avanti verso il futuro, ogni parte del divenire nel tempo, prescindendo da ciò che in esso si presenta, ha un diverso carattere" (12).
Il passato si presenta sotto la dimensione del già dato e sotto la categoria della necessità. Esso è qualcosa di immodificabile (13). Il futuro,
in quanto ancora non è, ci viene incontro sotto la dimensione o categoria della possibilità: esso assume l'aspetto di un essere da noi dominabile, nei cui confronti noi ci possiamo atteggiare in maniera attiva e libera (14).
In un certo senso, c'è una reversibilità anche del tempo dello spirito: noi infatti possiamo tornare indietro attraverso la memoria (anamnesi). Si può dire che, in generale, proprio la storia è lo sforzo di rendere
reversibile il tempo, quindi di rendere di nuovo attuale quello che era il
passato, di renderlo nuovamente fruibile. Tuttavia, osserva Dilthey, la
"serie delle immagini della memoria" vengono sempre "disposte secondo
il valore per la coscienza e la partecipazione affettiva" (15). La memoria
non è mai disgiunta dalla soggettività, così ognuno ha la sua memoria e
ciascuno di noi rivive in maniera diversa anche gli stessi avvenimenti.
Pur nella loro capacità di diventare reversibili il tempo della natura e il
tempo della storia rivelano ancora la loro diversità fondamentale. Sarebbe assurdo tentare di applicare, nell‟interpretazione delle leggi fisiche, il tempo così come noi lo utilizziamo nell‟ambito delle scienze dello
spirito, cioè il tempo vissuto, il tempo della vita; altrettanto assurdo però sarebbe il voler misurare il tempo della vita in base ai parametri utilizzati per il tempo della natura.
Un altro concetto che appartiene sia alle scienze della natura sia
alle scienze dello spirito è indubbiamente quello di causa. L‟idea di causalità nel mondo fisico esprime il rapporto necessario tra due fenomeni
in ambito storico il concetto di causalità continua a mantenere un analogo valore, cioè a rappresentare un legame necessario tra due eventi,
tra due fatti, tra il soggetto che compie l‟azione e l‟azione in quanto
compiuta. Il modo in cui viene applicata la causalità in un campo e
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nell‟altro risponde tuttavia a criteri e normative che sono molto diversi e
per certi aspetti anche diametralmente opposti.
Il nesso causale è il collante fondamentale del costituirsi di ogni fenomeno e di ogni legge scientifica. Dal punto di vista dell‟indagine naturale, inoltre, la ricerca delle cause viene effettuata tramite l'analisi del
fenomeno in laboratorio, attraverso la sua riproducibilità per mezzo
dell'esperimento. La causalità naturale, in quanto sperimentabile, è una
causalità ripetibile all‟infinito.
Certamente, anche nell'ambito delle scienze storiche si parla di leggi e si ricercano cause: però, osserva Dilthey, "nel mondo storico non c'è
alcuna causalità nel senso naturalistico, poiché la causa in tal senso
provoca degli effetti secondo leggi necessarie; mentre la storia conosce
soltanto i rapporti del fare e del subire, di azione e di reazione" (16). La
natura degli eventi storici, i casi della nostra vita, hanno caratteristiche
diverse, essi sono unici, ciascun fatto, ciascun avvenimento della vita,
sia a livello micrologico che a livello macrologico, ha il carattere della
irripetibilità e questo vuol dire che nei casi della vita e della storia
l‟esperimento è impossibile.
La sfera dell'agire morale può costituire un interessante esempio di
applicazione del concetto di causa nell'ambito delle scienze dello spirito.
Nell‟ambito dell‟agire morale si parla di causalità nel senso di responsabilità, di imputabilità delle proprie azioni. La causalità, tuttavia, non è
mai in questo caso una causalità pura, diretta, ma è sempre implicata
in una serie di circostanze. Chi agisce, infatti, riconosce come effetto
delle proprie azioni, cioè ammette un rapporto di causalità tra se stesso
e ciò che si produce nell‟esperienza sola nella misura in cui ciò che si
produce era contenuto nelle intenzioni che hanno determinato l‟azione.
La singola coscienza morale si riconosce responsabile e quindi si ritiene
imputabile non di tutto ciò che di fatto è entrato nell‟esperienza in conseguenza della propria azione, ma soltanto di quella parte
dell‟esperienza che rientrava nelle proprie intenzioni. In questo modo
"anche l'azione si stacca dallo sfondo della connessione della vita: e senza la determinazione del modo in cui in essa si congiungono le circostanze, lo scopo, il mezzo e la connessione della vita, non consente alcuna determinazione compiuta dell'elemento interno da cui è sorta"
(17).
4.2 CRITICA DELLA RAGIONE STORICA.
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Con Dilthey e con la fine del XIX secolo, come si è visto, si consuma il divorzio tra scienze della natura e scienze dello spirito ovvero tra
discipline scientifiche e scienze umane: questo significa in primo luogo
la rinuncia, da parte della filosofia contemporanea, di elaborare un unico sistema delle scienze.
Da questa distinzione o separazione Dilthey ricava quello che è il
compito di una critica della ragione storica, il cui punto di partenza è
costituito da Kant. Kant ha elaborato in maniera radicale una "critica
della ragione", come ricerca delle condizioni di possibilità di ogni esperienza. Le scienze, in modo particolare la matematica e la fisica, hanno
fornito l'esempio da seguire sul piano metodologico. Da questo punto di
vista, secondo Dilthey, la critica kantiana è stata capace di offrire una
analisi del sapere matematico e del sapere delle scienze naturali. Ma le
scienze della natura, a loro volta, sono soltanto una parte dell'esperienza possibile. Al di là del punto toccato dalla critica kantiana rimane ancora aperto il problema di fondare una "teoria della conoscenza storica",
cosa che il criticismo non è stato capace di dare (18).
Dopo Kant, nemmeno Hegel è riuscito a pervenire "all'aria aperta
del mondo storico reale" (19). Certamente, secondo Dilthey, in Hegel si
può riconoscere uno "dei più grandi geni storici di tutte le epoche"; la
grandiosità del progetto hegeliano è misurata dal proposito di assumere a
proprio oggetto l'intero dominio del mondo storico: in questo modo alla
"sistematica della ragione" è stato reso accessibile "tutto ciò che il razionalismo settecentesco aveva escluso dalla connessione della ragione in
quanto esistenza individuale, in quanto forma particolare della vita, in
quanto caso e arbitrio" (20). Tuttavia, sempre secondo Dilthey, occorre
riconoscere che la storia universale, così come la storia della filosofia, sono state interamente costruite da Hegel partendo dal punto di vista della
filosofia assoluta, per cui esse sono state chiuse nell'edificio del sistema
come in una prigione: in questo modo la comprensione storica è stata fatalmente sacrificata allo schema metafisico (21). Lo scopo cui Hegel mirava era indubbiamente quello di pensare le forme della coscienza, in modo
da rappresentare lo sviluppo dello spirito come un sistema di relazioni
concettuali e l'attuazione di tale connessione di idee nel mondo reale trovava il suo punto centrale nella Weltgeschichte, la storia universale: una
tale via doveva però necessariamente portare ad una intellettualizzazione
del mondo storico (22).
Occorre quindi ritornare al punto in cui era pervenuto il criticismo
per superarlo, in modo "che la ragione storica risolva il compito rimasto
fuori dall'ambito visuale della critica della ragione di Kant" (23). Il compito
storico assolto dalla filosofia kantiana è stato quello di svolgere una cri-
60
tica dei fondamenti epistemologici delle scienze della natura: proprio per
questo la ragione kantiana ha di mira l'esperienza scientifica, che è una
esperienza asettica, da laboratorio. Agli occhi di Dilthey è necessario
"uscire dall'aria pura e raffinata della critica della ragione kantiana per
soddisfare alla natura del tutto differente degli oggetti storici" (24).
Il mondo storico si presenta innanzitutto con una fondamentale caratteristica, di essere intrecciato all'individuo in una relazione che non è
possibile sciogliere; in tal modo "si presenta il primo importante momento per la soluzione del problema conoscitivo della storia: la prima
condizione per la possibilità della conoscenza storica sta nel fatto che io
stesso sono un essere storico, e che colui che indaga la storia è il medesimo che fa la storia". Secondo Dilthey l'uomo è essere storico prima di
considerare la storia e soltanto in quanto è costitutivamente un essere
storico, l'uomo si volge alla considerazione del mondo storico: in questo
modo "l'uomo si conosce soltanto nella storia" (25). Sulla base di questa
prospettiva ciò che viene ad essere privilegiato è il rapporto storia/vita:
scienze dello spirito, ovvero scienze storico-sociali, vita ed esperienza
della vita si trovano in una connessione interna costante ed in un altrettanto costante reciproco scambio. L'elaborazione concettuale è in questo
caso determinata continuamente dalla vita stessa: da quest'ultima, infatti, muove l'elaborazione concettuale intorno al destino, ai caratteri,
alle passioni, ai valori ed agli scopi dell'esistenza per culminare alla fine
nella costruzione della storia intesa quale disciplina scientifica: nella
storia la vita afferra la vita (26). L‟oggetto della ragione storica è la vita,
il vivere umano, non la vita biologica, e quindi si dispiega in una molteplicità di direzioni e di scienze: la storia propriamente detta, la storia
delle religioni, l‟antropologia, la psicologia, ecc., tutte quelle che oggi
continuiamo a chiamare scienze umane e che per Dilthey erano le
scienze dello spirito.
La vita è un fenomeno complesso perché da un lato si sviluppa come vita individuale; essa è in primo luogo la vita di ciascuno di noi preso come singolo individuo: "Tra questa realtà e l'intelletto non sembra
possibile alcun rapporto conoscitivo, poiché il concetto separa ciò che è
legato nel fluire della vita, e rappresenta qualcosa di valido universalmente e per sempre, indipendentemente dalla mente che lo ha formulato, mentre il fluire della vita è ovunque soltanto singolare, e ogni onda
va e viene entro di essa" (27). Il fatto di non poter essere rappresentata
da alcuna formula di operazioni logiche, comporta che la vita, in quanto
individualità, racchiude sempre in sé un "elemento irrazionale" (28).
L'individualità è qualcosa che sfugge alla comprensione categoriale nel
senso appunto che non è totalmente riconducibile a principi di carattere
61
generale e quindi in questo senso l‟individualità racchiude sempre qualcosa di non spiegabile. Nel nostro stesso comportamento, che è sicuramente sottoposto a una infinità di regole a cui obbediamo in maniera
anche irriflessa, c‟è pur sempre un aspetto che non è riconducibile a
queste norme e il problema che devono risolvere le scienze dello spirito è
proprio quello di dover fare i conti con questo residuo di irrazionalità,
che essendo costitutivo della vita è a sua volta ineliminabile dalla vita
stessa
La vita è qualcosa di singolo, di soggettivo, ma che, pur in quanto
singolo, partecipa di una totalità: "La vita è la connessione dei rapporti
reciproci tra le persone, che hanno luogo sotto le condizioni del mondo
esterno, compresa nell'indipendenza di tale connessione dal mutare dei
tempi e dei luoghi" Vita vuol dire perciò sia la vita singola del soggetto
sia la vita sociale condivisa da tutti: in questo senso "la vita consiste
nell'azione reciproca delle unità viventi" (29). La vita individuale non si
sviluppa e non si gestisce mai da sola, ma sempre nella interazione di
altre vite: questo fa sì che una delle categorie basilari per la comprensione della vita sia la relazione parte-tutto. L'essenza della vita può essere intesa soltanto per mezzo di apparati categoriali che sono estranei
alle scienze della natura: "Anche qui il momento decisivo sta nel fatto
che queste categorie non sono applicate a priori alla vita come qualcosa
di esterno, ma risiedono nell'essenza della vita stessa"; così come il loro
numero complessivo non può venir stabilito una volta per tutte, altrettanto la loro connessione non può essere ricondotta ad una formula logica: "Significato, valore, scopo, sviluppo, ideale" -ricorda Dilthey- "sono
tali categorie. Ma tutte le altre dipendono dal fatto che la connessione
del corso della vita può venir appreso solo mediante la categoria del significato delle varie parti della vita in rapporto alla comprensione della
totalità, e che ogni sezione della vita dell'umanità può venir intesa solo
in tal modo" (30).
La relazione parti/tutto è di natura reciproca: infatti, da un lato,
ogni momento particolare riceve il suo significato attraverso il rapporto
con la totalità; dall'altro lato la totalità, a sua volta, sussiste soltanto in
quanto può essere compresa per mezzo delle sue parti (31). Lungo questa direzione si determina il nesso tra vita e storia: "La vita, che scorre
nel tempo o si distingue spazialmente nella contemporaneità, è articolata categorialmente secondo il rapporto tra il tutto e le sue parti: e la storia come realizzazione della vita nel corso del tempo e nella contemporaneità è pure considerata categorialmente come un'articolazione in
questa relazione delle parti con il tutto" (32). Da questa peculiare forma
62
di azione reciproca discende anche il compito del sapere storico: "La storia deve osservare la vita come una totalità" (33).
E' evidente, da quanto detto, che uno dei problemi epistemologici
che le scienze dello spirito, ed in particolare il sapere storico, devono
saper affrontare è dato dalla struttura basilare dell‟oggetto che esse
studiano: l‟individualità da un lato e la totalità dall‟altro, senza poter
fare una scelta definitiva né per l'una né per l‟altra. Optando per la pura
singolarità le scienze dello spirito perderebbero il loro carattere di scienza e si polverizzerebbero in una babele di discorsi particolari. Ma
dall‟altro lato le scienze dello spirito non possono nemmeno optare per
la pura universalità, perché in questa maniera perderebbero irrimediabilmente di vista uno dei caratteri costitutivi dell'ambito di esperienza
che esse hanno come oggetto.
NOTE
1) Cfr. G. Galilei, Il Saggiatore, a cura di L. Sosio, Feltrinelli, Milano
1965, p. 38
2) Cfr. B. Spinoza, Etica dimostrata secondo l'ordine geometrico, trad. it.
di S. Giametta, Boringhieri, Torino 19675, Parte III, Prefaz., pp. 130131
3) Cfr. B. Spinoza, Trattato teologico-politico, trad. it. di A. Droetto e E.
Giancotti-Boscherini, Einaudi, Torino 1972, p. 186.
4) Cfr. E. Kant, Critica della ragion pratica, trad. it. di F. Capra, riv. da
E. Garin, Laterza, Bari 19669, p. 2.
5) Cfr. W. Dilthey, Critica della ragione storica, trad. it. di P. Rossi, Einaudi, Torino 1982, p. 213.
6) Ivi, pp. 158-159.
7) Ivi, pp. 164 e 169.
8) Ivi, p. 159.
9) Ivi, p. 293.
63
10)
Ivi, pp. 196-198.
11)
Ivi, p. 296.
12)
Ibidem.
13)
Ibidem.
14)
Ibidem.
15)
Ibidem.
16)
Ivi, p. 301.
17)
Ivi, p. 312.
18)
Ivi, p. 294.
19)
Ivi, p. 376.
20)
Ivi, pp. 172-174.
21) Cfr.
W.
Dilthey,
Storia
della giovinezza di Hegel
e
Frammenti postumi, a cura di G. Cacciatore e G. Cantillo, Guida, Napoli 1986, pp. 314, 356.
22) Cfr. W. Dilthey, Critica della ragione storica cit., p. 174.
23) Ivi, p. 273.
24) Ibidem.
25) Ivi, pp. 372-374.
26) Ivi, pp. 220-221.
27) Ivi, p. 375.
28) Ivi, p. 228.
64
29) Ivi, p. 332.
30) Ivi, p. 337.
31) Ivi, pp. 338-339.
32) Ivi, p. 352.
33) Ivi, p. 360.
65
66
V
HABERMAS: LA MODERNITÀ
COME PROGETTO INCOMPIUTO
Jürgen Habermas (1929) può essere considerato come uno dei
rappresentanti della cosiddetta seconda generazione della Scuola di
Francoforte. Assistente di T.W. Adorno presso l‟Institut für Sozialforschung, dopo una parentesi all‟Università di Heidelberg, fu chiamato
proprio a Francoforte, quale successore di M. Horkheimer. Successivamente è stato direttore del Max-Plank-Institut di Starnberg, per tornare
nuovamente a Francoforte nel 1883, sulla cattedra che già era stata di
Adorno. L‟abilità di Habermas è stata quella di essersi tempestivamente
inserito nelle principali controversie teoriche a cavallo degli anni Sessanta a Settanta (ad esempio il dibattito sull‟epistemologia delle scienze
sociali; sull‟ermeneutica; sulla teoria dei sistemi), guadagnandosi così
un posto centrale nella cultura filosofica tedesca. Tra i suoi lavori più
noti si possono ricordare Storia e critica dell’opinione pubblica (1962),
Conoscenza e interesse (1968), La logica delle scienze sociali (1970), Per
la ricostruzione del materialismo storico (1976), per giungere ai più recenti Etica del discorso (1983), Il discorso filosofico della modernità (1985),
Fatti e norme (1992). La sua opera maggiore resta comunque la Teoria
dell’agire comunicativo, apparsa in due volumi nel 1981, la cui tesi di
fondo è costituita dalla assunzione della comunicazione come paradigma fondamentale della razionalità, dell‟agire sociale e della stessa teoria
critica. Il nucleo comunicativo, che forma la sostanza del linguaggio, è
la condizione del nostro stesso agire.
5.1 MODERNO E POST-MODERNO
Con l‟espressione progetto della modernità Habermas intende riferirsi al processo di autocomprensione avviatosi all‟interno della cultura
non soltanto filosofica della società post-illuministica: in tal senso il discorso della modernità è qualcosa che continua fino all‟età presente e
che diventa riconoscibile in tutte quelle forme di pensiero che prendono
avvio dalla coscienza delle crisi, intesa come rottura della tradizione filosofica. Sotto questo profilo, Habermas si propone di delineare i tratti
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caratteristici della modernità in quanto elevata a tema per la filosofia.
Con età moderna ci si riferisce all‟epoca storica delimitata a monte dalla
scoperta del Nuovo Mondo, dal Rinascimento e dalla Riforma, che sono i
fenomeni storico-culturali che segnano la soglia epocale nei confronti
del Medioevo; ed a valle dall‟Illuminismo e dalla Rivoluzione francese.
L‟età moderna nasce pertanto alla luce di “concetti di movimento”, come
“rivoluzione”, “progresso”, “emancipazione”, “sviluppo”, “crisi”, “spirito
del tempo”: si tratta pertanto di ricostruire, alla luce di una storia dei
concetti, il problema costituito dalla coscienza storica della moderna
civiltà occidentale (1). Nell‟ambito di questo progetto di ricostruzione, un
primo punto da tenere presente è costituito dal fatto che lo sviluppo della società moderna si è organizzato attraverso i mezzi offerti da una cultura diventata oramai profana, in quanto uscita dalla dissoluzione delle
immagini religiose del mondo: l‟elemento vetero-europeo si è dissolto, in
quanto il ricorso a verità religiose o metafisiche non ha più significato
all‟interno del discorso filosofico della modernità: in questo senso il
post-moderno segna l‟estinzione di ogni forma di esegesi unificante del
mondo, che intenda svilupparsi alla luce di principi. A partire dal XVIII
secolo, il mondo moderno sviluppa sostanzialmente un unico tema, nonostante lo rivesta continuamente di nuove denominazioni: il venir meno delle forze sociali connettive, la privatizzazione, la scissione sono tutti segni della deformazione di una prassi quotidiana, che, in quanto razionalizzata in modo unilaterale, fa sorgere l‟esigenza di qualcosa che
possa essere riconosciuto come equivalente della antica potenza unificatrice della religione(2).
Alla diagnosi della modernità appartiene un ulteriore elemento: la
critica della “ragione strumentale”, corrispondente ad un agire economico guidato da una razionalità che opera esclusivamente in vista di un
fine. Con la critica al concetto di ragione strumentale si intendono fare i
conti con le forme di un intelletto calcolante che ha preso il posto della
ragione e che, in quanto operare concepito esclusivamente in vista di
uno scopo, si è assimilato al potere, rinunciando ad ogni forza critica.
Congiuntamente alla critica della ragione strumentale, appartiene al
patrimonio tematico del discorso della modernità anche un terzo punto:
la critica al soggettivismo. Se la prigionia della modernità è segnata
dall‟universo chiuso della ragione strumentale, c‟è la necessità di superare quella forma di soggettivismo che avvolge il mondo con il suo potere
reificante, irrigidendolo in una totalità di oggetti tecnicamente disponibili ed economicamente utilizzabili. Se la libertà deve essere riconosciuta come principio della modernità, bisogna contestualmente ammettere
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che essa non si lascia cogliere effettualmente attraverso i concetti fondamentali di una filosofia del soggetto(3).
Secondo Habermas, con il mondo nuovo viene alla luce anche una
nuova esperienza del tempo, in quanto all‟interno dell‟orizzonte aperto
dall‟età moderna, il presente, in quanto storia contemporanea, gode di
una posizione privilegiata. Alla modernità appartiene la consapevolezza
che la filosofia è giunta alla sua fine, e questa consapevolezza rinvia a
quella rottura con la tradizione che è stata ben evidenziata da K. Löwith(4), quando la coscienza moderna del tempo ha assunto il potere
sulla filosofia. Questa rottura con la tradizione si è espressa in varie
forme: come “superamento” (Aufhebung) della metafisica (ad esempio
con i Giovani Hegeliani), come “oltrepassamento” (Überwindung) della
metafisica (ad esempio con Nietzsche e Heidegger) oppure come commiato dalla filosofia (ad esempio con Wittgenstein e Adorno). Il significato globale di tutto questo è che comunque la modernità si sente totalmente affidata a se stessa, in quanto non intende più ricavare i propri
criteri di orientamento dai modelli di un‟altra epoca: essa deve trovare e
riconoscere i propri valori normativi in se stessa e da se stessa. Sotto
questo profilo, i concetti di “ontologia fondamentale”, di “critica”, di “dialettica negativa”, di “decostruzione”, di “genealogia” non sono oramai
più dei punti di riferimento, alle cui spalle possa ancora farsi in qualche
modo valere la figura tradizionale della filosofia(5).
Secondo Habermas, al discorso filosofico della modernità appartiene anche un‟ulteriore caratteristica, determinata dal fatto che la storia
viene esperita come un processo di crisi, e questo significa: il presente
viene visto “come improvviso balenare di diramazioni critiche, il futuro
come l‟affollarsi di problemi irrisolti; ne nasce quindi una coscienza esistenzialmente affinata circa il pericolo di decisioni mancate e di interventi tralasciati”. Lungo questa direzione ci si incammina su di una
strada, alla fine della quale la ragione viene definitivamente privata della
propria esigenza di validità. Il pensiero scientifico e la ricerca condotta
con metodo vanno incontro ad una svalutazione globale, ma quanto più
ci si ritiene dispensati dal lavoro scientifico, tanto più si corre il rischio
di farsi ingannare dalle mode scientifiche del momento. Mettere da parte
l‟esigenza della metodicità conduce fatalmente a procedimenti di tipo
intuizionistico, alla necessità di ricorrere ad un sapere speciale, che
possa promettere un accesso privilegiato alla verità. Così ad esempio
Heidegger sviluppa una distruzione così radicale della ragione moderna,
che non è più possibile distinguere tra i contenuti universalistici
dell‟Umanesimo o dell‟Illuminismo e le idee particolaristiche
dell‟autoaffermazione, proprie del razzismo e del nazionalismo: “Su que-
69
sto sfondo diventa comprensibile come negli anni più oscuri della seconda guerra mondiale poté consolidarsi più che mai l‟impressione che
l‟ultima scintilla di ragione fosse scomparsa da questa realtà, lasciandosi dietro le rovine desolate di una civiltà in decadenza”(6).
Secondo Habermas, tuttavia, la filosofia non può assumere il carattere esoterico di una cultura di esperti e deve contestualmente preoccuparsi di non rendere inefficace o poco tagliente la lama della critica della
ragione: se il pensiero filosofico viene esonerato dal dovere di risolvere
problemi, esso viene privato non solo della sua serietà metodica, ma anche della sua stessa produttività. Sotto questo profilo la lotta contro la
filosofia del soggetto non può lasciare aperta come via di fuga soltanto
l‟evasione nella immediatezza di una concezione mistica: si possono individuare pertanto anche altre vie che conducono fuori delle strettoie
della filosofia del soggetto. In quanto sapere che si caratterizza per le
sue proiezioni universalistiche e per le sue forti strategie teoretiche, la
filosofia deve mantenere aperto il suo interesse per i fondamenti delle
scienze, della morale e del diritto. In questo senso la filosofia mantiene
un rapporto molto stretto con il mondo della vita concepito nella sua
totalità e con il sano intelletto umano; nello stesso tempo, tuttavia, la
filosofia si deve assumere il compito di scuotere, in un modo che può
anche essere “apertamente sovversivo”, le certezze della prassi quotidiana. Pur accettando una certa dose di “fallibilismo”, nel senso che non
insiste più sui concetti “forti” di teoria, di verità e di sistema, la filosofia
deve saper mantenere aperto un riferimento alla totalità e non rinunciare pertanto alle proprie pretese di verità(7).
5.2 IL CONCETTO HEGELIANO DELLA MODERNITÀ
Secondo Habermas Hegel è stato il primo filosofo ad aver elaborato
un chiaro e consapevole concetto della modernità, nel senso che per
primo ha elevato a problema filosofico il processo di distacco del mondo
moderno dalle suggestioni del passato: il problema dell‟autoaccertamento
della modernità diventa pertanto il problema fondamentale della sua
filosofia. Se si vuole comprendere fino in fondo il significato storico di
quella stretta relazione tra modernità e razionalità che è stata ritenuta
cosa ovvia almeno fino all‟epoca di Max Weber, è necessario risalire fino
al filosofo di Stoccarda: pertanto il concetto hegeliano di modernità diventa il necessario banco di prova nei confronti di tutte le pretese di coloro che svolgono analisi in base a premesse diverse(8).
70
Hegel individua nel principio della soggettività, ovvero nella struttura dell‟autorelazione, il principio cardine dell‟età moderna: partendo
da tale concetto egli spiega la superiorità del mondo moderno ed al tempo stesso il suo carattere di epoca percorsa da crisi, per cui il suo tentativo di “portare la modernità al concetto” si qualifica al tempo stesso
come il tentativo di una critica della modernità. Indubbiamente anche
Kant esprime la realtà del mondo moderno in un sistema di idee: ciò
significa che nella sua filosofia si riflettono, quasi come in uno specchio, i tratti essenziali di questa epoca, senza tuttavia che egli sia riuscito a comprendere la modernità come tale. Kant infatti non avverte come
scissioni le differenziazioni che si sono sviluppate nella ragione, le articolazioni formali che si sono generate dentro la cultura e più in generale
le divisioni che si sono consolidate all‟interno di queste sfere: egli in sostanza ignora il bisogno che nasce dalle separazioni prodotte dal principio della soggettività. Questo bisogno si impone alla filosofia non appena la modernità giunge a concepirsi come epoca storica e ciò significa:
non appena essa diviene consapevole del distacco da ogni passato che
abbia per lei valore esemplare e quindi consapevole della necessità di
giungere da se stessa e per se stessa all‟attingimento di ciò che deve essere per lei sostanza normativa(9).
Sulla scorta dell‟analisi hegeliana, la soggettività può essere ricompresa secondo Habermas all‟interno delle seguenti connotazioni: in primo luogo l‟individualismo, nel senso che nel mondo moderno
l‟infinitamente particolare fa valere le proprie pretese; in secondo luogo
il diritto alla critica, in quanto il principio del mondo moderno richiede
che ciò che si mostra come un che di legittimo sia riconosciuto come
tale; in terzo luogo l‟autonomia dell’agire, in quanto nel mondo moderno
ciascuno si considera responsabile di ciò che fa; da ultimo la filosofia
idealistica, in quanto il compito dell‟età moderna dal punto di vista speculativo è cogliere l‟idea che sa se stessa. Più in particolare, i concetti
morali dell‟età moderna implicano il riconoscimento della libertà soggettiva degli individui: ciò significa che tali concetti sono fondati da un lato
sul diritto del singolo di poter da se stesso considerare come valido ciò
che deve fare, dall‟altro lato, tuttavia, sull‟esigenza che a ciascuno è lecito realizzare il proprio bene particolare solo in quanto questo si accorda
con il bene di tutti. Nella modernità tanto la vita religiosa, lo Stato e la
società, così come la scienza, la morale e l‟arte, sono tutte altrettante
incarnazioni del principio della soggettività. Il problema consiste nel vedere se questo principio, ovvero la struttura dell‟autocoscienza che è ad
esso immanente, possa proporsi quale sorgente di orientamenti normativi, i quali siano in grado di dare un assetto stabile alla modernità inte-
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sa come formazione storica. Questo significa: verificare se soggettività
ed autocoscienza siano da un lato capaci di elaborare criteri desunti
dallo stesso mondo moderno, dall‟altro se tali criteri siano adatti per
orientarsi in esso, ovvero a criticare una modernità che non è in pace
con se stessa. La soggettività si rivela un principio unilaterale, in quanto tale principio mostra di possedere forza sufficiente per produrre la
formazione della libertà soggettiva e della riflessione, ma non risulta capace di rigenerare la potenza dell‟unificazione nel medium della ragione.
In questo senso i moderni fenomeni di ciò che Hegel definisce come il
“positivo” (vale a dire religione e Stato ridotti ad essere un puro ingranaggio, una macchina) sono in grado di smascherare il principio della
soggettività come un principio di dominio. Il mondo moderno soffre pertanto di false identità(10).
Fino al secolo XIX, la tradizione aristotelica ha ininterrottamente
rappresentato il concetto vetero-europeo della politica concepita come
una sfera che doveva comprendere in sé tanto lo Stato quanto la stessa
società. Agli occhi di Hegel si è fatto progressivamente chiaro che una
simile costruzione concettuale non era più adatta alle società moderne,
dove l‟economia di stampo capitalistico, organizzata in base al diritto
privato, si era oramai resa indipendente. L‟elemento sociale si era separato da quello politico ed la società economica, come sfera spoliticizzata,
era diventata autonoma rispetto allo Stato burocratizzato. Si era trattato
di uno sviluppo storico che aveva messo fuori gioco la dottrina politica
classica per quanto riguardava la sua capacità di comprendere
l‟esistente. Pertanto la dottrina politica, alla fine del XVIII secolo, si era
scissa in una teoria della società basata sull‟economia politica ed in una
teoria dello stato fondata sul diritto naturale. Da questo lato Hegel è il
primo ad elaborare, anche sul piano terminologico, un sistema di concetti in cui può trovare adeguata espressione la modernità, nel momento in cui separa la sfera politica dello “Stato” dall‟ambito della “società
civile”, come luogo dei rapporti economici. Si pone tuttavia a questo
punto il problema di come sia possibile concepire la società civile non
soltanto come la sfera della decadenza della sostanza etica, ma al tempo
stesso anche come momento necessario dell‟eticità stessa. Il punto di
partenza di Hegel è dato dalla consapevolezza che l‟ideale antico della
comunità politica non è riproponibile nelle condizioni in cui opera la
modernità: quindi egli si trova nella necessità di trovare una mediazione
tra l‟ideale etico della classicità, per quegli aspetti per cui esso è superiore all‟individualismo dell‟età moderna, e l‟effettualità della modernità
sociale. Secondo Habermas, tuttavia, la ragione filosofica hegeliana è
capace di pervenire ad una riconciliazione solo parziale(11).
72
Al fine di riconciliare la modernità decaduta, Hegel giunge a presupporre una totalità etica, che non è stata elaborata sul terreno stesso
della modernità, ma che è derivato da un passato idealizzato, quello delle comunità religiose proto-cristiane e, soprattutto, quello della polis
greca. Hegel sviluppa l‟idea di un “positivamente universale”, distinto
dalla
società
civile,
in
modo
da
bloccarne
le
tendenze
all‟autodistruzione, conservando al tempo stesso i risultati
dell‟emancipazione: questo positivo è costituito dallo stato, cosicché il
problema della mediazione viene risolto attraverso l‟Aufhebung della sfera sociale nella forma della monarchia costituzionale. Si tratta tuttavia,
secondo Habermas, di una soluzione che risulta praticabile solo sulla
base del presupposto di un Assoluto, che viene concepito ancora in base
al modello della relazione di un soggetto conoscente con se stesso: “Hegel può comprendere la modernità partendo dal suo stesso principio,
grazie al concetto di un Assoluto che sopraffà tutte le assolutizzazioni, e
che solo mantiene, in quanto incondizionato, l‟infinita processualità
dell‟autorelazione che assorbe in sé tutto il finito”. Sulla base di questo
generale impianto logico deriva il primato di una soggettività di grado
superiore, spettante allo Stato, sulla libertà soggettiva del singolo: la
logica del soggetto che concepisce se stesso impone quindi
l‟istituzionalismo di uno Stato forte. Alla facoltà riflessiva applicata a se
stessa si accompagna indubbiamente anche un lato negativo, quello di
una soggettività autonomizzata, posta assolutamente(12).
Il bisogno di autofondazione della modernità, secondo Habermas, è
soddisfatto in questo modo al prezzo di un indebolimento della critica:
“La filosofia non può insegnare al mondo come esso deve essere; nei
suoi concetti si riflette soltanto la realtà così come essa è. Non si rivolge
più contro la realtà, bensì contro le oscure astrazioni che si inseriscono
fra la coscienza soggettiva e la ragione oggettivamente conformata. Dopo
che lo spirito della modernità „ha dato una scossa‟, dopo aver trovato
ancora una via di uscita dalle aporie del moderno, e non soltanto è entrato nella realtà effettuale, ma vi è divenuto oggettivo, Hegel ritiene che
la filosofia sia sgravata dal compito di confrontare l‟intera esistenza della vita sociale e politica con il suo concetto”(13).
Hegel non è il primo filosofo che appartiene all‟età moderna, ma è
indubbiamente il primo, secondo Habermas, ad averla posta come problema. Così facendo, tuttavia, egli non voleva affatto una rottura con la
tradizione filosofica. Nella teoria hegeliana appare per la prima volta e
diviene pienamente visibile la costellazione concettuale che collega modernità, coscienza del tempo e razionalità: è però lo stesso filosofo a far
saltare questa costruzione, in quanto la realtà elevata a Spirito assoluto
73
finisce per neutralizzare le condizioni grazie alle quali la modernità aveva raggiunto la coscienza di se stessa. Hegel perciò non ha risolto il
problema dell‟autoaccertamento della modernità, dal quale aveva preso
le mosse la sua filosofia. Il suo tentativo, agli occhi di Habermas, lascia
tuttavia all‟epoca post-hegeliana una eredità nella forma di un suggerimento che potrebbe rivelarsi prezioso: “soltanto colui che concepisce in
termini più modesti il concetto della ragione ottiene un diritto di preferenza nel trattare questo tema”(14).
5.3 NIETZSCHE E IL POST-MODERNO
Secondo Habermas, né Hegel e nemmeno i suoi discepoli, di destra
o di sinistra, hanno in realtà mai voluto mettere in discussione i fondamenti di ciò da cui l‟età moderna traeva la coscienza di se stessa: in
questo senso, la modernità si colloca innanzitutto sotto il segno della
libertà soggettiva. Ma il dominio del soggetto fa sì che le sfere all‟interno
delle quali ciascun individuo svolge la sua vita, come borghese, come
cittadino e come uomo, si separino sempre più l‟una dall‟altra fino a diventare indipendenti. Nel passato, era la religione a costituire il legame
indissolubile che legava insieme le parti della totalità: ora questo legame
si è spezzato. Le forze religiose che consentivano l‟integrazione sociale si
sono dissolte a causa di un processo di Aufklärung, che così come non
può essere indiscriminatamente messo da parte, altrettanto non può
considerarsi il prodotto del caso e dell‟arbitrio(15). L‟Illuminismo, osserva ancora Habermas, “è caratterizzato dall‟irreversibilità dei processi di
apprendimento derivante dall‟impossibilità di dimenticare a proprio libito idee, che invece possono essere soltanto rimosse, oppure corrette con
idee migliori. Perciò l‟Illuminismo può compensare le sue lacune solamente per mezzo di un Illuminismo radicalizzato; perciò Hegel e i suoi
discepoli devono porre le loro speranze in una dialettica
dell‟Illuminismo, nella quale la ragione possa fungere da equivalente
della potenza unificatrice della religione”(16). La soluzione hegeliana,
come si è già visto, si è rivelata troppo forte.
Di fronte a questa situazione, il progetto nietzschiano si propone di
valorizzare la coscienza moderna del tempo, allo stesso modo in cui, in
precedenza, i Giovani Hegeliani si erano mossi contro l‟oggettivismo della filosofia hegeliana della storia. Conformemente a questo programma,
nella seconda della Considerazioni inattuali (Sull’utilità e il danno della
storia per la vita), Nietzsche analizza l‟inefficacia di una tradizione culturale che si era oramai completamente staccata dall‟azione e trasferita
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nell‟interiorità. L‟entrata di Nietzsche nel discorso della modernità modifica tuttavia in maniera radicale la natura dell‟argomentazione. Fino ad
allora la ragione era stata pensata secondo le più diverse modificazioni,
affinché tuttavia potesse presentarsi come un equivalente dell‟antica
potenza unificatrice della religione, fornendo in questo modo le forze
propulsive per il superamento delle scissioni prodotte dalla modernità.
L‟aspetto nuovo del progetto nietzschiano consiste tuttavia nel rinunciare ad una ulteriore revisione del concetto di ragione: infatti “la deformazione storicistica della coscienza moderna, l‟afflusso indiscriminato di contenuti arbitrari e lo svuotamento di tutto ciò che è essenziale lo
inducono a dubitare che la modernità possa ancora attingere da se
stessa i propri criteri”(17).
Il fulcro del progetto nietzschiano è la concezione dionisiaca della
storia: tra gli elementi costitutivi di questa concezione deve essere ricompresa quella forma peculiare di teodicea, in base alla quale il mondo
può trovare giustificazione soltanto come fenomeno estetico. Nella descrizione del dionisiaco, infatti, che viene concepito come elevazione del
soggetto fino al totale oblio di sé, è compresa anche l‟esperienza, indubbiamente resa più radicale rispetto ad analoghe posizioni romantiche,
dell‟arte contemporanea(18). Il mito di Dioniso, del dio errante
dell‟ebbrezza e della follia e delle continue metamorfosi, osserva Habermas, poteva esercitare un notevole fascino su di un‟età illuministica che
andava progressivamente perdendo la fiducia in se stessa, in quanto
poteva alimentare speranze di redenzione. Nietzsche conduce alle conseguenze più estreme il processo di depurazione, già iniziato dai romantici, del fenomeno estetico da ogni implicazione di carattere teoretico e
morale: “Nell‟esperienza estetica la realtà dionisiaca è isolata dal mondo
della conoscenza teoretica e dell‟agire morale, dalla quotidianità, tramite
un „baratro dell‟oblio‟. L‟arte apre l‟accesso al dionisiaco soltanto al
prezzo dell‟estasi – cioè al prezzo della dolorosa abolizione delle differenze, della disindividualizzazione, della fusione con l‟amorfa natura interna ed esterna. Perciò l‟uomo della modernità, privo di miti, dalla nuova
mitologia può attendersi soltanto un tipo di redenzione che elimina tutte
le mediazioni”. Ciò che si propone è un distacco radicale dalla modernità, oramai svuotata dal nichilismo: “Con Nietzsche la critica alla modernità rinuncia per la prima volta a mantenere il contenuto emancipativo.
La ragione centrata nel soggetto viene messa a confronto con il totalmente altro dalla ragione”(19). L‟energia che crea il senso forma così il
nucleo estetico della volontà di potenza, la quale al tempo stesso si presenta anche come volontà di apparenza: sotto questo profilo l‟arte è destinata a diventare l‟autentica attività metafisica dell‟uomo, in quanto è
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la vita stressa che si fonda sull‟apparenza, sull‟inganno, sulla illusione.
Il dominio nichilistico della ragione soggettocentrica viene a sua volta
concepito come il risultato del pervertimento della volontà di potenza:
con la sua critica alla ragione della modernità, critica che si pone essa
stessa al di fuori dell‟orizzonte della ragione, Nietzsche intende elaborare gli strumenti utili a smascherare una scienza ed una morale che sono
in realtà le forme in cui si esprime l‟ideologia di una volontà di potenza
pervertita(20).
Sotto questo profilo, la Genealogia della morale, secondo Hebermas,
deve essere considerata come il “grande modello” di quella lunga catena
di pensatori del post-moderno, da Martin Heidegger a Georges Bataille e
Jacques Derrida, da Max Horkeimer, Theodor W. Adorno a Jacques Lacan e Michel Foucault, in ciascuno dei quali, è dato di scorgere un “accusatore della modernità”(21).
Agli occhi di Habermas le finalità che Nietzsche si proponeva di realizzare con i mezzi di una critica totalizzante ed autodistruttiva
dell‟ideologia sono le stesse che Heidegger vuole perseguire attraverso la
distruzione immanente della metafisica occidentale. L‟originalità di Heidegger su questo piano è semmai costituita dal fatto che nella prospettiva di una storia della metafisica viene collocato anche il dominio del
soggetto. Secondo l‟autore di Essere e tempo, “l‟inizio dell‟età moderna è
contrassegnato […] dalla svolta epocale della filosofia della coscienza,
che ha inizio con Descartes; e la radicalizzazione di questa comprensione dell‟Essere attuata da Nietzsche contraddistingue l‟età contemporanea, che domina la costellazione del presente; la quale a sua volta si
presenta come il momento della crisi”(22). Dopo Heidegger, anche Bataille deve essere annoverato tra quanti si sono schierati sotto la bandiera di Nietzsche. Al filosofo della volontà di potenza Bataille è collegato
da un fondamentale tratto anarchico: se il pensiero si deve rivolgere
contro ogni forma di autorità, allora esso si deve volgere anche contro il
sacro, in quanto è esso stesso espressione di una autorità; ne deriva
pertanto che la dottrina della morte di Dio non può essere intesa che in
un senso deliberatamente e rigorosamente ateistico(23). Un “autentico
allievo” di Heidegger è considerato da Habermas anche Derrida, il quale
prosegue secondo questa direttrice la critica nietzschiana alla modernità. Il tentativo compiuto da Derrida di decostruire la filosofia del soggetto segue fedelmente l‟andamento del pensiero heideggeriano: la grammatologia diventa da questo lato il filo conduttore per la critica della metafisica(24).
Per parte loro, anche Horkheimer e Adorno intendono mettersi sulla linea della radicale critica a cui Nietzsche sottopone la ragione. In
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questo senso la Dialettica dell’Illuminismo assume come punto di partenza proprio le posizioni nietzschiane allo scopo di sviluppare in forma
concettuale un processo autodistruttivo dello stesso Illuminismo, dal
momento che non è più dato sperare nella sua capacità liberatoria: “la
critica nietzschiana della conoscenza e della morale anticipa un‟idea che
Horkheimer e Adorno sviluppano nella forma di una critica della ragione
strumentale: dietro gli ideali di oggettività e le pretese di verità del positivismo, dietro gli ideali ascetici e le pretese di giustezza della morale
universalistica, si nascondono imperativi di autoconservazione e di dominio”(25). Se Heidegger e Derrida intendevano continuare il programma impostato da Nietzsche di una critica della ragione lungo la strada
della distruzione della metafisica, Foucault si ripromette di farlo attraverso la distruzione della scienza della storia. L‟autore di Histoire de la
folie deriva l‟idea di una storiografia che si presenta come antiscienza
dalla recezione della Seconda considerazione inattuale, che risulta per
lui una vera miniera di concetti. Se Nietzsche aveva sottoposto lo storicismo del suo tempo ad una critica severa, con Foucault viene eliminata
l‟idea stessa di una riconciliazione, alla quale aveva ancora mirato la
critica alla modernità che era rimasta collegata a Hegel: “Da questa decostruzione di una storiografia che rimane attaccata al pensiero antropologico ed a fondamentali convinzioni umanistiche, si delineano i confini di uno storicismo trascendentale, per così dire, che contemporaneamente eredita e super la critica di Nietzsche alla storia trascendentale, in
senso debole”(26).
5.4 PER UNA AUTENTICA CRITICA ALLA FILOSOFIA DEL SOGGETTO
Secondo Habermas nelle critiche finora rivolte alla filosofia della
soggettività, di un soggetto che, riferendosi a se stesso, acquista la propria autocoscienza pagando il prezzo dell‟oggettivazione della natura esterna così come della propria natura interna, restano problemi metodologici non ancora chiariti. Pertanto, per affrontare in maniera rigorosa il
discorso filosofico della modernità ed uscire dalle sue aporie concettuali,
è necessario ripercorrere ancora una volta la via tracciata, per tornare
fino al punto di partenza, verificando ad ogni singolo crocevia la direzione che è stata seguita e le alternative che non sono state scelte. Già esaminando le proposte hegeliane erano venute alla luce ipotesi diverse
rispetto alle soluzioni poi effettivamente adottate: una prospettiva non
presa in considerazione dal filosofo di Stoccarda poteva effettivamente
avviare ad una trasformazione del concetto di riflessione nel senso di
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una teoria della comunicazione. In tal modo, rispetto a quello che è stato definito come “istituzionalismo forte”, da intendersi quale primato di
una oggettività superiore, quella dello stato rispetto alla libertà soggettiva del singolo, poteva offrirsi un diverso modello di mediazione fra universale ed individuo, costituito questa volta da una intersoggettività di
grado superiore, quella della libera formazione della volontà, che è possibile realizzare all‟interno di una comunità della comunicazione(27).
Habermas definisce la razionalità come “la disposizione di soggetti
capaci di parlare e di agire ad acquisire ed impiegare un sapere fallibile”. Non vi è nessuna ragion pura, che soltanto in seguito rivesta abiti
linguistici: essa è originariamente incarnata in contesti di agire comunicativo ed in strutture del mondo della vita. La ragione soggettocentrica è
il prodotto di una scissione, vale a dire di un progetto sociale in cui dei
momenti subordinati si sono resi autonomi nei confronti delle strutture
comunicative, rappresentate dai rapporti di intesa e di riconoscimento
reciproco. La totalità etica scissa di cui parla Hegel e la prassi estraniata di cui parla Marx possono pertanto essere riconosciute come forme di
un‟intersoggettività mutilata, ovvero come i prodotti di una comunicazione alterata. Per questo motivo, la teoria dell‟agire comunicativo può
ricostruire il concetto hegeliano del contesto di vita etico senza dover
più far ricorso ai presupposti della filosofia della coscienza(28).
Il paradigma della filosofia della coscienza deve pertanto essere sostituito dal paradigma dell‟intesa che si stabilisce tra soggetti che sono
capaci di parlare e di agire. All‟interno del modello dell‟azione orientata
verso l‟intesa non gode più di una posizione privilegiata l‟atteggiamento
oggettivante del soggetto che identifica se stesso come unico punto di
orientamento: “Nel paradigma dell‟intesa è fondamentale piuttosto
l‟atteggiamento performativo dei partecipanti all‟interazione, che coordinano i loro piani d‟azione, intendendosi reciprocamente nel mondo. In
quanto Ego compie un‟azione linguistica e Alter prende posizione verso
di essa, entrano entrambi in una relazione interpersonale… Ora questo
atteggiamento di partecipanti ad un‟interazione linguisticamente mediata rende possibile una relazione del soggetto con se stesso diversa da
quella puramente oggettivante, che un osservatore assume di fronte ad
entità nel mondo”(29).
La critica portata avanti ad esempio da Heidegger e da Foucault
contro la ragione risulta, secondo Habermas, solo apparentemente radicale, in quanto nonostante tutto rimane ancora compromessa con i presupposti della filosofia del soggetto, dai quali pensava di potersi liberare: in questo modo l‟Altro della ragione riproduce specularmente
l‟immagine della ragione tirannica, cioè soggettocentrica. Questa critica
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della razionalità paga inoltre un prezzo molto alto, in quanto non vengono rifiutate unicamente le conseguenze di un autoriferimento oggettivante, ma vengono respinte anche una serie di altre istanze, che la modernità aveva portato avanti, sia pur come “promesse non mantenute”, e
ciò significa: “La prospettiva di una prassi autocosciente, nella quale
l‟autodeterminazione solidale di tutti dovrebbe potersi collegare con
l‟autentica autorealizzazione di ciascun singolo”(30). Solo con il mutamento di paradigma rappresentato dalla ragione comunicativa si è finalmente rinviati ad un‟altra, e questa volta plausibile, via di uscita dalla filosofia del soggetto. La decostruzione della razionalità soggettocentrica può essere ottenuta soltanto se il paradigma dell‟autocoscienza,
dell‟autoriferimento è sostituito dal paradigma della relazione intersoggettiva di individui che risultano socializzati comunicativamente e che
per questo si riconoscono in maniera reciproca. Solamente in questo
caso “la critica al pensiero disponente della ragione soggettocentrica si
presenta in forma determinata – cioè come una critica al „logocentrismo‟
occidentale, che non diagnostica un troppo, bensì un troppo poco di ragione. Invece di surclassare la modernità, essa riprende il controdiscorso immanente alla modernità, e lo trae fuori dalla contrapposizione frontale e senza vie d‟uscita fra Hegel e Nietzsche”(31).
Alla luce della prospettiva di Habermas, pertanto, solamente una
intersoggettività linguisticamente prodotta, in cui la socializzazione si
realizza come individuazione ed in cui, nello stesso tempo, reciprocamente gli individui stessi si costituiscono, in quanto individui,
all‟interno dei rapporti sociali, può risultare in grado di superare i tratti
patologici delle società moderne(32).
NOTE
1) Cfr. J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità. Dodici lezioni,
trad. it. di Emilio Agazzi e Elena Agazzi, Laterza, Roma-Bari 19972,
pp. VII, 5-7.
2) Ivi, pp. 1, 60, 142-144.
3) Ivi, pp. 1, 7, 122, 137, 216-217, 295.
4) Habermas si riferisce qui alle analisi svolte nel noto volume di K. Löwith, Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del
secolo XIX, trad. it. di G. Colli, Einaudi, Torino 19712.
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5) Cfr. Habermas, Il discorso filosofico della modernità cit., pp. 7, 53-54.
6) Ivi, pp. 59, 115, 119-120, 137, 140, 142.
7) Ivi, pp. 141, 211-214.
8) Ivi, pp. 4-5, 16.
9) Ivi, pp. 17, 20-21.
10)
Ivi, pp. 17-19, 21, 28-29, 34.
11)
Ivi, pp. 38-40.
12)
Ivi, pp. 31-34, 41-43.
13)
Ivi, pp. 44-45.
14)
Ivi, pp. 45, 52.
15)
Ivi, p. 86.
16)
Ivi, p. 87.
17)
Ivi, pp. 87-88.
18)
Ivi, pp. 94, 96, 98.
19)
Ivi, pp. 96-97.
20)
Ivi, pp. 98-99, 132.
21)
Ivi, pp. 57, 100, 123.
22)
Ivi, pp. 101, 137-138.
23)
Ivi, pp. 135, 218.
24)
Ivi, pp. 100, 164, 166, 170, 184.
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25)
Ivi, pp. 109, 125.
26)
Ivi, pp. 252-253, 257.
27)
Ivi, pp. 34, 42.
28)
Ivi, pp. 315-316, 317, 323, 347.
29)
Ivi, pp. 258, 299.
30)
Ivi, pp. 311, 336-337.
31)
Ivi, pp. 303, 312.
32)
Ivi, pp. 345-347.
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