il concetto di reato e la bioetica: la centralità del diritto penale nella

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IL CONCETTO DI REATO E LA BIOETICA: LA CENTRALITÀ DEL DIRITTO
PENALE NELLA TUTELA DEL DIRITTO ALLA VITA
Sommario: 1. Introduzione - 2. Il concetto di reato e le questioni di bioetica - 3. Il diritto penale come
“gendarme del sistema” - 4. Quali fatti costituiscono reato? - 5. Diritto, verità e giustizia.
1. INTRODUZIONE
La norma penale, che definisce i fatti che costituiscono reato e ne stabilisce la relativa sanzione,
rappresenta lo strumento giuridico più classico (anche se non l’unico) di tutela del bene della vita
umana1. Attraverso la qualificazione di un fatto come reato, lo Stato esercita la più radicale, la più
drastica presa di posizione contro la liceità di una determinata condotta umana. Non solo. La
catalogazione delle condotte criminose risponde sempre alla necessità primaria – che precede anche da
un punto di vista logico nell’attività tipica del legislatore – di tutelare un determinato bene: un bene di
così eminente rilevanza da indurre l’autorità costituita a reagire con lo strumento più temibile di cui
dispone: la sanzione penale.
2. IL CONCETTO DI REATO E LE QUESTIONI DI BIOETICA
Precisamente per questo motivo, uno degli aspetti salienti del moderno dibattito intorno alle
questioni di bioetica2 riguarda il ruolo che il concetto di reato deve giocare di fronte alle più
drammatiche e laceranti provocazioni che questo medesimo dibattito suggerisce. Pensiamo, ad esempio,
ad alcune classiche questioni di bioetica che sono storicamente anche classiche questioni giuridiche, e
più precisamente penalistiche, non meno che filosofico-giuridiche: l’aborto procurato; l’omicidio del
consenziente; la cosiddetta uccisione per motivi pietosi, nota anche come eutanasia; l’infanticidio; la
selezione eugenetica nelle sue multiformi, inquietanti, applicazioni.
Restando per il momento su di un piano meramente descrittivo, e dunque a prescindere da
qualsiasi giudizio di merito, non occorre andare troppo indietro nel tempo per riconoscere che, nella
quasi totalità degli ordinamenti positivi, fino a qualche decennio fa le condotte appena citate erano
considerate senza esitazioni come reati. L’aborto procurato era ad esempio inserito nel catalogo dei
reati, all’interno di una lunga tradizione giuridica che, pur in ambiti culturali, religiosi e politici anche
assai diversi, si ritrovava sostanzialmente concorde nella determinazione dei fatti di rilevanza penale.
Giova ricordare che nella nostra penisola il reato d’aborto era contemplato nella totalità dei codici
penali dei piccoli stati e dei ducati preunitari, quasi sempre all’interno dei titoli dedicati alla tutela del
bene della vita. Sarebbe difficile, per non dire impossibile, ravvisare in questo dato storico una indebita
confusione di piani, una anacronistica “confessionalizzazione” del diritto penale, che impediva di
giudicare il problema con occhi laicamente disincantati. Anche nella tradizione giuridica statunitense
dello stesso periodo, infatti, è ampiamente diffusa la valutazione della soppressione intenzionale del
Per un’ampia trattazione tecnico giuridica dell’argomento “reato” si rinvia a F. Antolisei, Manuale di diritto penale, Parte
Generale, Giuffrè 1989, pp. 145-189.
2 Esistono numerose definizioni di bioetica. In generale, con questa espressione intendiamo riferirci a quella disciplina che
si interroga sulla liceità delle condotte umane applicate alla scienza, alla biologia, alla medicina. La bioetica si domanda se
una certa pratica – tecnicamente realizzabile – sia giusta; se cioè sia rispettosa della dignità della persona umana, con
riferimento alla sua autentica natura. E la stessa bioetica ha fiducia nel fatto che la ragione umana possa trovare risposte
vere a queste domande fondamentali, nel rispetto della realtà e dei criteri oggettivi indispensabili per esprimere giudizi di
valore. Pensiamo ad esempio al principio di non contraddizione; all’esistenza di una legge e di un ordine naturale; alla
difficoltà ma anche alla necessità per ogni uomo di trovare una risposta autentica al suo desiderio di bene. Dunque,
l’approccio bioetico riconosce come verità preliminare e indiscutibile che non tutto ciò che è tecnicamente realizzabile è
per ciò stesso da realizzare. E che non tutte le affermazioni e le scelte sono legittime né si equivalgono. Tutte le persone
sono rispettabili, ma non tutte le opinioni lo sono. Le opinioni degli alti ufficiali della Gestapo, ad esempio, non erano
degne di rispetto. Si tratta dunque di ragionare e di capire quali opinioni nel dibattito bioetica siano, appunto, rispettabili. E
quali no.
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concepito come fatto penalmente rilevante, in considerazione della violazione del bene giuridico
fondamentale della vita, e per giunta di una vita intrinsecamente innocente. Giova altresì ricordare che
lo storico Codice Penale Zanardelli, espressione dell’Italia sabauda e liberale, alternativa (quando non
ostile) alla Chiesa cattolica, considera senza esitazioni la condotta abortiva come penalmente rilevante. Il
Codice – promulgato il 30 giugno 1889 – prende il nome dal Ministro della Giustizia dell’epoca, il
parlamentare della Sinistra storica Giuseppe Zanardelli, e considera l’aborto procurato un delitto contro
la persona umana. Soltanto in seguito, con la promulgazione del Codice Rocco durante il regime
fascista, il reato d’aborto verrà mantenuto ma trasferito nella categoria dei delitti “contro l’integrità e la
sanità della stirpe”. Ciò non toglie che il bene principale protetto dalle disposizioni che vietavano
l’aborto è sempre stato considerato – dalla dottrina e dalla giurisprudenza – il bene della vita, a dispetto
dalla erronea e ideologica collocazione adottata dal Codice Rocco3. E’ a tutti noto quali radicali
trasformazioni si siano verificate a partire dagli anni Sessanta nella civiltà occidentale, cambiamenti che
hanno prodotto significativi mutamenti negli ordinamenti giuridici: l’aborto procurato è stato legalizzato
nella quasi totalità degli Stati contemporanei. Talvolta, con un atto della massima autorità
giurisdizionale: come nel caso degli Stati Uniti, con la celebre sentenza della corte Suprema Roe vs
Wade del 1973; o come nel caso dell’Italia, con la sentenza della Corte Costituzionale n. 27 del 18
febbraio 1975. Altrove, più spesso era l’autorità legislativa a stabilire la cancellazione dei reati d’aborto,
come avverrà anche nella situazione italiana, con l’approvazione della L. 22 maggio 1978 n. 194.
Rispetto a un altro tema attualissimo in ambito bioetica, come quello della c.d. eutanasia, si
coglie con analoga evidenza la centralità degli elementi cui sin qui abbiamo fatto riferimento: di fronte a
un reato contemplato dal codice che sanziona seriamente, se non severamente, la condotta in
discussione, si fa strada un’azione giuridico-politica volta a depenalizzare l’uccisione per motivi pietosi,
di solito nei casi in cui vi sia una richiesta del paziente. Ma non mancano le istanze di depenalizzazione
anche la per la soppressione di pazienti che siano totalmente incapaci di esprimere una qualsiasi
decisione, in base al criterio ambiguo e metagiuridico di “qualità della vita”.
In ogni caso, si può osservare con una certa chiarezza che il dibattito bioetico tocca in genere
queste tappe fondamentali:
a. esiste un reato che ha per oggetto una determinata condotta;
b. la condotta è giudicata severamente dall’ordinamento (e dalla società), in quanto violazione di
un bene giuridico tutelato, e tutelato proprio perché reputato di notevole rilevanza;
c. si fa progressivamente largo un movimento d’opinione che contesta la normativa esistente, di
solito appoggiandosi su motivazioni di carattere statistico-sociologico. Ad esempio la reale o presunta
ampia diffusione della c.d. clandestinità del fenomeno; l’elevato dark number dei delitti contestati; il
mutamento della sensibilità sociale e dei costumi; e così via4.
d. In questa fase iniziale, la critica del reato fa appello soprattutto a una serie di situazioni
estreme – i cosiddetti casi pietosi – che costituiscono eccezioni alle quali la norma penale non
offrirebbe una risposta umanamente accettabile, perché colpirebbe senza clemenza condotte maturate
in contesti assai penosi, apparendo manifestamente iniqua secondo criteri morali e metagiuridici di
giustizia. Si pensi, ad esempio, all’ipotesi della violenza carnale, per l’aborto procurato; e al caso di Stato
Vegetativo Persistente per quanto riguarda il fronte dell’eutanasia.
e. L’azione di contestazione alla normativa, ritenuta superata e anacronistica, si accompagna
quasi sempre alla implicita o esplicita erosione della fondatezza del bene giuridico tutelato dalla figura di
reato che si vorrebbe eliminare: nel caso dell’aborto procurato, si mette in discussione che il nascituro
possa godere di una qualche forma di diritto alla vita; nel caso dell’eutanasia, si contesta l’esistenza del
principio di indisponibilità della vita umana, affermando invece la validità di un presunto “diritto alla
propria morte”, speculare al diritto alla vita.
Cfr. M. Palmaro, Ma questo è un uomo, Indagine storica, politica, etica, giuridica sul concepito, Edizioni San Paolo, Milano, Terza
edizione 2004, p. 72.
4 Si veda in proposito l’interessante Grafico di Wilkins, riportato da G. Losano, I grandi sistemi giuridici, Introduzione ai sistemi
europei ed extraeuropei, Einaudi, Torino 1988, p. 86. Utile anche il grafico rielaborato sulla base dello studio di W. Evan, Il
diritto come strumento del mutamento sociale, pubblicato in M. Palmaro, Ma questo è un uomo, op. cit., p. 71.
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f. Si enfatizza con particolare insistenza la negatività dello strumento penalistico, descritto come
illiberale, oppressivo e moralistico. Il reato è qui assunto in quella chiave esclusivamente sanzionatoria,
che tende a disconoscere la dimensione di tutela e di garanzia dei diritti. In questa operazione, viene
privilegiato il punto di vista di uno dei soggetti in gioco – la madre, nel caso dell’aborto; il malato, o i
parenti più stretti, nel caso dell’eutanasia – che quindi denunciano il divieto originato dal reato come
insopportabile limitazione dei propri “diritti civili”. E viene al contempo occultato il punto di vista di
altri soggetti in gioco – il nascituro, nell’aborto procurato; il medico o il giurista contrari alla “dolce
morte” nel caso dell’eutanasia – con l’effetto di far evaporare completamente il contenuto del bene
giuridico tutelato. Che è, appunto, la vita umana innocente.
g. Questa fase del dibattito incontra spesso ampi consensi, perché si avvantaggia della “cattiva
letteratura” che da decenni colpisce la categoria del reato. Per cui, anche intellettuali, giuristi, politici che
in linea di principio non sono favorevoli al “viraggio permissivo” – cioè a dichiarare lecita una pratica
tradizionalmente considerata inaccettabile – si lasciano ammaliare dall’idea che, in fondo, non sia poi
così grave eliminare la fattispecie criminosa. Prevale un fattore psicologico per il quale, umanamente,
non è mai piacevole mandare qualcuno in prigione; e dunque, tanto meglio se chi commette un fatto
anche grave, come la soppressione di una vita innocente, ma all’interno di una situazione complessa e
valutata con indulgenza dalla società, non è più colpito dalla sanzione tipica dei reati.
h. Il percorso di demolizione della fattispecie penale avviene in genere secondo questa
progressione: la riduzione della pena edittale; la disapplicazione della norma da parte degli organi
giurisdizionali; la riduzione delle ipotesi che rientrano fra i reati; la eliminazione della fattispecie nel suo
complesso dai fatti considerati reato; la legalizzazione della stessa pratica con una nuova normativa che
mira a proclamarne la piena liceità, eventualmente a certe condizioni (c.d. regolarizzazione).
i. Alla fine di questo percorso sociale – che può durare pochi mesi ma più spesso alcuni anni, e
perfino decenni – ciò che era considerato reato contro la persona umana, e dunque un delitto grave, è
completamente rimosso dai fatti censurati dall’ordinamento giuridico. Nella società si osserva anche una
significativa trasformazione nella percezione morale della condotta un tempo incriminata. Ciò che è
divenuto legale tende a essere assunto sempre di più come morale. Confermandosi in questo modo la
dimensione inevitabilmente educativa (o diseducativa) della norma giuridica, in particolare penalistica.
Nell’ambito delle questioni di Bioetica, il reato opera come presidio alla tutela di un determinato bene
giuridico. Una volta eliminato il reato, viene meno anche la percezione del bene fondamentale che la
norma tentava di difendere. L’individuazione del bene giuridico tutelato nell’ambito della
interpretazione della norma penale è così rilevante che, a nostro parere, non è possibile procedere a
un’autentica interpretazione della norma medesima se non vi è adeguata chiarezza circa il bene che il
legislatore ha inteso proteggere.
3. IL DIRITTO PENALE COME “GENDARME DEL SISTEMA”
Questo fondamentale aspetto del reato – cioè l’esistenza di un bene giuridicamente tutelato, in
ragione della sua particolare rilevanza civile, sociale e spesso anche morale – è stato spesso
sottovalutato, per non dire dimenticato. Vi è stato un lungo periodo storico nel quale al diritto penale si
è guardato come a una sorta di gendarme spietato e occhiuto che avrebbe esclusivamente il compito di
comprimere la libertà individuale, sulla base di premesse autoritarie per nulla fondate su argomenti
ragionevoli, e men che meno orientate alla tutela dei beni e degli interessi della singola persona umana.
Il carattere meramente sanzionatorio del diritto penale è stato sostenuto ad esempio da Thomas
Hobbes, da Jeremy Bentham, da Jean Jacques Rousseau a Karl Binding5. Ma si tratta di una indebita
riduzione del diritto penale, che genera il fraintendimento del significato del concetto di reato.
Occorre riconoscere che non poche vicende storiche hanno contribuito a consolidare questa
immagine esclusivamente negativa del reato, soprattutto in tutte quelle circostanze nelle quali i diritti
fondamentali della persona – diritti che sono preesistenti allo stesso ordinamento statuale, intrinseci alla
medesima natura della persona umana e come tali intangibili da qualsiasi autorità – sono stati
Si veda in proposito l’ottima analisi condotta da M. A. Cattaneo, Pena diritto e dignità umana, Saggio sulla filosofia del diritto
penale, Giappichelli Torino 1990, pp. 34-40.
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sistematicamente calpestati proprio in ambito penalistico. Basti pensare alla violazione dei diritti di
difesa dell’imputato, in quella fase di accertamento della sussistenza del reato alla quale dovrebbe
accompagnarsi la presunzione di innocenza e l’uso assolutamente eccezionale e parsimonioso degli
strumenti di restrizione cautelare della libertà individuale. Ma si pensi soprattutto alle condizioni
disumane in cui per secoli hanno dovuto vivere i detenuti, sperimentando l’abbrutimento fisico e
morale che la condizione carceraria spesso imponeva in base a una male intesa idea di afflittività della
sanzione. Si tratta di palesi ingiustizie che purtroppo non appartengono soltanto alle pagine della nostra
storia, ma che continuano ad arricchire anche la cronaca contemporanea.
Nessuno può negare che, purtroppo, il concetto di reato sia stato talvolta usato non per dare
attuazione alla umanissima esigenza di vietare gli atti di aggressione alla persona umana o ai beni di sua
pertinenza, quanto piuttosto per dare veste giuridica all’arbitrio dell’’autorità costituita. Il reato come
strumento di potere e non come garanzia dei diritti della persona. Illuminanti in tal senso risultano le
considerazioni che Niccolò Macchiavelli affida alle pagine della sua opera più famosa, quel De
principatibus dedicato a Lorenzo il Magnifico, vero manifesto programmatico dello Stato moderno. Nel
capitolo XVII, significativamente intitolato De crudelitate et pietate; et an sit melius amari quam timeri,
vel e contra, Macchiavelli si interroga se per il principe sia preferibile essere ritenuto pietoso oppure
crudele. La risposta è gelidamente cinica: sarebbe bene essere sia amati che temuti, ma poiché è assai
difficile possedere entrambe queste qualità, dovendo scegliere è meglio esser temuti che amati. “Il
timore – scrive Macchiavelli – è tenuto da una paura di pena, e non ti abbandona mai”.6 A nessuno può
sfuggire a quali deteriori strumentalizzazioni possa essere piegato il diritto penale, una volta accolta
l’idea che l’autorità debba servirsene per suscitare il timore e la paura dei consociati. Troviamo in
Macchiavelli, in nuce e al di là del contesto storico e delle effettive intenzioni dell’autore, le premesse di
quel positivismo giuridico che nel ‘900 avrebbe teorizzato il totale affrancamento del diritto dalle
categoria della morale e della giustizia, gettando così le basi per le più svariate forme di totalitarismo
ideologico.
Vi è un’altra deriva che ha accompagnato il fraintendimento del concetto di reato. Ci riferiamo
alla pretesa tipica della filosofia idealista di ricondurre ogni aspetto della realtà al mondo del diritto, nel
tentativo di operare la ben nota “divinizzazione” dello Stato tanto cara a Hegel e a tutti i suoi eredi. Se
tutto è nello Stato e nulla al di fuori di esso, se ne ricava come effetto perverso una eutrofizzazione
dello strumento penalistico, e quindi una moltiplicazione ingiustificata delle condotte qualificate come
reato. Per cui, invece che ricorrere allo strumento del reato con morigeratezza, consapevoli che si sta
maneggiando un’arma potentissima, i Codici penali si sono sovente arricchiti di una pletora
interminabile di fattispecie che meglio avrebbero potuto essere trattate con strumento sanzionatorio
diverso dalla detenzione carceraria.
In questo senso, siamo totalmente d’accordo con quanti auspicano la tendenziale delimitazione
della categoria del reato ai delitti contro la persona, e a una serie limitata di delitti contro il patrimonio
che siano accompagnati da un legame particolarmente stretto con la persona stessa.7 Ma questo
alleggerimento del catalogo dei reati non ha nulla a che vedere con il fenomeno della depenalizzazione
delle condotte attinenti le questioni di bioetica. Condotte nelle quali il bene giuridico tutelato non è, di
solito, un bene patrimoniale, né una pur rispettabile istanza etica o religiosa, ma è soprattutto la dignità
della persona umana e il fondamentale bene giuridico della vita. Bene della vita da intendersi non in una
sua generica e astratta definizione, ma “incarnato” in una specifica, insostituibile, individualità
personale. Il delitto contro la vita umana – il reato per eccellenza, per antonomasia – trae la sua gravità
dal fatto che la vita spezzata non è l’anonima e indifferenziata manifestazione di un processo biologico
indistinto, reiterabile con la stessa facilità con cui si può riprodurre una coltura batterica. L’essere
umano che viene tolto di mezzo con l’omicidio – e con ogni altra azione intenzionale che costituisce
solo una variante della condotta omicida – è un valore in sé. E’, come direbbe Antonio Rosmini, “il
diritto sussistente”8. Infatti, proprio come ricorda il grande filosofo roveretano, non è che l’uomo abbia
N. Macchiavelli, Il Principe, Commento di R. Chiantera, Società Editrice Dante Alighieri, Firenze 1980.
Cfr. M. A. Cattaneo, Persona e stato di diritto, Giappichelli 1990
8 “La persona ha nella sua natura stessa tutti i costitutivi del diritto: essa è dunque il diritto sussistente, l’essenza del diritto”.
Così A. Rosmini-Serbati, Filosofia del diritto, vol. I, cap. II, pp. 48-52, Padova 1969.
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il diritto alla propria personalità, perché in questo caso l’uomo si distinguerebbe in due persone, l’una
avente il diritto, l’altra costituente il soggetto del diritto medesimo.
Ed ecco anche perché – come scrive lucidamente Mario Alessandro Cattaneo – il tema del
rispetto della dignità della persona umana è il problema fondamentale della filosofia del diritto penale. 9
Precisamente a questo livello dovrebbe collocarsi quel terreno di fertile confronto, quel denominatore
comune su cui costruire una bioetica condivisa e, di conseguenza, un sistema normativo laicamente
autentico, in quanto pienamente umano. “Non vi è libertà – scrive Cesare Beccaria in una celebre
pagina di Dei delitti e delle pene – ogni qual voltale leggi permettono che, in alcuni eventi, l’uomo cessi
di esser persona, e diventi cosa.” Beccaria pensava agli orrori di una macchina giudiziaria troppe volte
disumana. Ma dettava anche una linea profetica per le sfide della tecnoscienza contemporanea. Al di là
di ogni intento polemico e di qualsiasi tentazione ideologica, come non vedere una eco della
raccomandazione di Beccarla nelle legislazioni che hanno abdicato alla tutela dell’essere umano
concepito? E come non pensare, in particolare, alla autentica ecatombe di embrioni umani che è
intenzionalmente, colpevolmente determinata dalle tecniche di fecondazione artificiale extracorporea?
Proprio esse presuppongono che il concepito, giovanissimo essere umano, cessi di esser persona e
diventi cosa, nelle mani del tecnico di laboratorio.
Ecco perché il reato contro la persona è il più grave, e dà corpo alla condotta che contraddice
alla sua radice il sistema giuridico. Una cosa è la valutazione compassionevole degli elementi soggettivi e
delle circostanze attenuanti della condotta. Valutazione che spesso, in materie come l’aborto procurato
o l’eutanasia è assai opportuna per non dire doverosa. Ma tutto questo non dovrebbe – come invece
purtroppo avviene – portare alla progressiva rimozione della figura stessa del reato, alla sua
trasformazione in fatto non punibile e, addirittura in diritto riconosciuto alla persona. Pietà per chi
uccide per un malinteso concetto di pietà non significa trasformazione di quella condotta in atto non
punibile quando non addirittura lecito, o perfino doveroso.
In ogni caso, tutte le storture che si sono accumulate nella storia del diritto penale, la cui
denuncia non può che trovarci assolutamente concordi, non possono autorizzare la svalutazione del
significato altamente umano della categoria giuridica del reato, intesa come strumento di libertà e di
difesa ordinata dei beni più importanti per una società organizzata.
Il primo effetto distorto di questo equivoco circa il significato e lo scopo del reato si è
materializzato nel tentativo di ridurre il diritto penale a una materia esclusivamente tecnicosanzionatoria, nella quale l’esperto giurista avesse il compito esclusivo di garantire la coerenza interna
del sistema sanzionatorio, si preoccupasse di dirimere per quanto possibile i problemi interpretativi, e si
facesse garante di approntare un meccanismo adeguato in termini di efficacia della norma, rispetto alla
condotta sociale. Si tratta di una visione mortificante del diritto penale, che tende a marginalizzarne la
rilevanza. La qualificazione di un fatto come reato viene, in questa prospettiva, affidata ad altre branche
della scienza giuridica, come ad esempio il diritto costituzionale. In questo modo, però, è come se si
affermasse l’impossibilità per il diritto penale di operare una valutazione circa il contenuto della norma,
limitandosi a un giudizio meramente formale della sua validità e coerenza al sistema. E’ esattamente il
punto di vista di Hans Kelsen e della sua “Dottrina pura del diritto”, che tanto successo ha incontrato
nel ‘90010. Ma che tante domande irrisolte ha lasciato sul tappeto, prima ancora che la Bioetica
risvegliasse in ogni uomo le grandi domande sul senso della norma giuridica e sul valore della persona
umana nell’ordinamento giuridico democratico. Se infatti la norma giuridica è valida a prescindere dal
suo contenuto, chi o che cosa potrà impedire ad uno Stato di legiferare in maniera oggettivamente
ingiusta, calpestando i diritti fondamentali della persona? Con quali strumenti si potrà affermare che le
norme razziali della Germania nazista sono – secondo l’insegnamento di Tommaso d’Aquino – non più
leggi ma corruptio legis? E’ questa la cosiddetta “reductio ad Hitlerum” di cui parla Luigi Lombardi
Vallauri con riferimento allo svuotamento concettuale e morale operato dal positivismo11.
M. A. Cattaneo, Pena diritto e dignità umana, op. cit., p. 275.
H. Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto, Einaudi Torino 1956.
11 Si leggano le convincenti argomentazioni in L. Lombardi Vallauri, Corso di filosofia del diritto, Cedam Padova 1981.
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4. QUALI FATTI COSTITUISCONO REATO ?
Il dibattito bioetico, e il suo incrocio con la dimensione penalistica, ha il merito di obbligarci a
riscoprire una domanda fondamentale per il giurista. Anzi, una domanda fondamentale per l’uomo in
quanto tale: quali fatti costituiscono reato?
Si tratta di una questione densa di implicazioni non soltanto tecnico-giuridiche, ma anche
morali, filosofiche, antropologiche. Osserviamo che alla domanda in esame è possibile rispondere in
uno dei seguenti modi:
a) Costituiscono reato i fatti che sono contemplati dalla legge come tali
b) Costituiscono reato i fatti che, secondo l’opinione dei più e in base alla sensibilità del
momento, sono percepiti come delitti
c) Costituiscono reato i fatti che provocano una danno rilevante al benessere della maggior parte
dei consociati
d) Costituiscono reato i fatti che violano un bene fondamentale connaturale alla persona umana:
la vita, la libertà e in generale i beni strumentali alla realizzazione completa dell’individuo.
a. Se si prende per buona la risposta del punto “a”, si ottiene il risultato di circoscrivere la nostra
riflessione al diritto così come esso è. E’ un’ottima risposta per l’operatore del diritto, che deve
misurarsi con il diritto vigente (anche se in realtà il diritto posto non gli basta mai, come dimostra con
arguzia Lombardi Vallauri). Ma se sposto il problema sul terreno dell’attività legislativa, mi accorgo della
inadeguatezza di questa risposta. Infatti, potrei riformulare la domanda: se fossi il legislatore, intento a
scrivere un nuovo Codice penale, con quali criteri sceglierei le fattispecie da inserire tra i reati? La
dimensione positivistica non mi è di alcun aiuto. Genera anzi un cortocircuito logico che non soddisfa
la ragione umana. In sostanza, sarebbe come dire: quella condotta è delitto perché la legge ha deciso che
è un delitto.
b. Se si accetta la risposta del punto “b”, si opera la sostituzione della recta ratio con le categorie
del consenso popolare, dell’indagine demoscopia, della sensibilità mutevole e capricciosa dei più. Si
tratta di una tendenza diffusissima nelle democrazie contemporanee, che decreta il trionfo dei filodossi.
Ma essa orienta il sistema delle leggi, e quindi il catalogo dei reati, verso una pericolosa deriva
emozionale, nella quale la capacità di manipolazione mediatica delle masse, l’assenza di punti di
riferimento sicuri, la potenza delle lobby e dei potentati economici diventano le leve capaci di
manipolare e incanalare i gusti della gente. Plasmando così a piacimento il diritto. La deportazione di un
popolo, la tortura di un indagato, l’uso di un embrione come cavia di laboratorio diventa fatti in sé
stessi in-significanti moralmente e giuridicamente: sarà l’opinione pubblica di quel luogo e di quel
momento storico a rivestire di un senso – positivo o negativo: dipende dalla sensibilità e dalle
circostanze – quel gesto.
c. Questa risposta è una possibile traduzione della visione utilitarista. Essa gode di crescente
approvazione nell’opinione pubblica moderna, anche se spesso in maniera inconsapevole. E
contraddittoria: la stessa persona è portata a ritenere delittuoso un sistema sanitario che, per risparmiare
risorse scarse, taglia i fondi per categorie marginali e costose, come ad esempio vecchi “inutili”; ma
nello stesso tempo quella persona giudica perfettamente lecito - e dunque non un reato – che un
parente sopprima un congiunto “per il suo bene e per il bene di tutta la famiglia e la società, che hanno
finito di soffrire”.
d. Questa risposta ci pare ragionevole e adeguata alla delicatezza del problema. Dovrebbero
costituire reato tutte e soltanto quelle condotte che costituiscono l’effettiva lesione di un diritto
soggettivo individuale altrui, e non quelle che urtano contro la volontà – eventualmente arbitraria – del
legislatore. Per usare le espressioni di Francesco Carrara, devono essere mala in sé, e non
semplicemente mala quia proibita.12 Questa idea presuppone il riconoscimento della legge naturale, cioè
di un insieme di verità metagiuridiche, che trascendono il sistema positivo, e che sono patrimonio di
ogni uomo. E’ evidente che questa risposta è destinata a non lasciare tranquillo il giurista, né tanto
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M.A. Cattaneo, Francesco Carrara e la filosofia del diritto penale, Giappichelli Tornio, 1988.
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meno l’uomo della strada. Perché obbliga a mettersi talvolta in conflitto con il diritto vigente, quando
esso omette di qualificare come reati atti umani che sono oggettivamente dei mala in se.
5. DIRITTO , VERITÀ E GIUSTIZIA
Dunque: se i reati devono essere tutte e soltanto quelle azioni umane che sono male in sé, e
ledono un diritto altrui, allora viene da chiedersi, specularmente: che cosa rende buona un’azione?13 In
genere, tutti coloro che agiscono hanno una buona intenzione. Nessuno vuole il male perché è male.
Ma il punto è precisamente questo, anche da un punto di vista penalistico: benché rilevante, e in alcuni
casi determinante, la buona intenzione non cambia in nulla l’eventuale ingiustizia di un’azione. Inoltre,
chi potrebbe accertare la sussistenza di una buona intenzione. Spesso è l’uomo stesso a rimuovere il
male insito in una propria azione, e a convincere sé stesso che in fondo sta agendo solo per il bene di sé
o di altri. Chi fa il male non sa quello che fa. O meglio: nemmeno vuole saperlo14. In bioetica, e nei reati
di tale ambito, questa valutazione è assai spesso adeguata. Di fronte a un dilemma morale tragico come
l’aborto procurato, in genere quasi tutti concordano in un’astratta e generica presa di distanza da tale
condotta. Ma il punto è che poi, nella circostanza concreta, si teorizza l’opportunità di far passare il
bene morale in secondo piano, rispetto ad altre ragioni che possono essere o apparire anche fondate.
Ma “il bene è proprio ciò che non può mai passare in secondo piano, mentre ogni singolo valore o
contenuto deve poter passare in secondo piano in determinate circostanze”15. Il bene altro non è che
l’ordine giusto, cioè adeguato alla realtà. Come scrive mirabilmente Spaemann, l’azione buona è quella
che tratta la realtà così come essa deve essere trattata. Nella maggior parte dei casi, infatti, ciò che
dobbiamo fare se vogliamo agire bene risulta chiaramente dalla natura della cosa. E’ nella natura di una
promessa che la si debba mantenere; è nella natura di un bambino – nato o non ancora nato – che lo si
debba amare e rispettare; è nella natura della cosa che un paziente, ancorché sofferente e disperato, sia
curato dal medico ma non venga ucciso per pietà. A questi ragionamenti – ne siamo consapevoli – se ne
possono opporre di ben diversi, che mirano a seppellire tutto sotto una coltre di relativismo polveroso.
Identificando la verità con la soggettività. E’ una strada assai battuta, oggi. Ma terribilmente pericolosa.
Come ricorda ALbert Camus, quando nulla è vero o falso, buono o cattivo, si impone una regola: quella
dell’efficacia. Cioè, la legge del più forte. Il mondo non si dividerà più in giusti e ingiusti (posto che tutti
si appartenga poco o tanto a entrambe le categorie) ma in padroni e schiavi16. Secondo l’insegnamento
di Callicle, è preferibile commettere un ingiustizia piuttosto che subirla. Dunque, il migliore è colui che
domina sugli altri, il successo diventa criterio di verità, e allora il vero è ciò che è utile e che trionfa. Non
è difficile ravvisare, in alcune derive del dibattito bioetico contemporaneo, una simile impoverente
prospettiva. Dimenticando ciò che Aristotele già scriveva con lucido ragionamento 2500 anni fa: “E’ da
stupidi dare lo stesso credito a opinioni e giudizi discordanti. E’ chiaro, di fatto, che o gli uni o gli altri
sono necessariamente sbagliati.”
Mario Palmaro
Filosofo del diritto
Perfezionato in Bioetica presso l’Istituto ISSR di Milano
Docente presso la Facoltà di bioetica UPRA di Roma
Istituto di Filosofia del diritto, Università di Padova, sede di Treviso
Membro Comitato Etico Asl Milano 3
Prendiamo questa domanda, e gli spunti che seguono, da R. Spaemann, Concetti morali fondamentali, Piemme Casale 2001,
pp. 101-113.
14 Ibidem.
15 Ibidem.
16 Hervé Pasqua, Opinione & verità, Sapienza tecnologia umanesimo da Pilato a Frankenstein, Ares Milano 1994, p. 43.
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