PARLIAMO DI COMPETENZE Il termine competence appare nella letteratura psicologica tra la fine degli anni 60 e l’inizio
degli anni 70; nella letteratura attuale una definizione precisa del concetto di competenza
non è facilmente documentabile in quanto questo termine presenta molte interpretazioni e
racchiude diversi significati.
Per Sarchielli (2008) il termine competenza richiede di volta in volta alcune specificazioni
per stabilire i confini semantici in quanto rischia di non avere un ben definito significato,
infatti lo si può intendere una caratteristica intrinseca di un individuo collegata ad una
prestazione efficace, oppure un sinonimo di differenti capacità individuali, quali:
conoscenze, skills e atteggiamenti. In generale il termine competenza indica la capacità
degli individui di combinare coerentemente, in modo autonomo, tacitamente o
esplicitamente e in un contesto particolare, i diversi elementi delle conoscenze e delle
abilità che possiedono. Le competenze possono comunque essere suddivise in alcune macro aree come ad esempio:
competenza cognitiva, competenza funzionale (saper fare), competenza personale (saper
essere), competenza di base ­come conoscenza­ (sapere), competenze trasversali ecc.
Guy Le Boterf ritiene la competenza “Un insieme, riconosciuto e provato, delle
rappresentazioni, conoscenze, capacità e comportamenti mobilizzati e combinati in maniera
pertinente in un contesto dato”. Rappresentazioni, conoscenze, capacità e comportamenti
possono essere riassunti col termine risorse, in questo caso la competenza è una qualità
specifica del soggetto: quella di saper combinare diverse risorse, per gestire o affrontare in
maniera efficace delle situazioni, in un determinato contesto 1.
Un’area però importantissima riguardo alle competenze è quella della relazione che
abbraccia anche la suddivisione precedente in quanto le competenze non possono essere
riconducibili al solo piano professionale, ma devono estendersi anche a quello relazionale e
più specificatamente a quello della consapevolezza emotiva. Possiamo anche meglio sviluppare le caratteristiche insite nelle competenze suddividendo
le stesse nelle conoscenze basilari, che sono, come abbiamo avuto già modo di vedere,
sapere, saper fare, saper essere, essere e di conseguenza saper divenire.
In sintesi, riprendendo i concetti dalla letteratura della formazione, possiamo dire che il
"Sapere" si riferisce a conoscenze codificate, attinenti a discipline per le quali esistono
1
Le Boterf, G., 1990, De la compétence: Essai sur un attracteur étrange, Les Ed. de l’Organisation). Rosario Drago (2000)
comunità di studiosi e di esperti 2; il Sapere riguarda la conoscenza teorica, il quadro di
riferimento in cui inserire il proprio operare e nel quale è importante una costante
disponibilità all'aggiornamento e all'ampliamento delle proprie conoscenze. Il "Saper fare" è
la pratica, è la conoscenza operativa e procedurale, le abilità pratiche, l’esperienza
professionale specifica, la capacità di gestione dei problemi che si incontrano nella prassi
lavorativa3. Il "Saper essere" riguarda la capacità di "esserci nella relazione", di conoscere
bene se stesso e sapersi relazionare attraverso l'empatia, l’accettazione e il rispetto. È la
capacità di comprendere il contesto in cui si opera, di gestire le interazioni con gli altri
attori sociali presenti nel contesto, di adottare i comportamenti appropriati. 4
E l’“Essere”? L’essere è la dimensione più complessa in quanto si riferisce all’esperienza
umana e che determina un confronto tra gli individui e che suscita sentimenti intensi
(Pajardi, 2000).
L’essere è un concetto di grande implicazione filosofica il cui approfondimento esula,
ovviamente, dagli intenti di questo articolo. È però utile riprendere il concetto anche solo
superficialmente per poter così aver chiaro le possibilità di esser­ci e di essere nella
relazione. Possiamo farci aiutare nel chiarire questo concetto importante e di difficile comprensione
da Martin M. Buber (1878 – 1965) che è stato un filosofo, teologo e pedagogista austriaco
naturalizzato israeliano. Si deve a lui l'idea che la vita è fondamentalmente non
soggettività, bensì intersoggettività, anzi per Buber soggetto e intersoggettività sono in
maniera sincronica complementari e ne era talmente convinto che non esitò ad affermare:
"In principio è la relazione"5.
Buber (2004) cita Husserl evidenziando che l’uomo non può esistere in esseri isolati in
quanto i rapporti con gli altri individui e la società sono essenziali. Lo stesso autore
rimanda al Dasein di Heidegger, ossia all’esserci, e aggiunge che l’esserci “reale” dell’uomo
nel suo comportamento verso il suo essere, non è comprensibile se non in connessione con
la natura di ogni essere verso il quale ha un certo comportamento. Ora, senza entrare in
complesse letture filosofiche, possiamo, per terminare, citare ancora Buber quando
sottolinea che è solo mediante il rapporto con un altro sé che l’uomo potrà raggiungere la
2
it.wikipedia.org
3
Ibidem
4
Ibidem
5
Ibidem
completezza. Ed è proprio e solamente nel rapporto con l’altro che si manifestano le
dimensioni dell’essere come attività che esprimono le caratteristiche della persona e che
sono comprensibili solo da chi condivide un’esperienza analoga (Pajardi, 2000).
Riprendiamo quindi il termine esperienza per ritornare a una dimensione più
contestualizzata del presente, ossia l’essere in un contesto organizzativo che rimanda anche
al concetto di ruolo e che riguarda aspetti estremamente importanti per l’individuo. Nella
dinamica del confronto, sull’essere, il parametro della rilevanza per se stessi può avere forti
ripercussioni sull’autostima ed essere fonte di frustrazione, oltre che dannoso per la propria
immagine e per l’immagine sociale (Ibidem). Inoltre la nostra individualità dipende in larga
misura dai nostri gesti, dalla forma espressiva del corpo, dal suo aspetto e dal suo
movimento; ed è dall’insieme di queste forme di gestualità che ci rapportiamo agli altri.
Nella mano che si rivolge ai nostri simili, in particolar modo nel bambino piccolissimo, c’è
una aspettativa di reciprocità intenzionale, relazionale, che può essere accolta o meno dagli
altri, infatti l’attesa della reciprocità dell’altro può essere anche delusa, ma è proprio
attraverso queste diverse possibilità relazionali e di senso che si costituisce la presenza
relazionale. Grazie agli studi di Rizzolati (2006) sulle basi biologiche dell’azione e alla
scoperta dei neuroni specchio si è visto, ad esempio, che il riconoscimento, da parte di una
persona, di un volto disgustato o addolorato parrebbe determinare nel cervello di chi
osserva un’attivazione delle mappe corporee che determinerebbero un “come se” stesse
percependo la stessa emozione. Per terminare e sintetizzare il concetto di essere è utile riprendere quanto espresso da
Sennet (2008), il quale sostiene che l’arte di fabbricare oggetti fisici influenza anche le
modalità di relazionarci con gli altri, le difficoltà e le possibilità di fabbricare bene le cose
valgono anche per la costruzione dei rapporti umani. Ciò in quanto le capacità che il corpo
possiede di conformare oggetti fisici, sono le stesse capacità a cui possiamo attingere per
affrontare le relazioni sociali. Riallacciandosi al pragmatismo moderno, Sennet evidenzia
un convinzione jeffersoniana (che forse andrebbe sviluppata e valorizzata nell’attuale
contesto sociale n.d.r) la quale ritiene che imparare a svolgere bene il proprio lavoro è
fondamentale per essere un buon cittadino.
Per tutti ciò che ancora non è stato detto… rimando al nostro modulo delle “Riflessioni in
scena” con il corso sul RUOLO.
Sergio Rossi
Aprile 2013
Riferimenti bibliografici:
Buber M. – Il problema dell’uomo, Marietti, 2004, Genova­Milano
Pajardi D. – Confronto e competizione nell’interazione sociale, I.S.U. , Università Cattolica,
2000, Milano Rizzolati G. , Sinigaglia C. – So quel che fai, Raffaello Cortina Editore, 2006, Milano
Sarchielli G. ­ Psicologia del lavoro, il Mulino, 2008, Bologna
Sennet R. – L’uomo artigiano, Feltrinelli, 2008, Milano