Il clima al centro dei conflitti

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Il clima al centro dei conflitti
- Agnès Sinaï, 13.08.2015
Il Diplò d'agosto. Le inattese conseguenze di una siccità in Cina
Fra il 2006 e il 2011 la Siria ha conosciuto la siccità più lunga e la perdita di raccolti più grave mai
registrate fin dai tempi delle prime civiltà nella Mezzaluna fertile. In totale, su 22 milioni di abitanti
all’epoca, oltre un milione e mezzo è stato colpito dalla desertificazione (1), che ha provocato
massicce migrazioni di contadini, allevatori e famiglie verso le città (2). L’esodo ha alimentato le
tensioni già determinate dall’afflusso in Siria di rifugiati iracheni fuggiti in seguito all’invasione
statunitense del 2003. Per decenni il regime baathista di Damasco ha trascurato le ricchezze
naturali del paese, sovvenzionato le colture di frumento e cotone che hanno bisogno di molta acqua,
incoraggiato tecniche di irrigazione inefficaci. L’eccesso di pascolo e l’incremento demografico
hanno rafforzato il processo. Fra il 2002 e il 2008 le risorse idriche si sono dimezzate.
Il crollo del sistema agricolo siriano deriva da un complesso gioco di fattori fra i
quali i cambiamenti climatici, la cattiva gestione delle risorse naturali e la dinamica
demografica. Questa «combinazione di cambiamenti economici, sociali, climatici e
ambientali ha eroso il contratto sociale fra cittadini e governo, catalizzato i
movimenti di opposizione e logorato irreversibilmente la legittimità del potere di
Assad», ritengono Francesco Femia e Caitlin Werrell, del Centro per il clima e la
sicurezza (3). Secondo i due esperti, l’emergere dell’Organizzazione dello Stato
islamico e la sua espansione in Siria e Iraq sono in parte il risultato della siccità. E
quest’ultima non dipende solo dalla naturale variabilità del clima. È un’anomalia: «Il
cambiamento nel regime delle precipitazioni in Siria è legato all’aumento medio del
livello del mare nella parte orientale del Mediterraneo, insieme alla caduta del
livello di umidità del suolo. In queste tendenze non sembra esserci alcuna causa
naturale: la siccità e il riscaldamento sembrano corroborare i modelli di risposta
all’aumento dei gas a effetto serra», spiega la rivista dell’Accademia delle scienze
statunitense (4).
Nella Cina orientale, nell’inverno 2010-2011, l’assenza di precipitazioni e le
tempeste di sabbia, tali da indurre il governo di Wen Jiabao a lanciare razzi nella
speranza di scatenare la pioggia, hanno avuto ripercussioni a cascata, ben oltre le
frontiere del paese. In effetti la perdita di raccolti ha costretto Pechino ad
acquistare grano sui mercati internazionali. Il conseguente aumento dei prezzi
internazionali della derrata ha alimentato il malcontento popolare in Egitto, paese
che è il primo importatore mondiale di grano e i cui abitanti destinano tuttora oltre
il 30% del reddito all’acquisto degli alimenti essenziali. Il raddoppiamento del
prezzo della tonnellata di frumento, passato da 157 dollari nel giugno 2010 a 326
dollari nel febbraio 2011, ha colpito in modo pesante quel paese molto dipendente
dalle importazioni. Il prezzo del pane è triplicato e questo ha accresciuto il
malcontento popolare nei confronti del regime autoritario del presidente Hosni
Mubarak.
Zolfo per raffreddare il pianeta
Nello stesso periodo i raccolti di grano, soia e mais dell’emisfero Sud sono stati
colpiti dalla Niña, un evento climatico importante che ha provocato siccità in
Argentina e piogge torrenziali in Australia. In un articolo sulla rivista Nature,
Solomon Hsiang, Kyle Meng e Mark Cane stabiliscono una correlazione fra le
guerre civili e il fenomeno El Niño Southern Oscillation (Enso) che ogni tre-sette
anni provoca un’accumulazione di acque calde lungo le coste dellEquatore e del
Perù, e un cambiamento degli alisei del Pacifico, due fattori associati a importanti
cambiamenti meteorologici di portata mondiale (5). Per Hsiang e i suoi colleghi, la
probabilità di guerre civili raddoppia durante il fenomeno Enso. È la prima
dimostrazione del fatto che la stabilità delle società moderne dipende in modo
determinante dal clima globale.
I cambiamenti climatici sono diventati «moltiplicatori di minacce» e modificano il
corso delle relazioni internazionali. Alla hard security ereditata dalla guerra fredda
fa seguito la natural security, un concetto messo a punto dai militari statunitensi
facenti parte del Center for a New American Security, un think tank creato nel 2007
per contrastare lo scetticismo climatico dei neoconservatori e individuare le
minacce globali emergenti.
Le fonti dell’insicurezza ambientale non possono più essere ridotte a elementi
puramente esogeni e naturali come eruzioni vulcaniche, tsunami e terremoti. Le
attività umane, l’accelerazione dei cicli produttivi e la loro globalizzazione
concorrono a destabilizzare il clima. Il neologismo «antropocene» indica l’impronta
smisurata delle società industriali sul sistema terrestre.
Nell’Artico, dove entro la fine del secolo i ghiacci potrebbero sciogliersi del tutto e
che registra effetti del riscaldamento globale due volte più intensi che altrove, la
rivendicazione di nuove frontiere terrestri e marittime riaccende tensioni fra i paesi
circumpolari (6). La Russia, che esplora l’Artico da secoli, è l’unica nazione ad avere
una flotta di navi rompighiaccio nucleari. Un modello gigante, in corso di
costruzione sui cantieri navali di San Pietroburgo, sarà terminato nel 2017 (7).
Mosca rinnova anche la propria flotta di sottomarini ultra-silenziosi di quarta
generazione, che possono lanciare missili a testata nucleare. Sul lato degli Stati
uniti, l’apertura dell’Artico viene presentata al tempo stesso come una fortuna per i
commerci con l’Asia e una possibilità di acquisire nuove risorse energetiche (8).
Lo scioglimento dell’Artico impone effetti sistemici. Le variazioni del vortice polare,
corrente d’aria glaciale del polo Nord, spiegano il freddo intenso abbattutosi
sull’America del Nord nell’inverno 2013-2014. «L’interazione fra l’Artico e il
riscaldamento globale è nuova nella storia strategica umana, perché trasforma
l’incontro fra geografia e geofisica in questa regione in un potere nuovo e strano, di
natura geofisica, che chiamiamo “potere ambientale dell’Artico”. Si esercita su
scala planetaria con conseguenze importanti», osserva l’esperto in strategia
militare Jean-Michel Valantin (9).
L’ultimo rapporto del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc)
sottolinea che non c’è una teoria stabilizzata che consenta di sostenere la possibilità
di conflitti armati al polo Nord. Lo scioglimento dei ghiacci permetterà di
confermare – o il contrario – la robustezza delle istituzioni circumpolari per la
cooperazione transfrontaliera, come il Consiglio dell’Artico. Gli elementi di
causalità si rivelano complessi, instabili ed evolutivi; gli effetti del riscaldamento
pesano sulle società in misura maggiore o minore in funzione della resilienza dei
sistemi politici, economici e sociali messi in essere (10).
Nel suo libro Le guerre del clima, il giornalista Gwynne Dyer descrive un mondo nel
quale il riscaldamento del clima subisce un’accelerazione e dove i rifugiati, affamati
dalla siccità, cacciati dall’innalzamento del livello degli oceani, tentano di arrivare
nell’emisfero Nord, mentre gli ultimi paesi autosufficienti dal punto di vista
alimentare, quelli a latitudini più elevate, devono difendersi anche con le armi
nucleari contro vicini sempre più aggressivi: quelli dell’Europa del Sud e delle rive
del Mediterraneo, trasformate in deserti (11).
Di fronte a ciò che alcuni scienziati definiscono una «perturbazione climatica di
origine umana» (anthropogenic climate disruption), la geo-ingegneria, cioè un
intervento deliberato per ridurre il riscaldamento del pianeta, cerca di prendere il
controllo sul clima. Si tratta di un insieme di tecniche che mirano a rimuovere
dall’atmosfera una parte delle eccedenze di anidride carbonica (carbon dioxyde
removal) e a regolare le radiazioni solari (solar radiation management), con il
rischio però di gravi destabilizzazioni delle società e degli ecosistemi. La
nebulizzazione di sostanze a base di zolfo, ad esempio, richiede che lo strato sparso
in atmosfera sia abbastanza spesso da determinare un effetto ottico di ostacolo
all’irraggiamento solare, così da raffreddare il pianeta.
Tuttavia l’osservazione delle eruzioni vulcaniche porta i climatologi a constatare
che le particelle di zolfo concorrono sì a raffreddare l’atmosfera, ma possono
determinare siccità regionali, ridurre eventualmente l’efficacia dei pannelli solari,
provocare un ulteriore degrado della fascia di ozono e indebolire il ciclo
idrogeologico globale. «Inoltre, senza accordi internazionali che definiscano come e
in quali proporzioni utilizzare la geo-ingegneria, le tecniche di gestione
dell’irraggiamento solare presentano un rischio geopolitico. Infatti il costo di questa
tecnologia arriva a decine di miliardi di dollari all’anno, e potrebbe essere assunto
da attori non statali o da piccoli Stati che agiscono per proprio conto, contribuendo
così a conflitti globali o regionali», avverte l’ultimo rapporto dell’Ipcc.
I cambiamenti climatici non creano solo altri motivi di conflitto violento, ma anche
nuove forme di guerra, sottolinea dal canto suo lo psicosociologo Harald Welzer.
L’estrema violenza di questi conflitti va oltre il quadro delle teorie classiche e
«instaura spazi di azione rispetto ai quali le esperienze vissute nel mondo davvero
confortevole dell’emisfero occidentale dopo la seconda guerra mondiale non
possono offrire alcun quadro di riferimento (12)». Lotte asimmetriche fra
popolazioni e signori della guerra al servizio di grandi gruppi privati alimentano i
mercati della violenza, galvanizzati dal riscaldamento del clima. Il caos del Darfur,
in Sudan, che perdura dal 1987, è emblematico della dinamica autodistruttiva
aggravata dalla fragilità degli Stati. Nel Nord della Nigeria il degrado delle terre ha
sconvolto i modi di vita agricoli e pastorali e interferisce con le rotte migratorie.
Centinaia e centinaia di villaggi sono stati abbandonati e le migrazioni che ne sono
derivate hanno contribuito a destabilizzare la regione, facendo da brodo di coltura
al movimento islamista Boko Haram.
L’ultimo rapporto dell’Ipcc introduce il concetto di «rischio combinato» (compound
risk), per indicare la convergenza di molteplici impatti in una determinata area
geografica: «Poiché da qui al 2050 la temperatura media del globo è suscettibile di
aumentare da due a quattro gradi rispetto all’anno 2000, a parità degli altri fattori
si possono prevedere per il futuro grandi modifiche negli schemi della violenza
interpersonale, dei conflitti di gruppo e dell’instabilità sociale».
2030: il 54% di guerre in più
Il ricercatore Marshall B. Burke, dell’università californiana di Berkeley, e i suoi
coautori prevedono una crescita dei conflitti armati del 54% da qui al 2030. Il loro
studio propone la prima valutazione di insieme degli impatti potenziali dei
cambiamenti climatici sulle guerre nell’Africa subsahariana. Mette in luce i
collegamenti fra guerra civile, aumento delle temperature e riduzione delle
precipitazioni estrapolando le proiezioni mediane di emissioni di gas serra calcolate
dall’Ipcc per queste regioni fra il 2020 e il 2039 (13).
L’afflusso di rifugiati alle porte della fortezza di prosperità chiamata Europa
potrebbe proseguire e accentuarsi nel corso del XXI secolo. «Oggi nel mondo il
numero delle persone sfollate a causa del degrado dell’ambiente è almeno pari a
quello di chi fugge da guerre e violenze», ritiene il politologo François Gemenne
(14). A questi migranti in fuga da guerre che si svolgono lontano dall’Occidente,
quest’ultimo, malgrado la propria responsabilità storica nel riscaldamento globale
dell’atmosfera, non riconosce uno status: «Rifiutare il concetto di “rifugiato
climatico” equivale a rifiutare l’idea che i cambiamenti climatici siano una forma di
persecuzione nei confronti dei più vulnerabili». Vittime di un processo di
trasformazione planetaria contro il quale non possono far nulla.
(1) «Syria: Drought driving farmers to the cities», Irin News, 2 settembre 2009, www.irinnews.org
(2) Gary Nabhan, «Drought drives Middle Eastern pepper farmers out of business, threatens prized
heirloom chiles», Grist.org, 16 gennaio 2010.
(3) «The Arab Spring and climate change», The Center for Climate and Security, Washington, Dc,
febbraio 2013.
(4) Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America (Pnas), vol. 112,
n° 11, Washington, Dc, 17 marzo 2015.
(5) Solomon M. Hsiang, Kyle C. Meng, Mark A. Cane, «Civil conflicts are associated with the global
climate», Nature, vol. 476, n° 7361, Londra, 25 agosto 2011.
(6) Si legga Gilles Lapouge, «Il fascino dei poli», Le Monde diplomatique/il manifesto, dicembre 2010.
(7) «Russia lays down world’s largest icebreaker», Russia Today, 5 novembre 2013, www.rt.com
(8) «National strategy for the Arctic region», Casa Bianca, Washington, Dc, 10 maggio 2013,
www.whitehouse.Gov
(9) Jean-Michel Valantin, «The warming Arctic, a hyper strategic analysis», The Red (Team) Analysis
Society, 20 gennaio 2014, www.redanalysis.org
(10) Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc), Climate Change 2014: Impacts, Adaptation,
and Vulnerability, 2 vol., Cambridge University Press, Cambridge e New York, 2014.
(11) Gwynne Dyer, Le guerre del clima. La lotta per la sopravvivenza mentre il pianeta si surriscalda,
Marco Tropea editore, Milano 2012.
(12) Harald Welzer, Les Guerres du climat. Pourquoi on tue au XXIe siècle, Gallimard, coll. «Nrf
essais», Parigi, 2009.
(13) Marshall B. Burke, Edward Miguel, Shanker Satyanath, John A. Dykema, David B. Lobell,
«Warming increases the risk of civil war in Africa», Pnas, vol. 106, n° 49, 23 novembre 2009.
(14) Naomi Klein, Susan George, Desmond Tutu (a cura di), Stop crime climatique. L’appel de la
société civile pour sortir de l’âge des fossiles, di prossima pubblicazione per Seuil, coll.
«Anthropocène», 27 agosto 2015.
(Traduzione di Marinella Correggia)
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