http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2017-01-20/la-forza-essere-indipendenti075445.shtml?uuid=AEQ8jFE
di Donato Masciandaro
gennaio 2017
Banca centrale europea non cambia la sua rotta, anzi la rafforza: finché i dati
non mostreranno che il ritorno alla stabilità monetaria non sarà un dato
acquisito per l’Unione, la politica monetaria continuerà ad essere espansiva. Il
presidente Draghi ha ribadito con forza che la Bce continuerà a perseguire il suo
mandato in modo indipendente, qualunque saranno le pressioni – tedesche, ma
non solo – a deviare per seguire la convenienza di questo o quel Paese
dell’Unione, piuttosto che le suggestioni del momento congiunturale. Ed è facile
prevedere che le sfide all’indipendenza della Bce costelleranno i prossimi mesi.
La Bce non modifica l’orientamento espansivo della sua politica monetaria, ed è
anzi pronta a rafforzarlo, se il cammino verso la stabilità monetaria lo richiederà,
mentre non è al momento in discussione un suo affievolimento. Questo è stato il
messaggio che Mario Draghi ha spedito ai mercati, ma anche alla politica. Ed è
un messaggio che potrebbe apparire addirittura scontato, se non fossimo in una
fase congiunturale – ma anche storica – particolarmente delicata dell’Unione, in
cui è più probabile che la visione istituzionale della Bce – focalizzata su un unico
obiettivo, europea e non nazionale come prospettiva, di orizzonte lungo – si
scontri con gli interessi più miopi delle politiche nazionali.
È bastato che nei giorni scorsi l’ultimo dato sull’inflazione europea mostrasse un
rialzo inatteso, per di più particolarmente robusto per la Germania, per far
immediatamente partire il dibattito sulla eventualità/ opportunità che la Bce
cominciasse a rivedere la sua strategia, che è stata aggiornata appena un mese fa.
La strategia della Bce non è cambiata: è basata su un obiettivo statutario, che è
perseguito con una regola flessibile, nel senso che si modifica al cambiare in
modo strutturale dei parametri macroeconomici con un orizzonte di medio
periodo. Se la strategia di politica monetaria si fonda su una regola flessibile, la
probabilità che ieri la Bce rivedesse le sue scelte erano pari a zero. In primo
luogo perché le decisioni si cambiano solo in presenza di nuove informazioni
rilevanti. Draghi ha più volte fatto intendere perché le ultime notizie
sull’inflazione non possono essere rilevanti. Innanzitutto il rialzo dei prezzi è un
dato puntuale, quindi non rappresenta ancora una tendenza consolidata; in
secondo luogo l’origine è esterna – il rimbalzo del prezzo del petrolio – ed una
valutazione sui suoi effetti strutturali è prematura; in terzo luogo l’esuberanza di
un singolo dato nazionale – anche se si tratta della Germania – non può
interessare una Bce che guarda ai dati europei nel loro complesso.
Ma ci sono almeno altre due ragioni – intrecciate con la prima – per cui lo status
quo è stato ieri la scelta ottimale per i banchieri centrali della Bce. La prima
ragione riguarda gli equilibri di governance. I verbali relativi alla decisione di
dicembre di proseguire l’espansione monetaria, pur ricalibrandola, hanno
rilevato che tale scelta non è stata presa all’unanimità. L’analisi economica ci
suggerisce che lo status quo – non prendere nuove decisioni di politica
monetaria – è tanto più probabile quando il consenso all’interno del consiglio
della banca centrale non è stabile. Nel caso della Bce, a dicembre è stato
raggiunto un equilibrio, nonostante la presenza di falchi che non hanno
approvato l’estensione dell’espansione monetaria, e magari di colombe che
avrebbero evitato l’attenuazione dell’intensità. Infine sempre l’analisi economica
ci segnala che il banchiere centrale, come tutti, può essere avverso alle perdite, in
questo caso reputazionali. Una banca centrale credibile deve avere i requisiti
sopra ricordati: coerenza con il mandato, tutela degli interessi generali, orizzonte
di medio periodo. Una Bce che si fosse mostrata sensibile a dati irrilevanti dal
punto di vista economico, ma sensibili dal punto di vista politico – trattandosi
dell’inflazione in Germania – avrebbe mostrato una incapacità di essere
indipendente dagli interessi particolari e di breve periodo. Date le prospettive
dei prossimi mesi, con una serie di appuntamenti elettorali delicati nell’Unione,
è facile prevedere che le sfide all’indipendenza della Bce non mancheranno.
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Quali sono le prospettive delle politiche monetarie nei maggiori Paesi avanzati
per il 2017? C'è una previsione facile e una difficile. La previsione facile è che i
banchieri centrali responsabili per le tre maggiori valute – dollaro, euro e
sterlina – saranno in trincea, sottoposti a pressioni da parte dei politici, che
sarebbero state inconcepibili fino a qualche anno fa. Verrà risparmiata solo la
Banca centrale giapponese, ma solo perché lì il banchiere centrale sta facendo
esattamente quello che vuole il governo in carica.
La previsione difficile è dire quali saranno gli effetti, in termini di stabilità nella
dinamica di tassi e valute. Le ragioni che spiegano la previsione facile sono
semplici, se si mette in chiaro come è profondamente cambiato negli ultimi anni
lo scacchiere istituzionale in cui si muovono le banche centrali, e che definiva il
sistema dei rapporti tra le tecnocrazie monetarie da un lato, e i politici e la
finanza dall'altro. Lo spartiacque è stata la Grande crisi del 2008.
Prima del 2008 l’architettura della politica monetaria sembrava aver trovato un
suo stabile equilibrio, iniziato negli anni Ottanta, e poi consolidatosi nei due
decenni seguenti. Il punto di partenza fondamentale era la constatazione dei
guasti macroeconomici - recessione, inflazione e inefficienza finanziaria - che
aveva provocato il fatto che fino a quel momento la politica monetaria fosse sotto
lo stretto controllo dei governi. Gli esecutivi avevano fatto un uso politico
dell’azione monetaria: la gestione di moneta e tassi era stata utilizzata come uno
strumento di tassazione di redditi e patrimoni. L’obiettivo era quello di risolvere
in modo appunto politicamente indolore una serie di squilibri macroeconomici.
Ma l’uso politico sistematico dell’azione monetaria l’aveva resa inefficace.
Occorreva una radicale riforma nelle regole del gioco: la politica monetaria
andava gestita da burocrazie specializzate – le banche centrali – che dovevano
essere messe a distanza di sicurezza sia dal sistema politico che da quello
finanziario. Le banche centrali dovevano essere indipendenti, ma allo stesso
tempo responsabilizzate dal loro mandato, in modo da essere credibili, ridando
efficacia alla gestione monetaria.
L’effetto finale fu un disegno istituzionale lineare: un’autorità pubblica
indipendente dal governo in carica, con un obiettivo prioritario in termini di
tutela della stabilità monetaria, e uno strumento principale, rappresentato
dall’indirizzo dei tassi d’interesse. La formula “1+1+1” allontanava la banca
centrale dalle responsabilità di regolamentazione e vigilanza. Il modello era
conveniente per i politici, perché i guadagni in termini di stabilizzazione interna
dell’inflazione e della crescita compensavano i costi di avere a che fare con una
burocrazia indipendente, che impediva le politiche monetarie “facili”.
Ne traeva vantaggio anche la stabilizzazione internazionale, almeno in linea di
principio: quanto più ciascuna banca centrale avesse applicato il suo “1+1+1”,
tanto più il coordinamento internazionale delle politiche monetarie – e quindi
l’andamento relativo delle principali valute – sarebbe stato stabile. Banchieri
centrali come Bernanke, Trichet e King erano allo zenit in termini di credibilità
delle politiche e di robustezza del ruolo istituzionale.
Ma poi arrivò la Grande crisi. Di fronte al crescere dell’incertezza sui destini
delle banche, i politici avevano bisogno - e subito - di avere credibilità nella
difesa della stabilità finanziaria. Quindi la scelta è stata quella di ampliare i
poteri dei banchieri centrali, facendoli rientrare prepotentemente nel perimento
dei controlli bancari. Il Grande ritorno è avvenuto, ancorché con tempistiche e
modalità diverse, negli Stati Uniti – con Obama che ha accresciuto i poteri della
Federal Reserve – come nel Regno Unito – dove all’interno della Banca
d’Inghilterra sono stati riportati i poteri che Blair le aveva tolto – come pure in
Europa, dove il modello “1+1+1” era stato applicato con la coerenza massima: dal
novembre 2014 i poteri bancari sono di fatto entrati per la prima volta nella
Banca centrale europea (Bce), seppur con una separazione formale e alla fine
solo parziale tra le responsabilità di politica monetaria e quelle di politica di
vigilanza. Di fatto, la formula sta diventando quanto meno un “1+2+3”, in
quanto la banca centrale deve preoccuparsi sia della stabilizzazione
macroeconomica che di quella finanziaria, e con strumenti che spaziano dai tassi
d’interesse, ai coefficienti micro prudenziali, ai controlli macro prudenziali.
Ma i maggiori poteri che i banchieri centrali hanno guadagnato hanno finito per
rappresentare una sorta di maledizione del vincitore. Infatti, superato nei diversi
Paesi il momento in cui l’obiettivo macroeconomico principale era stato quello di
mantenere la stabilità finanziaria, è diventato evidente che la corrispondente
politica monetaria – espansione straordinaria della liquidità con corrispondenti
tassi d’interesse a zero, o addirittura negativi – mostrava di essere diventata
relativamente inefficace rispetto alla tradizionale funzione di stabilizzazione
macroeconomica. A differenza degli anni Settanta, la minaccia alla stabilità
monetaria non arrivava dal rischio inflazione, ma da quello opposto della
deflazione. Le economie avanzate sono entrate in un lungo periodo di trappola
della liquidità: l’incertezza accentua l’avversione al rischio di tutti gli operatori –
famiglie, imprese e banche – per cui, attraverso il meccanismo delle aspettative,
si rompe la catena che dalle grandezze monetarie passa a quelle bancarie, e poi a
quelle reali.
L’inefficacia dei banchieri centrali li ha resi più deboli, anche perché l’uscita
dalla trappola della liquidità non si presta a soluzioni semplici e condivise. Da un
lato, ci sono le colombe, che sono convinte che lo strumento per spingere gli
operatori verso scelte espansive – spendere e investire – sia quello di proporre
politiche monetarie sempre più estreme – come l’ormai famigerato elicottero
monetario. Dal lato opposto, ci sono i falchi, che ritengono invece che la
stabilizzazione dell’economia venga come suo presupposto – e non come
conseguenza – della normalizzazione della politica monetaria, cioè il ritorno al
più presto a tassi d’interesse positivi e da dimensioni dei bilanci delle banche
centrali ai livelli ante-crisi.
Ma soprattutto ci sono i politici che, anche approfittando dell’assenza di una
ricetta condivisa, stanno provando a ridurre i gradi di indipendenza dei
banchieri centrali, perché ora gli serve di meno, rispetto ai vantaggi di avere
politiche monetarie “in ginocchio”. Gli attacchi sono già iniziati: Trump con la
Yellen, la May con Carney, e infine Draghi, tra le opposte fazioni dei falchi alla
Schäuble e delle colombe alla Tsipras, per di più in un anno europeo di
appuntamenti elettorali.
Da qui la previsione incerta degli effetti su tassi e valute, anche perché gli effetti
destabilizzanti delle pressioni politiche nazionali possono rinforzarsi
reciprocamente attraverso i canali internazionali.
Solo una certezza: avere nel 2017 i banchieri centrali in trincea sarebbe una
pessima notizia; significherebbe perdere un’àncora di stabilità, in un momento
della congiuntura mondiale – non solo economica – in cui occorrerebbe l’esatto
contrario.