fascicolo 1 - Processo Penale e Giustizia

PROCESSO
PENALE
E GIUSTIZIA
Diretta da Adolfo Scalfati
1-2016
Comitato di direzione:
Ennio Amodio, Giuseppe Di Chiara, Paolo Ferrua, Giulio Garuti, Luigi Kalb
Sergio Lorusso, Mariano Menna, Gustavo Pansini, Francesco Peroni, Giorgio Santacroce
G. Giappichelli Editore – Torino
© Copyright 2016 - G. GIAPPICHELLI EDITORE - TORINO
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Comitato di Direzione
Ennio Amodio, professore di procedura penale, Università di Milano Statale
Giuseppe Di Chiara, professore ordinario di procedura penale, Università di Palermo
Paolo Ferrua, professore ordinario di procedura penale, Università di Torino
Giulio Garuti, professore ordinario di procedura penale, Università di Modena e Reggio Emilia
Luigi Kalb, professore ordinario di procedura penale, Università di Salerno
Sergio Lorusso, professore ordinario di procedura penale, Università di Foggia
Mariano Menna, professore ordinario di procedura penale, Seconda Università di Napoli
Gustavo Pansini, professore di procedura penale, Università di Napoli SOB
Francesco Peroni, professore ordinario di procedura penale, Università di Trieste
Giorgio Santacroce, primo presidente della Corte di cassazione
Coordinamento delle Sezioni
Teresa Bene, professore associato di procedura penale, Seconda Università di Napoli
Maria Elena Catalano, professore associato di procedura penale, Università dell’Insubria
Paola Corvi, professore associato di procedura penale, Università Cattolica di Piacenza
Donatella Curtotti, professore associato di procedura penale, Università di Foggia
Mitja Gialuz, professore associato di procedura penale, Università di Trieste
Vania Maffeo, professore associato di procedura penale, Università di Napoli Federico II
Carla Pansini, professore associato di procedura penale, Università di Napoli Parthenope
Nicola Triggiani, professore associato di procedura penale, Università di Bari “Aldo Moro”
Cristiana Valentini, professore associato di procedura penale, Università di Ferrara
Daniela Vigoni, professore associato di procedura penale, Università di Milano Statale
Redazione
Gastone Andreazza, magistrato – Fulvio Baldi, magistrato – Antonio Balsamo, magistrato – Giuseppe Biscardi, ricercatore di procedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Orietta Bruno, ricercatore di procedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Lucio Camaldo, professore associato di diritto processuale penale, Università di Milano Statale – Sonia Campailla, ricercatore di diritto dell’Unione europea,
Università di Roma Tor Vergata – Laura Capraro, ricercatore di procedura penale, Università di Roma Tor
Vergata – Assunta Cocomello, magistrato – Marilena Colamussi, ricercatore di procedura penale, Università di Bari “Aldo Moro” – Antonio Corbo, magistrato – Gaetano De Amicis, magistrato – Alessandro Diddi, ricercatore di procedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Ada Famiglietti, ricercatore di procedura
penale, Università di Roma Tor Vergata – Rosa Maria Geraci, ricercatore di procedura penale, Università
di Roma Tor Vergata – Paola Maggio, ricercatore di procedura penale, Università di Palermo – Antonio
Pagliano, ricercatore di procedura penale, Seconda Università di Napoli – Giorgio Piziali, magistrato –
Roberto Puglisi, dottore di ricerca in procedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Alessia Ester
Ricci, assegnista di ricerca in diritto processuale penale, Università di Foggia – Nicola Russo, magistrato –
Alessio Scarcella, magistrato – Elena Zanetti, ricercatore di procedura penale, Università di Milano Statale
Peer review
La “revisione dei pari” garantisce il livello qualitativo dei contenuti della Rivista.
La valutazione viene compiuta tenendo conto della fisionomia tradizionale dei generi letterari (Articolo
e Nota), misurandone la chiarezza espositiva, i profili ricostruttivi, il grado di ricerca, la prospettiva
critica e le soluzioni interpretative offerte. La verifica è effettuata a rotazione da due professori ordinari
di discipline corrispondenti o affini alle materie oggetto dei lavori, i quali esprimono un giudizio sulla
meritevolezza o meno della pubblicazione. Nell’ipotesi di valutazioni contrastanti tra i revisori, detto
giudizio è rimesso al Direttore della Rivista.
Il controllo avviene in forma reciprocamente anonima.
I contenuti editi nella Sezione denominata “Scenari” non sono soggetti a revisione.
Peer reviewers
Enrico Mario Ambrosetti, professore ordinario di diritto penale, Università di Padova
Alessandro Bernasconi, professore ordinario di procedura penale, Università di Brescia
Piermaria Corso, professore ordinario di procedura penale, Università di Milano Statale
Agostino De Caro, professore ordinario di procedura penale, Università del Molise
Mariavaleria del Tufo, professore ordinario di diritto penale, Università di Napoli SOB
Marzia Ferraioli, professore ordinario di procedura penale, Università di Roma Tor Vergata
Carlo Fiorio, professore straordinario di procedura penale, Università di Perugia
Novella Galantini, professore ordinario di procedura penale, Università di Milano Statale
Maria Riccarda Marchetti, professore ordinario di procedura penale, Università di Sassari
Oliviero Mazza, professore ordinario di procedura penale, Università di Milano Bicocca
Paolo Moscarini, professore ordinario di procedura penale, Università di Roma LUISS
Angelo Pennisi, professore ordinario di procedura penale, Università di Catania
Tommaso Rafaraci, professore ordinario di procedura penale, Università di Catania
Antonio Scaglione, professore ordinario di procedura penale, Università di Palermo
Andrea Scella, professore ordinario di procedura penale, Università di Udine
Gianluca Varraso, professore ordinario di procedura penale, Università di Milano Cattolica
Processo penale e giustizia n. 1 | 2016
V
Sommario
Editoriale | Editorial
ELENA MARIA CATALANO
Prassi devianti e prassi virtuose in materia di intercettazioni / Rethinking wiretapping practice
1
Scenari | Overviews
Novità sovranazionali / Supranational news (ANDREA CONTI)
10
De jure condendo (MARILENA COLAMUSSI)
13
Corti europee / European Courts (FRANCESCO TRAPELLA)
18
Corte costituzionale (FRANCESCA DELVECCHIO)
24
Sezioni Unite (TERESA ALESCI)
28
Decisioni in contrasto (PAOLA CORVI)
31
Avanguardie in giurisprudenza | Cutting Edge Case Law
Reati lesivi di interessi finanziari dell’UE e disciplina della prescrizione
Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, sentenza 8 settembre 2015 – Taricco, causa C105/14
34
La sentenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea in tema di disapplicazione dei
termini di prescrizione: medioevo prossimo venturo? / The judgment of the Court of Justice of the European Union (CJEU) concerning the disapplication of rules limiting the interruption of the prescription periods: in the years to come Middle Ages is to be expected? (ENRICO
MARIO AMBROSETTI)
44
Sono inutilizzabili le dichiarazioni acquisite ai sensi dell’art. 210, comma 6, c.p.p. in assenza dell’avvertimento previsto dall’art. 64, comma 3, lett. c) c.p.p.
Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza 29 luglio 2015, n. 33583 – Pres. Santacroce; Rel.
Bianchi
52
L’avvertimento ex art. 64, comma 3, lett. c) c.p.p. è conditio sine qua non per assumere
l’ufficio di testimone nell’esame dibattimentale ex art. 210, comma 6, c.p.p.: sono inutilizzabili le dichiarazioni acquisite in sua assenza / The warning extablished in the art. 64,
paragraph 3, lett. c) of the criminal procedure code is conditio sine qua non to became witness in
the criminal trial: is unusable the deposition obtained ex art. 210, paragraph 6, of the criminal
procedure code without this warning (FEDERICA CASASOLE)
68
Sulle conseguenze dell’impossibilità di applicare il “braccialetto elettronico” per una carenza organizzativa dell’ordinamento
Corte di Cassazione, Sezione I, sentenza 10 settembre 2015, n. 39529 – Pres. Chieffi; Rel.
La Posta
76
Per la Suprema Corte l’indisponibilità del “braccialetto elettronico” comporta l’applicazione
degli arresti domiciliari “semplici”: una discutibile lettura dell’art. 275-bis c.p.p. / For the Supreme Court the unavailability of “electronic bracelet” determines the application of “simple” house
arrest: a questionable reading of Article 275-bis c.p.p. (JACOPO DELLA TORRE)
80
SOMMARIO
Processo penale e giustizia n. 1 | 2016
VI
Dibattiti tra norme e prassi | Debates: Law and Praxis
Le dichiarazioni delle vittime vulnerabili nei procedimenti penali / The collection of statements of vulnerable victims in criminal proceedings (MARIA MONTELEONE/VERA CUZZOCREA)
93
La legge “Pinto”: profili critici tra diritto intertemporale e disciplina a regime dopo la l.
n. 134 del 2012 / "Pinto" Act: critical profiles between intertemporal law and current discipline after the Act n. 134 of 2012 (FRANCESCO VITALE)
110
Il patteggiamento nei giudizi per reati corruttivi / The plea bargaining in trials for corruptive crimes (FRANCESCO TRAPELLA)
125
Analisi e prospettive | Analysis and Prospects
Poteri del giudice e controlli nella messa alla prova degli adulti / Powers granted to judges and appeals in probation for adults (NICOLA TRIGGIANI)
137
Mutamento del giudice e nuova istruttoria: note sull’involuzione interpretativa / Change
of the judge and new inquiriy: note on the interpretative involution (LORENZO BELVINI)
150
Indici | Index
Autori / Authors
158
Provvedimenti / Measures
159
Materie / Topics
159
SOMMARIO
Processo penale e giustizia n. 1 | 2016
1
Editoriale | Editorial
ELENA MARIA CATALANO
Professore associato confermato di Diritto processuale penale – Università dell’Insubria di Como e Varese
Prassi devianti e prassi virtuose in materia di intercettazioni
Rethinking wiretapping practice
La prassi rappresenta una immancabile chiave di lettura della norma e può fungere da lente correttiva o da lente
deformante rispetto al dato normativo. Nel caso delle intercettazioni, la prassi assume un ruolo ambivalente. Alle
prassi devianti che contribuiscono a deformare il dato normativo si contrappongono prassi virtuose idonee a riportare sui binari della razionalità norme irrazionali rispetto al valore o rispetto allo scopo perseguito. Altri interventi
giurisprudenziali assumono una funzione di aggiornamento di una normativa che sconta il rischio di una obsolescenza legata sia alle innovazioni tecnologiche sia ai mutamenti della sensibilità sociale.
The gulf between legislation and practice in the field of wiretapping can be read at different levels. Non orthodox
practice as well as statute law disapplication holds a danger to the core values of the criminal justice system.
However, judicial creativity can perform a wide range of useful functions.
LA DIVARICAZIONE TRA NORME E PRASSI SUL CRINALE TRA PATOLOGIA E FISIOLOGIA. GLI INTERVENTI
GIURISPRUDENZIALI CON FUNZIONE DI CORREZIONE O DI AGGIORNAMENTO DELLA NORMATIVA
Una diffusa chiave di lettura della disciplina delle intercettazioni, da un lato, mette in luce il rapporto
tra dato normativo e prassi devianti, dall’altro lato, tenta di analizzare i possibili correttivi 1. L’angolo di
osservazione si sposta, così, impercettibilmente, dalle norme – in fondo equilibrate – alla prassi che
tende a disapplicare o a applicare in modo distorto una disciplina razionale.
Al riguardo, non può essere sottovalutata la diffusione di prassi operative inclini ad un uso disinvolto del mezzo captativo, tra le quali assume rilievo la sostanziale disapplicazione di numerose ipotesi di
inutilizzabilità positivamente previste.
La proliferazione di prassi distorte dipende, in parte, dalla peculiarità della situazione italiana in cui
le intercettazioni hanno avuto un ruolo decisivo nella lotta al fenomeno mafioso. «L’interpretazione dei
segni, dei gesti, dei messaggi e dei silenzi costituisce una delle attività più importanti dell’uomo
d’onore. E di conseguenza del magistrato» 2. A ben vedere, tuttavia, la divaricazione tra norme e prassi
dipende da una molteplicità di fattori e si presta a diverse chiavi di lettura.
Il diritto vivente in materia di intercettazioni assume, infatti, un ruolo ambivalente nell’evoluzione
del sistema processuale. La prassi rappresenta una immancabile chiave di lettura della norma e può
1
V. sul tema, in prospettiva problematica, L. Kalb, Intervento, in Le intercettazioni di conversazioni e di comunicazioni. Un problema cruciale per la civiltà e l’efficienza del processo e per le garanzie dei diritti, Milano, 2009, p. 277; E. Marzaduri, Intervento, in Le
intercettazioni di conversazioni e di comunicazioni. Un problema cruciale per la civiltà e l’efficienza del processo e per le garanzie dei diritti,
cit., p. 245.
2
G. Falcone, Cose di cosa nostra, Milano, 1993. V. anche V. Grevi, Le intercettazioni al crocevia tra efficienza del processo e garanzie
dei diritti, in Le intercettazioni di conversazioni e di comunicazioni. Un problema cruciale per la civiltà e l’efficienza del processo e per le garanzie dei diritti, cit., p. 41.
EDITORIALE | PRASSI DEVIANTI E PRASSI VIRTUOSE IN MATERIA DI INTERCETTAZIONI
Processo penale e giustizia n. 1 | 2016
2
fungere da lente correttiva o da lente deformante rispetto al dato normativo. Alle prassi devianti che
contribuiscono a deformare il dato normativo si contrappongono prassi virtuose idonee a riportare sui
binari della razionalità norme irrazionali rispetto al valore o rispetto allo scopo perseguito 3.
Sul crinale tra prassi devianti e prassi virtuose si collocano quegli interventi giurisprudenziali tesi a
correggere, piuttosto che a estirpare in radice, prassi distorte. Così, di fronte all’endemica disapplicazione dell’udienza di stralcio, la decisione della Consulta del 2012 che tollera lo svolgimento in sede dibattimentale delle operazioni di selezione e di acquisizione del materiale intercettato, con il necessario
temperamento dello svolgimento del dibattimento a porte chiuse, viene ad assumere una funzione di
manipolazione del diritto vivente, a garanzia della tenuta del sistema.
In secondo luogo, la materia delle intercettazioni rappresenta il catalizzatore di un problema più
ampio, costituto dalla sempre più fitta rete di strumenti di aggressione alla privacy, pesantemente compromessa dalla diffusione dei “sistemi di sorveglianza globale”, ma anche dall’accumulo dei dati relativi al traffico internet e dalle frodi informatiche 4. Al riguardo, la normativa sulle intercettazioni sembra
combattere, a tutela della privacy, una battaglia di retroguardia rispetto ad una materia magmatica e in
continua evoluzione.
Gli interventi giurisprudenziali assumono allora una funzione di aggiornamento di una normativa
che sconta il rischio di una obsolescenza legata sia alle innovazioni tecnologiche sia ai mutamenti della
sensibilità sociale. Appare emblematica, sotto il primo profilo, la recente sentenza della Cassazione relativa all’impiego quale tecnica investigativa di software spia 5. Sotto il secondo profilo, si pensi alla recente decisione della Corte di Giustizia che è intervenuta sulla questione relativa ad una possibile violazione dei diritti fondamentali da parte della direttiva 2006/24/CE in materia di data retention, dichiarandone l’invalidità 6.
Ben si comprende, quindi, come in talune ipotesi la prassi assuma uno schietto ruolo di supplenza
rispetto all’inerzia del legislatore. La funzione di supplenza si manifesta soprattutto con riferimento alle
zone d’ombra e alle lacune a margine del nucleo centrale della normativa, corrispondenti, ad esempio,
alla mancata regolamentazione delle videoriprese. Ma assumono altresì rilievo le decisioni della Cassazione e della Corte costituzionale in tema di accesso da parte della difesa alle registrazioni di intercettazioni utilizzate ai fini cautelari anche se non depositate 7.
A una ricostruzione in chiave di prassi correttiva si può forse paradossalmente ricondurre la notissima decisione delle Sezioni unite che ha cercato di regolamentare l’uso troppo disinvolto della motivazione per relationem del decreto autorizzativo alla richiesta del pubblico ministero 8. La stessa decisione
ha riconosciuto un ampio potere di emenda della motivazione insufficiente al giudice cui la questione
sia prospettata. Così «l’incompletezza o l’insufficienza o non la perfetta adeguatezza [...] vanno emen3
Sulla distinzione tra «razionalità rispetto allo scopo» e «razionalità rispetto al valore» v. E. Amodio, Affermazioni e sconfitte
della cultura dei giuristi nella elaborazione del nuovo codice di procedura penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1996, p. 906.
4
V. P. Balducci, La riforma delle intercettazioni: aspetti problematici delle norme all’esame delle Camere, in P. Corso-F. Peroni (a cura di), Studi in onore di Mario Pisani, I, Piacenza, 2010, p. 19 ss.
5
V. Cass., sez. V, 26 maggio 2015, n. 27100: «Le intercettazioni di comunicazioni effettuate tramite l’utilizzo di un virus informatico che consente l’attivazione del microfono e della telecamera dello smartphone da remoto possono essere ammesse, ma
solo con provvedimento motivato del giudice e nei limiti del rispetto della riservatezza». Al riguardo R. Randazzo-M.M. Monaco, Intercettazioni e nuove tecnologie: per la Ferrari è tempo di pit stop, in Centoundici, 2015, 1, p. 15, paragonano lo sviluppo delle
«tecniche di indagine (rectius: spionaggio) all’incedere di una Ferrari, rispetto alle stantie discussioni parlamentari sulle intercettazioni telefoniche, la cui tecnologia invasiva, al confronto, sembra muoversi come un velocipede».
6
Cfr. C. giust. UE, 8 aprile 2014, Digital Rights Ireland LTD c. Minister for Communications, in Guida dir., 2014, 26, p. 93, che
ha dichiarato la direttiva 2006/24 CE, per ingerenza nel diritto alla riservatezza, lesiva del principio di proporzionalità.
7
Con riferimento all’esigenza di una riforma organica che disciplini tutti gli strumenti della tecnica v. G. Spangher, Linee
guida per una riforma delle intercettazioni telefoniche, in Dir. pen. proc., 2008, p. 1209. La materia delle videoriprese è stata oggetto di
interventi, non esaustivi, delle Sezioni unite della Cassazione, che danno rilievo sia alla distinzione tra riprese in luogo pubblico
e riprese nel domicilio sia al carattere in concreto non riservato del comportamento sia alla distinzione tra comportamenti comunicativi e comportamenti non comunicativi. V. Cass., sez. un., 28 luglio 2006, n. 26795, in Guida dir., 2006, 33, p. 51; C. cost.,
sent. 16 maggio 2008, n. 149, in Cass. pen., 2008, p. 4109; C. cost., sent. 24 aprile 2002, n. 135, in Giur. cost., 2002, p. 1062, con nota
di A. Pace e p. 2176, con nota di F. Caprioli; C. cost., sent. 10 ottobre 2008, n. 336, in Giur. cost., 2008, p. 3760, con nota di G. Illuminati, Accesso alle intercettazioni utilizzate in sede cautelare e diritto di copia. La decisione delle Sezioni unite, 22 aprile 2010, n.
20300, in Cass. pen., 2011, p. 477, ha redatto una sorta di regolamento che disciplina il diritto di accesso della difesa.
8
Cass., sez. un., 21 giugno 2000, n. 17, in Cass. pen., 2001, p. 69. V. anche Cass., sez. I, 10 febbraio 2010, n. 9764, in Cass. pen.,
2012, p. 623.
EDITORIALE | PRASSI DEVIANTI E PRASSI VIRTUOSE IN MATERIA DI INTERCETTAZIONI
Processo penale e giustizia n. 1 | 2016
3
date dal giudice cui la doglianza venga prospettata, sia esso il giudice del merito, che deve utilizzare i
risultati delle intercettazioni, sia esso quello dell’impugnazione nella fase di merito o in quella di legittimità, trattandosi di mera irregolarità o tutt’al più di nullità relativa».
Viene indirettamente consacrato il ricorso alla motivazione per relationem ed irrobustito il consolidato orientamento giurisprudenziale che tende a svilire il presupposto probatorio delle intercettazioni e a svuotare di contenuto il vaglio sulla gravità indiziaria, affermando che il giudice non deve
compiere una valutazione sulla fondatezza dell’accusa, ma solo un vaglio di effettiva serietà del
progetto 9.
Costituisce un distinto problema quello inerente alla concreta possibilità per il g.i.p. di compiere una
autonoma valutazione del presupposto probatorio del mezzo captativo, dal momento che il giudice
non è posto in grado di conoscere pienamente la vicenda sottoposta al suo esame, essendo condizionato
dai contenuti della domanda del pubblico ministero. Ne consegue, tra l’altro, la difficoltà di apprezzare
l’indispensabilità ai fini investigativi che «è requisito la cui valutazione è talmente elastica da aver perso qualunque incidenza» 10.
Costituisce una degenerazione della prassi ancor più grave il ricorso alle intercettazioni come a uno
strumento per costruire quella gravità indiziaria che delle intercettazioni dovrebbe costituire il presupposto 11.
La diffusione di tale forma mentis appare evidente dalla lettura di una delibera del Consiglio Superiore della Magistratura dei primi anni di entrata in vigore del codice attuale, che ha rilevato come i
presupposti originari, e in specie la gravità degli indizi, rischiassero di escludere dalla sfera di esperibilità delle intercettazioni «proprio quelle attività criminose in cui spesso è l’intercettazione a consentire
di acquisire il primo indizio» 12.
Successivamente, la riforma del 1991, in piena stagione dell’emergenza, ha ammesso il compimento
di intercettazioni antimafia sulla base di sufficienti indizi. «Scovare indizi sufficienti diventa operazione
banale» 13. «Giuridicamente [quella del CSM è] opinione insostenibile: sarebbe palesemente illegittimo
(anche nel nuovo assetto normativo) violare un diritto fondamentale sulla base di una piattaforma probatoria che non consente neppure di parlare di indizi. […] Comunque […] tali affermazioni sono sintomatiche di come verrà intesa nella prassi la formula che regola i presupposti per le intercettazioni nei
procedimenti di mafia» 14.
Più in generale, appare opportuno un irrobustimento del corredo motivazionale dell’autorizzazione
delle intercettazioni, che diverrebbe così «insuscettibile di rimaneggiamenti successivi […] visto il rilievo costituzionale riconosciuto alla motivazione del provvedimento limitativo della segretezza delle
comunicazioni nell’art. 15, comma 2, Cost» 15.
Sotto un diverso profilo, il largo impiego delle intercettazioni costituisce il riflesso di ulteriori disfunzioni del sistema, quali la applicazione forse inconsapevole di una sorta di best evidence rule alla rovescia, che, in aperto contrasto con i principi del sistema accusatorio, privilegia la prova documentale –
in senso lato – rispetto alla prova orale. Si pensi all’ampio ricorso, registrato nell’ultimo scorcio, alle intercettazioni dei colloqui dell’imputato detenuto con i familiari.
9
V., da ultimo, Cass., sez. III, 13 aprile 2015, n. 14954, in CED Cass., n. 263044, secondo la quale, in tema di intercettazione di
conversazioni o comunicazioni, il presupposto della sussistenza dei gravi indizi di reato, non va inteso in senso probatorio (ossia come valutazione del fondamento dell’accusa), ma come vaglio di particolare serietà delle ipotesi delittuose configurate, che
non devono risultare meramente ipotetiche.
10
P. Profiti, Intervento, in Quale riforma per la disciplina delle intercettazioni?, in Questione giustizia, 2006, 6, p. 1216 ss.
11
G. Spangher, Linee guida per una riforma delle intercettazioni telefoniche, cit., 2008, p. 1209, parla di pesca a strascico.
12
V. la delibera del 21 giugno 1990 del CSM, in Indice pen., 1991, p. 233.
13
A. Camon, Le intercettazioni nel processo penale, Milano, 1996, p. 81.
14
A. Camon, Le intercettazioni nel processo penale, cit., p. 81.
15
M.L. Di Bitonto, Lungo la strada per la riforma delle intercettazioni, in Cass. pen., 2009. Nel senso che «i guasti più rilevanti
sembrano dovuti […] a una ridotta efficienza dell’obbligo di motivazione quale garanzia di effettività del controllo giudiziale»
v. G. Leo, Intervento, in Quale riforma per la disciplina delle intercettazioni?, cit., p. 1217.
EDITORIALE | PRASSI DEVIANTI E PRASSI VIRTUOSE IN MATERIA DI INTERCETTAZIONI
Processo penale e giustizia n. 1 | 2016
PRASSI GIURISPRUDENZIALI VIRTUOSE.
LES IRRAZIONALI
4
LA RICONDUZIONE SUI BINARI DELLA LEGALITÀ DI LEGES SPECIA-
Accanto a prassi devianti consistenti nella disapplicazione di una normativa razionale, si annoverano
prassi virtuose talora consistenti, paradossalmente, nella speculare disapplicazione di una normativa
irrazionale. Prassi virtuose si sono sviluppate con riferimento non tanto al nocciolo duro dell’istituto
delle intercettazioni, ma a quelle zone d’ombra che circondano la disciplina della materia e che hanno
costituito terreno di sviluppo di leggi speciali ad alto tasso di irrazionalità.
Si pensi alla frettolosa introduzione della disciplina in tema di intercettazioni illegali che appartiene
a pieno titolo alla c.d. legislazione dell’emergenza, condizionata da situazioni contingenti e, in particolare, dall’emersione del caso del dossieraggio abusivo Telecom.
La reazione dell’ordinamento si è incentrata sulla previsione di una ipotesi di inutilizzabilità rafforzata dalla distruzione immediata dei dati conoscitivi illecitamente formati, nonché sulla introduzione di
un procedimento camerale di nuovo conio finalizzato alla decisione sulla istanza di distruzione presentata dal pubblico ministero e alla formazione di un verbale che dovrebbe svolgere in dibattimento la
funzione di surrogato della principale prova a carico ormai andata distrutta. L’oggetto della decisione
consiste nella verifica della fondatezza dell’istanza di distruzione presentata dall’organo dell’accusa,
che, tuttavia, coincide con l’accertamento dell’illiceità della condotta di captazione o di raccolta di dati 16. L’intervenuta valutazione di illiceità presuppone necessariamente un accertamento dei fatti nel
contesto di un procedimento a cognizione sommaria celebrato di fronte al giudice per le indagini preliminari 17.
Tale antistorica soluzione – cristallizzando in un verbale la prova della illiceità della condotta – evoca modelli inquisitori e impone all’imputato la probatio diabolica di contrastare in dibattimento la tesi
dell’accusa suffragata da prove ormai distrutte. Appare del tutto evidente l’inidoneità di una procedura
incidentale, caratterizzata dalla sommarietà della delibazione, e, in origine, dalla mera eventualità del
contraddittorio, a costituire la sede per un accertamento sull’origine illecita della documentazione e sostanzialmente per lo svolgimento di un giudizio anticipato di merito 18.
Nel caso Telecom, il giudice per le indagini preliminari ha sottolineato come la valutazione sulla
istanza di distruzione postulasse un’anticipazione definitiva di giudizio sulla sussistenza di una porzione della condotta criminosa, con la conseguenza che il giudice doveva applicare lo stesso standard
del giudizio di merito ovvero l’oltre ogni ragionevole dubbio (bard). Fatte salve le ipotesi di reato per
cui era certa ed evidente la prova della illiceità della condotta, il giudice ha quindi ritenuto che, qualora
le parti contestassero i presupposti per la distruzione e chiedessero di potere articolare prove, occorresse rigettare l’istanza di distruzione.
Il sasso lanciato dal g.i.p. con l’ordinanza che rigettava l’istanza di distruzione per tutta una serie di
reati è stato raccolto dalla Corte d’assise che, con ordinanza del 18 maggio 2011, ha acquisito al fascicolo
16
Deve esser accertata cioè la sussistenza dei presupposti per l’applicazione della sanzione dell’inutilizzabilità rafforzata.
Prima facie, pertanto, l’udienza in questione verte su questioni meramente processuali. Tuttavia l’oggetto della decisione richiede al giudice di compiere una piena valutazione di merito in ordine all’accertamento dei fatti e alla responsabilità dell’imputato.
17
Come è noto, non sono mancate censure di illegittimità costituzionale che investivano le linee portanti dell’intera normativa in materia di intercettazioni abusive, evidenziando come il meccanismo di anticipata eliminazione definitiva della prova
realizzasse «un irragionevole bilanciamento tra diritti di difesa dell’indagato, diritti delle parti offese e potestà punitiva del
pubblico ministero, avendo il legislatore preferito privilegiare le ragioni della riservatezza, con totale sacrificio di altri valori di
rilievo costituzionale». Altrettanto incisive le osservazioni circa il vulnus arrecato dalla distruzione dei documenti alla tutela
giurisdizionale della persona offesa, con riferimento al diritto di quest’ultima al risarcimento del danno. V. Trib. Milano, ord. 30
marzo 2007, XY, in Guida dir., 2007, 22, p. 62, con nota di A. Cisterna, Prevedibile una restituzione di atti in attesa di nuove eccezioni.
18
La funzione dell’udienza, preordinata alla formazione di un verbale configurato quale equipollente della prova – a carico
– andata distrutta, richiede, quanto meno, l’applicazione delle forme dell’incidente probatorio attraverso la previsione di un
contraddittorio necessario e l’operatività delle modalità dibattimentali di assunzione della prova. Appariva al contrario inappagante la scelta del modulo camerale di genere nel quale non assumevano rilievo i legittimi impedimenti dei difensori. La Corte
costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 240, commi 4 e 5, c.p.p. nella parte in cui non prevedeva, nel procedimento,
l’applicazione delle stesse garanzie in materia di contraddittorio previste dall’art. 401, commi 1 e 2, c.p.p. per l’incidente probatorio. Appare illuminante il riferimento presente nella decisione della Consulta all’art. 111, comma 4, Cost. riferimento obbligato
in presenza di una «normativa mirata alla formazione di una fonte di prova anticipata rispetto alle successive fasi del processo».
Così C. cost., sent. 11 giugno 2009, n. 173, in Dir. pen. proc., 2010, p. 195, con nota di C. Conti, Intercettazioni illegali: la Corte costituzionale riequilibra un bilanciamento “claudicante”.
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del dibattimento, quale corpo del reato, tutti i dossier in ordine ai quali il g.i.p. aveva ritenuto di non
dover accogliere la richiesta di distruzione 19.
Viene svuotata di significato la previsione della inutilizzabilità rafforzata dalla distruzione di cui
all’art. 240 c.p.p., attraverso una giurisprudenza creativa e coraggiosa. La case law in progress ha
somministrato una interpretazione correttiva che viene a ridimensionare drasticamente l’ambito di
operatività dell’istituto e che tenta di ridurre l’irrazionalità di una normativa evidentemente mal
congegnata sia sul piano del contemperamento degli interessi sia sul piano della compatibilità con il
sistema processuale.
DALLA REAZIONE ALLA RESA DEL LEGISLATORE DI FRONTE ALLE DEVIAZIONI DELLA PRASSI
L’evoluzione normativa e giurisprudenziale in materia di intercettazioni illegali mette in luce quella
forte caratura politica e mediatica del tema che rende difficile arrivare ad una riforma condivisa.
L’istituto delle intercettazioni costituisce, infatti, uno dei terreni più fertili per la elaborazione di progetti di legge diretti alla totale ristrutturazione della materia. Tuttavia, l’arena del dibattito sulle intercettazioni è stata spesso costituita da quel circo mediatico giudiziario che rinvia all’uditorio gli echi di discussioni cariche di suggestioni emotive ma povere di contenuti giuridici 20.
L’impossibilità di arrivare a una riforma è dovuta forse ad una ragione più semplice. La disciplina
attuale è imperfetta, ma in fondo equilibrata nel bilanciamento tra i diversi interessi coinvolti: la tutela
della segretezza delle comunicazioni, la tutela dell’esigenza di reprimere i reati costituzionalmente rilevante ex art. 112 Cost., il diritto alla privacy, il diritto di difesa.
È piuttosto lo scarto tra norma e diritto vivente che contribuisce ad alimentare il dibattito sulla riforma delle intercettazioni, venendo ad acuire i profili di attrito tra gli interessi in conflitto.
Si pensi allo strano caso dell’udienza di stralcio. Come è noto, il nostro codice prevede una procedura di stralcio diretta a selezionare, all’interno della messe delle comunicazioni intercettate, il materiale
probatorio rilevante.
Il diritto vivente fa registrare, tuttavia, una quasi sistematica disapplicazione dell’udienza di stralcio 21. Di regola, il pubblico ministero chiede e il giudice dispone, con il consenso almeno tacito dei difensori, l’acquisizione e la trascrizione di tutte le registrazioni, senza alcun vaglio di rilevanza. Le trascrizioni vengono inserite nel fascicolo del dibattimento. Divengono così agevolmente conoscibili anche
le conversazioni non rilevanti.
L’acquisizione e la trascrizione di tutte le registrazioni, assecondata per inerzia da magistrati e difensori, viene a scaricare nel processo una massa incontrollabile di informazioni irrilevanti. La diversa
prassi consistente nel rinvio delle operazioni di selezione del materiale rilevante alla fase pienamente
processuale apre uno strappo meno evidente, ma non del tutto indolore, nel tessuto normativo.
Nell’ammettere la compatibilità con la Costituzione di quest’ultima soluzione, la Consulta ha intrapreso la via della correzione piuttosto che della censura della prassi deviante, prospettando la possibile
19
V. Ass. Milano, ord. 18 maggio 2011, Pres. Gamacchio, in Dir. pen. cont., 18 maggio 2011; Trib. Milano, 25 ottobre 2010,
G.i.p. Gennari, in Dir. pen. cont., 25 ottobre 2010. V., in materia, M. Chiavario, Passi avanti sulle intercettazioni illegali ma c’è bisogno
di un ampio ripensamento, in Guida dir., 2006, 39, p. 12. Di “sintassi giuridica sgangherata”, con riferimento alla stessa nozione di intercettazioni illegali parla G. Giostra, Quale utilizzabilità delle intercettazioni abusive?, in Cass. pen., 2006, p. 3494. V. anche sul tema
F. Siracusano, Raccolta illecita di informazioni e procedimento incidentale per la distruzione dei dati, in M. Montagna (a cura di), Gli
accertamenti complementari, Torino, 2011, p. 775; G. Tabasco, Documenti illegali e procedura di distruzione dei dati personali illecitamente conseguiti, Padova, 2013.
20
Il riferimento è, come è ovvio, a D. Soulez Larivière, Il circo mediatico giudiziario (1993), trad. it., Macerata, 1994.
21
Va rilevato al riguardo come l’uso pacifico dei brogliacci in sede cautelare e nei procedimenti a prova contratta depotenzia
ma non neutralizza il significato garantista della udienza di stralcio. V. M.F. Febbraro, La procedura di stralcio nell’ambito delle intercettazioni di conversazioni e di comunicazioni, in M. Montagna (a cura di), Gli accertamenti complementari, cit., p. 825. Un capitolo a
parte riguarda le ipotesi in cui le intercettazioni sono inutilizzabili «per ragioni sostanziali derivanti dalla violazione di una protezione assoluta del colloquio», con la conseguenza che il contraddittorio «risulterebbe antitetico rispetto alla ratio della tutela».
Così C. cost., 15 gennaio 2013, n. 1, in Cass. pen., 2013, p. 1347, con nota di R. Orlandi, Distruggete quelle intercettazioni. V. anche
N. Galantini, Un commento a prima lettura della sentenza sul conflitto di attribuzione tra il Capo dello Stato e la Procura di Palermo, in
Dir. pen. cont. riv. trim., 2013, 1, p. 237. Sul punto specifico v. le osservazioni puntuali di P. Tonini, Manuale breve di diritto processuale penale, Milano, 2015, p. 286.
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celebrazione di parte del dibattimento a porte chiuse a tutela della privacy, in applicazione estensiva
dell’art. 472, comma 2, c.p.p. 22.
Assume il sapore di una resa di fronte alle distorsioni del diritto vivente la scelta, fatta propria dal
legislatore con il disegno di legge delega per la riforma delle intercettazioni, di omettere ogni riferimento all’udienza di stralcio.
La menzione della udienza di stralcio contenuta nella originaria versione del disegno di legge delega
per la riforma delle intercettazioni è infatti stata consapevolmente soppressa nel testo definitivo del disegno di legge approvato dalla Camera in data 23 settembre 2015 e quindi trasmesso al Senato 23. A ben
vedere, si potrebbe pensare, piuttosto che a una resa del legislatore, a una presa di coscienza circa la
portata culturale prima che normativa dei fenomeni patologici o atipici che caratterizzano i profili applicativi delle norme sulle intercettazioni.
LE ORDINANZE DI CUSTODIA CAUTELARE QUALE VEICOLO LEGITTIMO DI DIVULGAZIONE DI DATI RISERVATI. IL RACCORDO TRA HARD LAW E SOFT LAW
Il rapporto malato tra media e giustizia assume un ruolo di primo piano nella diagnosi dei profili disfunzionali nel regime delle intercettazioni. Tuttavia, il dato fattuale che la cronaca giudiziaria tenda ad
abdicare alla propria funzione di “cane da guardia” della democrazia non giustifica limitazioni drastiche di quella informazione mediata che rappresenta lo strumento privilegiato per il controllo democratico sull’amministrazione della giustizia 24.
La previsione di un totale o parziale black out informativo sugli esiti delle intercettazioni fino alla chiusura delle indagini, prospettata da taluni progetti di riforma, sarebbe una misura antidemocratica e, al tempo
stesso, inefficace, alla luce del dato fattuale che già ora i divieti di pubblicazione esistenti sono ampiamente
elusi 25. Proprio la ineffettività del divieto di pubblicazione di atti è stata assunta a paradigma di quelle prassi devianti che «danno vita a una procedura penale invisibile, a un diritto informale pericoloso» 26.
Piuttosto, si dovrebbe prevedere che il segreto sui risultati delle intercettazioni cada solo con quando
tali risultati siano stati acquisiti dal giudice all’esito della udienza filtro e che i risultati delle intercettazioni non rilevanti siano conservati in apposito archivio riservato sotto copertura di segreto 27.
Un capitolo a parte è costituito dall’impiego dei risultati delle intercettazioni alla base di atti processuali suscettibili di pubblicazione. Si pensi alla frequenza con la quale le ordinanze di custodia cautelare costituiscono un veicolo di divulgazione, legittimo, dei contenuti delle intercettazioni e, quindi, di
dati riservati. Non di rado, all’interno di una ordinanza che dispone una misura cautelare, compaiono
ampi passi di conversazioni intercettate relativi a dati non rilevanti. Il problema appare culturale piuttosto che normativo. Più in generale, si pone la necessità di una diversa tecnica di redazione delle ordinanze cautelari, troppo spesso appiattite sulla richiesta del pubblico ministero che viene ricalcata in
modo quasi testuale.
Altre volte la divulgazione di dati riservati e non pertinenti attraverso provvedimenti giudiziari si
colloca sul confine tra fisiologia e patologia. Così, la giurisprudenza della Cassazione civile in materia
disciplinare ha inquadrato in termini di abuso del processo l’adozione di un provvedimento di perquisizione e sequestro il quale «si connotava, per la prevedibile (e avvenuta) divulgazione pubblica, stante
la rilevanza, come provvedimento avente una oggettiva funzione divulgativa e mediatica di propalazione di notizie proceduralmente irrilevanti» 28.
22
C. cost., ord. 5 novembre 2012, n. 255, in Cass. pen., 2013, p. 655, con osservazioni di E. Aprile. V. anche F. Caprioli, Tutela
della privacy e vaglio dibattimentale di rilevanza delle comunicazioni intercettate, in Giur. cost., 2012, p. 4097.
23
Si tratta del Disegno di legge C.2798 – Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale per il rafforzamento delle garanzie
difensive e la durata ragionevole dei processi nonché all’ordinamento penitenziario per l’effettività rieducativa della pena.
24
Sul fondamento costituzionale delle note garanzie in tema di pubblicità mediata v. E. Amodio, Motivazione della sentenza
penale, in Enc. Dir., XXVII, Milano, 1977, p. 226; G.P. Voena, Mezzi audiovisivi e pubblicità delle udienze, Milano, 1984.
25
V. G. Giostra, Limiti alla conoscibilità dei risultati delle intercettazioni: segreto investigativo, garanzie individuali, diritto di cronaca,
in Le intercettazioni di conversazioni e di comunicazioni. Un problema cruciale per la civiltà e l’efficienza del processo e per le garanzie dei
diritti, cit., p. 405.
26
E. Amodio, Il processo penale tra disgregazione e recupero del sistema, in Indice pen., 2003, p.12.
27
V. V. Grevi, Le intercettazioni come mero mezzo di ricerca di riscontri probatori?, in Cass. pen., 2009.
28
Cass. civ., sez. un., 24 settembre 2010, n. 20159, secondo la quale il provvedimento di perquisizione in esame si caratteriz-
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Andrebbe promosso un cambiamento culturale attraverso la valorizzazione del raccordo tra norme
processuali e norme deontologiche. Sul crinale tra sociologia e diritto si colloca l’esigenza di maturare
una diversa cultura di ceto tanto da parte dei giuristi quanto da parte dei professionisti coinvolti nella
rappresentazione mediatica del processo. La conduzione del processo con strumenti mediatici si presta
inoltre a rappresentare una scelta tattica del difensore che opti per una strategia processuale aggressiva.
Né può seriamente contestarsi l’esistenza di una «stretta interdipendenza tra la professionalità del cronista» e la conservazione di un rapporto equilibrato tra media e giustizia 29. Al riguardo, diffusioni di dati
riservati, lecite ai sensi dell’art. 114 c.p.p., possono risultare contrarie ai principi dettati dal codice privacy e
dalla deontologia nell’esercizio della professione di giornalista. Infatti, gli artt. 2 e 137 cod. privacy impongono al giornalista di rispettare i principi dell’essenzialità dell’informazione, «dei diritti e delle libertà
fondamentali, nonché della dignità dell’interessato».
Alla luce della pertinente soft law non pare sempre giustificata la diffusione di notizie riguardanti
terzi estranei alla vicenda giudiziaria captate dagli strumenti a disposizione della magistratura. È significativo come il comunicato del Garante per la protezione dei dati personali del 6 maggio 2004, in tema
di “Privacy e giornalismo”, abbia richiesto al giornalista di astenersi «dal diffondere i nomi e altre informazioni che riguardino persone che non risultano coinvolte nelle indagini e che appaiono invece collegate ai protagonisti dei fatti narrati, ad esempio, solo in ragione di precedenti relazioni sentimentali e
convivenze avute con le stesse, ovvero in virtù di mere circostanze di fatto».
Questi principi hanno trovato più volte applicazione da parte del Garante con riferimento alla pubblicazione del contenuto delle trascrizioni di intercettazioni. Così, il Garante si è pronunciato in ordine
al caso di un articolo che conteneva la pubblicazione di un apprezzamento volgare relativo a persona
identificata, tratto dalle conversazioni intercettate tra due indagati in un procedimento penale, conversazioni riportante nell’ordinanza di custodia cautelare a carico di uno dei due. Il garante ha ritenuto
che, ancorché fosse caduto il segreto, la riportata trascrizione dell’espressione volgare riferita da uno
degli interlocutori alla persona costituisse trattamento di un dato personale che non risultava indispensabile rispetto all’essenzialità dell’informazione e che appariva lesivo della dignità dell’interessata e
dunque in contrasto con i principi e i diritti di cui al codice privacy 30.
Anche il provvedimento del Garante “Pubblicazione di intercettazioni telefoniche e dignità della
persona” del 21 giugno 2006 rileva come «l’indiscriminata pubblicazione di trascrizioni di intercettazioni di numerose conversazioni telefoniche, specie quando finisca per suscitare la curiosità del pubblico su aspetti intimi e privati senza rispondere integralmente ad un’esigenza di giustificata informazione
su vicende di interesse pubblico, possa configurare anche una violazione delle disposizioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo».
Il divieto di divulgazione dei risultati delle intercettazioni non rilevanti è quindi un percorso già intrapreso dai provvedimenti del Garante, a riprova della forte caratura politica e sociologica di una materia, quella delle intercettazioni, particolarmente permeabile all’assetto e alla sensibilità della società 31.
L’esigenza di maturare una diversa cultura di ceto tanto da parte dei giornalisti che dei giuristi è
messa in luce anche dalle recenti “confessioni di un giudice” che ravvisa nelle divulgazioni dei risultati
delle intercettazioni, rilevanti o meno, una fonte inesauribile di alimentazione di quel parallelo processo
zava per la «lunghezza (ben 1418 pagine), e il contenuto abnorme (caratterizzato dall’inserimento di numerose utenze telefoniche, fisse e mobili, intestate a persone fisiche, istituzioni pubbliche – presidenza della Repubblica, Parlamento, Governo, Magistratura – o appartenenti alle stesse, ad enti e associazioni, a difensori di parti private e ad altri soggetti terzi, senza attinenza
con l’oggetto e la finalità dei provvedimenti […]) per la “motivazione” (inserimento di "numerosissimi dati personali riguardanti una moltitudine di soggetti estranei al procedimento, trascrizione pressoché integrale di una serie di atti procedurali, senza la
chiara individuazione della pertinenza di ciascuno di essi rispetto all’oggetto dell’indagine in corso e dunque alla funzione propria degli atti di ricerca della prova)». La violazione dei doveri del magistrato sarebbe derivata dall’aver omesso di filtrare, valutare ed eliminare tutti gli argomenti non necessari e che comunque avrebbero potuto arrecare danno ingiusto alle persone peraltro estranee all’indagine.
29
G. Giostra, Processo penale e mass-media, in Criminalia, 2007, p. 57.
30
Il Consiglio dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia ha sanzionato con la censura i direttori responsabili del quotidiano. V., sull’intera vicenda, la ricostruzione puntuale di G. Mantovani, Informazione giustizia penale e diritti della persona, Napoli,
2011, p. 393.
31
È significativo come una carrellata dei “danni prodotti da una fallace estetica della storiografia” annoveri, quali casi emblematici alcuni casi di fallace estetica della cronaca giudiziaria. V. M. Bloch, Apologia della storia. O mestiere di storico (1949), trad.
it., Torino, 1950, p. 94.
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mediatico, che potrà produrre comunque una «dura condanna, che spesso può far male quasi quanto
una vera» 32.
Costituisce, del resto, un rilievo diffuso la constatazione circa il ridimensionamento dell’ambito del
giuridico rispetto alla sempre maggior rilevanza assunta, nel condizionare la fisionomia di una società,
da altri poteri, quali l’ambito della comunicazione e dei media 33.
32
P. Tony, Io non posso tacere. Confessioni di un giudice di sinistra, Torino, 2015, p. 71, parla provocatoriamente di “teoria dei
bigné”, offerti ai giornalisti, attraverso l’inserimento delle intercettazioni nei fascicoli e altrettanto provocatoriamente individua
una correlazione tra la disinvoltura con la quale vengono offerti i bigné e la difficoltà con cui gli inquirenti gestiscono un’indagine.
33
E. Di Robilant, Il diritto nella società industriale, in Riv. int. fil. dir., 1973, p. 225. V. Anche P. Heritier, Introduzione a P. Legendre, Della società come testo. Lineamenti di un’antropologia dogmatica, Torino, 2005, p. 5.
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Scenari
Overviews
SCENARI | NOVITÀ SOVRANAZIONALI
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NOVITÀ SOVRANAZIONALI
SUPRANATIONAL NEWS
di Andrea Conti
IL TRATTATO DI ESTRADIZIONE TRA ITALIA E CINA
Con l. 24 settembre 2015, n. 161 (in G.U., 9 ottobre 2015, n. 235) il Parlamento ha autorizzato la ratifica e
l’esecuzione del Trattato di estradizione tra la Repubblica italiana e la Repubblica popolare cinese, stipulato a Roma il 7 ottobre 2010.
Si tratta dell’intesa “gemella” di quella in materia di reciproca assistenza giudiziaria, sottoscritta in
pari data e già ratificata dal nostro Paese con l. 29 aprile 2015, n. 64 (in G.U., 19 maggio 2015, n. 114). Si
arricchisce, dunque, il quadro delle intese bilaterali tra Italia e Cina, volte a promuovere e a migliorare
l’azione di contrasto alla criminalità «sulla base del reciproco rispetto della sovranità, dell’uguaglianza e del mutuo vantaggio» (v. il Preambolo). In quest’ottica, come sottolineato durante i lavori parlamentari, il nuovo
Trattato «mira a dare una base obbligatoria» a rapporti sino ad ora svoltisi sul piano «della cortesia internazionale». L’intensificarsi delle relazioni economiche reciproche, che ha contrassegnato gli ultimi anni,
ha, infatti, «reso oltremodo opportuno dare una veste giuridica cogente alle relazioni italo-cinesi in campo giudiziario», nell’ottica del rafforzamento dell’«azione di contrasto dei fenomeni criminali perseguita in collaborazione con i Paesi esterni all’area dell’Unione Europea».
Come si legge nella relazione tecnica al d.d.l. n. 5507 A.C., «nel medio e lungo periodo la ratifica dell’Accordo consentirà una maggiore cooperazione giudiziaria fra i due Paesi e di conseguenza rafforzerà la fiducia reciproca nei rispettivi sistemi di giustizia, presupposto indefettibile e necessario per il reciproco riconoscimento delle
sentenze e per una collaborazione nel settore penale di valenza transnazionale».
Il Trattato in esame si compone di 21 articoli. Il testo è redatto nelle lingue italiana, cinese ed inglese,
testi tutti egualmente autentici, con la precisazione che, in caso di controversie in materia interpretativa,
farà fede quello in lingua inglese.
L’art. 1 del Trattato definisce il dovere reciproco di estradizione che grava su ciascuna delle Parti
Contraenti, in vista della consegna di persone – presenti nello Stato richiesto – ricercate dallo Stato richiedente, al fine di dare corso ad un procedimento penale (estradizione processuale) o di eseguire una
condanna alla reclusione inflitta a loro carico (estradizione esecutiva) e deve avvenire secondo le modalità descritte nel Trattato; inoltre, l’obbligo in esame riguarda coloro che si trovano nel territorio dello
Stato richiesto e che sono ricercati dallo Stato richiedente.
In accordo con i principi generali, il Trattato individua i reati che danno luogo all’estradizione (art.
2). In particolare, due sono le condizioni previste affinché il fatto, posto alla base della domanda della
Parte richiedente, renda possibile l’estradizione. In primo luogo, la condotta – in ossequio al principio
della previsione bilaterale del fatto – deve costituire reato per entrambi gli ordinamenti interessati (art.
2, § 1). In secondo luogo, il fatto di reato deve essere punibile, ai sensi della legge di entrambi gli Stati,
con la pena della reclusione non inferiore ad un anno, se viene richiesta l’estradizione processuale (art.
2, § 1, lett. a), o non inferiore a sei mesi, nel caso di estradizione esecutiva (art. 2, § 1, lett. b).
Con riferimento alle caratteristiche dei fatti che possono dare luogo all’estradizione va sottolineato
che, se la richiesta di estradizione riguarda più di un fatto di reato, è sufficiente – fermo restando il
principio della doppia incriminazione – che solo uno di essi soddisfi le condizioni fissate dall’articolo 2,
§ 1, del Trattato (art. 2, § 3). Il principio della doppia incriminazione trova, peraltro, un temperamento
in ambito fiscale – precisamente in materia di tasse, imposte, dogane, cambi e altri obblighi finanziari –
rispetto al quale l’estradizione potrà essere accordata anche quando la disciplina dello Stato richiesto
risulti differente da quella dello Stato richiedente (art. 2, § 4).
Il Trattato distingue ipotesi di rifiuto obbligatorio ed ipotesi di rifiuto facoltativo della domanda di
SCENARI | NOVITÀ SOVRANAZIONALI
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estradizione. Quanto al primo gruppo, ai sensi dell’articolo 3 del Trattato, l’estradizione – in linea con le
previsioni pattizie internazionali – non è concessa con riferimento ad alcune tipologie di reato: i reati
politici – dai quali esulano i reati di terrorismo – (lett. a) e i reati militari (lett. c). Altri motivi di rifiuto
obbligatorio riguardano: le ipotesi in cui lo Stato richiesto abbia motivo di ritenere che l’estradizione sia
stata richiesta al fine di perseguire o punire l’estradando per motivi attinenti alla razza, al sesso, alla religione, alla nazionalità o all’opinione politica dell’estradando, ovvero che la posizione di tale soggetto
nel procedimento possa essere pregiudicata per uno dei predetti motivi (lett. b); il caso in cui il reato per
cui viene richiesta l’estradizione sia oggetto di un provvedimento, individuale o generale, di clemenza
dello Stato richiesto, oppure trovi applicazione una causa di estinzione del reato o della pena (lett. d).
Vengono poi considerati: il principio del ne bis in idem, in forza del quale l’estradizione è negata quando
lo Stato richiesto abbia emesso una sentenza definitiva per lo stesso fatto per cui è chiesta l’estradizione,
ovvero abbia concluso definitivamente il procedimento penale nei confronti della persona richiesta per
quel reato (lett. e); il fondato motivo di ritenere che l’estradando venga – o sia già stato – sottoposto a
tortura o ad altro trattamento o punizione crudele, inumano o umiliante (lett. f) e il caso in cui l’estradizione possa compromettere la sovranità, la sicurezza, l’ordine pubblico o altri interessi essenziali dello Stato richiesto oppure possa determinare conseguenze contrastanti con i principi fondamentali della
sua legislazione nazionale (lett. g). Quest’ultimo motivo di rifiuto comprende anche il caso dell’esecuzione di una pena di specie vietata dalla legge dello Stato richiesto.
Quali motivi di rifiuto facoltativo, l’articolo 4 annovera il caso in cui lo Stato richiesto rivendichi la
propria giurisdizione sul reato oggetto della richiesta, ovvero quando risulti pendente un procedimento
penale per il medesimo reato (lett. a) e l’ipotesi in cui la consegna dell’estradando risulti incompatibile
con valutazioni di carattere umanitario, in considerazione dell’età, delle condizioni di salute o delle altre condizioni personali rilevanti (lett. b).
Completa il quadro dei casi ostativi all’estradizione l’articolo 5 del Trattato, che riconosce il diritto
delle Parti Contraenti di negare l’estradizione del proprio cittadino. Qualora si avvalga di tale previsione, lo Stato richiesto, su domanda dello Stato richiedente, dovrà sottoporre la questione alle proprie
Autorità Giudiziarie (art. 5, § 2) e dovrà tenere debitamente informato lo Stato richiedente (art. 5, § 3).
La richiesta di estradizione, ai sensi di quando dispone l’articolo 7 del Trattato, deve essere redatta
per iscritto e deve contenere, oltre all’indicazione dell’Autorità richiedente e dei dati anagrafici
dell’estradando, l’esposizione dei fatti costituenti reato – in particolare, dovranno essere descritte la
condotta e le conseguenze del reato, oltre alla data e al luogo di consumazione –, il titolo del reato, il
quantum di pena e il testo delle disposizione di legge violate. A tale documentazione dovrà essere aggiunta anche la copia autentica del mandato di arresto, nel caso di estradizione processuale, oppure la
copia autentica della sentenza esecutiva, con l’indicazione della pena eventualmente già scontata, nel
caso di estradizione esecutiva (art. 7, § 2).
Nell’ipotesi in cui le informazioni fornite dallo Stato richiedente non siano sufficienti, lo Stato richiesto potrà richiedere informazioni aggiuntive (art. 8, § 1). La mancata presentazione di tali informazioni
allo Stato richiesto nel termine perentorio di quarantacinque giorni, equivale a rinuncia della domanda
di estradizione (art. 8, § 2), fatta comunque salva la possibilità di avanzare una nuova richiesta di estradizione.
La libertà personale dell’estradando è disciplinata dall’articolo 9 del Trattato rubricato “arresto
provvisorio”. Secondo tale norma, in caso di urgenza, lo Stato richiedente potrà, mediante atto scritto
contenente le informazioni indicate dall’articolo 7 e la dichiarazione che successivamente sarà presentata richiesta formale di estradizione, domandare che il soggetto di cui viene chiesta l’estradizione venga
arrestato in via provvisoria. Tale misura coercitiva perderà efficacia se, decorsi trenta giorni
dall’arresto, lo Stato richiedente non abbia formulato domanda di estradizione (art. 9, § 4). In presenza
di ragionevoli motivi, lo Stato richiesto potrà concedere allo Stato richiedente una proroga del termine
di quindici giorni.
L’articolo 10 del Trattato precisa che l’estradizione è regolata secondo le procedure previste dal diritto interno di ciascuna Parte Contraente, con l’aggiunta dell’obbligo di informare dell’esito della procedura lo Stato richiedente e di notificargli i motivi dell’eventuale rifiuto. Ciò significa che, per quanto riguarda il nostro Paese, il procedimento di estradizione sarà regolato dagli artt. 697-722 c.p.p.
Con riferimento alla consegna della persona per cui l’estradizione è stata richiesta, le Autorità italiane e cinesi – designate ai sensi dell’articolo 6 del Trattato – individuano il tempo e il luogo della consegna, la quale deve avvenire entro quaranta giorni dalla data in cui lo Stato richiedente ha ricevuto notiSCENARI | NOVITÀ SOVRANAZIONALI
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zia dell’avvenuta concessione dell’estradizione (art. 11, § 1). Laddove tale tempistica non venga rispettata, lo Stato richiesto pone, senza indugio, in libertà l’estradato. Tale circostanza, fatta salva l’ipotesi in
cui il mancato rispetto del termine sia dovuto a forza maggiore (art. 11, § 3), influenzerà negativamente
la valutazione di una nuova richiesta di estradizione concernente il medesimo soggetto (art. 11, § 2).
Nell’ipotesi in cui l’estradato, avvenuta la consegna, fugga dallo Stato richiedente e ritorni nello Stato
richiesto prima che sia concluso il procedimento penale o sia stata interamente eseguita la pena, potrà essere nuovamente estradato sulla base di una nuova richiesta di estradizione, che, però, non dovrà più
contenere – come in prima battuta – tutti i documenti previsti dall’articolo 7 del Trattato (art. 11, § 4).
Il Trattato prevede anche la possibilità di consegna differita – qualora l’estradando sia sottoposto
nello Stato richiesto a processo penale o all’esecuzione di una pena per un reato diverso – (art. 12, § 1), e
quella di consegna temporanea per consentire la celebrazione di un processo penale nello Stato richiedente, ma solo se ciò risulti ammissibile ai sensi di quanto prevede la disciplina nazionale (art. 12, § 2).
Dopo aver individuato i criteri che devono essere seguiti nel caso in cui vengano avanzate richieste
di estradizione da più Stati differenti (art. 13), il Trattato enuncia il principio di specialità. L’articolo 14
del Trattato afferma che la persona estradata non può essere perseguita o arrestata ai fini dell’esecuzione di una condanna per un qualsiasi reato commesso anteriormente alla consegna e diverso da quello che ha dato luogo all’estradizione. Tale principio non opera in tre casi: se vi sia il consenso dello Stato
richiesto (lett. a); se l’estradato non abbia abbandonato il territorio dello Stato richiedente entro trenta
giorni da quanto ha avuto la possibilità di farlo (lett. b); oppure se abbia volontariamente fatto ritorno
nello Stato richiedente (lett. c).
Il Trattato prevede, inoltre, la possibilità di consegna di cose pertinenti al reato. Infatti, l’articolo 15
del Trattato prevede che, su domanda dello Stato richiedente e nei limiti consentiti dal diritto nazionale
in materia di sequestro e confisca, possano essere consegnati i proventi e gli strumenti del reato e tutte
le altre cose che possono servire come prova. Tale consegna sarà effettuata anche quando l’estradizione,
sebbene già accordata, non possa avere luogo per morte, scomparsa o fuga dell’estradando (art. 15, § 2).
In ogni caso, la consegna non deve pregiudicare – si specifica – gli eventuali diritti o interessi legittimi
che lo Stato richiesto o un terzo possono vantare sui beni consegnati (art. 15, § 4).
Una specifica disciplina è poi dedicata al transito attraverso il territorio delle Parti Contraenti delle
persone estradate che devono essere consegnate ad una Parte Contraente da parte di uno Stato terzo
(art. 16). È, inoltre, regolato lo scambio, puntuale e tempestivo, di informazioni tra gli Stati, sia in relazione al procedimento penale e all’esecuzione della condanna nello Stato richiedente a carico della persona estradata (art. 17), sia riguardo all’eventuale estradizione ad uno Stato terzo.
Quanto alle spese della procedura di estradizione, l’articolo 18 del Trattato afferma che lo Stato richiesto dovrà farsi carico delle spese – sostenute nel suo territorio – derivanti dalla richiesta di estradizione, comprese quelle relative all’arresto e alla custodia del soggetto (art. 18, §§ 1 e 2). Sono, invece,
poste a carico dello Stato richiedente le spese sostenute per il trasporto della persona estradata e delle
cose consegnate (art. 18, § 3).
Completano l’articolato le disposizioni attinenti ai rapporti con altri Trattati (art. 19), alla risoluzione
delle controversie (art. 20) e all’entrata in vigore del Trattato (art. 21). Con riferimento a quest’ultimo
punto, va precisato che il Trattato entrerà in vigore il trentesimo giorno dalla data di ricezione della seconda delle due notifiche con cui le Parti Contraenti si saranno comunicate ufficialmente l’avvenuto
completamento delle procedure interne di ratifica (art. 21, § 1).
Si precisa, inoltre, che la durata del Trattato è illimitata, fatta salva la possibilità, per ognuna delle
due Parti, di recedere in qualsiasi momento, purché sia fornita comunicazione scritta all’altra Parte, per
via diplomatica. Non sono previsti meccanismi di adeguamento periodico, ma la possibilità di operare
modifiche “in qualsiasi momento”, mediante accordo scritto tra le Parti Contraenti (art. 21, § 2). Il Trattato cesserà di avere effetto decorsi centottanta giorni dalla data della comunicazione, ma ciò non pregiudicherà le procedure di estradizione già in corso (art. 21, § 3).
Infine, va evidenziato che, ai sensi di quanto dispone l’articolo 21, § 4, il Trattato si applica esclusivamente alle richieste di estradizione presentate dopo la sua entrata in vigore, anche se i reati per cui la
richiesta è presentata siano stati commessi prima dell’entrata in vigore del Trattato.
SCENARI | NOVITÀ SOVRANAZIONALI
Processo penale e giustizia n. 1 | 2016
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DE JURE CONDENDO
di Marilena Colamussi
LA TUTELA DEGLI AUTORI DI SEGNALAZIONI DI REATI O IRREGOLARITÀ APPRESI IN AMBITO LAVORATIVO
Le Commissioni riunite Giustizia e Lavoro della Camera dei Deputati in sede referente hanno da poco concluso l’esame del d.d.l. C. 3365, presentato il 15 ottobre 2015, su proposta dell’on. Businarolo ed
altri, recante «Disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a
conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato», esprimendo parere favorevole.
Si tratta di un disegno di legge che sostanzialmente ricalca il d.d.l. C. 1751, presentato il 30 ottobre
2013 e al quale risulta abbinato, a firma dello stesso proponente, ampliato nei contenuti che meglio
puntualizzano l’ambito applicativo, l’oggetto di tutela, le finalità e i ruoli dei soggetti coinvolti. L’ultima novità è rappresentata da un ulteriore ampliamento del progetto di legge che incorpora per pertinenza tematica il d.d.l. C. 3433, presentato in data 16 novembre 2015, a firma dei deputati Ferranti ed
altri, in tema di «Modifiche all’articolo 54-bis del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e all’articolo
6 del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, in materia di tutela degli autori di segnalazioni di reati o
irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato».
L’articolato progetto di legge è teso a potenziare la diffusione di uno strumento di tutela della legalità che, secondo quanto emerge dalla Relazione di accompagnamento, favorisce la prevenzione e, al
tempo stesso, la lotta alle condotte illecite (a titolo esemplificativo: frode fiscale, corruzione) o irregolari
consumate all’interno di istituzioni o imprese, predisponendo una particolare tutela in favore degli autori delle relative segnalazioni.
Il fenomeno è noto nei Paesi anglosassoni e scandinavi come “whistleblowing”, alla lettera “soffiare
nel fischietto”, per indicare in termini figurati l’azione dell’arbitro che fischia per segnalare un fallo,
ovvero l’intervento di un poliziotto che tenta di arrestare un’azione illegale, allo scopo di incoraggiare
la segnalazione di un illecito riscontrato in ambito lavorativo, nell’interesse della collettività e senza il
timore di subire eventuali ritorsioni. Sembra l’espressione di un dovere di collaborazione, volto a responsabilizzare ciascun lavoratore nel contrastare la corruzione, per garantire l’affermazione della legalità, il corretto ed efficace funzionamento di un’istituzione, la tutela della salute, della sicurezza delle
persone e dell’ambiente, nonché del patrimonio di aziende o di enti pubblici o privati presso cui il segnalante svolge la propria attività lavorativa.
L’intervento normativo solca un terreno già arato nell’ambito della pubblica amministrazione dalla
cosiddetta “legge anticorruzione” (l. 6 novembre 2012, n. 190: «Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione») che, a sua volta, attua talune convenzioni internazionali ratificate dall’Italia (ONU, OCSE, Consiglio d’Europa) allo scopo di incoraggiare i
dipendenti (pubblici e privati) a denunciare gli illeciti appresi durante lo svolgimento dell’attività lavorativa, garantendo loro riservatezza e tutela da eventuali manifestazioni di ritorsione, il cui fondato timore può evidentemente inibire la segnalazione.
Più di recente, la concreta attuazione dei principi introdotti con la “legge anticorruzione” è stata affidata alle Linee guida in materia di tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti, illustrate
dall’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC) (in Gazzetta Ufficiale del 14 maggio 2015, n. 115), nonché
dalla piattaforma «AlacAllerta Anticorruzione» creata da Transparency Internationl Italia. Ancora sulla
stessa scia, l’Agenzia delle entrate ha introdotto un sistema di denuncia a disposizione dei dipendenti
che intendano segnalare irregolarità o anomalie riscontrate durante l’esercizio dell’attività lavorativa.
Il d.d.l. C. 3365 intende ampliare il raggio d’azione della sfera di tutela degli autori della segnalazione estendendola a coloro che lavorano nel settore privato, oltre che pubblico e introducendo un incentivo economico per la denuncia di reati contro lo Stato nell’interesse pubblico.
Il progetto di legge si snoda in 15 articoli che, in modo organico e puntuale, fissano le regole princi-
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pali poste a protezione dei cosiddetti whistleblower. L’art. 1 d.d.l. individua, preliminarmente, l’oggetto
e la finalità della legge che si propone di tutelare i segnalanti, vale a dire coloro che, nell’interesse pubblico, segnalano illeciti od altri atti o fatti pregiudizievoli appresi nel corso dell’attività lavorativa pubblica o privata, precisandone le modalità, nonché i destinatari delle segnalazioni. L’art. 2 d.d.l. fornisce
un’accurata definizione di “segnalazione”, quale comunicazione di potenziali reati od illeciti, idonei a
cagionare un danno all’interesse pubblico, alla concorrenza, alla tutela dei diritti dei consumatori e
utenti, come pure al buon andamento della pubblica amministrazione. La stessa norma indica, a titolo
esemplificativo, le ipotesi che rientrano nella definizione di “segnalazione” (es. fatti penalmente rilevanti; condotte poste in essere in violazione di leggi, regolamenti, codici di comportamento o di altre
disposizioni aziendali, condotte suscettibili di arrecare danno alla salute o alla sicurezza delle persone o
danni all’ambiente) e quelle da escludere (es. doglianze di carattere personale del segnalante o concernenti i suoi rapporti con il superiore gerarchico). L’art. 3 d.d.l. definisce i “segnalanti”, quali lavoratori/autori della segnalazione di potenziali reati o illeciti appresi non solo durante il regolare svolgimento dell’attività lavorativa, ma anche nel corso di prestazioni rese occasionalmente (ad esempio: ex dipendenti pubblici o privati, collaboratori, consulenti, apprendisti, tirocinanti, titolari di contratto di
formazione e lavoro). L’art. 4 d.d.l. si occupa dei “destinatari della segnalazione”, designando per il settore pubblico il responsabile per la prevenzione della corruzione, nominato ad hoc dall’amministrazione
o dall’ente di riferimento; per il settore privato viene indicato l’organo di vigilanza preposto; e, in ogni
caso, salvo le ipotesi di cui agli artt. 361 e 362 c.p., la segnalazione potrà essere rivolta all’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), alla Corte dei conti, all’autorità giudiziaria o agli organi di polizia. La
disciplina prevista per gli enti di diritto pubblico è estesa anche agli enti di diritto privato controllati o
partecipati, direttamente o indirettamente, da pubbliche amministrazioni e agli enti pubblici non economici, seguendo la normativa in materia di prevenzione della corruzione e trasparenza (l. n.
190/2012).
Sul piano della legittimità desta qualche dubbio il riferimento nell’art. 5 d.d.l. alla possibilità di effettuare la segnalazione in forma anonima. Codificare l’anonimato equivale infatti a legittimare l’accesso
ad una modalità che finora era bandita solo formalmente ma sostanzialmente utilizzata senza alcuna
garanzia, imponendo ai destinatari particolare cautela nella valutazione delle segnalazioni anonime da
prendere in esame solo se adeguatamente documentate. L’ingresso dell’anonimato è, dunque, ammesso
limitatamente alla fonte di provenienza della segnalazione, purché corroborata nei contenuti da opportuna e consistente documentazione. Sembra, tuttavia, contraddittorio predisporre una legge ad hoc per tutelare coloro che effettuano le segnalazioni, per poi espressamente dar loro la possibilità di restare anonimi.
L’art. 6 d.d.l. prevede l’istituzione, presso gli enti privati e le pubbliche amministrazioni, di un apposito ufficio deputato alla ricezione delle segnalazioni, composto da personale adeguatamente formato, in misura non superiore a quattro unità, con il compito di accertare la fondatezza delle segnalazioni
ricevute e di darne riscontro entro trenta giorni dalla ricezione, la cui omissione comporta l’adozione di
sanzioni disciplinari nei confronti del responsabile.
È espressamente attribuito all’ANAC il compito di istituire più canali di trasmissione delle segnalazioni ad essa destinate, tra cui almeno una in forma anonima. Sempre l’ANAC è tenuta a raccogliere
dati e statistiche sulle segnalazioni ricevute dai responsabili per la prevenzione della corruzione, allo
scopo di monitorare lo sviluppo del fenomeno (art. 7 d.d.l.).
Per preservare la riservatezza del segnalante, l’art. 8 d.d.l. dispone che – salvo per le ipotesi di responsabilità a titolo di calunnia o diffamazione, ovvero ai sensi dell’art. 2043 c.c. – la sua identità venga
tutelata in ogni tempo successivamente alla segnalazione, e, in caso di processo penale, fino al dibattimento, vale a dire fino al momento della necessaria escussione probatoria nella logica accusatoria del
processo di parti. È onere dei destinatari della segnalazione tutelare la riservatezza del segnalante, la
cui identità può essere rivelata solo con il suo consenso. La violazione di questa regola è fonte di responsabilità disciplinare, ovvero di ulteriori e più gravi conseguenze contemplate dall’ordinamento.
L’adempimento della segnalazione si presume posto in essere nella buona fede del segnalante, che gode della tutela apprestata dalla norma anche nel caso in cui il potenziale reato o illecito oggetto di segnalazione si riveli successivamente inesistente, salvo le eccezioni sopra indicate.
Ad ulteriore riprova della tutela del segnalante, l’art. 9 d.d.l. – derogando espressamente agli artt.
22 e seguenti l. n. 241/1990 – limita il diritto di accesso al documento che contiene la segnalazione, di
cui non è consentito prendere visione ed estrarre copia, a meno che il dolo del segnalante risulti da
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sentenza passata in giudicato. Nella stessa ottica, l’art. 10 d.d.l. vieta qualsiasi forma di discriminazione o ritorsione nei confronti dell’autore della segnalazione, il quale per ragioni connesse direttamente o indirettamente con la segnalazione, non potrà essere sanzionato, licenziato, adibito a mansioni inferiori al suo ruolo, o trasferito, ovvero sottoposto a misure discriminatorie, come ad esempio
ingiustificate sanzioni disciplinari, molestie o minacce esercitate sul luogo di lavoro o al di fuori di
esso, od ancora qualsiasi altra forma di ritorsione tale da rendere intollerabili le condizioni di lavoro.
A tale proposito, è invertito l’onere della prova, nel senso che spetta al datore di lavoro dimostrare
che il presunto atto di ritorsione nei riguardi del segnalante è giustificato da ragioni estranee alla segnalazione (art. 11 d.d.l.).
Per incentivare la segnalazione, l’art. 12 d.d.l. assegna un “premio” all’autore della segnalazione di
reati o irregolarità tali da determinare un danno erariale o all’immagine della pubblica amministrazione. Il premio consiste nell’attribuzione di una somma di danaro, di un importo compreso tra il quindici
e il trenta percento della somma recuperata a seguito di condanna definitiva del responsabile, da parte
della Corte dei conti. Il premio è escluso: per i dipendenti pubblici con il compito di controllare le segnalazioni riguardanti condotte illecite oggetto di ricompensa; per gli avvocati a conoscenza delle informazioni a causa del rapporto di fiducia con l’assistito; per coloro che intenzionalmente forniscono
informazioni false; per i condannati a titolo di concorso negli illeciti segnalati; per coloro che apprendono l’informazione circa l’illecito attraverso controlli e verifiche previsti per legge; nonché per i soggetti che acquisiscono dette informazioni mediante i sistemi di controllo previsti dal d.lgs. 8 giugno
2001, n. 231.
In chiusura, il d.d.l. C. 3365 prevede una norma a tutela della persona segnalata, sottolineando che
l’eventuale procedimento disciplinare promosso nei suoi riguardi deve basarsi su elementi certi e documentati (art. 13). D’altra parte è fatto divieto di apporre clausole contrattuali tese a limitare il potere
di compiere segnalazioni, a pena di nullità (art. 14 d.d.l.). Per completare il quadro normativo così innovato, si rende necessaria l’abrogazione di talune norme che prevedono una disciplina sporadica e
contraddittoria in materia, così da rendere immediatamente applicabile il presente disegno di legge anche alle segnalazioni in corso alla data di entrata in vigore (art. 15 d.d.l.).
Al d.d.l. C. 3365, come già accennato, è abbinato il d.d.l. C. 3433, che sostanzialmente innova la disciplina riguardante la tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti, mediante la sostituzione integrale dell’art. 54-bis, d.lgs. n. 165 del 2001, adeguandola alla proposta di legge appena illustrata ed estendendo l’orbita applicativa dal settore pubblico a quello privato. A quest’ultimo proposito, s’interviene anche ampliando il dettato dell’art. 6, d.lgs. n. 231 del 2001, con la previsione di una specifica integrazione dei modelli organizzativi funzionale a prevenire gli illeciti collegati con i fenomeni corruttivi, che i soggetti della responsabilità amministrativa sono tenuti ad adottare.
ISTITUZIONE DEL PATROCINIO A SPESE DELLO STATO PER LE PERSONE DISABILI
Il 12 novembre 2015 è stato assegnato all’esame della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati
il d.d.l. 3243 – «Istituzione del patrocinio a spese dello Stato per le persone disabili – a firma dell’on. Angelucci
e altri, presentato il 20 luglio 2015.
Lo scenario in cui si inserisce il disegno di legge in parola è quello della rinnovata considerazione –
che si legge nello spazio culturale, sociale e normativo – nei confronti delle persone disabili come titolari di diritti degni di rispetto al pari di qualsiasi altra persona, diritti che evidentemente meritano di essere potenziati allo scopo di garantirne l’effettivo esercizio e compensare, al tempo stesso, i deficit connaturati con il particolare status. A tale proposito, un significativo passo avanti sul terreno normativo è
stato segnato dalla l. 5 febbraio 1992, n. 104 che, per la prima volta, ha disciplinato in modo organico e
sistematico i diritti dei disabili, allo scopo di garantirne la piena integrazione nel tessuto sociale. In questa prospettiva, il d.d.l. C. 3243 si propone di potenziare il sistema di garanzie mediante l’istituzione del
cosiddetto “gratuito patrocinio” in favore delle persone affette da disabilità e dei loro familiari,
nell’ambito dei procedimenti giudiziari di natura civile, penale, amministrativa e di volontaria giurisdizione riguardanti appunto le condizioni di disabilità.
Giova ricordare che per i soggetti disabili si applicano le regole generali previste in materia di rappresentanza processuale, quindi occorre il conferimento di una procura speciale attribuita ad un terzo
per il tramite di un notaio o altro pubblico ufficiale in tal senso abilitato. I confini della procura sono
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stabiliti nell’atto di conferimento, che può anche essere limitato al compimento di atti specifici. Ora, con
l’estensione dell’istituto del patrocinio a spese dello Stato – come spiega la Relazione di accompagnamento al disegno di legge – si intende sollevare dall’onere pecuniario processuale le persone disabili e
le loro famiglie, per permettergli di agire a tutela dei propri diritti connessi con la condizione di disabilità affrancandosi dai relativi oneri, di cui lo Stato si fa carico.
Volendo tracciare i profili più salienti del progetto di legge, va subito evidenziato l’ampio panorama
applicativo che, per quanto concerne il processo penale, afferisce ad ogni stato e grado, incluse la fase di
esecuzione e l’eventuale giudizio di revisione, e concerne il cittadino disabile in qualità di persona sottoposta alle indagini, imputato, condannato, ovvero persona offesa dal reato, danneggiato che intenda
costituirsi parte civile, responsabile civile o civilmente obbligato per la pena pecuniaria. La condizione
di ammissione al beneficio è che il procedimento giudiziario scaturisca, interamente o anche solo in
parte, da questioni inerenti la disabilità (art. 1-2 d.d.l.). Si pensi, ad esempio, all’ipotesi di ingiuria o
maltrattamenti di cui la persona disabile sia vittima.
Per poter accedere all’istituto del patrocinio a spese dello Stato occorre preliminarmente accertare le
condizioni di disabilità, minorazione, o difficoltà tali da rendere necessario l’intervento assistenziale
permanente, nonché valutare la capacità individuale complessiva e residuale (art. 3 d.d.l.). Tali accertamenti sono affidati alle aziende sanitarie locali (ASL) che intervengono tramite apposite commissioni
mediche (art. 1, l. 15 ottobre 1990, n. 295).
L’iter procedurale prevede la formulazione di un’istanza che, a pena di inammissibilità, deve essere
sottoscritta dall’interessato, dal tutore, dall’esercente la responsabilità genitoriale o dall’amministratore
di sostegno, e autenticata dal difensore (art. 4 d.d.l.). Detta istanza è corredata dalla certificazione della
condizione di disabilità rilasciata dall’apposita commissione medica e da eventuale documentazione
utile ad accertare la veridicità dello status, ove richiesta dall’organo decidente (art. 5 d.d.l.), oppure in
caso di temporanea impossibilità si può presentare una dichiarazioni sostitutiva di certificazione (art.
21 d.d.l.). Competente a ricevere l’istanza promossa in via anticipata è il consiglio dell’Ordine degli avvocati del luogo in cui ha sede il giudice dinanzi al quale pende il processo, ovvero quello del magistrato competente a conoscere nel merito (art. 9 d.d.l.). Il consiglio dell’Ordine, previa verifica dell’ammissibilità dell’istanza, potrà ammettere l’interessato al patrocinio a spese dello Stato in via anticipata e
provvisoria a condizione che la richiesta non appaia manifestamente infondata, ovvero respingerla, e in
quest’ultimo caso la stessa istanza potrà essere riproposta dinanzi al magistrato competente a decidere
per il giudizio, che provvede con decreto (art. 10 d.d.l.).
In alternativa, l’iter ordinario individua, quale organo competente a decidere, il magistrato dinanzi
al quale pende il processo, che può dichiarare l’istanza inammissibile, ovvero concedere o negare il beneficio. Il provvedimento di rigetto dell’istanza può essere a sua volta impugnato mediante ricorso presentato al presidente del tribunale o della corte d’appello, a cui appartiene il giudice che ha emesso la
decisione. Sono previste talune cause di esclusione dal patrocinio riguardanti il disabile sottoposto alle
indagini/imputato o condannato per reati in materia di evasione fiscale, per una questione di indegnità, nonché l’ipotesi in cui il richiedente sia assistito da più di un difensore, che evidentemente non giustifica l’ulteriore onore per lo Stato (artt. 17-22 d.d.l.).
Una volta ammesso al gratuito patrocinio, l’interessato può procedere alla nomina di un difensore
individuato tra gli iscritti negli appositi elenchi custoditi presso il consiglio dell’Ordine forense del
distretto di corte d’appello in cui ha sede il giudice competente. In alternativa, è anche possibile procedere alla nomina di un difensore di fiducia non necessariamente iscritto nell’elenco degli avvocati
per il patrocinio a spese dello Stato (artt. 6-7 d.d.l.). L’onorario del difensore, le competenze e le spese
spettanti all’ausiliario del magistrato e al consulente tecnico di parte sono liquidate dall’autorità giudiziaria procedente con decreto di pagamento, osservando le tariffe professionali, al termine di ciascuna fase o grado del processo e, comunque, all’atto di cessazione dell’incarico (artt. 12-13 d.d.l.).
Detti compensi o rimborsi sono gli unici spettanti al difensore, all’ausiliario del magistrato e al consulente tecnico, nel senso che costoro non possono pretendere dall’assistito alcun altro emolumento a
qualsiasi titolo, e la violazione di tale divieto integra un grave illecito disciplinare professionale (art.
14 d.d.l.).
Il beneficio del gratuito patrocinio non riguarda solo il cittadino italiano, ma si estende anche allo
straniero e all’apolide residente nello Stato (art. 16 d.d.l.).
Particolare attenzione è dedicata dal d.d.l. C. 3243 alle garanzie difensive, mediante la previsione
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della nomina di un secondo difensore per l’imputato o il condannato che debba partecipare a distanza
alla celebrazione di un processo penale, sia pure limitatamente al compimento di taluni atti. Nella stessa prospettiva si legge la possibilità di procedere alla nomina di un sostituto del difensore, di un investigatore privato autorizzato e di un consulente tecnico per il compimento di attività di indagini difensive e i relativi compensi (artt. 23-30 d.d.l.). Per completare il quadro normativo, sono dettagliatamente
definite le spese a titolo gratuito e quelle a carico dell’erario, quale effetto dell’ammissione al patrocinio
a spese dello Stato, nonché i profili riguardanti l’azione risarcitoria esercitata nel processo penale (artt.
31-34 d.d.l.).
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CORTI EUROPEE
EUROPEAN COURTS
di Francesco Trapella
DIRITTO ALL’INFORMAZIONE NEI GIUDIZI PENALI E LINGUA DEGLI ATTI
(C. giust. UE, 15 ottobre 2015, causa C-216/14, Covaci)
La Corte di giustizia dell’Unione europea affronta la questione della lingua degli atti nel giudizio penale: è un tema di capitale importanza, atteso che la corretta comprensione delle accuse, del volgere del
processo e della decisione finale assicura all’imputato la possibilità di difendersi.
Nel caso di specie, il ricorrente, cittadino rumeno, veniva sorpreso in territorio tedesco dalla locale
autorità di polizia, alla guida di un veicolo sprovvisto dell’obbligatoria copertura assicurativa per la responsabilità civile, essendo falso il contrassegno da lui esibito agli agenti durante il controllo. Non possedendo un domicilio in Germania, l’istante conferiva procura ai fini della notifica degli atti giudiziari a
tre impiegati dell’Amtsgericht Laufen (Tribunale distrettuale di Laufen).
Ad esito delle indagini, il pubblico ministero chiedeva all’Amtsegericht Laufen di emettere decreto
penale di condanna nei confronti dell’odierno ricorrente. Similmente a ciò che accade in Italia, in caso
di accoglimento, al condannato vengono concesse due settimane dalla notificazione del decreto per opporvisi e domandare di essere giudicato nel contraddittorio tra le parti.
Il pubblico ministero chiedeva, poi, che eventuali osservazioni del condannato – compresa l’opposizione – fossero redatte in lingua tedesca, sulla scorta dell’art. 184 della Gerichtsverfassungsgesetz (legge
organica sulla giustizia). Investito della richiesta, il Tribunale distrettuale sollevava questione pregiudiziale davanti alla Corte lussemburghese, nutrendo dubbi che l’art. 184 della Gerichtsverfassungsgesetz sia
compatibile: a) con gli artt. 1, paragrafo 2, e 2, paragrafi 1 e 8 della direttiva 2010/64/UE sull’assistenza
linguistica (gratuita) agli imputati, sicché ci si domanda se sia ammissibile una norma nazionale che
imponga a pena di irricevibilità l’obbligo di scrivere atti nella lingua locale, anche se diversa da quella
dell’accusato; b) con gli artt. 2, 3 paragrafo 1, lett. c), e 6, paragrafi 1 e 3 della direttiva 2012/13/UE
sull’effettiva conoscenza dell’accusa da parte dell’imputato; nel caso di specie, infatti, l’accusato aveva
eletto domicilio presso il Tribunale distrettuale, sicché i termini per l’opposizione al decreto sarebbero
decorsi dal deposito del provvedimento presso la cancelleria, senza verifica alcuna della piena cognizione dell’addebito da parte del diretto interessato.
Dinnanzi alla Corte di giustizia, l’Avvocato generale Yves Bot concludeva: a) ricordando che la Direttiva 2010/64/UE tratteggia tutele inderogabili, pertanto l’imputato alloglotta può scrivere un ricorso
nell’idioma a lui noto, beneficiando poi della gratuita assistenza di un interprete per tradurlo nella lingua del processo. L’Avvocato generale qui applicava l’art. 2 della direttiva 64, ritenendolo operante non
solo al dialogo orale in udienza, ma anche agli atti scritti di parte privata; b) sottolineando che la Direttiva 2012/13/UE esprime ugualmente garanzie indefettibili e che, pur non occupandosi specificamente
delle modalità di notifica degli atti all’imputato che non risieda nello Stato del processo, occorre che la
legge nazionale individui modalità di comunicazione tali da assicurare all’accusato la piena cognizione
dell’addebito.
Dal canto proprio, la Corte di giustizia non ha aderito alla tesi dell’Avvocato generale sulla traduzione degli atti: l’art. 2, Direttiva 2010/64/UE non si applica agli atti scritti di parte, ma solo all’attività
orale in udienza; è pur vero, però, che «la direttiva 2010/64 si limita a stabilire norme minime lasciando
gli Stati membri liberi, così come precisato al considerando 32, di ampliare i diritti previsti da tale direttiva al fine di assicurare un livello di tutela più elevato anche in fattispecie non espressamente contemplate da detta direttiva» (§ 48 della sentenza in commento); ancora, l’art. 3, paragrafo 1, della direttiva
2010/64/UE – ricorda la Corte – enuncia il diritto alla traduzione dei soli «documenti che sono fondaSCENARI | CORTI EUROPEE
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mentali per garantire che [gli imputati] siano in grado di esercitare i loro diritti di difesa e per tutelare
l’equità del procedimento», tra essi rientrando «le decisioni che privano una persona della propria libertà, gli atti contenenti i capi d’imputazione e le sentenze» (art. 3, paragrafo 2): agli Stati spetta, poi,
decidere quali siano gli atti – diversi da quelli menzionati dai primi due paragrafi dell’art. 3 – da ritenersi fondamentali per la partecipazione dell’accusato al giudizio (v. art. 3, paragrafo 3). Compete,
dunque, all’autorità nazionale valutare se l’opposizione al decreto penale sia «documento fondamentale» ai sensi dell’art. 3 e, quindi, se rispetto ad esso gravi sullo Stato l’obbligo di fornire all’opponente
l’assistenza gratuita di un traduttore.
Sulle forme della notifica, la Corte di giustizia riprende le conclusioni dell’Avvocato generale: la Direttiva 2012/13/UE tace sulle modalità comunicative, rilevando solo che esse non vanifichino l’«obiettivo perseguito, in particolare, dallo stesso articolo 6, che consiste, come emerge altresì dal considerando 27 di detta direttiva, nel consentire alle persone indagate o imputate per aver commesso un reato di
predisporre la propria difesa e garantire l’equità del procedimento» (§ 63 della sentenza annotata). Non
si esclude a priori la legittimità delle regole che prevedono la notifica mediante domiciliatario all’imputato non residente nello Stato: occorre, però, che la legge interna predisponga meccanismi idonei a favorire la conoscenza delle accuse all’interessato e, per quella via, la sua partecipazione al giudizio che lo
riguarda.
La sentenza in nota sviluppa argomenti che interessano anche lo studioso nostrano. Il d.lgs. 4 marzo
2014, n. 32 («Attuazione della direttiva 2010/64/UE sul diritto all’interpretazione e alla traduzione nei
procedimenti penali») ha modificato l’art. 143, comma 2, c.p.p., cancellando il previgente disposto, secondo il quale «l’autorità procedente [avrebbe nominato] un interprete quando [sarebbe occorso] tradurre uno scritto in lingua straniera o in un dialetto non facilmente intelligibile ovvero quando la persona che [avesse voluto o dovuto] fare una dichiarazione scritta non [avesse conosciuto] la lingua italiana». Il nuovo comma 2 («l’autorità procedente dispone la traduzione scritta, entro un termine congruo tale da consentire l’esercizio dei diritti e della facoltà della difesa, dell’informazione di garanzia,
dell’informazione sul diritto di difesa, dei provvedimenti che dispongono misure cautelari personali,
dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, dei decreti che dispongono l’udienza preliminare
e la citazione a giudizio, delle sentenze e dei decreti penali di condanna») traspone in norma interna
l’art. 3, paragrafo 2, direttiva 2010/64/UE, escludendo l’obbligo per il giudice di ordinare la traduzione
in italiano degli atti di parte, redatti in lingua straniera. La lacuna è in parte colmata dall’art. 242, comma 1, c.p.p., che impone al giudice di tradurre i documenti compilati in idioma diverso dal nostro, «se
ciò è necessario alla [loro] comprensione».
Almeno due dubbi residuano sul richiamo all’art. 242, comma 1, c.p.p.: a) sotto un primo profilo, la
norma parla di documenti, e non di atti. Diviene, così, necessario ritenere il primo concetto comprensivo
del secondo, di talché documento è qualsiasi oggetto rappresentativo di una realtà, non importa se interna al procedimento – e, quindi, finalizzata alla cognizione dei fatti per cui è giudizio – od esterna, e
quindi preesistente al processo. L’opposizione a decreto penale di condanna assume in tal modo lo status di documento lato sensu inteso, giacché atto propedeutico ad impostare la strategia difensiva
dell’imputato e, quindi, a definire i fatti di cui egli si fa portatore dinnanzi al giudice, nel contraddittorio con la pubblica accusa; b) la clausola finale dell’art. 242, comma 1, c.p.p. diviene il corrispondente
interno dell’art. 3, paragrafo 3 della direttiva 2010/64/UE. Si tratta, infatti, di norma di chiusura che
rimette al giudice il compito di valutare quali documenti – nel senso chiarito sub a) – abbisognino di essere compresi ai fini del giudizio. Insomma, il diritto euro-unitario conferisce agli Stati l’onere di completare l’elenco dell’art. 3, §§ 1 e 2, Direttiva 2010/64/UE; il diritto interno consegna al giudice
l’incarico di valutare, caso per caso, che cosa necessiti di traduzione onde essere acquisito al fascicolo di
causa e, dunque, utilizzato per la decisione.
Il punto è, dunque, questo: se, con riferimento alle impugnazioni e all’opposizione a decreto penale
di condanna, si assume che il giudice ha l’obbligo di ordinare la traduzione in italiano di atti resi dalla
parte privata in lingua straniera, a monte si riconosce il diritto per l’accusato di esprimersi nel proprio
idioma, trasferendo, peraltro, le spese dell’interprete dall’imputato all’ufficio procedente. Ebbene, sul
punto la giurisprudenza interna è altalenante: dopo un primo orientamento di chiusura (Cass., sez. un.,
26 giugno 2008, n. 36541, in CED Cass., n. 240508), qualche segnale nell’opposta direzione si è manifestato in ordine a documenti ritenuti indispensabili all’esercizio dei diritti difensivi (Cass., sez. un., 24
aprile 2014, n. 38343, in Cass. pen., 2015, p. 416).
Ci si attende, così, uno sforzo della Suprema Corte che arrivi a qualificare l’opposizione al decreto
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penale di condanna – ma, per questa via, pure gli atti d’impugnazione – come indefettibile alla difesa
dell’accusato: d’altra parte, considerata la particolare struttura del rito in argomento, l’atto oppositivo è
quello che permette all’imputato di chiedere – ed ottenere – un equo processo, così divenendo condizione necessaria e sufficiente al contraddittorio.
Circa il secondo argomento (diritto dell’imputato residente all’estero di conoscere il procedimento),
può domandarsi se l’art. 169 c.p.p. sia compatibile con il monito della sentenza che ora si annota. La
Consulta ha già chiarito la legittimità della norma, poiché l’imputato «ha puntuale notizia del procedimento (attraverso l’interpello ex art. 169 c.p.p.) e che fruisce di adeguato termine – di trenta giorni – per
assumere le proprie determinazioni in ordine all’utilità di indicare uno specifico recapito degli atti del
procedimento stesso» (C. cost., sent. 23 aprile 1993, n. 225). Il caso è, ad esempio, quello di chi, accusato
di sottrazione e trattenimento all’estero di minori, raggiunto in Austria dalla notifica dell’informativa ex
art. 169 c.p.p., ometta di nominare un difensore di fiducia entro la prima udienza dibattimentale e non
contatti quello d’ufficio assegnatogli, così decadendo dal diritto di presentare liste testimoniali o di accedere a riti speciali. In tal caso, nominato un difensore di fiducia dopo la prima udienza, l’imputato
mai potrà opporre la mancata conoscenza del procedimento, chiedendo di essere restituito nei termini
per operare scelte istruttorie o di procedimenti alternativi, attesa la sua personale ricezione della raccomandata contenente l’avviso ex art. 169 c.p.p. (Trib. Grosseto, ord., 21 luglio 2015, inedita). Sotto questo profilo, il meccanismo descritto si rivela idoneo ad assicurare all’accusato la piena cognizione del
giudizio.
Si potrebbe, in ultimo, obiettare che l’art. 169 c.p.p. permette comunque la notifica del decreto penale
al difensore d’ufficio, senza che, in ipotesi, il condannato sappia alcunché. La considerazione è superabile se si interpreta il diritto dell’imputato a conoscere il processo come situazione giuridica che impone
un duplice sforzo, dell’apparato pubblico, di informare l’accusato dell’addebito, e del privato, di attivarsi – se lo ritiene – per organizzare compiutamente la propria difesa.
“CARCERE DURO” E DIVIETO DI TRATTAMENTI INUMANI E DEGRADANTI
(Corte e.d.u., 24 settembre 2015, Paolello c. Italia)
Il ricorrente, O.P., è un cittadino italiano, condannato per reati di mafia all’ergastolo con un periodo di
tre anni di isolamento diurno; egli si trova in carcere dal dicembre 1993; con decisione del 30 gennaio
1994, il Ministro della giustizia italiano applicava ad O.P. e ad altri quarantasette detenuti considerati
pericolosi il regime detentivo speciale, previsto dall’art. 41-bis ord. penit. Tale restrizione, inizialmente
prevista per un anno, veniva prorogata fino al 2002.
Invocando l’art. 3 CEDU, O.P. lamentava di essere stato soggetto a «pene inumane e degradanti, in
misura superiore a quanto previsto dalla legge all’epoca in cui i fatti addebitatigli furono commessi»
(§15 della decisione annotata – traduzione di chi scrive); peraltro, egli riferiva di essere stato obbligato a
sottoporsi – prima e dopo gli incontri con la famiglia e con il proprio difensore – ad ispezioni nel corso
delle quali la sua intimità veniva violata, e di essere stato costantemente filmato durante la permanenza
in cella.
O.P. ricorreva, inoltre, sulla base dell’art. 8 CEDU, considerate le difficoltà nei rapporti con la famiglia, cagionate, tra l’altro, dall’elevata distanza geografica tra il carcere e la residenza dei parenti.
L’istante, poi, lamentava la violazione del diritto alla segretezza della corrispondenza.
A mente dell’art. 13 CEDU, infine, O.P. ricorreva alla Corte strasburghese poiché «il ritardo con il
quale i giudici di sorveglianza hanno deciso sul suo ricorso [contro il provvedimento ministeriale di
applicazione del regime ex art. 41-bis ord. penit., n.d.r.] lo ha privato della possibilità di ricorrere in cassazione» (§ 17 della decisione annotata – traduzione di chi scrive).
Se è vero che «il divieto di tortura o di pene e trattamenti inumani o degradanti è assoluto, indipendentemente dalle violazioni addebitate al ricorrente» (v. Corte e.d.u., 6 aprile 2000, Labita c. Italia o Corte e.d.u., 28 giugno 2005, Gallico c. Italia), bisogna valutare se l’assoggettamento a regimi intramurari di
peculiare restrizione sia motivata dal permanere, anche oltre l’iniziale termine di scadenza, delle condizioni che ne motivarono l’applicazione (Corte e.d.u., 10 novembre 2005, Argenti c. Italia).
Nel caso di specie – hanno detto i giudici di Strasburgo – il Ministro della giustizia italiano ha fornito prova della continua pericolosità di O.P., mentre il ricorrente non ha allegato alcunché a sostegno
della tesi per cui l’applicazione prolungata del regime ex art. 41-bis ord. penit., era nei suoi riguardi inSCENARI | CORTI EUROPEE
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giustificata (sulla necessità di prove a dimostrazione dei trattamenti degradanti, v. Corte e.d.u., 10 gennaio 2012, Ananyev e altri c. Russia). Così, stanti gli elementi offerti dal governo nostrano, le perquisizioni erano necessarie a garantire la sicurezza nel carcere che ospitava un elemento di minaccia e di disturbo come O.P. (sul punto, v. anche Corte e.d.u., 23 febbraio 2010, Mariano c. Italia). Ugualmente, il
controllo della corrispondenza e la videosorveglianza della cella si rivelavano, nel caso di specie, misure essenziali a mantenere l’ordine carcerario: come tali, non hanno violato l’art. 3 Cedu.
Anche sull’infrazione dell’art. 8 CEDU, la Corte rileva una carenza probatoria. Astrattamente è
senz’altro vero che il controllo della corrispondenza tra un detenuto e la famiglia o il difensore contrasta con il diritto convenzionale; O.P., però, non ha fornito alcun elemento «concernente la natura delle
missive sottoposte a controllo nel periodo in esame; [i giudici europei notano che] il fascicolo del ricorrente non contiene prova alcuna del fatto che la corrispondenza indirizzata al ricorrente o da lui proveniente sarebbe stata aperta e letta dalle competenti autorità di vigilanza» (§ 46 della decisione che si annota – traduzione di chi scrive, ma sul punto, v. anche Corte e.d.u., 23 maggio 2006, Gelsomino c. Italia).
In ultimo, guardando all’art. 13 CEDU, i giudici strasburghesi ricordano che in Ganci c. Italia (Corte
e.d.u., 30 ottobre 2003), la Corte si era pronunciata sulla questione dei ritardi nelle decisioni con cui i
giudici statuiscono sui ricorsi contro i provvedimenti ministeriali di applicazione di regimi intramurari
speciali. In quell’occasione fu rilevata l’infrazione dell’art. 6, paragrafo 1, CEDU. Al di là di ciò – e dei
possibili collegamenti tra artt. 6, paragrafo 1, e 13 CEDU in un caso quale quello prospettato dall’istante
(v. anche Corte e.d.u., 28 settembre 2000, Messina c. Italia (n.2)) – il ricorso di O.P. contiene vistose carenze motivazionali: dall’istanza, infatti, la Corte evince solo che due domande (del 15 febbraio 1997 e
del 1° agosto 1997) sono state respinte dal tribunale di sorveglianza di Perugia (nel settembre 1997 e nel
febbraio 1998, quindi molto prima della domanda alla Corte di Strasburgo) e che sono stati tentati altrettanti ricorsi in cassazione. Non si dice, però, nell’istanza ai giudici europei come si sia concluso il
procedimento davanti alla Suprema Corte italiana.
Per tutte queste ragioni, la Corte di Strasburgo ha ritenuto infondata l’istanza di O.P..
Il caso è interessante anzitutto poiché richiama la giurisprudenza strasburghese sulla compatibilità
del c.d. “carcere duro” ex art. 41-bis ord. penit., rispetto al paradigma dell’art. 3 Cedu, e poi, visto il monito dei giudici europei alla corretta compilazione dei ricorsi, che, ispirandosi ad un canone di autosufficienza, devono contenere ogni elemento utile a provare le doglianze avanzate alla Corte.
DIRITTO ALL’ASSISTENZA DI UN DIFENSORE DI FIDUCIA
(Corte e.d.u., Grande Camera, 20 ottobre 2015, Dvorski c. Croazia)
La Corte di Strasburgo si pronuncia sul diritto alla nomina di un difensore di fiducia, declinazione del
più ampio diritto ad un processo equo, sì come previsto dall’art. 6 Cedu.
Il caso è complesso. Il 13 marzo 2007, tra le 2.00 e le 3.30, furono commessi un triplice omicidio, una
rapina a mano armata e un incendio doloso a Vežica, quartiere residenziale di Rijeka, in Croazia. Più
tardi, molti abitanti del rione furono condotti al locale posto di polizia per essere interrogati; verso le
13.00, il ricorrente, I.D., fu sentito, alcuni campioni del suo sangue furono prelevati per l’analisi del
DNA, il suo appartamento fu perquisito, e il suo cellulare, sequestrato, così come altri suoi effetti personali. Il 14 marzo 2007, alle 9.50, I.D. veniva arrestato per i tre reati della notte precedente.
Entro un’ora dall’arresto, la madre di I.D. prendeva contatti con G.M., avvocato, domandandogli di
difendere il figlio. Alle 10.45 del 14 marzo 2007, G.M. si recava al posto di polizia per incontrare
l’attuale ricorrente; vi rimase fino a mezzogiorno, senza vederlo, in quanto – a detta della locale autorità
– egli non era munito di regolare nomina. Alle 13.30 circa, il padre di I.D. conferiva formale mandato a
G.M.; il tirocinante del legale si recava, dunque, al posto di polizia per depositare la nomina, non riuscendovi, sempre per rifiuto degli agenti. Ugualmente vano fu il terzo tentativo di incontrare l’odierno
istante, compiuto verso le 15.30 personalmente da G.M.
La polizia non aveva mai informato il ricorrente che G.M. era stato nominato suo difensore dai genitori, né che aveva più volte tentato un incontro con il suo assistito.
Secondo il governo croato, alle 18.00 I.D. accettava di essere rappresentato da M.R., legale individuato dal ricorrente in una lista consegnatagli proprio dagli agenti di polizia. M.R. si recava sul posto alle
19.00, e alle 20.10 iniziava l’interrogatorio di I.D.
Nel processo verbale, l’odierno ricorrente dichiarava di essere stato informato dei propri diritti, di
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essere nel pieno delle facoltà mentali e di essere rappresentato da un legale, M.R., di cui ratificava
l’operato; successivamente, confessava i crimini del giorno prima, facendo peraltro il nome dei propri
complici.
Il 15 marzo 2007, I.D. revocava la nomina a M.R. davanti al giudice istruttore, dichiarando di volere
essere difeso da G.M. e di ignorare che quest’ultimo si era recato a più riprese presso il posto di polizia
per prendere contatti con lui. Il giorno successivo, il legale chiedeva che il procuratore capo e i suoi sostituti fossero rimossi dall’incarico nel giudizio contro l’odierno ricorrente; tale domanda fu rigettata. Il
28 marzo 2007 G.M. informava il tribunale di non essere più il legale di I.D.; due giorni dopo, veniva
nominato quale difensore d’ufficio S.M.C.
Seguiva il processo, che si concludeva con la pronuncia di una condanna a quaranta anni di carcere
per I.D. (30 giugno 2008): ai fini della propria decisione, il tribunale considerava anche la confessione
resa dall’attuale ricorrente, alla presenza di un legale diverso da quello nominatogli dai familiari.
La difesa di I.D. formulava appello, che veniva rigettato l’8 aprile 2009. La decisione di secondo gravo era, così, impugnata davanti alla Suprema Corte che, con pronuncia del 17 dicembre 2009, «sottolineava che era evidente, dalle testimonianze acquisite nel corso del giudizio, come il ricorrente avesse
scelto di essere rappresentato da M.R. durante il proprio interrogatorio di polizia; peraltro, il legale gli
aveva fornito dei consigli giuridici adeguati. Inoltre, nulla nel fascicolo indica che il ricorrente sia stato
maltrattato o forzato a confessare alcunché» (§ 55 della decisione che si annota – traduzione di chi scrive).
Un ultimo tentativo veniva esperito dal ricorrente che, l’11 marzo 2010, adiva la Corte costituzionale.
Con decisione del 16 settembre 2010, la Corte riteneva infondata la domanda, atteso che non v’era la
prova di maltrattamenti, né di confessioni estorte.
Esauriti i rimedi interni, I.D. indirizzava le proprie doglianze alla Corte di Strasburgo. Secondo i
giudici europei, nonostante il ricorrente avesse formalmente scelto M.R. durante l’interrogatorio di polizia, la nomina è da ritenersi viziata, poiché effettuata ignorando che un altro legale, designato dalla
famiglia, si era recato a più riprese al posto di polizia, verosimilmente per prestargli il proprio patrocinio. Per vero – ritiene la Corte – non sussistevano serie ragioni per impedire ad I.D. di nominare G.M.
(sulle ragioni che possono giustificare l’assistenza di un legale diverso da quello voluto dall’accusato,
Corte e.d.u., 13 luglio 2006, Popov c. Russia, o Corte e.d.u., 24 agosto 2010, Prehn c. Germania).
Tanto premesso, la Corte strasburghese ha ritenuto la violazione dell’art. 6, paragrafi 1 e 3, lett. c),
CEDU. In teoria, che l’indagato sia assistito da un legale piuttosto che da un altro, non basta di per sé a
dimostrare l’iniquità del processo, salvi, ovviamente, casi di infedele patrocinio (v. Corte e.d.u., 13
maggio 1980, Artico c. Italia). Nel caso di specie, però, può presumersi che la condotta della polizia abbia avuto come conseguenza il fatto che il ricorrente si sia trovato a rendere una confessione, poi utilizzata nel giudizio come prova a carico. È bene notare che, nel prosieguo della fase investigativa e nei tre
gradi di giudizio, I.D. non ha mai fatto riferimento alla propria, precedente, confessione. I giudici croati,
poi, non hanno saputo distinguere tra gli elementi emersi in corso di processo e le nefaste ripercussioni
sul giudizio stesso del comportamento dei poliziotti all’inizio dell’indagine, sicché la condanna è giunta, probabilmente confondendo i vari piani probatori e quale obiettiva conseguenza di una confessione
resa in assenza del legale voluto dall’indagato e dalla sua famiglia.
L’infrazione dell’art. 6 Cedu, quindi, deriva: a) dal fatto che, quand’anche informati della circostanza, i giudici croati omettevano di considerare le violazioni operate dalla polizia durante l’interrogatorio
del 14 marzo 2007, ma, anzi, la confessione di I.D. assurgeva a prova decisiva dei fatti in imputazione;
b) della mancata predisposizione dei necessari accorgimenti per riportare ad equità un processo che, di
fatto, si fondava su dichiarazioni acquisite contra legem.
LIBERTÀ DI ESPRESSIONE E NEGAZIONISMO DI CRIMINI GENOCIDIARI
(Corte e.d.u., 15 ottobre 2015, Perinçek c. Svizzera)
Anche a causa dei più recenti fatti di cronaca internazionale, ci si domanda fino a che punto debba
spingersi il diritto ad esprimere la propria opinione, se sia privo di limiti o se, invece, incontri ostacoli
nel rispetto dell’altrui pensiero o, in qualche misura, della verità storica. In quest’ambito si collocano le
tesi che, di tanto in tanto, minimizzano o dichiarano come mai accaduti episodi criminali su larga scala,
qualificabili come genocidiari o come delitti contro l’umanità. La decisione quadro 2008/913/GAI del
Consiglio («sulla lotta contro talune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia mediante il diritto penale»)
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propone agli Stati l’introduzione del c.d. reato di negazionismo. L’Italia non ha ancora attuato il provvedimento, ma sulla scorta di esso, il 13 ottobre 2015, la Camera ha approvato il d.d.l. C2874 (XVII legislatura) «in materia di contrasto e repressione dei crimini di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di
guerra, come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale»; ora il disegno è al
Senato con numero S54-B.
La premessa chiarisce il contesto in cui i giudici strasburghesi hanno ritenuto violato l’art. 10 CEDU
nel caso di P., politico turco, che, durante alcuni convegni in Svizzera, negava la natura genocidiaria del
massacro del popolo armeno, compiuto dall’Impero ottomano a partire dal 1915. Tali dichiarazioni costavano a P. la condanna per il reato previsto dall’art. 261-bis, comma 4, del codice penale svizzero, di
negazionismo per ragioni di discriminazione razziale, etica o religiosa. I giudici elvetici fondavano la
decisione sul fatto che il genocidio armeno è un fatto storicamente documentato; P. ricorreva, così, a
Strasburgo perché sarebbe stata violata la sua libertà di espressione.
L’art. 10 CEDU sancisce la libertà di espressione (§ 1), ammettendovi le sole eccezioni (§ 2): a) che
siano espressamente previste dalla legge; b) che siano finalizzate a perseguire scopi quali la sicurezza
nazionale, l’integrità territoriale, la sicurezza pubblica, la difesa dell’ordine pubblico, la prevenzione
dei delitti, la tutela della salute, della morale, della reputazione o degli altrui diritti, la segretezza di informazioni riservate, l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario; c) che siano «necessarie in una società democratica».
Se nel caso di specie, la condanna di P. era fondata su norme di legge volte a salvaguardare l’ordine
pubblico e gli altrui diritti, così integrando i primi due requisiti previsti dall’art. 10, § 2, CEDU, più difficile era per la Corte stabilire se i limiti imposti a P. fossero necessari in una società democratica.
Sotto questo profilo, la Corte ha ricordato come solo pochi Stati riconoscano il genocidio armeno;
d’altro canto, le dichiarazioni di P. avevano natura politica ed erano necessariamente ricollegabili ad
un’attività di propaganda, peraltro compiuta in un territorio – la Svizzera – assolutamente estraneo ai
fatti del 1915. In altre parole – dice la Corte – un conto sarebbe negare l’Olocausto in Germania, con il
rischio di creare disordini e di suscitare l’unanime sdegno dell’opinione pubblica, altra cosa è minimizzare il genocidio armeno, in un luogo nel quale rimane comunque marginale l’interesse per quell’episodio. La Corte ha analizzato, poi, le singole dichiarazioni di P.: egli avrebbe incolpato l’occidente e la
Russia zarista di avere strumentalizzato la lotta dell’Impero Ottomano contro gli armeni, giungendo a
qualificarla come “genocidio”. Non v’è stato – secondo i giudici europei – un vulnus ai diritti degli armeni, ma, casomai, un’accusa – ancora una volta, tutta politica – alle nazioni occidentali e alla Russia.
Sotto un profilo giuridico, poi, la già menzionata decisione quadro 2008/913/GAI non è applicabile
alla Svizzera, di talché per essa non sussistono obblighi internazionali di incriminare dichiarazioni negazioniste. In ultimo, la condanna penale – e i conseguenti, potenziali, limiti alla libertà di chi la subisce –
è senz’altro sproporzionata nel caso di specie, tenuto conto dell’insieme degli argomenti ora sintetizzati.
Per tal ragione, la Corte strasburghese ha riconosciuto violazione dell’art. 10 CEDU, avendo P. subito una condanna «non necessaria in una società democratica».
Ebbene, la posizione dei giudici europei è criticabile, almeno alla luce dei tentativi che vanno compiendosi per dare una definizione unanimemente condivisa a parole od espressioni quali “genocidio”,
“crimini contro l’umanità”, “crimini di guerra”, “terrorismo” o “aggressione”, e degli sforzi di creare
un diritto penale condiviso a livello sovranazionale per evitare il ripetersi delle «atrocità inimmaginabili che turbano profondamente la coscienza dell’umanità» (v. Preambolo dello Statuto di Roma) e che
hanno segnato tutto lo scorso secolo e i primi due decenni del ventunesimo.
Sembra, poi, pericoloso classificare gli episodi omicidiari su larga scala che si sono verificati nel corso della storia più recente, sulla base del livello d’allarme suscitato nell’opinione pubblica: in tal maniera, l’Olocausto diventa un genocidio, perché tale è considerato dalla maggioranza degli Stati, mentre
quello armeno non lo è perché solo una ventina di Nazioni lo riconoscono. Il pericolo è che si giunga a
definire episodi “di serie A”, ed altri, “di serie B”, accordando un certo livello di tutele solo ai primi, e
via via diminuendo per gli altri.
In questo senso è assolutamente condivisibile la dissenting opinion dei giudici Spielmann, Casadevall,
Berro, De Gaetano, Sicilianos, Silvis e Kuris: «problemi simili possono sollevarsi anche in relazione al
fattore temporale. Dobbiamo forse dedurre che tra venti o trent’anni, la negazione dell’Olocausto potrebbe essere accettabile in termini di libertà di espressione?» (§ III della dissenting opinion – traduzione
di chi scrive).
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CORTE COSTITUZIONALE
di Francesca Delvecchio
LA CONSULTA SUI “TEMPI” DELLA MESSA ALLA PROVA: NESSUN’ECCEZIONE AL TEMPUS REGIT ACTUM
(C. cost., sent. 26 novembre 2015, n. 240)
La Corte costituzionale (sentenza del 26 novembre 2015, n. 240) si pronuncia in tema di disciplina intertemporale della messa alla prova, ritenendo infondata la questione di legittimità dell’art. 464-bis, comma 2, c.p.p., sollevata dal Tribunale di Torino in riferimento gli artt. 3, 24, 111 e 117, comma 1, Cost., e
art. 7 CEDU, nella parte in cui la norma, in assenza di una disposizione transitoria, preclude l’ammissione all’istituto agli imputati di processi pendenti in primo grado, nei quali la dichiarazione di apertura del dibattimento sia stata effettuata prima dell’entrata in vigore della l. n. 67 del 2014.
La pronuncia, invero molto attesa, interviene per fare chiarezza sulla vexata quaestio dei “tempi di
applicazione” dell’art. 464-bis c.p.p. che, in assenza di coordinate normative espresse, può essere risolta
unicamente facendo ricorso ai principi generali di diritto intertemporale previsti dall’ordinamento.
Un’operazione, questa, tutt’altro che agevole, che a monte presuppone un’indagine circa la natura
del nuovo istituto processuale: in parte disciplinato all’interno del codice penale, come nuova causa di
estinzione del reato, e in parte nel codice di procedura penale, quale nuovo procedimento speciale, la
messa alla prova assume connotati sia sostanziali che processuali; la sua natura “anfibia” si ripercuote
inevitabilmente sulla scelta delle norme intertemporali da applicare.
Difatti, ove si ritenga che abbia natura essenzialmente processuale, l’operatività della disciplina sarebbe sorretta dal principio tempus regit actum, con la conseguenza che non potrebbe accedersi all’istituto in tutti i giudizi che abbiano già superato i termini di cui all’art. 464-bis c.p.p. Ove, al contrario, si
consideri che le nuove norme abbiano introdotto un istituto sostanziale di favore, si potrebbe richiamare il principio di retroattività della lex mitior superveniens, convenzionalmente imposto (ex art. 7 CEDU).
Il Tribunale torinese, inserendosi nel solco già tracciato da altre pronunce della giurisprudenza di
merito, si mostra favorevole ad un’esegesi estensiva, che conduca all’applicazione della messa alla prova anche ai giudizi in cui i termini siano spirati, ma si trovino pendenti in primo grado: esigenze di
uguaglianza e ragionevolezza – si legge nell’ordinanza di rimessione – impongono l’applicazione retroattiva della disciplina più favorevole a quei processi nei quali sia già intervenuta la dichiarazione di
apertura del dibattimento. Ciò appare rispettoso anche del diritto di difesa dell’imputato, declinato come facoltà di richiedere un rito alternativo, altrimenti preclusa se esercitata oltre i termini decadenziali
di cui all’art. 464-bis c.p.p.
Tale soluzione, pur nella comprensibile intenzione di voler garantire l’accesso a uno strumento sicuramente “di favore”, non convince il Giudice delle leggi, che provvede immediatamente a chiarire
l’equivoco ontologico di fondo: il nuovo istituto determina l’effetto sostanziale di estinguere il reato, ma
«è connotato da un’intrinseca dimensione processuale», in quanto consiste in un nuovo procedimento
speciale, alternativo al giudizio, nel corso del quale il giudice decide con ordinanza sulla richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova; di qui, la piena operatività del principio del tempus
regist actum.
La natura processuale dell’istituto appare confermata anche dalla Corte di Strasburgo, che, in ossequio al principio di legalità, ha interpretato le norme in materia di retroattività contenute nell’art. 7 della Convenzione come riferibili alle sole disposizioni che definiscono i reati e le pene che li reprimono
(Corte e.d.u., sent. 27 aprile 2010, Morabito c. Italia; sent. 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia). Perciò «è
da ritenere che il principio di retroattività della lex mitior riguardi esclusivamente la fattispecie incriminatrice e la pena, mentre sono estranee all’ambito di operatività di tale principio, così delineato, le ipotesi in cui non si verifica un mutamento, favorevole al reo, nella valutazione sociale del fatto, che porti a
ritenerlo penalmente lecito o comunque di minore gravità» (sent. 22 luglio 2011, n. 236).
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La preclusione di cui lamenta gli effetti il Tribunale torinese, dunque, è conseguenza non della mancanza di retroattività della norma penale ma del normale regime temporale della norma processuale,
rispetto alla quale il riferimento all’art. 7 Cedu «risulta fuori luogo».
Né, sotto un differente profilo, si potrebbe qualificare l’assenza di una disposizione transitoria ad hoc
come un’omissione illegittima del legislatore, che gode, invece, di ampia discrezionalità nello stabilire
la disciplina temporale dei nuovi istituti processuali, sicché le relative scelte, salvo che non siano del tutto
irragionevoli, si sottraggono a censure di costituzionalità (ord. 28 dicembre 2006, n. 455; ord. 8 marzo
2005, n. 91).
Ebbene, nel caso dell’art. 464-bis c.p.p., la scelta di parificare la disciplina del termine per la richiesta,
senza distinguere tra processi in corso e pendenti, appare ai giudici costituzionali del tutto ragionevole:
«è allo stato del processo che il legislatore ha inteso fare riferimento e sotto questo aspetto ben può dirsi
che ha trattato in modo uguale situazioni processuali uguali. Il termine entro il quale l’imputato può
richiedere la sospensione del processo con messa alla prova è collegato alle caratteristiche e alla funzione dell’istituto, che è alternativo al giudizio ed è destinato ad avere un rilevante effetto deflattivo». Sarebbe illogico, ritiene la Corte, consentire la richiesta nel corso del dibattimento, quando ormai il giudizio si avvicina al suo epilogo.
Per le stesse ragioni, anche le questioni relative alla violazione degli artt. 24 e 111 Cost. vengono destituite di fondamento, non potendosi ritenere leso né il diritto di difesa dell’imputato, né quello ad un
giusto processo.
La Corte costituzionale, così argomentando, chiarisce finalmente il regime temporale della messa alla prova, dichiarando infondata la questione di legittimità dell’art. 464-bis, comma 2, c.p.p., e ritenendo
preclusa agli imputati di processi pendenti in primo grado, nei quali la dichiarazione di apertura del
dibattimento sia stata effettuata prima dell’entrata in vigore della legge n. 67 del 2014, la facoltà di accedere al nuovo procedimento speciale.
***
I LIMITI AL PATTEGGIAMENTO NEI REATI TRIBUTARI ALL’INDOMANI DEL D.LGS. N. 158 DEL 2015
(C. cost., ord. 5 novembre 2015, n. 225)
Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Torino dubita della legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 10, 24, 77, 101, 104, 111, 112 e 113 Cost., dell’art. 13, comma 2-bis, d.lgs. 10 marzo
2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma
dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205), aggiunto dall’art. 2, comma 36-vicies semel, lettera m),
d.l. 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo),
convertito, con modificazioni, dalla l. 14 settembre 2011, n. 148, in forza del quale, per i delitti di cui al
medesimo decreto legislativo, l’applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 c.p.p. può essere chiesta
dalle parti solo qualora ricorra l’attenuante prevista dai commi 1 e 2 dello stesso art. 13, ossia solo se i
debiti tributari relativi ai fatti costitutivi dei predetti delitti – comprensivi delle sanzioni amministrative, ancorché non applicabili all’imputato in forza del principio di specialità – siano stati estinti, mediante pagamento, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado.
Come noto, la l. 14 settembre 2011, n. 148, nel modificare la disciplina penale tributaria contenuta nel
d.lgs. n. 74 del 2000, ha introdotto una condizione ostativa per l’accesso al “patteggiamento”, prevedendo che il contribuente possa accedere al rito speciale, «solo qualora ricorra la circostanza attenuante
di cui ai co. 1 e 2», ovvero, allorquando, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, venga
effettuato il pagamento ad estinzione dei debiti tributari conseguenti alle condotte illecite.
L’innesto normativo de quo, pur apprezzabile per l’implementazione dei meccanismi riparatori attraverso procedure conciliative, sin dalla sua introduzione ha destato non poche perplessità fra gli addetti ai lavori; il GUP torinese, nell’ordinanza di rimessione, sembra farsi interprete di sospetti generalmente condivisi. Fra questi, innanzitutto, vi è il dubbio che la disposizione, subordinando la facoltà
di accesso al rito alternativo alla sollecita definizione di ogni pendenza con l’amministrazione finanziaria, sia potenzialmente idonea a compromettere il diritto di azione del contribuente-imputato contro gli
atti impositivi illegittimi, in violazione degli artt. 24, comma 1, e 113 Cost.
Al contempo, tale preclusione mostra dei profili di frizione rispetto al canone del giusto procesSCENARI | CORTE COSTITUZIONALE
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so, laddove pare operare sulla base di una violazione tributaria non ancora accertata né in sede penale, né, di norma, nell’ambito dello stesso giudizio tributario (artt. 24, comma 2, e 111 Cost.).
Ancora. Legando la deflazione processuale agli esiti, anche non definitivi, «delle vicende amministrative o giudiziarie del debito tributario», la norma impugnata sembra creare un inedito vincolo per il
giudice, soggetto non più soltanto alla legge, ma anche al procedimento amministrativo (artt. 101,
comma 2, e art. 104, comma 1, Cost).
Specularmente, l’amministrazione finanziaria condizionerebbe l’esercizio delle funzioni della magistratura, non solo giudicante, ma anche requirente.
Rischia di subire indebite restrizioni anche il principio di obbligatorietà dell’azione penale, nella misura in cui l’estinzione dei debiti fiscali può avvenire anche «a seguito delle speciali procedure conciliative o di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie», affidate alla discrezionalità dell’amministrazione finanziaria, che potrebbe, così, limitare gli strumenti a disposizione della pubblica
accusa (art. 112 Cost.).
Sullo sfondo, infine, c’è un più generale problema di uniformità di trattamento, da leggere sotto un
duplice profilo: sia con riferimento al diritto di difesa dell’imputato non abbiente, il quale potrebbe vedersi precluso l’accesso al rito speciale per motivi legati alla propria condizione economica (artt. 3 e 24
Cost.); che in relazione all’imprenditore-imputato, il solo a poter accedere alla definizione dei debiti tributari originati dalla propria attività d’impresa e all’eventuale (e successivo) “patteggiamento”, diversamente dai coimputati estranei all’impresa, ai quali sarebbe preclusa la medesima opportunità.
A complicare il quadro, poi, le modifiche normative di recente introduzione. Successivamente
all’ordinanza torinese di rimessione, infatti, è intervenuto il decreto legislativo 24 settembre 2015, n. 158
(Revisione del sistema sanzionatorio, in attuazione dell’articolo 8, comma 1, della legge 11 marzo 2014,
n. 23), che ha apportato ampie variazioni al sistema sanzionatorio tributario, tanto penale che amministrativo.
L’applicazione della nuova disciplina, differita al 1° gennaio 2017 unicamente in rapporto alle disposizioni attinenti alle sanzioni amministrative (art. 32, comma 1, d.lgs. n. 158 del 2015), è, invece, pienamente operativa per le nuove norme penali (a decorrere dal 22 ottobre 2015).
Ebbene, per effetto dell’innesto legislativo da ultimo citato, l’art. 13, d.lgs. n. 74 del 2000 è stato integralmente sostituito, ed è attualmente dedicato alla disciplina dei casi nei quali il pagamento del debito
tributario, già configurato come circostanza attenuante speciale, assurge a causa di non punibilità; la disposizione limitativa dell’accesso al “patteggiamento”, invece, è transitata nel comma 2 del nuovo art.
13-bis.
Più nello specifico, la norma al comma 1, prevede la diminuzione della pena sino alla metà e la non
applicabilità delle sanzioni accessorie nel caso di integrale pagamento del debito tributario, prima
dell’apertura del dibattimento di primo grado, anche a seguito di speciali procedure conciliative e di
adesione all’accertamento. Il comma 2, riprendendo il testo del vecchio art. 13, comma 2-bis, prevede la
possibilità di definizione del procedimento con la applicazione della pena su richiesta di parte solo
quando ricorra la circostanza di cui al comma 1.
La disposizione, nella sua nuova veste, pur apportando delle modifiche alla disciplina precedente,
conferma – in parte qua – la preclusione a patteggiare ove l’imprenditore non si sia attivato per l’estinzione delle sue pendenze con l’amministrazione finanziaria.
Orbene, la Corte costituzionale, rilevato lo ius superveniens, non entra del merito delle censure mosse
dal G.u.p. e rimette gli atti affinché si verifichi se, e in quale misura, l’innesto normativo abbia inciso
sulla rilevanza della questione e sulle singole censure formulate, onde poi rivalutare la rilevanza e la
non manifesta infondatezza della questione alla luce del mutato quadro normativo.
Una decisione, questa, che lascia irrisolte molte questioni e fa verosimilmente presagire nuove prese
di posizione sul punto; all’interprete spetta il compito, quasi profetico, di prevedere i possibili epiloghi.
Per rispondere agli interrogativi posti dal giudice a quo bisogna guardare alla stessa giurisprudenza
del Giudice delle leggi, che solo pochi mesi fa si è confrontato con i limiti del patteggiamento in materia
tributaria. Ebbene, con sentenza n. 95 del 2015, la Consulta ha fermamente respinto i dubbi di legittimità costituzionale che da tempo (e da più fronti) circondavano l’art. 13, comma 2-bis, d.lgs. 74 del 2000.
In particolare, è stato chiarito che qualunque norma che imponga oneri patrimoniali per il raggiungimento di determinati fini risulta diversamente utilizzabile a seconda delle condizioni economiche dei
soggetti interessati a conseguirli; non per questo solo, tuttavia, essa è costituzionalmente illegittima. Per
dirsi violato il principio di uguaglianza è necessario, infatti, che la disposizione comprometta l’esercizio
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di un diritto che la Costituzione garantisce parimenti a tutti (sentenze n. 21 del 1961 e n. 67 del 1960),
ovvero che imponga oneri non giustificati da ragioni connesse a circostanze obiettive, così da determinare irragionevoli situazioni di vantaggio o svantaggio.
Non è il caso del “vecchio” art. 13, comma 2-bis, d.lgs. n. 74 del 2000, il quale, al contrario, sembra
coniugare perfettamente il generale interesse pubblico all’eliminazione delle conseguenze dannose del
reato – stante anche per il suo valore sintomatico del processo di ravvedimento del reo– con l’obiettivo
specifico dell’integrale riscossione dei tributi evasi. Parimenti, con riferimento al diritto di accedere
all’applicazione della pena su richiesta, se, da un lato, costituisce una modalità – tra le più qualificanti
ed incisive – di esercizio del diritto di difesa (ex plurimis, sentenze n. 273 del 2014, n. 333 del 2009 e n.
219 del 2004), dall’altro lato, è altrettanto vero che una legge che neghi tale facoltà in rapporto ad una
determinata categoria di reati (nella specie, quelli tributari) non vulnera il nucleo incomprimibile del
diritto di difesa. La facoltà di patteggiare non può essere evidentemente considerata una condicio sine
qua non per un’efficace tutela della posizione giuridica dell’imputato, tanto è vero che essa è esclusa per
un largo numero di reati.
Sulla scorta delle argomentazioni che precedono e stante la sostanziale identità fra vecchia e nuova
disciplina, si può ragionevolmente supporre che, ove il patteggiamento “condizionato” dovesse essere
posto nuovamente in dubbio, la Corte costituzionale attingerà dai suoi stessi precedenti per dichiarare
l’infondatezza della questione.
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SEZIONI UNITE
di Teresa Alesci
LA MANCATA COMPARIZIONE DELLA PERSONA OFFESA NEL PROCESSO INNANZI AL GIUDICE DI PACE NON
IMPEDISCE LA DICHIARAZIONE DI IMPROCEDIBILITÀ DELL’AZIONE PENALE PER PARTICOLARE TENUITÀ DEL
FATTO
(Cass., sez. un., 27 ottobre 2015, n. 43264)
Le Sezioni Unite si sono pronunciate sulla irrilevanza, dopo l’esercizio dell’azione penale, della mancata comparizione in dibattimento della persona offesa ai fini dell’abilitazione del giudice di pace a valutare la sussistenza dei presupposti per la definizione del procedimento per particolare tenuità del fatto.
La Quinta sezione, assegnataria del ricorso, ha riscontrato un contrasto giurisprudenziale sulla interpretazione dell’art. 34, d.lgs. 274 del 2000, secondo cui, dopo l’esercizio dell’azione penale, la particolare tenuità del fatto può essere dichiarata con sentenza solo se l’imputato e la persona offesa non si oppongono.
Un primo orientamento, sostenuto dalla Sezione rimettente, ritiene che la mancata comparizione
della persona offesa in udienza non può essere interpretata come volontà di non opposizione rispetto
ad un’eventuale valutazione del giudice sulla particolare tenuità del fatto (Cass., sez. V, 21 settembre
2012, n. 49781), poiché l’assenza in giudizio costituisce un fatto neutro e privo di rilevanza (Cass., sez.
V, 09 luglio 2013, n. 33763). D’altro canto, la volontà della persona offesa di non opporsi può derivare
anche da fatti sintomatici, purché essi siano univoci, ovvero rilevatori di una volontà non ostativa a tale
esito liberatorio (Cass., sez. V, 7 maggio 2009, n. 33689; Cass., sez. V, 26 marzo 2014, n. 17965).
Secondo un diverso indirizzo interpretativo la decisione della persona offesa di non comparire in
giudizio, allorché regolarmente citata o irreperibile e, dunque, nelle condizioni di esprimere la sua volontà, implica la rinuncia all’esercizio di tutte le facoltà processuali previste dalla legge e non impedisce
al giudice di valutare la sussistenza dei presupposti considerati dall’art. 34, comma 1, d.lgs. cit. (Cass.,
sez. V, 5 dicembre 2008, n. 9700). Di conseguenza, l’opposizione di cui al co. 3, deve concretarsi in una
volontà di opinione necessariamente espressa, non potendosi desumere da atti o comportamenti che
non abbiano il carattere di una formale ed inequivoca manifestazione di volontà (Cass., sez. II, 13 maggio 2014, n. 37525).
Preliminarmente le Sezioni Unite distinguono la tenuità del fatto, prevista nel processo minorile,
quale causa di improcedibilità dell’azione, dal nuovo istituto recentemente inserito nel processo penale
ordinario con d.lgs. 18 marzo 2015, n. 28, che ha introdotto l’art. 131-bis cod. pen., quale causa di non
punibilità. Ad avviso della Suprema corte, i due istituti, che valorizzano in senso liberatorio la tenuità
del fatto, non contemplano una facoltà inibitoria esercitabile oltre che dall’imputato anche dalla persona offesa. Al contrario, tale facoltà è espressamente prevista dall’art. 34, d.lgs. 274 del 2000, in virtù della natura conciliativa della giurisdizione di pace, che attribuisce all’offeso una peculiare posizione, riconoscendogli anche un potere di iniziativa nella vocativo in jus nei reati procedibili a querela di parte.
Secondo la Suprema corte entrambi gli orientamenti giurisprudenziali si basano sull’erroneo presupposto insito della necessità di accertare un’adesione – implicita o esplicita– della persona offesa al
fine di pervenire all’esito liberatorio. Infatti, l’art. 34, comma 3, d.lgs. n. 274 del 2000 non richiede
un’adesione a simile esito, poiché attribuisce rilevanza esclusivamente all’opposizione. Ne consegue
che la norma, in linea con quanto osservato dalla Corte costituzionale nell’ordinanza n. 63 del 2007,
«prevede ai fini dell’operatività dell’istituto de quo, nella fase successiva all’azione penale, non già una
condizione positiva (il consenso), ma una condizione negativa (la non opposizione)».
La volontà di opporsi alla definizione liberatoria, pertanto, deve essere necessariamente espressa,
non potendosi desumere da atti o comportamenti che non abbiano il carattere di una formale ed in
equivoca manifestazione di volontà.
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Se da un lato, la Suprema corte precisa che la persona offesa deve essere messa in condizione di
esprimere la sua eventuale opposizione, d’altro canto non è imposta un’apposita convocazione specificamente preordinata a raccogliere la sua eventuale opposizione. Dunque, l’atto di opposizione, essendo
atto personalissimo, può provenire personalmente dalla persona offesa o a mezzo di procuratore speciale e deve manifestarsi, dopo l’esercizio dell’azione penale, essendo inidonea una eventuale opposizione formulata “ora per allora” prima di tale cadenza processuale. D’altro canto, vi è una diversa disciplina per la fase precedente l’esercizio dell’azione penale, poiché l’esito liberatorio non è vincolato da
una dichiarazione di opposizione della persona offesa, ma è determinato dall’apprezzamento del giudice sull’“interesse della persona offesa alla prosecuzione del procedimento”.
In conclusione, il principio di diritto affermato dalla Corte è il seguente: «Nel procedimento davanti
al giudice di pace, dopo l’esercizio dell’azione penale, la mancata comparizione in udienza della persona offesa, regolarmente citata o irreperibile, non è di per sé di ostacolo alla dichiarazione di improcedibilità dell’azione penale per la particolare tenuità del fatto in presenza dei presupposti di cui all’art. 34,
co. 1, d.lgs. 274 del 2000».
***
LA LEGGE SOPRAVVENUTA MODIFICATIVA DEL TRATTAMENTO SANZIONATORIO È APPLICABILE D’UFFICIO
IN SEDE DI LEGITTIMITÀ ANCHE IN CASO DI RICORSO INAMMISSIBILE
(Cass., sez. un., 25 novembre 2015, n. 46653)
Le Sezioni unite sono state chiamate a pronunciarsi sulla rilevabilità d’ufficio, in sede di legittimità, in
presenza di ricorso manifestamente infondato e privo di censure in ordine al trattamento sanzionatorio,
degli effetti delle modifiche normative sopravvenute in termini di attenuazione della pena, anche nel
caso in cui la pena inflitta rientri nella cornice edittale della nuova disciplina.
In virtù della complessità del quesito, le Sezioni Unite precisano che la soluzione presuppone la disamina di una serie di problemi di rilievo costituzionale, sia di natura sostanziale che processuale.
Preliminarmente la Suprema corte svolge un’indagine sul valore costituzionale del principio di legalità della pena, per verificare se possa ritenersi illegale una pena inflitta in base ad un quadro normativo
sanzionatorio, successivamente mutato in senso favorevole all’imputato, qualora la pena risulti comunque formalmente compatibile anche con la nuova forbice edittale prevista per il reato.
Il principio costituzionale di legalità della pena, ricavabile dall’art. 25 Cost., che pone una riserva di
legge assoluta, riguarda non solo l’an dell’irrogazione ma anche il quomodo, e soprattutto il quantum della stessa. Di conseguenza la riserva di legge impone al legislatore di determinare la pena da irrogare tra
un minimo ed un massimo e di contenere in tempi ragionevoli la distanza tra un minimo ed un massimo; dall’altro impone al giudice di esercitare il suo potere discrezionale in base ai criteri stabiliti dalla
legge, tra cui quello della “gravità del reato” desunta da indici oggettivi e soggettivi.
Secondo le Sezioni Unite, dunque, la legalità della pena irrogata per un reato per il quale sia mutata
la cornice edittale in senso favorevole al reo, ma rientrante nella nuova cornice edittale, deve essere verificata in concreto nel singolo caso. Sebbene la categoria della illegalità della pena sia da ritenere più
ampia di quella tradizionalmente accolta, per accertarne la sussistenza della stessa bisogna verificare
l’esistenza di diverse condizioni.
Ad avviso delle Sezioni Unite, quindi, è “illegale” la pena che, rimanendo nei margini edittali sopravvenuti, sia stata irrogata con riferimento alla gravità di un fatto criminoso il cui disvalore sociale
non sia mutato significativamente ovvero di una pena inflitta entro limiti ragionevolmente commisurabili alla diversa gravità del fatto così come previsto dalla nuova normativa. Infatti la pena non è illegale ma “ingiusta”, allorquando sia stata legittimamente inflitta con un’adeguata motivazione giustificatrice che tenga conto dell’innovazione normativa. D’altro canto, è illegale la pena che, pur rimanendo nei margini edittali della disciplina più favorevole, ne stravolga i parametri di riferimento,
tra i quali la proporzionalità, e sia applicata in modo incompatibile con la disciplina normativa successiva.
La validità di tale ricostruzione esegetica sarebbe opinabile se il giudice della cognizione – e anche
quello di legittimità – non disponesse di uno strumento normativo per ricondurre a giustizia una pena
irrogata con riferimento ad un quadro normativo mutato in favore dell’imputato, per contrasto con la
normativa CEDU e con l’art. 25 Cost. Non può infatti, applicarsi, al caso della sopravvenuta modifica
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legislativa, la disciplina della dichiarazione di incostituzionalità della normativa sanzionatoria, come
già ribadito dalle Sezioni Unite del 26 febbraio 2015, con sentenza n. 33040.
Nell’ipotesi sottoposta all’attenzione del Supremo collegio, relativa alla successione di norme che
hanno modificato in senso favorevole all’imputato il trattamento sanzionatorio, è applicabile l’art. 2
quarto comma c.p. con la conseguenza che il giudice della cognizione è obbligato ad applicare il trattamento che accerti essere più favorevole al reo.
Sul versante processuale, il quesito posto alle Sezioni Unite riguarda la possibilità di operare tale
sindacato anche quando il ricorso è inammissibile ovvero quando a ciò osti la formazione di un giudicato.
La diversità di pronunce contrastanti sul tema evidenzia la complessità della questione ed induce la
Suprema Corte a ripercorrere l’evoluzione storica dell’istituto del “giudicato”. Dopo aver precisato che
l’erosione del mito del giudicato è stata determinata anche dalla giurisprudenza della Corte e.d.u., le
Sezioni Unite ribadiscono che a fronte di una lesione o di una violazione dei diritti e delle garanzie fondamentali delle persone di natura sia processuale che sostanziale, il principio di intangibilità del giudicato trovi una serie di limitazioni, che impongono all’ordinamento di eliminare le violazioni, o di adeguarne gli effetti quando l’eliminazione sia divenuta impossibile, e al giudice di individuare lo strumento più idoneo a questo fine (così già Sezioni Unite del 24 ottobre 2013, n. 18821). Non appare ostativo, dunque, la formazione del giudicato, essendo rilevante verificare la lesione di un diritto o di una
garanzia fondamentale della persona.
Se la pena deve adempiere alla funzione rieducativa, essa non può essere inflitta con riferimento ad
un apparato sanzionatorio che il legislatore, modificandolo in favore del reo, non ritiene più adeguato
per una condotta che resta “diversamente” rilevante sul piano penale. Anche il principio di proporzionalità non appare garantito in questi casi, poiché la pena è stata stabilita in concreto sulla base di criteri
che, in linea di massima, sembrano di maggiore gravità rispetto a quelli che il condannato avrebbe avuto diritto di vedersi applicare, sia pure con una valutazione compiuta a posteriori. Secondo le Sezioni
Unite, dunque, il giudice della cognizione ha l’obbligo di rimuovere la situazione di violazione di un
principio fondamentale dell’ordinamento, quale è il diritto dell’imputato ad essere giudicato in base al
trattamento più favorevole tra quelli succedutisi nel tempo, con l’unico limite della deroga al principio
del retroattività della lex mitior.
Peraltro le Sezioni Unite ritengono che la violazione della disciplina sostanziale applicabile possa essere rilevata d’ufficio dal giudice di legittimità anche qualora l’imputato, con il ricorso originario, non
abbia proposto alcun motivo riguardante la pena; infatti, prosegue la Corte, pur non vertendosi in
un’ipotesi di pena illegale, indipendentemente dal momento in cui il ricorso sia stato proposto, la questione è rilevabile d’ufficio per una pluralità di ragioni. In primis, la stessa formulazione dell’art. 2 quarto comma c.p. che richiede per la sua applicazione che la sentenza impugnata non sia divenuta irrevocabile, e pertanto che non sia stata pronunciata la sentenza che dichiara inammissibile o rigetta il ricorso; in secondo luogo, la violazione in questione è ascrivibile alle violazioni dei diritti fondamentali della
persona, che il giudice deve eliminare.
In conclusione, le Sezioni Unite affermano che «in caso di ricorso inammissibile per qualunque ragione e privo di motivi relativi al trattamento sanzionatorio, è applicabile d’ufficio, in sede di legittimità, la legge sopravvenuta modificativa del trattamento sanzionatorio in senso più favorevole
all’imputato, emanata successivamente alla pronuncia impugnata, e ciò anche nell’ipotesi in cui la pena
inflitta rientri nella nuova cornice edittale, alla cui luce il giudice del rinvio deve comunque riesaminare
la questione».
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DECISIONI IN CONTRASTO
di Paola Corvi
L’AVVISO ALL’INDAGATO DELLA FACOLTÀ DI FARSI ASSISTERE DA UN DIFENSORE È DOVUTO ANCHE IN
CASO DI SEQUESTRO PREVENTIVO DISPOSTO SU INIZIATIVA DELLA POLIZIA GIUDIZIARIA?
(Cass., sez. III, ord. 28 settembre 2015, n. 39188)
Nell’ordinanza in esame si evidenzia un contrasto all’interno delle sezioni della Corte di cassazione
sull’operatività dell’art. 114 disp. att. in caso di sequestro preventivo effettuato da ufficiali di polizia
giudiziaria e sulle conseguenze, derivanti dalla mancata applicazione di tale norma, sul decreto di sequestro emesso dal giudice delle indagini preliminari.
Come è noto l’art. 114 disp. att. pone in capo alla polizia giudiziaria l’obbligo di avvertire la persona
sottoposta alle indagini della facoltà di farsi assistere dal difensore di fiducia, quando debba procedere
al compimento degli atti indicati nell’art. 356 c.p.p. – perquisizioni, accertamenti urgenti su luoghi, cose
o persone, sequestri, immediata apertura di plico autorizzata dal pubblico ministero – e la persona indagata sia presente. La disposizione è stata diversamente letta dalla giurisprudenza che ha aderito ora
ad un’interpretazione sistematica, fondata sulla ratio e le finalità di garanzia difensiva della norma, ora
ad una interpretazione costruita sul mero dato letterale.
Secondo un primo orientamento l’obbligo di avvertire la persona sottoposta alle indagini della facoltà di farsi assistere dal difensore di fiducia grava anche sugli ufficiali di polizia giudiziaria che abbiano
disposto un sequestro preventivo, prima dell’intervento del pubblico ministero, ai sensi dell’art. 321,
comma 3-bis, c.p.p., sebbene tale norma non faccia parte di quelle richiamate dall’art. 356 c.p.p. (Cass.,
sez. III, 30 settembre 2014, n. 40361; Cass., sez. III, 21 settembre 2012, n. 36597; Cass., sez. III, 4 aprile
2007, n. 18049). Secondo questo orientamento, nelle ipotesi in cui eccezionalmente il sequestro preventivo venga eseguito dalla polizia giudiziaria, si verifica la stessa situazione prevista per il sequestro
probatorio e conseguentemente sarebbe incongruo escludere in tale ipotesi l’avvertimento. Il dato letterale del mancato richiamo dell’art. 356 c.p.p. al sequestro preventivo non è ritenuto decisivo sia perché
l’omessa esplicita menzione del sequestro preventivo è stata presumibilmente determinata dal fatto che
questo è normalmente atto del giudice e non della polizia giudiziaria, sia perché l’art. 321, comma 3-bis,
c.p.p. è stato inserito successivamente con il d.lgs. n. 12 del 1991 (Cass., sez. III, 30 maggio 2005, n.
20168). Per questi motivi la soluzione ermeneutica più conforme al dettato legislativo e, allo stesso tempo, più adeguata al fondamentale ed inviolabile principio costituzionale del diritto di difesa sancito
dall’art. 24 Cost. è quella secondo cui il disposto dell’art. 114 disp. att. c.p.p. debba trovare applicazione
anche nel caso di sequestro preventivo, allorché, nelle situazioni di urgenza, venga eseguito ad iniziativa della polizia giudiziaria.
Un opposto orientamento giurisprudenziale privilegia invece il mero dato letterale ed esclude pertanto che l’obbligo di dare avviso all’indagato della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia
operi anche con riferimento al sequestro preventivo disposto di iniziativa della polizia giudiziaria.
L’art. 114 disp. att. c.p.p., riferito alle indagini preliminari, contiene, infatti, un esclusivo richiamo alle
attività indicate dall’art. 356 c.p.p., tutte finalizzate alla assicurazione delle fonti di prova, che presuppongono la convalida o l’autorizzazione del solo Pubblico Ministero e quindi per questo motivo giustificano l’avviso. Nel caso del tutto differente del sequestro preventivo di iniziativa, – misura cautelare
reale che corrisponde ad esigenze ben diverse da quelle previste per il sequestro probatorio – il mantenimento del vincolo dipende esclusivamente ed in via immediata dal giudice, il quale svolge un immediato controllo sulla legittimità dell’operato della polizia giudiziaria, con la conseguenza che il mancato
avviso non determina alcun vulnus del diritto di difesa. Secondo questo indirizzo giurisprudenziale, tale sostanziale ed evidente differenza con le attività contemplate dall’art. 356 c.p.p. non può essere stata
ignorata dal legislatore il quale, nel disporre l’introduzione dell’art. 321, comma 3 bis, c.p.p. ben avrebSCENARI | DECISIONI IN CONTRASTO
Processo penale e giustizia n. 1 | 2016
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be potuto modificare anche l’art. 114 disp. att. c.p.p. (v., tra le altre, Cass., sez. III, 31 marzo 2015, n.
13605; Cass., sez. III, 11 novembre 2013, n. 45321; Cass. sez. I, 4 luglio 2012, n. 25849; Cass., sez. III, 23
novembre 2012, n. 45850; Cass., sez. IV, 26 ottobre 2010, n. 37937; Cass., sez. IV, 16 luglio 2009, n. 42512).
Nell’ambito del primo orientamento, peraltro, non si riscontra unanimità di vedute circa le conseguenze, derivanti alla inosservanza dell’obbligo di dare avviso all’indagato della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia, sul decreto di sequestro preventivo emesso dal giudice per le indagini
preliminari successivamente alla convalida del sequestro operato di iniziativa della polizia giudiziaria,
viziato da nullità.
Si è affermato che la nullità del sequestro effettuato dalla polizia giudiziaria ex art. 356 c.p.p. e 114
disp. att., si propagherebbe alla richiesta di convalida e al provvedimento di convalida– non potendo
evidentemente essere legittimamente convalidato un sequestro nullo– ma non si estenderebbe al distinto provvedimento con cui il giudice per le indagini preliminari ha disposto il sequestro preventivo, trattandosi di atto autonomo, non sovrapponibile agli atti precedentemente adottati (Cass., sez. III, 30 settembre 2014, n. 40361). Al contrario, in altre pronunce, si è sostenuto che la nullità derivante dall’omesso avvertimento all’indagato della facoltà di avvisare il difensore di fiducia colpisca anche il decreto
di sequestro emesso dal giudice per le indagini preliminari (Cass., sez. III, 21 settembre 2012, n. 36597;
Cass., sez. III, 4 aprile 2007, n. 18049).
Al fine di risolvere l’articolato contrasto giurisprudenziale, più volte segnalato, con l’ordinanza in
esame si chiede l’intervento delle Sezioni Unite affinché stabiliscano se l’obbligo, a pena di nullità, di
dare avviso all’indagato, presente al compimento dell’atto, della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia operi anche con riferimento al sequestro preventivo disposto di iniziativa dalla polizia
giudiziaria, nonché, in caso affermativo, se tale nullità, determini anche l’invalidità del decreto di sequestro preventivo emesso dal g.i.p. dopo la convalida del provvedimento di urgenza.
SCENARI | DECISIONI IN CONTRASTO
Processo penale e giustizia n. 5 | 2015
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Processo penale e giustizia n. 1 | 2016
Avanguardie in giurisprudenza
Cutting Edge Case Law
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | VIOLAZIONE DEI DIRITTI DELL’EQUO PROCESSO E LA LORO APPLICABILITÀ
Processo penale e giustizia n. 1 | 2016
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Reati lesivi di interessi finanziari dell’UE e disciplina della
prescrizione
CORTE DI GIUSTIZIA UE, GRANDE SEZIONE, SENTENZA 8 SETTEMBRE 2015 – TARICCO, CAUSA C-105/14
La normativa italiana in tema di prescrizione del reato prevista all’art. 160, ultimo comma, c.p., che prevede, in
presenza di un atto interruttivo, un prolungamento di solo un quarto del periodo previsto dall’art. 157 c.p., è idonea a pregiudicare gli obblighi imposti agli Stati membri dell’UE dall’art. 325, § 1 e 2, TFUE, nel caso in cui tali
norme impediscano di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari della Unione. Conseguentemente, il giudice nazionale in tali casi è tenuto
a disapplicare le norme che impediscono allo Stato interessato di rispettare gli obblighi imposti dall’art. 325, §
1e 2, TFUE.
[Omissis]
CONTESTO NORMATIVO
Il diritto dell’Unione
3. L’articolo 325 TFUE prevede quanto segue:
«1. L’Unione e gli Stati membri combattono contro la frode e le altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell’Unione stessa mediante misure adottate a norma del presente articolo, che siano
dissuasive e tali da permettere una protezione efficace negli Stati membri e nelle istituzioni, organi e
organismi dell’Unione.
2. Gli Stati membri adottano, per combattere contro la frode che lede gli interessi finanziari
dell’Unione, le stesse misure che adottano per combattere contro la frode che lede i loro interessi finanziari (...)».
La Convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee
4. A termini del preambolo della Convenzione elaborata in base all’articolo K.3 del Trattato
sull’Unione europea relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee, firmata a Lussemburgo il 26 luglio 1995 (GU C 316, p. 48; in prosieguo: la «Convenzione PIF»), le parti contraenti di
tale Convenzione, Stati membri dell’Unione europea, sono convinti «che la tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee esige che ogni condotta fraudolenta che leda tali interessi debba dar luogo
ad azioni penali» e «della necessità di rendere tali condotte passibili di sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive, fatta salva l’applicazione di altre sanzioni in taluni casi opportuni, e di prevedere, almeno nei casi gravi, delle pene privative della libertà».
5. L’articolo 1, paragrafo 1, della Convenzione PIF così dispone:
«Ai fini della presente convenzione costituisce frode che lede gli interessi finanziari delle Comunità
europee:
(...)
b) in materia di entrate, qualsiasi azione od omissione intenzionale relativa:
– all’utilizzo o alla presentazione di dichiarazioni o documenti falsi, inesatti o incompleti cui consegua la diminuzione illegittima di risorse del bilancio generale delle Comunità europee o dei bilanci gestiti dalle Comunità europee o per conto di esse;
(...)».
6. L’articolo 2, paragrafo 1, di tale Convenzione prevede quanto segue:
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | REATI LESIVI DI INTERESSI FINANZIARI DELL'UE E DISCIPLINA DELLA PRESCRIZIONE
Processo penale e giustizia n. 1 | 2016
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«Ogni Stato membro prende le misure necessarie affinché le condotte di cui all’articolo 1 nonché la
complicità, l’istigazione o il tentativo relativi alle condotte descritte all’articolo 1, paragrafo 1, siano
passibili di sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive che comprendano, almeno, nei casi di
frode grave, pene privative della libertà che possono comportare l’estradizione, rimanendo inteso che
dev’essere considerata frode grave qualsiasi frode riguardante un importo minimo da determinare in
ciascuno Stato membro. Tale importo minimo non può essere superiore a [EUR] 50 000 (...)».
La direttiva 2006/112
7. L’articolo 131 della direttiva 2006/112 dispone che:
«Le esenzioni previste ai capi da 2 a 9 [del titolo IX della direttiva 2006/112] si applicano, salvo le altre disposizioni comunitarie e alle condizioni che gli Stati membri stabiliscono per assicurare la corretta
e semplice applicazione delle medesime esenzioni e per prevenire ogni possibile evasione, elusione e
abuso».
8. L’articolo 138, paragrafo 1, di tale direttiva prevede quanto segue:
«Gli Stati membri esentano le cessioni di beni spediti o trasportati, fuori del loro rispettivo territorio
ma nella Comunità, dal venditore, dall’acquirente o per loro conto, effettuate nei confronti di un altro
soggetto passivo, o di un ente non soggetto passivo, che agisce in quanto tale in uno Stato membro diverso dallo Stato membro di partenza della spedizione o del trasporto dei beni».
9. L’articolo 158 della suddetta direttiva dispone quanto segue:
«1. (...) gli Stati membri possono prevedere un regime di deposito diverso da quello doganale nei casi seguenti:
a) per i beni destinati a punti di vendita in esenzione da imposte (...);
(...)
2. Quando si avvalgono della facoltà di esenzione di cui al paragrafo 1, lettera a), gli Stati membri
adottano le misure necessarie per assicurare l’applicazione corretta e semplice di detta esenzione e per
prevenire qualsiasi evasione, elusione e abuso.
(...)».
La decisione 2007/436/CE
10. L’articolo 2, paragrafo 1, della decisione 2007/436/CE, Euratom del Consiglio, del 7 giugno 2007, relativa al sistema delle risorse proprie delle Comunità europee (GU L 163, pag. 17), è del seguente tenore:
«Costituiscono risorse proprie iscritte nel bilancio generale dell’Unione europea le entrate provenienti:
(...)
b) (...) dall’applicazione di un’aliquota uniforme, valida per tutti gli Stati membri, agli imponibili
IVA armonizzati, determinati secondo regole comunitarie. (...)».
Il diritto italiano
11. L’articolo 157 del codice penale, come modificato dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251 (GURI n.
285, del 7 dicembre 2005; in prosieguo: il «codice penale»), articolo riguardante la prescrizione in materia penale, prevede quanto segue:
«La prescrizione estingue il reato decorso il tempo corrispondente al massimo della pena edittale
stabilita dalla legge e comunque un tempo non inferiore a sei anni se si tratta di delitto e a quattro anni
se si tratta di contravvenzione, ancorché puniti con la sola pena pecuniaria.
(...)».
12. L’articolo 158 di tale codice fissa l’inizio della decorrenza del termine della prescrizione nel modo
seguente:
«Il termine della prescrizione decorre, per il reato consumato, dal giorno della consumazione; per il
reato tentato, dal giorno in cui è cessata l’attività del colpevole; per il reato permanente, dal giorno in
cui è cessata la permanenza.
(...)».
13. Ai sensi dell’articolo 159 di detto codice, relativo alle regole sulla sospensione del corso della
prescrizione:
«Il corso della prescrizione rimane sospeso in ogni caso in cui la sospensione del procedimento o del
processo penale o dei termini di custodia cautelare è imposta da una particolare disposizione di legge,
oltre che nei casi di:
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | REATI LESIVI DI INTERESSI FINANZIARI DELL'UE E DISCIPLINA DELLA PRESCRIZIONE
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1) autorizzazione a procedere;
2) deferimento della questione ad altro giudizio;
3) sospensione del procedimento o del processo penale per ragioni di impedimento delle parti e dei
difensori ovvero su richiesta dell’imputato o del suo difensore.
(...)
La prescrizione riprende il suo corso dal giorno in cui è cessata la causa della sospensione».
14. L’articolo 160 del medesimo codice, che disciplina l’interruzione del corso della prescrizione, così
dispone:
«Il corso della prescrizione è interrotto dalla sentenza di condanna o dal decreto di condanna.
Interrompono pure la prescrizione l’ordinanza che applica le misure cautelari personali e (...) il decreto di fissazione della udienza preliminare (...).
La prescrizione interrotta comincia nuovamente a decorrere dal giorno della interruzione. Se più sono gli atti interruttivi, la prescrizione decorre dall’ultimo di essi; ma in nessun caso i termini stabiliti
nell’articolo 157 possono essere prolungati oltre il termine di cui all’articolo 161, secondo comma, fatta
eccezione per i reati di cui all’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del codice di procedura penale».
15. A norma dell’articolo 161 del codice penale, relativo agli effetti della sospensione e dell’interruzione:
«La sospensione e l’interruzione della prescrizione hanno effetto per tutti coloro che hanno commesso il reato.
Salvo che si proceda per i reati di cui all’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del codice di procedura
penale, in nessun caso l’interruzione della prescrizione può comportare l’aumento di più di un quarto
del tempo necessario a prescrivere (...)».
16. L’articolo 416 del codice penale punisce con la reclusione fino a sette anni i promotori di
un’associazione finalizzata alla commissione di più delitti. Coloro che si limitano a partecipare ad una
siffatta associazione sono puniti con la reclusione fino a cinque anni.
17. Ai sensi dell’articolo 2 del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, recante nuova disciplina dei
reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto (GURI n. 76 del 31 marzo 2000; in prosieguo: il «d.lgs. n. 74/2000»), la presentazione di una dichiarazione IVA fraudolenta che menzioni fatture
o altri documenti relativi a operazioni inesistenti è punita con la reclusione da un anno e sei mesi a sei
anni. Alla stessa pena soggiace, ai sensi dell’articolo 8 del d.lgs. n. 74/2000, chiunque emetta fatture per
operazioni inesistenti al fine di consentire a terzi l’evasione dell’IVA.
FATTI DELLA CONTROVERSIA PRINCIPALE E QUESTIONI PREGIUDIZIALI.
18. A carico degli imputati è stato promosso, dinanzi al Tribunale di Cuneo, un procedimento penale
con l’imputazione di aver costituito e organizzato, nel corso degli esercizi fiscali dal 2005 al 2009,
un’associazione per delinquere allo scopo di commettere vari delitti in materia di IVA. Essi vengono infatti accusati di aver posto in essere operazioni giuridiche fraudolente, note come «frodi carosello» –
che implicavano, in particolare, la costituzione di società interposte e l’emissione di falsi documenti –
che avrebbero consentito l’acquisto di beni, segnatamente di bottiglie di champagne, in esenzione da
IVA. Tale operazione avrebbe consentito alla società Planet Srl (in prosieguo: la «Planet») di disporre di
prodotti a un prezzo inferiore a quello di mercato che poteva rivendere ai suoi clienti, in tal modo falsando detto mercato.
19. La Planet avrebbe ricevuto fatture emesse da tali società interposte per operazioni inesistenti. Le
stesse società avrebbero tuttavia omesso di presentare la dichiarazione annuale IVA o, pur avendola
presentata, non avrebbero comunque provveduto ai corrispondenti versamenti d’imposta. La Planet
avrebbe invece annotato nella propria contabilità le fatture emesse dalle suddette società interposte detraendo indebitamente l’IVA in esse riportata e, di conseguenza, avrebbe presentato dichiarazioni annuali IVA fraudolente.
20. Dall’ordinanza di rinvio emerge che, dopo che il procedimento sottoposto alla cognizione del
giudice del rinvio è stato oggetto di vari incidenti procedurali e a seguito del rigetto delle numerose eccezioni sollevate dagli imputati nell’ambito dell’udienza preliminare svoltasi dinanzi a detto giudice,
quest’ultimo è chiamato, da un lato, a pronunciare sentenza di non luogo a procedere nei confronti di
uno degli imputati, il sig. Anakiev, poiché i reati considerati risultano estinti per prescrizione nei suoi
riguardi. Dall’altro, egli dovrebbe emettere decreto di rinvio a giudizio per gli altri imputati, fissando
un’udienza dinanzi al giudice del dibattimento.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | REATI LESIVI DI INTERESSI FINANZIARI DELL'UE E DISCIPLINA DELLA PRESCRIZIONE
Processo penale e giustizia n. 1 | 2016
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21. Il giudice del rinvio precisa che i reati contestati agli imputati sono puniti, ai sensi degli articoli 2
e 8 del d.lgs. n. 74/2000, con la reclusione fino a sei anni. Il delitto di associazione per delinquere, previsto dall’articolo 416 del codice penale, di cui gli imputati potrebbero altresì essere dichiarati colpevoli,
sarebbe invece punito con la reclusione fino a sette anni per i promotori dell’associazione e fino a cinque anni per i semplici partecipanti. Ne consegue che, per i promotori dell’associazione per delinquere,
il termine di prescrizione è di sette anni, mentre è di sei anni per tutti gli altri. L’ultimo atto interruttivo
del termine sarebbe stato il decreto di fissazione dell’udienza preliminare.
22. Orbene, nonostante l’interruzione della prescrizione, il termine della medesima non potrebbe essere prorogato, in applicazione del combinato disposto dell’articolo 160, ultimo comma, del codice penale e dell’articolo 161 dello stesso codice (in prosieguo: le «disposizioni nazionali di cui trattasi») oltre
i sette anni e sei mesi o, per i promotori dell’associazione per delinquere, oltre gli otto anni e nove mesi
a decorrere dalla data di consumazione dei reati. Secondo il giudice del rinvio, è certo che tutti i reati,
ove non ancora prescritti, lo saranno entro l’8 febbraio 2018, ossia prima che possa essere pronunciata
sentenza definitiva nei confronti degli imputati. Da ciò conseguirebbe che questi ultimi, accusati di aver
commesso una frode in materia di IVA per vari milioni di euro, potranno beneficiare di un’impunità di
fatto dovuta allo scadere del termine di prescrizione.
23. Ad avviso del giudice del rinvio, tale conseguenza era tuttavia prevedibile a causa dell’esistenza
della regola sancita dal combinato disposto dell’articolo 160, ultimo comma, del codice penale e
dell’articolo 161, secondo comma, dello stesso codice, regola che permettendo solamente, a seguito di
interruzione della prescrizione, un prolungamento del termine di prescrizione di appena un quarto della sua durata iniziale, finisce in realtà col non interrompere la prescrizione nella maggior parte dei procedimenti penali.
24. Orbene, i procedimenti penali relativi a una frode fiscale come quella contestata agli imputati
comporterebbero, di norma, indagini assai complesse, con la conseguenza che il procedimento si protrarrebbe a lungo già nella fase delle indagini preliminari. La durata del procedimento, cumulati tutti i
gradi di giudizio, sarebbe tale che, in questo tipo di casi, l’impunità di fatto costituirebbe in Italia non
un’evenienza rara, ma la norma. Peraltro, sarebbe spesso impossibile per l’amministrazione tributaria
italiana recuperare l’importo di imposte che abbiano fatto oggetto del reato considerato.
25. In tale contesto, il giudice del rinvio ritiene che le disposizioni italiane di cui trattasi autorizzino
indirettamente una concorrenza sleale da parte di taluni operatori economici stabiliti in Italia rispetto
ad imprese con sede in altri Stati membri, con conseguente violazione dell’articolo 101 TFUE. Peraltro,
tali disposizioni sarebbero idonee a favorire determinate imprese, in violazione dell’articolo 107 TFUE.
Inoltre, dette disposizioni creerebbero, di fatto, un’esenzione non prevista all’articolo 158, paragrafo 2,
della direttiva 2006/112. Infine, l’impunità de facto di cui godrebbero gli evasori fiscali violerebbe il
principio direttivo, previsto all’articolo 119 TFUE, secondo cui gli Stati membri devono vigilare sul carattere sano delle loro finanze pubbliche.
26. Il giudice del rinvio ritiene tuttavia che, qualora gli fosse consentito disapplicare le disposizioni
nazionali di cui trattasi, sarebbe possibile garantire in Italia l’applicazione effettiva del diritto dell’Unione.
27. Sulla base di tali considerazioni, il Tribunale di Cuneo ha deciso di sospendere il procedimento e
di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
«1) [S]e, modificando con legge n. 251 del 2005 l’art. 160 ultimo comma del codice penale italiano –
nella parte in cui contempla un prolungamento del termine di prescrizione di appena un quarto a seguito di interruzione, e quindi, consentendo la prescrizione dei reati nonostante il tempestivo esercizio
dell’azione penale, con conseguente impunità – sia stata infranta la norma a tutela della concorrenza
contenuta nell’art. 101 del TFUE;
2) Se, modificando con legge n. 251 del 2005 l’art. 160 ultimo comma del codice penale italiano – nella parte in cui contempla un prolungamento del termine di prescrizione di appena un quarto a seguito
di interruzione, e quindi, privando di conseguenze penali i reati commessi da operatori economici senza scrupoli – lo Stato italiano abbia introdotto una forma di aiuto vietata dall’art. 107 del TFUE;
3) Se, modificando con legge n. 251 del 2005 l’art. 160 ultimo comma del codice penale italiano – nella parte in cui contempla un prolungamento del termine di prescrizione di appena un quarto a seguito
di interruzione, e quindi, creando un’ipotesi di impunità per coloro che strumentalizzano la direttiva
comunitaria – lo Stato italiano abbia indebitamente aggiunto un’esenzione ulteriore rispetto a quelle
tassativamente contemplate dall’articolo 158 della direttiva 2006/112/CE;
4) Se, modificando con legge n. 251 del 2005 l’art. 160 ultimo comma del codice penale italiano – nelAVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | REATI LESIVI DI INTERESSI FINANZIARI DELL'UE E DISCIPLINA DELLA PRESCRIZIONE
Processo penale e giustizia n. 1 | 2016
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la parte in cui contempla un prolungamento del termine di prescrizione di appena un quarto a seguito
di interruzione, e quindi, rinunciando a punire condotte che privano lo Stato delle risorse necessarie
anche a far fronte agli obblighi verso l’Unione europea, sia stato violato il principio di finanze sane fissato dall’art. 119 del TFUE».
SULLE QUESTIONI PREGIUDIZIALI
Sulla ricevibilità delle questioni
28. Il sig. Anakiev nonché i governi italiano e tedesco ritengono che le questioni poste dal giudice
del rinvio siano irricevibili. A tale riguardo, il sig. Anakiev rileva che le disposizioni di diritto nazionale
che stabiliscono le regole sulla prescrizione per i reati in materia fiscale sono state oggetto di recente
modifica, ragion per cui le considerazioni del giudice del rinvio risultano infondate. I governi italiano e
tedesco sostengono, in sostanza, che le questioni di interpretazione poste dal giudice del rinvio sono
puramente astratte o ipotetiche e non hanno alcun rapporto con la realtà effettiva o con l’oggetto del
procedimento principale.
29. In proposito, occorre rammentare che, secondo costante giurisprudenza della Corte, nell’ambito
della collaborazione tra quest’ultima e i giudici nazionali istituita dall’articolo 267 TFUE, spetta esclusivamente al giudice nazionale, cui è stata sottoposta la controversia e che deve assumersi la responsabilità dell’emananda decisione giurisdizionale, valutare, alla luce delle particolari circostanze del caso, sia
la necessità di una pronuncia pregiudiziale ai fini dell’emanazione della propria sentenza sia la rilevanza delle questioni che sottopone alla Corte. Di conseguenza, allorché le questioni sollevate riguardano
l’interpretazione del diritto dell’Unione, la Corte, in via di principio, è tenuta a statuire (v., in particolare, sentenza Banco Privado Português e Massa Insolvente do Banco Privado Português, C-667/13,
EU:C:2015:151, punto 34 e giurisprudenza ivi citata).
30. Ne consegue che le questioni relative al diritto dell’Unione godono di una presunzione di rilevanza. Il rifiuto della Corte di statuire su una questione pregiudiziale proposta da un giudice nazionale
è possibile soltanto qualora appaia in modo manifesto che l’interpretazione del diritto dell’Unione richiesta non ha alcun rapporto con la realtà effettiva o con l’oggetto del procedimento principale, qualora la questione sia di tipo ipotetico o, ancora, qualora la Corte non disponga degli elementi di fatto e di
diritto necessari per rispondere in modo utile alle questioni che le sono sottoposte (v., in particolare,
sentenza Halaf, C-528/11, EU:C:2013:342, punto 29 e giurisprudenza ivi citata).
31. Tuttavia, come in sostanza rilevato dall’avvocato generale ai paragrafi 45 e seguenti delle sue
conclusioni, i presupposti che possono condurre la Corte a rifiutare di pronunciarsi sulle questioni poste risultano, nel caso di specie, manifestamente insussistenti. Infatti, le indicazioni contenute nell’ordinanza di rinvio consentono alla Corte di formulare risposte utili per il giudice del rinvio. Inoltre, tali
indicazioni sono idonee a consentire agli interessati menzionati all’articolo 23 dello Statuto della Corte
di giustizia dell’Unione europea di pronunciarsi in modo efficace.
32. Peraltro, dall’ordinanza di rinvio risulta chiaramente che le questioni poste alla Corte non sono
affatto di tipo ipotetico e che viene individuato un rapporto con la realtà effettiva della controversia
principale, dato che tali questioni vertono sull’interpretazione di varie disposizioni del diritto dell’Unione che il giudice del rinvio considera determinanti per la futura decisione che sarà chiamato a emanare nel procedimento principale, più precisamente per quel che riguarda il rinvio a giudizio degli imputati.
33. La domanda di pronuncia pregiudiziale deve pertanto essere dichiarata ricevibile.
Sulla terza questione
34. Con la sua terza questione, che è opportuno affrontare per prima, il giudice del rinvio chiede, in
sostanza, da un lato, se una normativa nazionale in materia di prescrizione del reato come quella stabilita dalle disposizioni nazionali di cui trattasi – normativa che prevedeva, all’epoca dei fatti di cui al
procedimento principale, che l’atto interruttivo verificatosi nell’ambito di procedimenti penali riguardanti reati in materia di IVA comportasse il prolungamento del termine di prescrizione di solo un quarto della sua durata iniziale, consentendo in tal modo agli imputati di beneficiare di un’impunità di fatto
– determini l’introduzione di un’ipotesi di esenzione dall’IVA non prevista all’articolo 158 della direttiva 2006/112. D’altro lato, in caso di risposta affermativa a tale questione, il giudice del rinvio chiede se
gli sia consentito disapplicare dette disposizioni.
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Processo penale e giustizia n. 1 | 2016
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Sulla conformità al diritto dell’Unione di una normativa nazionale come quella stabilita dalle disposizioni nazionali di cui trattasi
35. Occorre in limine rilevare che, sebbene la terza questione faccia riferimento all’articolo 158 della
direttiva 2006/112, emerge chiaramente dalla motivazione dell’ordinanza di rinvio che, con tale questione, il giudice del rinvio mira a determinare, in sostanza, se una normativa nazionale come quella
stabilita dalle disposizioni di cui trattasi non si risolva in un ostacolo all’efficace lotta contro la frode in
materia di IVA nello Stato membro interessato, in modo incompatibile con la direttiva 2006/112 nonché, più in generale, con il diritto dell’Unione.
36. A tale riguardo, si deve ricordare che, in base al combinato disposto della direttiva 2006/112 e
dell’articolo 4, paragrafo 3, TUE, gli Stati membri hanno non solo l’obbligo di adottare tutte le misure
legislative e amministrative idonee a garantire che l’IVA dovuta nei loro rispettivi territori sia interamente riscossa, ma devono anche lottare contro la frode (v., in tal senso, sentenza Åkerberg Fransson,
C-617/10, EU:C:2013:105, punto 25 e giurisprudenza ivi citata).
37. Inoltre, l’articolo 325 TFUE obbliga gli Stati membri a lottare contro le attività illecite lesive degli
interessi finanziari dell’Unione con misure dissuasive ed effettive e, in particolare, li obbliga ad adottare, per combattere la frode lesiva degli interessi finanziari dell’Unione, le stesse misure che adottano
per combattere la frode lesiva dei loro interessi finanziari (v. sentenza Åkerberg Fransson, C-617/10,
EU:C:2013:105, punto 26 e giurisprudenza ivi citata).
38. La Corte ha in proposito sottolineato che, poiché le risorse proprie dell’Unione comprendono in
particolare, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 1, lettera b), della decisione 2007/436, le entrate provenienti dall’applicazione di un’aliquota uniforme agli imponibili IVA armonizzati determinati secondo
regole dell’Unione, sussiste quindi un nesso diretto tra la riscossione del gettito dell’IVA nell’osservanza del diritto dell’Unione applicabile e la messa a disposizione del bilancio dell’Unione delle corrispondenti risorse IVA, dal momento che qualsiasi lacuna nella riscossione del primo determina potenzialmente una riduzione delle seconde (v. sentenza Åkerberg Fransson, C-617/10, EU:C:2013:105, punto 26).
39. Se è pur vero che gli Stati membri dispongono di una libertà di scelta delle sanzioni applicabili,
che possono assumere la forma di sanzioni amministrative, di sanzioni penali o di una combinazione
delle due, al fine di assicurare la riscossione di tutte le entrate provenienti dall’IVA e tutelare in tal modo gli interessi finanziari dell’Unione conformemente alle disposizioni della direttiva 2006/112 e all’articolo 325 TFUE (v., in tal senso, sentenza Åkerberg Fransson, C-617/10, EU:C:2013:105, punto 34 e giurisprudenza ivi citata), possono tuttavia essere indispensabili sanzioni penali per combattere in modo
effettivo e dissuasivo determinate ipotesi di gravi frodi in materia di IVA.
40. Occorre del resto ricordare che, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 1, della Convenzione PIF, gli
Stati membri devono prendere le misure necessarie affinché le condotte che integrano una frode lesiva
degli interessi finanziari dell’Unione siano passibili di sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive che comprendano, almeno nei casi di frode grave, pene privative della libertà.
41. La nozione di «frode» è definita all’articolo 1 della Convenzione PIF come «qualsiasi azione od
omissione intenzionale relativa (...) all’utilizzo o alla presentazione di dichiarazioni o documenti falsi,
inesatti o incompleti cui consegua la diminuzione illegittima di risorse del bilancio generale [dell’Unione] o dei bilanci gestiti [dall’Unione] o per conto di ess[a]». Tale nozione include, di conseguenza, le entrate provenienti dall’applicazione di un’aliquota uniforme agli imponibili IVA armonizzati determinati secondo regole dell’Unione. Questa conclusione non può essere infirmata dal fatto che l’IVA non sarebbe riscossa direttamente per conto dell’Unione, poiché l’articolo 1 della Convenzione PIF non prevede affatto un presupposto del genere, che sarebbe contrario all’obiettivo di tale Convenzione di combattere con la massima determinazione le frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione.
42. Nel caso di specie, dall’ordinanza di rinvio emerge che la normativa nazionale prevede sanzioni
penali per i reati perseguiti nel procedimento principale, vale a dire, in particolare, la costituzione di
un’associazione per delinquere allo scopo di commettere delitti in materia di IVA nonché una frode nella medesima materia per vari milioni di euro. Si deve rilevare come simili reati costituiscano casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione.
43. Orbene, dall’insieme delle considerazioni svolte ai punti 37 e da 39 a 41 della presente sentenza
emerge che gli Stati membri devono assicurarsi che casi siffatti di frode grave siano passibili di sanzioni
penali dotate, in particolare, di carattere effettivo e dissuasivo. Peraltro, le misure prese a tale riguardo
devono essere le stesse che gli Stati membri adottano per combattere i casi di frode di pari gravità che
ledono i loro interessi finanziari.
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44. Il giudice nazionale è quindi tenuto a verificare, alla luce di tutte le circostanze di diritto e di fatto
rilevanti, se le disposizioni nazionali applicabili consentano di sanzionare in modo effettivo e dissuasivo i casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione.
45. Si deve in proposito precisare che né il giudice del rinvio né gli interessati che hanno presentato
osservazioni alla Corte hanno sollevato dubbi sul carattere dissuasivo, in sé, delle sanzioni penali indicate da detto giudice, ossia della pena della reclusione fino a sette anni, e neppure sulla conformità al
diritto dell’Unione della previsione, nel diritto penale italiano, di un termine di prescrizione per i fatti
costitutivi di una frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione.
46. Tuttavia, dall’ordinanza di rinvio emerge che le disposizioni nazionali di cui trattasi, introducendo una regola in base alla quale, in caso di interruzione della prescrizione per una delle cause menzionate all’articolo 160 del codice penale, il termine di prescrizione non può essere in alcun caso prolungato di oltre un quarto della sua durata iniziale, hanno per conseguenza, date la complessità e la
lunghezza dei procedimenti penali che conducono all’adozione di una sentenza definitiva, di neutralizzare l’effetto temporale di una causa di interruzione della prescrizione.
47. Qualora il giudice nazionale dovesse concludere che dall’applicazione delle disposizioni nazionali in materia di interruzione della prescrizione consegue, in un numero considerevole di casi,
l’impunità penale a fronte di fatti costitutivi di una frode grave, perché tali fatti risulteranno generalmente prescritti prima che la sanzione penale prevista dalla legge possa essere inflitta con decisione
giudiziaria definitiva, si dovrebbe constatare che le misure previste dal diritto nazionale per combattere
contro la frode e le altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell’Unione non possono essere considerate effettive e dissuasive, il che sarebbe in contrasto con l’articolo 325, paragrafo 1, TFUE,
con l’articolo 2, paragrafo 1, della Convenzione PIF nonché con la direttiva 2006/112, in combinato disposto con l’articolo 4, paragrafo 3, TUE.
48. Inoltre, il giudice nazionale dovrà verificare se le disposizioni nazionali di cui trattasi si applichino ai casi di frode in materia di IVA allo stesso modo che ai casi di frode lesivi dei soli interessi finanziari della Repubblica italiana, come richiesto dall’articolo 325, paragrafo 2, TFUE. Ciò non avverrebbe,
in particolare, se l’articolo 161, secondo comma, del codice penale stabilisse termini di prescrizione più
lunghi per fatti, di natura e gravità comparabili, che ledano gli interessi finanziari della Repubblica italiana. Orbene, come osservato dalla Commissione europea nell’udienza dinanzi alla Corte, e con riserva
di verifica da parte del giudice nazionale, il diritto nazionale non prevede, in particolare, alcun termine
assoluto di prescrizione per quel che riguarda il reato di associazione allo scopo di commettere delitti in
materia di accise sui prodotti del tabacco.
Sulle conseguenze di un’eventuale incompatibilità delle disposizioni nazionali di cui trattasi con il
diritto dell’Unione e sul ruolo del giudice nazionale
49. Qualora il giudice nazionale giungesse alla conclusione che le disposizioni nazionali di cui trattasi non soddisfano gli obblighi del diritto dell’Unione relativi al carattere effettivo e dissuasivo delle misure di lotta contro le frodi all’IVA, detto giudice sarebbe tenuto a garantire la piena efficacia del diritto
dell’Unione disapplicando, all’occorrenza, tali disposizioni e neutralizzando quindi la conseguenza rilevata al punto 46 della presente sentenza, senza che debba chiedere o attendere la previa rimozione di
dette disposizioni in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale (v., in tal
senso, sentenze Berlusconi e a., C-387/02, C-391/02 e C-403/02, EU:C:2005:270, punto 72 e giurisprudenza ivi citata, nonché Kücükdeveci, C-555/07, EU:C:2010:21, punto 51 e giurisprudenza ivi citata).
50. A tale riguardo, è necessario sottolineare che l’obbligo degli Stati membri di lottare contro le attività illecite lesive degli interessi finanziari dell’Unione con misure dissuasive ed effettive nonché il loro
obbligo di adottare, per combattere la frode lesiva degli interessi finanziari dell’Unione, le stesse misure
che adottano per combattere la frode lesiva dei loro interessi finanziari sono obblighi imposti, in particolare, dal diritto primario dell’Unione, ossia dall’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE.
51. Tali disposizioni del diritto primario dell’Unione pongono a carico degli Stati membri un obbligo
di risultato preciso e non accompagnato da alcuna condizione quanto all’applicazione della regola in
esse enunciata, ricordata al punto precedente.
52. In forza del principio del primato del diritto dell’Unione, le disposizioni dell’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE hanno l’effetto, nei loro rapporti con il diritto interno degli Stati membri, di rendere
ipso iure inapplicabile, per il fatto stesso della loro entrata in vigore, qualsiasi disposizione contrastante
della legislazione nazionale esistente (v. in tal senso, in particolare, sentenza ANAFE, C-606/10,
EU:C:2012:348, punto 73 e giurisprudenza ivi citata).
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53. Occorre aggiungere che se il giudice nazionale dovesse decidere di disapplicare le disposizioni
nazionali di cui trattasi, egli dovrà allo stesso tempo assicurarsi che i diritti fondamentali degli interessati siano rispettati. Questi ultimi, infatti, potrebbero vedersi infliggere sanzioni alle quali, con
ogni probabilità, sarebbero sfuggiti in caso di applicazione delle suddette disposizioni di diritto nazionale.
54. A tale riguardo, diversi interessati che hanno presentato osservazioni alla Corte hanno fatto riferimento all’articolo 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta»), che sancisce i principi di legalità e di proporzionalità dei reati e delle pene, in base ai quali, in particolare, nessuno può essere condannato per un’azione o un’omissione che, al momento in cui è stata
commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o il diritto internazionale.
55. Tuttavia, con riserva di verifica da parte del giudice nazionale, la disapplicazione delle disposizioni nazionali di cui trattasi avrebbe soltanto per effetto di non abbreviare il termine di prescrizione
generale nell’ambito di un procedimento penale pendente, di consentire un effettivo perseguimento dei
fatti incriminati nonché di assicurare, all’occorrenza, la parità di trattamento tra le sanzioni volte a tutelare, rispettivamente, gli interessi finanziari dell’Unione e quelli della Repubblica italiana. Una disapplicazione del diritto nazionale siffatta non violerebbe i diritti degli imputati, quali garantiti dall’articolo 49 della Carta.
56. Infatti, non ne deriverebbe affatto una condanna degli imputati per un’azione o un’omissione
che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva un reato punito dal diritto nazionale (v., per
analogia, sentenza Niselli, C-457/02, EU:C:2004:707, punto 30), né l’applicazione di una sanzione che,
allo stesso momento, non era prevista da tale diritto. Al contrario, i fatti contestati agli imputati nel procedimento principale integravano, alla data della loro commissione, gli stessi reati ed erano passibili
delle stesse sanzioni penali attualmente previste.
57. La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo relativa all’articolo 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4
novembre 1950, che sancisce diritti corrispondenti a quelli garantiti dall’articolo 49 della Carta, avvalora tale conclusione. Secondo tale giurisprudenza, infatti, la proroga del termine di prescrizione e la sua
immediata applicazione non comportano una lesione dei diritti garantiti dall’articolo 7 della suddetta
Convenzione, dato che tale disposizione non può essere interpretata nel senso che osta a un allungamento dei termini di prescrizione quando i fatti addebitati non si siano ancora prescritti [v., in tal senso,
Corte eur D.U., sentenze Coëme e a. c. Belgio, nn. 32492/96, 32547/96, 32548/96, 33209/96 e 33210/96,
§ 149, CEDU 2000-VII; Scoppola c. Italia (n. 2) del 17 settembre 2009, n. 10249/03, § 110 e giurisprudenza ivi citata, e OAO Neftyanaya Kompaniya Yukos c. Russia del 20 settembre 2011, n. 14902/04, §§ 563,
564 e 570 e giurisprudenza ivi citata].
58. Alla luce delle suesposte considerazioni, occorre rispondere alla terza questione che una normativa nazionale in materia di prescrizione del reato come quella stabilita dalle disposizioni nazionali di
cui trattasi – normativa che prevedeva, all’epoca dei fatti di cui al procedimento principale, che l’atto
interruttivo verificatosi nell’ambito di procedimenti penali riguardanti frodi gravi in materia di IVA
comportasse il prolungamento del termine di prescrizione di solo un quarto della sua durata iniziale – è
idonea a pregiudicare gli obblighi imposti agli Stati membri dall’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE
nell’ipotesi in cui detta normativa nazionale impedisca di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un
numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione, o in cui preveda, per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato, termini di
prescrizione più lunghi di quelli previsti per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dell’Unione, circostanze che spetta al giudice nazionale verificare. Il giudice nazionale è tenuto a dare piena
efficacia all’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE disapplicando, all’occorrenza, le disposizioni nazionali
che abbiano per effetto di impedire allo Stato membro interessato di rispettare gli obblighi impostigli
dall’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE.
Sulle questioni prima, seconda e quarta
59. Con la sua prima, seconda e quarta questione, da esaminarsi congiuntamente, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se un regime di prescrizione applicabile a reati commessi in materia di IVA,
come quello previsto dalle disposizioni nazionali di cui trattasi nella loro versione vigente alla data dei
fatti di cui al procedimento principale, possa essere valutato alla luce degli articoli 101 TFUE, 107 TFUE
e 119 TFUE.
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60. Per quanto riguarda, in primo luogo, l’articolo 101 TFUE, esso vieta tutti gli accordi tra imprese e
tutte le pratiche concordate che possano pregiudicare il commercio tra gli Stati membri e che abbiano
per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato interno. Come in sostanza rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 60 delle sue conclusioni,
un’attuazione eventualmente carente delle disposizioni penali nazionali in materia di IVA non ha tuttavia una necessaria incidenza su possibili comportamenti collusivi tra imprese, contrari all’articolo 101
TFUE, in combinato disposto con l’articolo 4, paragrafo 3, TUE.
61. Con riferimento, in secondo luogo, al divieto degli aiuti di Stato previsto all’articolo 107 TFUE,
occorre ricordare che una misura mediante la quale le pubbliche autorità accordino a determinate imprese un trattamento fiscale vantaggioso che, pur non implicando un trasferimento di risorse statali,
collochi i beneficiari in una situazione finanziaria più favorevole rispetto agli altri contribuenti costituisce aiuto di Stato ai sensi dell’articolo 107, paragrafo 1, TFUE (v., in particolare, sentenza P, C-6/12,
EU:C:2013:525, punto 18 e giurisprudenza ivi citata).
62. Orbene, se il carattere non effettivo e/o non dissuasivo delle sanzioni previste in materia di IVA
può eventualmente procurare un vantaggio finanziario alle imprese interessate, l’applicazione dell’articolo 107 TFUE non può tuttavia assumere rilievo nel caso di specie, dal momento che tutte le transazioni sono soggette al regime di IVA e che qualsiasi reato in materia di IVA è penalmente sanzionato, a
prescindere da casi particolari nei quali il regime della prescrizione potrebbe privare determinati reati
di conseguenze penali.
63. In terzo luogo, quanto all’articolo 119 TFUE, tale disposizione menziona, al paragrafo 3, tra i
principi direttivi che devono governare le azioni degli Stati membri nell’ambito dell’instaurazione di
una politica economica e monetaria, il principio secondo cui gli Stati membri devono vigliare sul carattere sano delle loro finanze pubbliche.
64. Orbene, si deve rilevare che la questione riguardante la conformità al suddetto principio di finanze pubbliche sane delle disposizioni di diritto nazionale di cui trattasi, che possono lasciare impuniti determinati reati in materia di IVA, non rientra nella sfera di applicazione dell’articolo 119 TFUE, dato che il collegamento tra tale questione e il suddetto obbligo gravante sugli Stati membri è molto indiretto.
65. Alla luce di tali considerazioni, occorre rispondere alla prima, alla seconda e alla quarta questione che un regime della prescrizione applicabile a reati commessi in materia di IVA, come quello
previsto dalle disposizioni nazionali di cui trattasi nella loro versione vigente alla data dei fatti di cui
al procedimento principale, non può essere valutato alla luce degli articoli 101 TFUE, 107 TFUE e 119
TFUE.
SULLE SPESE
66. Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente
sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri
soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara:
1) Una normativa nazionale in materia di prescrizione del reato come quella stabilita dal combinato
disposto dell’articolo 160, ultimo comma, del codice penale, come modificato dalla legge 5 dicembre
2005, n. 251, e dell’articolo 161 di tale codice – normativa che prevedeva, all’epoca dei fatti di cui al procedimento principale, che l’atto interruttivo verificatosi nell’ambito di procedimenti penali riguardanti
frodi gravi in materia di imposta sul valore aggiunto comportasse il prolungamento del termine di prescrizione di solo un quarto della sua durata iniziale – è idonea a pregiudicare gli obblighi imposti agli
Stati membri dall’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE nell’ipotesi in cui detta normativa nazionale impedisca di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che
ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea, o in cui preveda, per i casi di frode che ledono gli
interessi finanziari dello Stato membro interessato, termini di prescrizione più lunghi di quelli previsti
per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea, circostanze che spetta al giudice nazionale verificare. Il giudice nazionale è tenuto a dare piena efficacia all’articolo 325, paragrafi 1
e 2, TFUE disapplicando, all’occorrenza, le disposizioni nazionali che abbiano per effetto di impedire
allo Stato membro interessato di rispettare gli obblighi impostigli dall’articolo 325, paragrafi 1 e 2,
TFUE.
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2) Un regime della prescrizione applicabile a reati commessi in materia di imposta sul valore aggiunto, come quello previsto dal combinato disposto dell’articolo 160, ultimo comma, del codice penale,
come modificato dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251, e dell’articolo 161 di tale codice, non può essere
valutato alla luce degli articoli 101 TFUE, 107 TFUE e 119 TFUE.
[Omissis]
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ENRICO MARIO AMBROSETTI
Professore ordinario di Diritto penale – Università di Padova
La sentenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea
in tema di disapplicazione dei termini di prescrizione:
medioevo prossimo venturo?
The judgment of the Court of Justice of the European Union (CJEU)
concerning the disapplication of rules limiting the interruption of
the prescription periods: in the years to come Middle Ages is to be
expected?
La decisione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea impone al giudice nazionale di disapplicare le norme che
impediscono allo Stato interessato di rispettare gli obblighi imposti dall’art. 325, § 1 e 2, TFUE nella causa C–
105/14 (Taricco) ed in specie la normativa italiana in tema di prescrizione del reato prevista all’art. 160, ultimo
comma, c.p., che prevede, in presenza di un atto interruttivo, un prolungamento di solo un quarto del periodo, nel
caso in cui tali norme impediscano di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi
di frode grave che ledono gli interessi finanziari della Unione. Tale decisione – così come è stato riconosciuto dalla
Corte d’Appello di Milano – si pone in palese contrasto con il principio di legalità, legittimando la Corte costituzionale ad attivare quei “controlimiti” rappresentati dai principi fondamentali dell’ordinamento italiano.
The decision of the Court of Justice of the European Union (CJEU) oblige the national judge to disapply the rules
and regulations which prevent the concerned State from respecting the obligations imposed by Art. 325 § 1, 2
TFUE (Taricco) judgment and specifically the Italian regulations concerning the requirement crime provided for by
Art 160, last paragraph, Criminal Code, which provides, in case of interruption, for a period to be extended by only
a quarter following interruption, in case the above mentioned rules bar to administer effective and dissuasive penalties in a significant number of serious fraud cases which prejudice the financial interests of the Union. Such decision – as it has been recognized by the Milan Court of Appeal – clearly conflicts with the principle of legality, and
thus legitimating the Constitutional Court to activate those “counter-limits” which are represented by the fundamental principles of the Italian legal system.
LA SENTENZA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA: I PRIMI EFFETTI NELLA GIURISPRUDENZA DI MERITO E DI LEGITTIMITA’
Nell’ambito dell’ormai ricorrente dibattito in tema di prescrizione del reato si apre un nuovo scenario. L’8
settembre è stata pubblicata la decisione della Corte di Giustizia UE nella causa C– 105/14 (Taricco) con la
quale la Grande Sezione ha dichiarato che la normativa italiana in tema di prescrizione del reato prevista
all’art. 160, ultimo comma, c.p., che stabilisce, in presenza di un atto interruttivo, un prolungamento di
solo un quarto del periodo previsto dall’art. 157 c.p., è idonea a pregiudicare gli obblighi imposti agli Stati
membri UE dall’art. 325, § 1 e 2, TFUE, nel caso in cui tali norme impediscano di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari della
Unione. Conseguentemente, il giudice nazionale in tali casi è tenuto a disapplicare le norme che impediscono allo Stato interessato di rispettare gli obblighi imposti dall’art. 325, § 1 e 2, TFUE 1.
1
La sentenza C. giust. UE, Grande Sezione, 8 settembre 2015, è pubblicata in www.archiviopenale.it, con nota di G. Civello, La
sentenza “Taricco” della Corte di Giustizia UE: contraria al Trattato la disciplina penale in materia di interruzione della prescrizione del
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A fronte di questa pronuncia la giurisprudenza italiana si è schierata su fronti opposti.
La terza Sezione della Corte di Cassazione, all’udienza del 17 settembre 2015, ha dato per la prima
volta applicazione alla sentenza Taricco, affermando che in un procedimento penale riguardante il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti al
fine di evadere l’imposta sul valore aggiunto (IVA), il combinato disposto dell’art. 160, ultimo comma,
c.p. e dell’art. 161 di tale codice – come modificati dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251 –, il quale prevede
che l’atto interruttivo verificatosi comporta il prolungamento del termine di prescrizione di solo un
quarto della sua durata iniziale, è idoneo a pregiudicare gli obblighi imposti agli Stati membri dall’art.
325, § 1 e 2, TFUE, prevedendo termini assoluti di prescrizione che possono determinare l’impunità del
reato, con conseguente potenziale lesione degli interessi finanziari dell’Unione europea. Pertanto, tale
pregiudizio comporta l’obbligo per il giudice italiano di disapplicare le predette disposizioni di diritto
interno, in quanto queste possono pregiudicare gli obblighi imposti agli Stati membri dal diritto dell’Unione.
Non essendo ancora stata depositata la motivazione – va subito detto – non è chiaro quali siano le
conseguenze “pratiche” derivanti da tale disapplicazione. In altri termini, non è chiaro quale sia il concreto regime prescrizionale applicabile ad un’ipotesi di frode grave in materia IVA punita ai sensi del
d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74.
In via di mera ipotesi, si può affermare che a seguito della disapplicazione dell’art. 160, ultimo
comma, c.p., per i casi di frode grave in materia, che ledono gli interessi finanziari della UE in materia
IVA, il regime della prescrizione sarebbe equiparabile a quello riferibile ai delitti indicati all’art. 51,
commi 3 bis e 3 quater, c.p.p. In altre parole, per i delitti di frode IVA varrebbe una sorta di “imprescrittibilità di fatto” 2.
Di diverso avviso è stata la Corte d’Appello di Milano, la quale il giorno successivo ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, l. 2 agosto 2008, n. 130, con cui viene ordinata l’esecuzione
del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea, come modificato dall’articolo 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 (TFUE), nella parte che impone di applicare la disposizione di cui all’art. 325,
§§ 1 e 2, TFUE, dalla quale – nell’interpretazione fornitane dalla Corte di Giustizia nella sentenza in data
8.9.2015, causa C-105/14, Taricco – discende l’obbligo per il giudice nazionale di disapplicare gli artt. 160,
ultimo comma, e 161, secondo comma, c.p., in presenza delle circostanze indicate nella sentenza, anche se
dalla disapplicazione discendano effetti sfavorevoli per l’imputato per il prolungamento del termine di
prescrizione, in ragione del contrasto di tale norma con l’art. 25, comma 2, Cost. 3.
In particolare, la Corte d’Appello ha rilevato come la disapplicazione delle norme (di carattere sostanziale) di cui agli artt. 160, ultimo comma, e 161, comma 2, c.p., imposta dall’art. 325 TFUE nella interpretazione datane dalla sentenza CGUE Taricco, produrrebbe la retroattività in malam partem della
normativa nazionale risultante da tale disapplicazione, implicante l’allungamento dei tempi prescrizionali, con effetti incompatibili con il principio di legalità in materia penale, come affermatosi nella consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di Cassazione.
La Corte d’Appello di Milano sottolinea, inoltre, che, emergendo un contrasto tra l’obbligo di disapplicazione derivato dall’art. 325 TFUE, considerato dalla Corte di Giustizia conforme al principio di legalità in sede europea sulla base dell’art. 49 CDFUE, e il principio di legalità in materia penale, nella
estensione attribuitagli dal diritto costituzionale italiano sulla base dell’art. 25, comma 2, Cost., è necessario rimettere alla Corte costituzionale la valutazione della opponibilità di un “controlimite” alle limitazioni di sovranità derivanti dall’adesione dell’Italia all’ordinamento dell’Unione europea ai sensi
dell’art. 11 Cost., in funzione del rispetto del principio fondamentale dell’assetto costituzionale interno,
poziore rispetto agli stessi obblighi di matrice europea.
Alla luce di quanto ora esposto, si può affermare che si è oggi aperto un complesso scenario giuridico. Per meglio dire, l’obbligo di disapplicazione per il giudice italiano delle norme regolanti la prescrizione del reato – derivante dalla sentenza Taricco – ha determinato una situazione che non è facilmente
inquadrabile nell’ambito delle tradizionali categorie giuridiche.
reato e in www.penalecontemporaneo.it, con un commento di F. Viganò, Disapplicare le norme vigenti sulla prescrizione nelle frodi in
materia di IVA?
2
Sul punto, si vedano le ampie considerazioni di G. Civello, La sentenza “Taricco”, cit., p. 10 ss.
3
App. Milano, sez. II, 18 settembre 2015, in www.penalecontemporaneo.it.
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Prima di affrontare tale questione è, peraltro, opportuno analizzare quale sia lo stato della dottrina e
giurisprudenza in ordine all’istituto della prescrizione del reato ed in specie ai profili di diritto intertemporale.
BREVI CENNI SULL’ISTITUTO DELLA PRESCRIZIONE DEL REATO
In materia di prescrizione la discussione ha principalmente riguardato gli effetti derivanti da interventi
legislativi che comportino modifiche della disciplina prescrizionale relativamente a fatti illeciti commessi precedentemente all’entrata in vigore della nuova normativa. E ciò nel caso di modifiche in peius
o in melius rispetto alla pregressa disciplina.
Il problema è strettamente connesso alla natura sostanziale o processuale dell’istituto 4. In effetti, accogliendo quest’ultima tesi, si potrebbe sostenere che la normativa in tema di prescrizione sia sottratta
al divieto di retroattività sancito dall’art. 25, comma 2, Cost. In altre parole, la previsione di termini prescrizionali più lunghi sarebbe riferibile anche a fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore della
nuova legge sfavorevole al reo.
A tale riguardo va subito chiarito che la prescrizione è stata tradizionalmente qualificata come un
istituto di natura sostanziale 5. Tuttavia, il problema di un diverso inquadramento dell’istituto è sempre
presente in quanto la ’costante’ crisi del sistema giudiziario penale ha portato come inevitabile conseguenza che procedimenti, a volte di notevole rilevanza, si siano chiusi con sentenze di proscioglimento
per estinzione del reato a seguito del decorrere del termine prescrizionale. Tale situazione ha pertanto
indotto parte della dottrina penalistica a proporre che, in relazione ad una serie di reati, siano introdotti
termini di prescrizione più lunghi di quelli attualmente previsti dall’art. 157 c.p. e che contestualmente
venga sancita la loro applicabilità retroattiva anche ai reati anteriormente commessi ancora sub iudice 6.
Invero, secondo questo indirizzo, la tesi dell’applicazione retroattiva di norme che mutano in senso
sfavorevole al reo i termini prescrizionali avrebbe trovato avallo in una ormai risalente ordinanza della
Corte costituzionale, secondo la quale «non può assegnarsi alcun rilievo giuridico ad una sorta di
’aspettativa’ dell’imputato al maturarsi della prescrizione» 7.
In realtà, questa lettura della decisione della Corte costituzionale non sembra del tutto condivisibile
alla luce della questione di legittimità specificamente sollevata. In effetti, il giudice remittente lamentava una disparità di trattamento, ai sensi dell’art. 3 Cost., ed una violazione del diritto di difesa, sancito
dall’art. 24 Cost., nel fatto che il termine prescrizionale – secondo la consolidata interpretazione della
Corte di cassazione – debba considerarsi interrotto già al momento dell’emissione del decreto di citazione a giudizio, e non quando successivamente l’imputato riceve la notifica dell’atto. Pertanto, il riferimento «all’aspettativa» dell’imputato al decorso della prescrizione, la quale nell’interpretazione della
Corte costituzionale non assume rilievo alcuno, deve intendersi come riferita alla possibile inerzia
dell’autorità giudiziaria, che può attivarsi più o meno celermente, e non certamente al potere legislativo, che può incidere sulla durata della prescrizione. Infatti, l’affidamento del reo non va letto solamente
come calcolabilità anticipata del trattamento, ma anche come legittima fiducia che una «situazione punitiva», la quale comprende le cause di punibilità e le norme di favore, non venga ad essere peggiorata
dal legislatore dopo la commissione dell’illecito 8.
4
Sulla natura della prescrizione quale istituto di natura sostanziale o processuale si vedano la voce di A. Molari, Prescrizione
del reato e della pena (dir. pen.), in Ns. dig. it., XIII, Torino, 1966, p. 680 ss., e la recente monografia di F. Giunta-D. Micheletti, Tempori cedere. Prescrizione del reato e funzioni della pena nello scenario della ragionevole durata del processo, Torino, 2003, p. 63 ss.
5
Sul punto, si veda per tutti E.M. Ambrosetti, La legge penale nel tempo, in M. Ronco, Commentario al Codice Penale, Bologna,
2010, p. 287 ss.
6
È stato G. Marinucci, Bomba a orologeria da disinnescare, in Il Sole 24 Ore, 12 marzo 1998, a sollevare provocatoriamente la
questione dell’opportunità della approvazione di provvedimenti legislativi che, anche operando retroattivamente, impedissero
il maturarsi del termine prescrizionale con riferimento a processi particolarmente rilevanti. In seguito, la tesi è stata più ampiamente illustrata in G. Marinucci-E. Dolcini, Corso di diritto penale, cit. 262 ss.; ID. e ID., Manuale di diritto penale, p. gen., 4a ed., Milano, 2015, p. 100-101 (favorevoli a questa chiave di lettura sono anche D. Pulitanò, Legalità discontinua? Paradigmi e problemi di
diritto intertemporale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2002, p. 1270; e V. Grevi, Garanzie individuali ed esigenze di difesa sociale nel processo
penale, in AA.VV., Garanzie costituzionali e diritti fondamentali, Roma, 1997, p. 279).
7
C. Cost., ord. 17 dicembre 1999, n. 452, in Giur. cost., 1999, p. 3890.
8
Il riferimento è alla posizione di M. Donini, in M. Nobili-L. Stortoni-M. Donini-M. Virgilio-M. Zanotti-N. Mazzacuva, Prescri-
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Una implicita conferma della tesi qui sostenuta – va da ultimo ricordato – è stata offerta dalla sentenza della Corte costituzionale, n. 393 del 2006, la quale ha ribadito l’inquadramento della prescrizione
come istituto di natura sostanziale con conseguente assoggettamento al divieto di retroattività della
normativa più sfavorevole ai sensi dell’art. 25, comma 2, Cost. 9.
Tale è, dunque, nei suoi termini essenziali lo stato della giurisprudenza in tema di prescrizione.
Allo stato attuale della giurisprudenza costituzionale resta, dunque, ferma la natura sostanziale dell’istituto. Pertanto, allineandosi a tale consolidata posizione, ne consegue che ogni intervento “peggiorativo” sul regime della prescrizione ricadente sul “passato” si porrebbe in contrasto con il principio di
legalità ed in specie con il suo corollario del divieto di retroattività della norma sfavorevole per il reo.
In forza di questo quadro costituzionale emerge in modo palese il contrasto della sentenza Taricco
con il principio di legalità.
Si deve nondimeno dar conto di una possibile obiezione. La situazione che si è verificata dopo la
sentenza della Corte UE è sicuramente diversa da quella tradizionale derivante da un intervento legislativo che modifichi in modo sfavorevole il regime della prescrizione. Per certi versi, essa presenta
aspetti simili a quelli della declaratoria di illegittimità della c.d. «norma di favore», e cioè una norma
che abbia depenalizzato una precedente fattispecie incriminatrice o abbia introdotto una disciplina meno afflittiva rispetto alla pregressa.
È, quindi, opportuno ripercorrere brevemente anche i punti essenziali in merito alla giurisprudenza
relativa a questo diverso fenomeno giuridico.
LA DICHIARAZIONE DI ILLEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE DELLA C.D. NORMA DI FAVORE
Come è noto, già da tempo la Corte costituzionale ha ritenuto ammissibili e valutato nel merito questioni relative al presunto contrasto con la legge fondamentale di «norme di favore» – ad esempio, cause di giustificazione o di non punibilità –, sul presupposto che disposizioni che restringano l’area della
punibilità abbisognano di un puntuale fondamento, concretato dalla Costituzione o da altre leggi costituzionali 10.
Particolarmente significativa è una sentenza della Corte costituzionale, la quale, in ordine a una eccezione sollevata con riferimento alla riforma dei reati societari ed in specie del delitto di false comuni-
zione e irretroattività fra diritto e procedura penale, in Foro it., 1998, V, p. 324. Per ulteriori riferimenti alle tradizionali posizioni contrarie
ad un’applicazione retroattiva delle modifiche della durata della prescrizione sfavorevoli al reo si rinvia a E. M. Ambrosetti, La legge
penale nel tempo, cit., p. 287e ss.; M. Romano, in M. Romano-G. Grasso-T. Padovani, Commentario sistematico del codice penale, III, Milano, 1994, p. 63, agli scritti di M. Nobili-L. Stortoni-M. Donini-M. Virgilio-M. Zanotti-N. Mazzacuva, op. cit., p. 317 ss., ed infine
all’editoriale di G. Conso, Non dimenticarsi delle vittime specie di fronte al rischio prescrizione, in Dir. pen. proc., 1998, p. 269-270.
Per completezza, va infine ricordato che un’impostazione parzialmente diversa del problema è stata proposta da F. GiuntaD. Micheletti, op. cit., p. 89 ss. Secondo gli studiosi, va infatti operata una netta distinzione fra l’ipotesi in cui il termine prescrizionale sia già maturato o sia ancora in corso. Con riferimento alla prima situazione, gli studiosi affermano che «una volta spirato il termine prescrizionale, il potenziale autore vanta un vero e proprio diritto soggettivo all’impunità; diritto, che non può essere dunque menomato da un allungamento retroattivo del termine richiesto per l’estinzione, giacché una tale modifica si porrebbe certamente in contrasto con il fondamento garantistico dell’art. 25, comma 2, Cost.». Nel caso, invece, in cui la prescrizione non sia compiuta, non opererebbe il divieto di retroattività sancito dalla Carta Costituzionale, in quanto in tale ambito è più
corretto invocare il principio del tempus regit actum. Conseguentemente, l’eventuale riformulazione in senso negativo
all’imputato non sarebbe di per sé contrastante con il dettato costituzionale. Tuttavia, «un allungamento retroattivo ed indiscriminato della prescrizione, dovuto all’incapacità dell’ordinamento di svolgere nei tempi preventivati i giudizi in corso, risulterebbe certamente illegittimo; ma si badi, non perché contrasti con il divieto di retroattività sfavorevole enunciato dall’art. 25,
comma 2, Cost. – che come si è chiarito non ha in questo settore ragione di operare – bensì per la ragione che una tale riforma
violerebbe il coacervo di vincoli costituzionali, tra cui spicca il principio personalistico, che fa da sfondo alla rilevanza costituzionale della prescrizione penale e che non possono non limitare la derogabilità del principio tempus regit actum dove non opera
l’art. 25, comma 2, Cost.».
9
C. Cost., sent. 23 novembre 2006, n. 393, in Cass. pen., 2007, p. 419, con nota di E. M. Ambrosetti, La nuova disciplina della prescrizione: un primo passo verso la «costituzionalizzazione» del principio di retroattività delle norme penali favorevoli al reo e O. Mazza, Il
diritto intertemporale (ir)ragionevole (a proposito della legge ex Cirielli).
10
Sul punto, si veda, fra le altre, Corte Costituzionale, sent. 3 giugno 1983, n. 148, in Foro it., 1983, I, p. 1800 ss., con nota di E.
Gironi, Le guarentigie del Consiglio superiore della magistratura, e D. Pulitanò, La «non punibilità» di fronte alla Corte Costituzionale.
Per una completa disamina delle posizioni della Corte Costituzionale si rinvia a S. Riondato, Competenza penale della Comunità
Europea, Padova, 1996, p, 318 ss.
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cazioni sociali, ha avuto modo di affrontare specificamente il problema degli effetti derivanti da una
declaratoria di illegittimità costituzionale 11. Per comprendere i termini della questione, peraltro, si rendono indispensabili alcune considerazioni preliminari. Nell’ambito delle numerose censure di ortodossia costituzionale proposte alla Corte, il giudice delle leggi ha esaminato espressamente anche profili di
diritto intertemporale, ed in particolare le conseguenze che sarebbero derivate da un’eventuale declaratoria di illegittimità per le nuove fattispecie in materia di false comunicazioni sociali 12. Più precisamente, la Corte è stata chiamata a pronunciarsi in ordine ad un’eccezione di legittimità costituzionale, relativa alle soglie di punibilità a carattere percentuale, espressamente finalizzata ad ottenere una pronuncia che – tramite la rimozione delle soglie medesime – estendesse l’ambito di applicazione della norma
incriminatrice di cui all’art. 2621 c.c. a fatti che attualmente non vi sono compresi 13. All’atto pratico, nella prospettiva del giudice a quo, la declaratoria di illegittimità costituzionale della nuova normativa
avrebbe comportato la reviviscenza del vecchio art. 2621 c.c. e, conseguentemente, l’applicabilità di tale
disposto, per lo meno, a tutti i fatti commessi prima che entrasse in vigore il d.lgs. 11 aprile 2002, n. 61.
Diversa è stata, però, la posizione assunta dalla Corte costituzionale. Nella sentenza 161 si legge infatti
che «all’adozione della pronuncia invocata osta, tuttavia, il secondo comma dell’art. 25 Cost., il quale –
per costante giurisprudenza di questa Corte – nell’affermare il principio secondo cui nessuno può essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso, esclude che la Corte
costituzionale possa introdurre in via additiva nuovi reati o che l’effetto di una sua sentenza possa essere quello di ampliare o aggravare figure di reato già esistenti, trattandosi di interventi riservati in via
esclusiva alla discrezionalità del legislatore [cfr., ex plurimis, sentenze 49 del 2002; 183, 508 e 580 del
2000; 411 del 1995]. Contrariamente a quanto sostiene il giudice a quo, non vale richiamarsi, in senso
opposto, all’orientamento di questa Corte che ha ritenuto suscettibili di sindacato di costituzionalità,
anche in malam partem, le c.d. norme penali di favore: ossia le norme che stabiliscano, per determinati
soggetti o ipotesi, un trattamento penalistico più favorevole di quello che risulterebbe dall’applicazione
di norme generali o comuni [cfr., tra le altre, sentenze 25 del 1994; 167 e 194 del 1993; 148 del 1983)].
Orientamento, questo, fondato – quanto all’esigenza di rispetto del principio di legalità – essenzialmente sul rilievo che l’eventuale ablazione della norma di favore si limita a riportare la fattispecie già oggetto di ingiustificato trattamento derogatorio alla norma generale, dettata dallo stesso legislatore (fermo
restando, altresì, il divieto di applicazione retroattiva del regime penale più severo ai fatti commessi
sotto il vigore della norma di favore rimossa)».
In ultima analisi, alla luce di quanto si è venuti finora esponendo, il quadro della giurisprudenza costituzionale appare univoco:
1. la disciplina della prescrizione, in quanto istituto di diritto sostanziale, è soggetta al divieto di irretroattività della legge penale sfavorevole;
2. l’effetto di una sentenza della Corte Costituzionale o Europea non può essere quello di ampliare o
aggravare figure di reato già esistenti, trattandosi di interventi riservati in via esclusiva alla discrezionalità del legislatore 14.
11
C. Cost., sent. 1° giugno 2004, n. 161, in Guida dir., 2004, 25, p. 73 ss., con nota di A. Lanzi, Sulle condotte a rischio di sanzioni
penali nessuna interferenza con il legislatore.
12
Per una completa disamina delle questioni di legittimità costituzionale e comunitaria, si vedano, per tutti, E. Musco, I nuovi reati societari, cit., p. 119 ss.; E. Dolcini, Leggi penali ad personam, riserva di legge e principio costituzionale di eguaglianza, in Riv. it.
dir. proc. pen., 2004, p. 50 ss., spec. 57 ss.; F. Giunta, La vicenda delle false comunicazioni sociali. Dalla selezione degli obiettivi di tutela
alla cornice degli interessi in gioco, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2003, p. 643 ss.; G. Insolera, Democrazia, ragione e prevaricazione. Dalle vicende del falso in bilancio ad un nuovo riparto costituzionale nella attribuzione dei poteri?, Milano, 2003, p. 13 ss.; ID., I profili di legittimità costituzionale e «comunitaria», in C. Piergallini (a cura di), op. cit., p. 93 ss.; G. Salcuni, Le false comunicazioni sociali: questioni di
legittimità costituzionale e obblighi comunitari di tutela, in Riv. it. dir. proc. pen., 2003, p. 843 ss.; C. Sotis, Obblighi comunitari di tutela e
opzione penale: una dialettica perpetua?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2002, p. 171 ss.
13
L’ordinanza del Trib. Milano, sez. II, 12 febbraio 2003, è pubblicata in Guida dir., 2003, 10, p. 74 ss., con nota critica di A. Di
Martino, Nel mirino dei giudici costituzionali i limiti delle soglie di rilevanza penale. Sul punto, si vedano anche i rilievi parimenti critici di A. Lanzi, Considerazioni sull’eventualità di un sindacato di ragionevolezza sulle scelte politico-criminali, in Indice pen., 2003, p. 895
ss. In una prospettiva analoga a quella accolta dal Tribunale di Milano si segnalano, inoltre, le considerazioni di E. Dolcini (op.
cit., p. 57 ss.) e G. Insolera (Democrazia, ragione e prevaricazione, cit., passim).
14
Sul punto, sia pure in termini critici, si veda F. Viganò, Disapplicare le norme vigenti sulla prescrizione nelle frodi in materia di
IVA?, cit., p. 11 ss.
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LA DISCUSSA COMPATIBILITÀ DI UNA DISAPPLICAZIONE DEI TERMINI PRESCRIZIONALI CON IL PRINCIPIO
DI LEGALITÀ E DEL GIUSTO PROCESSO
È giunto ora il momento di prendere posizione in ordine al complesso scenario che si è aperto a seguito
della sentenza Taricco. Ed a tale proposito, va subito chiarito che il giudizio nei confronti di tale pronuncia è assolutamente negativo per un molteplice ordine di ragioni. E a maggior ragione – per le ragioni che si andrà ad esporre – ancora più negativo nei confronti della Corte di Cassazione.
Tuttavia, almeno su un punto – va doverosamente riconosciuto – un merito a tale sentenza deve essere attribuito. E cioè di avere messo in luce la circostanza che non è più differibile una riforma della
prescrizione del reato che assicuri, da un lato, una maggiore effettività della sanzione penale, e dall’altro, una ragionevole durata del processo. E ciò per due diversi motivi: il primo perché in molti casi effettivamente l’odierna disciplina dell’art. 157 c.p. porta a pericolosi fenomeni di impunità; il secondo
perché proprio tale regime prescrizionale costituisce il comodo pretesto – in altrettanto numerosi casi –
per un’inerzia dell’Autorità Giudiziaria che “lascia morire” ogni anno migliaia di procedimenti penali
adducendo come giustificazione il prossimo maturarsi della prescrizione. A conferma di tale rilievo critico vi è proprio il procedimento penale da cui è scaturita la sentenza Taricco: quando il Tribunale di
Cuneo ha sollevato la questione mancavano ancora quattro anni al maturarsi della prescrizione. Ciò significa che il Tribunale di Cuneo ha ritenuto che nello spazio di quattro anni non fosse possibile lo
svolgimento del processo di primo e secondo grado – tenuto conto che nell’ormai consolidata interpretazione della Suprema Corte di Cassazione in caso di inammissibilità del ricorso il termine finale per il
maturarsi della prescrizione coincide con la sentenza di appello –.
Ciò detto, se la “malattia” è la disciplina legislativa della prescrizione del reato, la “medicina” costituita dalla sentenza Taricco è peggiore del male.
Va subito chiarito tale assunto. Si intende qui fare riferimento esclusivamente alle conseguenze derivanti dalla sentenza della Corte UE.
I profili di incertezza sono, infatti, molteplici. Il primo attiene ai casi in cui è oggi tenuto il giudice
italiano alla disapplicazione. La Corte ha individuato l’illegittimità in relazione alle “frodi gravi” in materia di IVA. È intuitivo che si ponga allora la questione in ordine ai parametri in base ai quali individuare la gravità della frode. Peraltro, non vi è alcun riferimento normativo che possa dettare i limiti
della frode grave e quella non grave. Al giudice dovrebbe spettare il compito – secondo il prudente apprezzamento – di “creare” questa soglia di gravità.
Il secondo profilo attiene più specificamente al regime della prescrizione oggi applicabile a queste
frodi gravi in materia IVA. Le opzioni interpretative – va subito detto – sono plurime.
Una possibile ipotesi è che oggi, a seguito della disapplicazione dell’art. 160, ultimo comma, c.p., per
i casi di frode grave in materia, che ledono gli interessi finanziari della UE in materia IVA, il regime della prescrizione è equiparabile a quello riferibile ai delitti indicati all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater,
c.p.p., e che, quindi, anche in presenza di atti interruttivi, non operi il limite dell’aumento del quarto.
Tale soluzione si pone in palese contrasto con il principio di legalità sotto diversi profili.
In primo luogo, è evidente che seguendo questa tesi si giunge ad applicare retroattivamente un nuovo regime di “imprescrittibilità di fatto”. Né si può affermare che in tale caso non si può parlare di effetto retroattivo perché la norma di cui all’art. 160, ultimo comma, c.p. costituiva una illegittima “norma
di favore”. In effetti, il regime prescrizionale cui sono assoggettate le frodi IVA è quello generale di tutti
reati ad esclusione di quelli indicati all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, c.p.p. Per la precisione, dall’agosto del 2011 è meno favorevole in quanto ai sensi dell’art. 17, comma 1-bis, d.lgs. n. 74 del 2000, i termini
di prescrizione sono aumentati di un terzo.
In altre parole, appare pacifico che è la disciplina relativa ai delitti elencati all’art. 51, commi 3-bis e
3-quater, c.p.p. a costituire un’eccezione rispetto alla generale disciplina prevista in tema di prescrizione. Eccezione che si giustifica in ragione della gravità dei reati previsti da quest’ultima norma. Anche la
fattispecie che appare più vicina alla frode IVA, e cioè l’art. 291-quater, d.p.r. n. 43/1973, che punisce
l’associazione a delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi esteri, è, in realtà, stata inserita perché fa riferimento al fenomeno di criminalità organizzata.
In buona sostanza, allineandosi a tale linea interpretativa, oggi si applicherebbe retroattivamente alle frodi IVA un regime eccezionale nato per i crimini di criminalità organizzata, terrorismo e altri gravi
reati.
La seconda opzione è che in relazione alle frodi IVA, a seguito della disapplicazione della norma
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dell’art. 160, ultimo comma, c.p., torni in vigore l’originario regime del codice penale prima della modifica dell’art. 160 c.p. ad opera della legge c.d. ex Cirielli, che comportava l’aumento della metà e non di
un quarto. Anche questa soluzione appare, peraltro, paradossale dal momento che a questo punto resterebbe del tutto incomprensibile se anche questo termine più lungo sarebbe adeguato a garantire una
effettiva tutela in sede penale degli interessi finanziari UE.
Infine, come terza possibilità, il giudice italiano potrebbe creare una “lex mista”, facendo riferimento
all’originaria disciplina della prescrizione nella legge 7 agosto 1982, n. 516, che prevedeva per i reati di
dichiarazione un termine prescrizionale più lungo rispetto a quello dettato all’art. 157 c.p., cumulando,
inoltre, il regime in tema di prescrizione del reato antecedente sia al d.lgs. n. 74 del 2000, che ha riformato la disciplina dei reati tributari, con quello del codice penale prima della c.d. ex-Cirielli (termini
prescrizionali più lungi e limite agli effetti interruttivi più alto (metà in luogo di un quarto).
Se molteplici sono le soluzioni ermeneutiche che si aprono dopo la sentenza Taricco, un punto non
può che restare fermo. Tale regola non può che rivolgersi alle frodi IVA commesse dopo l’8 settembre
2015. E ciò per una evidente ragione. Oggi, quale che sia la soluzione accolta fra quelle dianzi prospettate, si verrebbe ad introdurre un regime sfavorevole in tema di prescrizione del reato che – al momento
della commissione dei fatti – non era riferibile ai delitti tributari in materia di frode IVA. Ad essere
maggiormente precisi, non era sicuramente relativo a tutte le frodi IVA commesse anteriormente
all’entrata in vigore della c.d. ex-Cirielli, e cioè al dicembre del 2005.
È quello che la Corte di Appello ha immediatamente compreso a differenza della Corte di Cassazione.
E a contrasto di questa tesi non si può invocare l’affermazione che l’aspettativa sul tempo della prescrizione non rientra nell’alveo di tutela del principio di legalità 15. È indiscutibile, infatti, che nella quasi
totalità dei fatti il reo al momento della commissione dell’illecito ignora quale sia il regime della prescrizione. Ma è altrettanto vero che quello stesso reo ignora anche il concreto regime della commisurazione
della pena in senso lato. Un esempio valga per tutti: la sospensione del reato. Fino ad oggi non vi è stato
dubbio che tale istituto rientra nella sfera di applicazione dell’art. 25, comma 2, Cost. Ed anche ad un istituto a cavallo fra il diritto sostanziale e processuale, come la querela, secondo la più recente giurisprudenza è riferibile il divieto di retroattività della modifica sfavorevole 16. Per coerenza, allineandosi a tale
ordine d’idee, si dovrebbe allora paradossalmente affermare che il divieto di retroattività copre solo il disvalore dell’illecito e il trattamento afflittivo in senso stretto. Tutto quello che attiene al regime sanzionatorio in senso lato sarebbe sottratto al principio di legalità, ed al suo corollario del divieto di retroattività.
Conseguentemente, secondo questa “nuova” prospettiva, vi sarebbe un legittimo potere del legislatore, e oggi anche del giudice europeo, di individuare ex post il concreto regime della prescrizione e di
altri istituti analoghi ad esso 17.
Per le ragioni finora esposte, non si può che respingere tale chiave di lettura e ribadire che l’affidamento del reo non va letto solamente come calcolabilità anticipata del trattamento, ma anche come legittima fiducia che una «situazione punitiva», la quale comprende le cause di punibilità e le norme di
favore, non venga ad essere peggiorata dal legislatore dopo la commissione dell’illecito.
E in tali termini fino ad oggi si è sempre pronunciata la Corte Costituzionale.
Ma vi è di più. Il contrasto già intollerabile con il principio di legalità diventa ancora più stridente
con il principio del giusto processo. Dopo la sentenza Taricco sono cambiate le regole del gioco. All’imputato – il quale legittimamente aveva fatto la scelta di non accedere ad un rito alternativo confidando
nella prescrizione del reato – il giudice italiano oggi dovrebbe dire che le regole non valgono più: le
frodi IVA sono di fatto imprescrittibili.
Sotto questo profilo, nel dodicesimo secolo, Robin Hood quando si presentava al giudice itinerante
della Contea di Sherwood aveva almeno una fondamentale garanzia: egli era consapevole che sarebbe
stato giudicato dalla Corte sulla base di una regola enucleata da un precedente vincolante.
Nulla di tutto questo nel “medioevo prossimo venturo” 18. Dopo la sentenza Taricco – venuto meno
15
Per una diversa posizione sul punto si vedano, oltre agli autori, citati nella nota 5, F. Viganò, Disapplicare le norme vigenti
sulla prescrizione nelle frodi in materia di IVA?, cit., p. 14 ss.
16
A tale proposito, si rinvia ad E.M. Ambrosetti, La legge penale nel tempo, cit., p. 280 ss.
17
Sul punto, si vedano le condivisibili osservazioni di G. Civello, La sentenza “Taricco”, cit., p. 8 ss.
18
Il riferimento è al libro di R. Vacca, Medioevo prossimo venturo, Milano, 1970, in cui l’autore descriveva un “nuovo medioevo” che si stava avvicinando per la civiltà occidentale.
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il principio del nullum crimen sine lege – non vi sono nemmeno le garanzie proprie del sistema penale di
Common Law 19. E ciò in quanto, svincolato dal sistema del precedente vincolante, è il giudice/legislatore ad individuare ex novo la regola che va applicata retroattivamente.
Attesa tale situazione, è solo da confidare che al più presto, da un lato, con riguardo a tutti reati
commessi anteriormente all’8 settembre 2015 la Corte Costituzionale intervenga sul punto, attivando
quei “controlimiti” che sono rappresentati dal principio di legalità e del giusto processo, dall’altro, che
il legislatore italiano introduca immediatamente una normativa idonea ad assicurare l’esigenza di una
maggiore effettività della sanzione penale, che non sia vanificata dall’istituto della prescrizione del reato, e allo stesso che sia rispettosa del principio della ragionevole durata del processo 20.
19
Il tema di un’erosione del principio di legalità per effetto del diritto internazionale è stato da tempo segnalato (per tutti, si
veda P. Jahnke, Zur Erosion des Verfassungssatzes “Keine Strafe ohne Gesetz” in Zeirschrif fur die internationale Strafrechtsdognatk,
2010, p. 463 ss.). Di recente, si vedano – in una prospettiva parzialmente diversa – le stimolanti osservazioni relative al rischio di
un’erosione del principio d legalità T. Weigend, Dove va il diritto penale? Problemi e tendenze evolutive nel XXI secolo, in Criminalia,
2014, p. 87. L’illustre studioso osserva che “perché mai non si dovrebbero applicare le norme penali in via analogica a casi non
previsti dal legislatore, quando il colmare la lacuna fosse idoneo ad accrescere il senso di sicurezza dell’intera società, vale a dire
di ’tutti noi’? Suppongo che, nel 2050, gli studenti e i giudici conosceranno e citeranno ancora il principio del nullum crimen sine
lege. È però possibile che lo percepiranno come un corpo estraneo e come ostacolo alla realizzazione di una auspicabile giustizia
penale, sicché saranno portati a concepirlo in maniera più restrittiva di quanto siamo abituati oggi noi a intenderlo”.
20
Al riguardo, ancora G. Civello, La sentenza “Taricco”, cit., p. 9 ss.
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52
Sono inutilizzabili le dichiarazioni acquisite ai sensi dell’art.
210, comma 6, c.p.p. in assenza dell’avvertimento previsto
dall’art. 64, comma 3, lett. c) c.p.p.
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE, SENTENZA 29 LUGLIO 2015, N. 33583 – PRES. SANTACROCE; REL.
BIANCHI
In sede di esame dibattimentale ai sensi dell’art. 210, comma 6 c.p.p., di imputato di reato connesso ex art. 12,
comma 1, lett. c), c.p.p., o collegato ex art. 371, comma 2, lett. b), c.p.p., l’avvertimento di cui all’art. 64, comma
3, lett. c),c.p.p., deve essere dato non solo se il soggetto non ha «reso in precedenza dichiarazioni concernenti la
responsabilità dell’imputato» (come testualmente prevede il comma 6 dell’art. 210 c.p.p.), ma anche se egli abbia
già deposto erga alios senza avere ricevuto tale avvertimento.
In sede di esame dibattimentale ai sensi dell’art. 210, comma 6 c.p.p., di imputato di reato connesso ex art. 12,
comma 1, lett. c), c.p.p., o collegato ex art. 371, comma 2, lett. b), c.p.p., a quello per cui si procede, il mancato
avvertimento di cui all’art. 64, comma 3, lett. c), c.p.p., determina la inutilizzabilità della deposizione testimoniale.
[Omissis]
RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza in epigrafe, la Corte di appello di Palermo confermava l’affermazione di responsabilità penale a carico di L.P.T., M.G.B. e F.F. pronunciata, all’esito di giudizio abbreviato, con
sentenza in data 18 luglio 2012, dal Giudice della udienza preliminare del Tribunale di Palermo, in relazione a diversi episodi di estorsione, consumati avvalendosi della forza di intimidazione di "cosa
nostra", e segnatamente della famiglia mafiosa di Palermo‐centro, ai danni di S.F. classe (…), amministratore unico della Sanfratello Costruzioni s.r.l.. Si era contestato a L.P. e M. di aver concorso,
insieme a L.I.D., separatamente giudicato con rito ordinario (nonché con L.P.G. e C.F. , deceduti), in
una estorsione continuata, pluriaggravata commessa dal 2000 al dicembre 2008 in danno di S.F. cl.
(…), costringendolo a versare in più rate la somma di 45 milioni di lire e poi di ulteriori 45.000 Euro
per i diversi cantieri che la S. s.r.l. aveva attivi nel centro storico di (…); agendo L.P. come esecutore delle pretese estorsive e M. come esattore. Si era poi contestato a F.F. la tentata estorsione aggravata
in danno dei soci della impresa Sanfratello Costruzioni s.r.l. commessa in epoca prossima al 2009, per
aver invitato i medesimi "a mantenere gli impegni assunti" cioè a consegnare le somme pattuite in virtù della estorsione di cui sopra, presentandosi come persona autorizzata a riscuotere il denaro quando
il L.P. era in carcere.
Sulla base delle dichiarazioni accusatorie rese durante le indagini preliminari dalla persona offesa,
riscontrate da quelle degli altri soci, Sa.Fr. cl. (…) e N.P., dal contenuto di due "pizzini" rinvenuti nel
covo dei Lo.Pi. e dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Sp.Ma. e Nu.An. , il G.u.p. affermava
la responsabilità degli imputati.
Previa rinnovazione dibattimentale volta ad acquisire i verbali di tutte le deposizioni testimoniali
assunte nel parallelo procedimento a carico di L.I.D., prodotti dalla difesa degli imputati, la Corte di appello confermava il giudizio di responsabilità, la sussistenza dell’aggravante ex art. 7 d.l.
152 del 1991 e la negazione delle attenuanti generiche. Quanto alla determinazione della pena, condannava L.P., ritenuta la continuazione dei fatti per cui si procede con fatti pregressi indicati nell’ordinanza dell’8 aprile 2013, alla pena complessiva di anni 11 di reclusione ed Euro 4600 di multa. In relazione al M., ritenuto sussistente il vincolo della continuazione con il fatto di cui alla sentenza della
Corte di appello di Palermo del 18 novembre 1999, ridotta la pena inflitta dal primo giudice ed appliAVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | SONO INUTILIZZABILI LE DICHIARAZIONI ACQUISITE AI SENSI DELL'ART. 210
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cato l’aumento per la continuazione con la condanna inflitta con la sentenza citata, rideterminava la
pena complessiva in anni sette di reclusione ed Euro 2500 di multa. Per quanto riguarda F., ritenuto
sussistente il vincolo della continuazione con i reati di cui alla sentenza emessa dalla Corte di appello
di Palermo in data 5 dicembre 2011, aumentava la pena inflitta con tale condanna di un anno di reclusione e rideterminava la pena complessiva in anni nove, mesi otto di reclusione. Condannava gli
imputati in solido al risarcimento del danno in favore delle parti civili quantificato in Euro 37.000
ciascuno in favore di S.F. classe (…) e s.f. classe (…) e in Euro 20.000 in favore di N.P., nonché alla rifusione delle spese processuali sostenute dalle parti civili.
La Corte riteneva utilizzabili sia le dichiarazioni rese dal S. in sede di denuncia, alla luce dell’indirizo giurisprudenziale secondo cui le dichiarazioni indizianti indicate dall’art. 63, comma 1, cod.
proc. pen. sono quelle rese da soggetto sentito come teste o come persona informata sui fatti, che riveli
circostanze da cui emerga una sua responsabilità penale per fatti pregressi, e non quelle attraverso cui
egli ‐ come avvenuto nella specie ‐ realizzi il fatto tipico di una determinata fattispecie di reato, quali il
favoreggiamento personale, la falsa testimonianza o la calunnia; sia le dichiarazioni dibattimentali rese
nel processo a carico del coimputato L.I. , al riguardo osservando che, in effetti, l’aver reso una dichiarazione idonea a configurare il delitto di favoreggiamento aveva comportato, in capo al S. “l’assunzione oggettiva” della qualità di soggetto indagato o indagabile, “secondo l’approccio in termini sostanziali” al problema indicato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 15208 del 25/02/2010, Mills, Rv.
246584: e ciò a prescindere dal fatto che tale circostanza fosse nota al Tribunale procedente e sussistendo tra l’estorsione ed il favoreggiamento un duplice collegamento probatorio ai sensi dell’art. 371, comma 2, lett. b), cod proc. pen.. Nonostante tale collegamento fosse esistente già al momento della deposizione dibattimentale, per la Corte territoriale risultava tuttavia decisivo il fatto che il S. aveva già
reso dichiarazioni in precedenza: ciò escludeva la possibilità di applicare “le disposizioni di cui all’art. 210 cod. proc. pen. (che prevedono il diritto al silenzio, cioè l’avviso della facoltà di non rispondere), per l’espressa deroga ad esse prevista dal comma 6 del medesimo art. 210 cod. proc. pen.,
proprio nel caso in cui l’imputato di reato collegato abbia già reso in precedenza dichiarazioni contro
l’imputato”. Pertanto la persona offesa doveva essere sentita come testimone assistito ai sensi dell’art.
197‐bis cod. proc. pen., con le garanzie ivi contemplate “tutte rivolte a tutelare la sua posizione, fra le
quali, però, non è previsto il diritto al silenzio. Ma della violazione delle regole che sovraintendono,
ex art. 210 o 197‐bis cod. proc. pen., all’audizione del testimone assistito o dell’imputato di reato
connesso o collegato (prima fra tutte l’assistenza del difensore), si ritiene che possa dolersi il solo S. e
non gli odierni imputati, che non hanno alcun interesse all’osservanza della disposizione violata, poiché essa tende a tutelare l’imputato o l’indagato nel procedimento connesso o collegato dal rischio
inconsapevole di auto incriminarsi con le sue dichiarazioni rese sotto". In tale prospettiva, le dichiarazioni del S. rese nel dibattimento a carico del coimputato L.I. dovevano ritenersi utilizzabili, sia pure
con il regime valutativo previsto dall’art. 192, comma 3, cod. proc. pen., espressamente richiamato
per i testi assistiti dall’art. 197‐bis, comma 6, dello stesso codice.
2. Hanno presentato ricorso per cassazione i difensori di tutti gli imputati.
2.1. Nell’interesse di L.P.T. l’avv., deduce:
2.1.1. Violazione di legge in relazione alla illegittima applicazione degli articoli 63, commi 1 e 2,
64, 197, 197‐bis, 210 cod. proc. pen.. Ci si duole del mancato inquadramento de S.F. classe (…) come
indagato in procedimento connesso. Tale qualifica, nella prospettazione difensiva, avrebbe dovuto essere riconosciuta al dichiarante sin dalle indagini preliminari, atteso che fin dalla denuncia del 13
aprile 2010 e dalle informazioni rese alla polizia giudiziaria il 15 aprile 2010 l’offeso aveva reiteratamente omesso di riferire che G.A. aveva mediato tra lui ed i vertici della famiglia mafiosa di Porta
Nuova per il pagamento del “pizzo” in relazione all’attività dei cantieri edili della S. s.r.l. Si rimarca che all’atto della denuncia alla polizia giudiziaria gli inquirenti avevano a disposizione tutti gli
elementi per indagare il S. . classe (…): in atti vi erano le dichiarazioni dei collaboratori Nu. e Sp. che
dettagliavano i profili dell’estorsione per cui si procede e la partecipazione ad essa del G., invece
sempre negata dal S. Il coinvolgimento del G. risultava inoltre dai “pizzini” ZD3 e G9 rinvenuti nel
covo dei Lo Piccolo al momento del loro arresto avvenuto il 5 novembre 2007. Si richiama la giurisprudenza secondo cui l’accertamento della qualità del dichiarante è rimessa alla valutazione del giudice
che a tale verifica deve procedere in termini sostanziali.
Quanto alle dichiarazioni rese dal medesimo S. in dibattimento, era un dato pacifico che costui,
prima di tale escussione, pur in assenza di formale iscrizione nel registro degli indagati, doveva consiAVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | SONO INUTILIZZABILI LE DICHIARAZIONI ACQUISITE AI SENSI DELL'ART. 210
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derarsi soggetto indiziato di aver reso false dichiarazioni al pubblico ministero e di favoreggiamento
aggravato ex art. 7 d.l. n. 152 del 1991 per aver negato che il G. aveva partecipato alla denunciata
estorsione. La sua posizione andava pertanto valutata ex art. 63, comma 2, cod. proc. pen. ed egli
avrebbe dovuto essere esaminato con le forme dell’art. 210 nella qualità di imputato di reato connesso;
non invece, come erroneamente sostenuto dalla Corte di appello, come teste assistito. In ogni caso mai
S., né prima degli interrogatori da parte della polizia giudiziaria né prima delle escussioni dibattimentali, aveva ricevuto gli avvertimenti di cui all’art. 64.
A sostegno della correttezza dell’inquadramento, il difensore evidenzia che il Tribunale di Palermo aveva assolto, all’esito del dibattimento, L.I.D., accusato del medesimo reato contestato all’attuale ricorrente, avendo ritenuto che S. classe (…) doveva essere sentito fin dall’inizio come teste assistito, ed aveva ordinato la trasmissione di copia degli atti all’ufficio del Pubblico Ministero per procedere nei confronti del medesimo in relazione al reato di favoreggiamento personale aggravato dall’art. 7
d.l. 152 del 1991.
2.1.2. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli articoli 63, 197‐bis, 210, 192, comma
3, cod. proc. pen sotto il profilo del giudizio di attendibilità intrinseca delle dichiarazioni del medesimo S. . Si contesta, segnatamente, la violazione dell’art. 192, comma 3, cod. proc. pen. e a sostegno della censura si evidenzia: a) l’assenza di spontaneità delle dichiarazioni accusatorie del S.: la denuncia iniziale non poteva ritenersi spontanea in quanto egli si era presentato alla p.g. dopo che i
quotidiani locali avevano diffuso il contenuto dei c.d. "pizzini" sequestrati nel covo dei Lo Piccolo; la
estorsione per cui si procede aveva avuto termine nel dicembre del 2008, ovvero un anno e quattro
mesi prima della presentazione della denuncia che avveniva solo nell’aprile 2010, denuncia che evidentemente non poteva avere la finalità di porre fine all’estorsione, come contraddittoriamente affermato dai giudici di secondo grado; b) la reticenza sull’intervento del G. nell’estorsione, intervento che
S. aveva negato tanto nel corso delle indagini preliminari, quanto nel corso del dibattimento celebrato
nei confronti dell’imputato L.I. per ammetterlo solo nel corso della terza escussione dibattimentale
e dopo aver ascoltato le deposizioni rese in tale procedimento dai collaboranti Nu. e Sp. che avevano riferito del coinvolgimento di G. nell’estorsione in danno della Sanfratello Costruzioni; si rimarcava che l’esame dibattimentale del S. reso nel corso dell’udienza del 24 settembre 2012 nel processo a
carico del L.I. era stato interrotto perché lo stesso era indagabile per falsa testimonianza e, inoltre,
aveva narrato di un suo coinvolgimento nella estorsione in danno di altro commerciante, tale I.; c) la
carente valutazione del fatto, allegato dalla difesa, che L.P. e S., si conoscevano perché avevano avviato una trattativa per la compravendita di una villa di S. a (…), circostanza che giustificava il riconoscimento fotografico effettuato dal S. nei confronti del L.P. . Tale trattativa era avvenuta negli anni
2002‐2003, cioè quando l’attività estorsiva sarebbe già stata in atto e già vi era intervenuto il L.P., con
la singolarità ed inverosimiglianza di credere, ove fosse vera la ricostruzione degli inquirenti, che potesse aver aderito a tale trattativa un soggetto nei cui confronti era già in atto attività estorsiva da
parte dell’altro contraente; d) l’impossibilità che S. avesse pagato le rate del "pizzo" presso il bar (…)
dato che l’esercizio in questione dal giugno del 2004 era stato posto sotto sequestro.
2.2. Il profilo della attendibilità intrinseca viene ribadito anche dal co‐difensore del L.P., avv.,
che sottolinea la necessità di una rigorosa e penetrante verifica di attendibilità intrinseca ed estrinseca delle dichiarazioni rese dalla persona offesa, specie ove, come nella specie, costituitasi parte civile e la necessità di opportuni riscontri; evidenzia, oltre ai profili già richiamati, la pesante interferenza sulla valutazione di attendibilità del S., della reticenza dal medesimo serbata sul coinvolgimento
del G. nell’estorsione per cui si procede: dopo aver sempre negato il coinvolgimento del G., il S.,
nell’udienza del 24 settembre 2012, aveva chiesto di essere nuovamente sentito nel parallelo procedimento e aveva ammesso che nella primavera del 2006 o 2007, avendo ricevuto degli avvertimenti nel
cantiere della (…), si era ricolto al G., il quale dopo qualche giorno lo aveva fatto incontrare al bar
(omissis) con L.P.T. (il lungo) che gli aveva risolto tali problemi; si trattava di un elemento di tale
rilevanza che non poteva essere giustificato nei termini di una valutazione frazionata delle sue dichiarazioni, come sostenuto dalla Corte territoriale. Inoltre si evidenzia che con i motivi di appello
si era contestata la coerenza e costanza del racconto del S. circa le modalità dell’estorsione, sostenendosi che dalla lettura del “pizzino” catalogato ZD3 si evinceva non già che L.P.S. aveva impartito l’ordine di far pagare il pizzo al S. o di operare una riduzione a titolo di sconto, ma aveva ordinato a
L.P.T., “il lungo”, di farlo lavorare indisturbato. Questa circostanza non era stata valorizzata dai
giudici territoriali che invece sostenevano che l’intermediazione del G. era finalizzata ad ottenere
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uno sconto sulle estorsioni. Ci si doleva altresì dell’attendibilità dello Sp. che avrebbe reso dichiarazioni
de relato non riscontrate da altri elementi. All’udienza del 18 giugno 2012, nel corso del dibattimento
a carico del L.I., lo Sp. aveva infatti dichiarato di avere fissato un appuntamento tra il L.P. da un lato e
il G. e l’A. dall’altro, ma di non avere partecipato agli stessi, sicché gli esiti dell’incontro gli erano stati
riferiti dal G. 2.2.1. Si censura la omessa valutazione della sentenza emessa dal Tribunale di Palermo in
data 15 ottobre 2012 con la quale L.I.D., coimputato dello stesso reato come colui che nel 2000 ebbe a
mettere in contatto S. con L.P.T., è stato assolto dalla stessa imputazione qui contestata al L.P. proprio per la assoluta inattendibilità del S.
2.2.2. Si lamenta la violazione dell’art. 192, comma 3, cod. proc. pen. anche in riferimento alle dichiarazioni delle altre parti civili Sa.Fr. classe (…) e N.P., portatori al pari di S. classe (…) di rilevanti interessi economici, parenti e soci del predetto, che avevano reso dichiarazioni in epoca successiva la denuncia di quest’ultimo e in larga parte de relato.
2.3. Gli avv.ti, nell’interesse di F., deducono:
2.3.1. Violazione di legge in ordine all’utilizzabilità delle dichiarazioni rese da S. classe (…).
a) Si ribadiscono i motivi già proposti dalla difesa L.P. circa l’illegittimo inquadramento del S. come
dichiarante semplice. Nella prospettazione difensiva le prime dichiarazioni del S., quelle rese nelle indagini, erano inutilizzabili per violazione dell’art. 63, comma 2, cod. proc. pen in quanto il dichiarante
era indiziato o indiziabile del reato di favoreggiamento aggravato in favore del G. Lo stesso S., presentandosi negli uffici di polizia, aveva ammesso la volontà di "chiarire" la sua posizione, con ciò
mettendo in essere una excusatio non petita che rendeva chiaro come lo stesso ‐ dopo che nel 2009
la stampa locale aveva pubblicato alcuni “pizzini” sequestrati a L.P.S. il 5 novembre 2007, attestanti
che l’impresa edile Sanfratello era stata sottoposta ad estorsione anni prima e che in tale circostanza,
nota anche ai pentiti, la trattativa si era conclusa con la mediazione di personaggi mafiosi intervenuti
a favore dell’estorto ‐ avesse percepito l’esigenza di disinnescare eventuali sospetti di connivenza;
peraltro era del tutto contraddittorio ritenere che egli volesse far cessare le richieste estorsive dal
momento che l’attività dell’impresa di costruzioni era cessata dal 2008, sicché nel 2010 non vi erano richieste estorsive da far cessare.
b) Con specifico riguardo alla attendibilità, si evidenzia come il criterio della scindibilità e valutazione frazionata, nato per la chiamata in correità, non poteva applicarsi in generale alla testimonianza semplice (quale era stata considerata quella resa in fase di indagine dal S. classe […]) ed, in particolare, a quella di chi (come S.) rivestiva la qualità di danneggiato, in quanto tale portatore di rilevanti interessi processuali ed extraprocessuali che impongono un rigorosissimo vaglio della attendibilità. Sempre con riferimento alla attendibilità, si rileva che il S. classe (…) non aveva effettuato
dichiarazioni spontanee, ma era stato sottoposto ad un pressante interrogatorio mirante a far emergere
le sue responsabilità.
c) Si evidenzia l’illogicità della motivazione nella parte in cui, da un lato, si valutava il S. credibile sotto il profilo intrinseco e, dall’altro, si ammetteva che lo stesso potesse avere negato il vero
nel corso del parallelo dibattimento a carico del L.I., sottolineandosi che in esso S. aveva ritrattato la dichiarazione falsa con ciò ammettendo di aver mentito.
2.3.2. Mancanza contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione.
a) Si rileva come i due S. non potessero essere considerati fonti di prova autonoma in relazione alla condotta contestata al F. Il Sa. classe (…) era infatti teste diretto, mentre il S. classe (…) era un
teste de relato sicché le loro dichiarazioni non potevano essere reciprocamente confermative costituendo una “unica entità”.
b) Si contesta come l’accusa nei confronti del F. fosse espressa in motivazione con modalità congetturali in quanto non era mai stato spiegato dai testimoni in che modo lo stesso avesse posto in essere
concretamente la condotta contestata. Il Sa. classe (…), richiamato dal S. classe (…), sosteneva infatti solo di avere “compreso” che il F. fosse persona che aveva contatti con "cosa nostra", senza indicazioni
di fatti determinati cui ancorare tale connessione.
2.3.3. Violazione di legge in relazione all’aggravante di cui all’articolo 628, terzo comma, n. 3, cod.
pen.
Si evidenzia come nel capo di imputazione contestato al F. si facesse riferimento, al singolare, alla
“aggravante” e non alle “aggravanti”, sicché era da ritenere che l’aggravante della minaccia posta in
essere da parte dell’associazione mafiosa non fosse stata mai contestata al l’imputato. Si instava, conseAVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | SONO INUTILIZZABILI LE DICHIARAZIONI ACQUISITE AI SENSI DELL'ART. 210
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guentemente, per l’annullamento senza rinvio della decisione impugnata, previa eliminazione dell’aumento di pena applicato per l’aggravante in parola.
2.3.4. Manifesta illogicità della motivazione in relazione all’omessa valutazione della prova documentale acquisita a discolpa.
Si contesta l’emarginazione valutativa di dati probatori rilevanti: la documentazione prodotta aveva
evidenziato come i rapporti tra l’impresa S. e quella del F. erano regolarmente proseguiti fino all’estate
del 2009: il che dimostrerebbe la inverosimiglianze di quanto affermato dalle parti offese circa l’asserita presa di distanza dal F. in coincidenza con il fatto di estorsione contestato.
2.3.5. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla qualificazione giuridica del fatto.
Si evidenzia come F. non avesse mai preso parte alla estorsione di cui al capo a) e che era ipotizzabile nei suoi confronti, al più, il reato di favoreggiamento reale: il F. avrebbe posto in essere una condotta finalizzata esclusivamente a consentire agli autori della estorsione già consumata di conseguire in
concreto il profitto.
2.3.6. Violazione della legge penale e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta esclusione della desistenza volontaria.
Si evidenzia come la condotta criminosa attribuita al ricorrente si sarebbe esaurita nel primo atto:
nella prospettazione difensiva, non appena constatata la volontà della vittima di non mantenere gli
impegni il F. avrebbe desistito; non era stato l’arresto del F. nel maggio 2009 ad impedire l’ulteriore sviluppo della condotta criminosa, ma un atto volontario; dagli atti emergeva che l’incontro tra il F.
e la vittima risaliva a gennaio 2009: in considerazione del fatto che l’arresto interveniva solo a maggio
dello stesso anno si rimarca come la dilatazione dei tempi sia compatibile con la ipotizzata scelta di desistenza.
2.4. L’avv., difensore del M., contesta la valutazione dell’attendibilità intrinseca del S. classe (…) in
coerenza alle doglianze espresse nei confronti della posizione del coimputato L.P.
2.4.1. Con specifico riferimento alla posizione del M. si evidenzia che il S. aveva reso tre versioni
differenti in quanto: a) in sede di denuncia aveva affermato di avere personalmente consegnato al M.
in un paio di occasioni denaro in una busta presso il suo ufficio; b) nella deposizione del 15 aprile 2010
aveva affermato che più preciso avrebbe potuto essere Sa.Fr. classe (…); c) il 28 maggio 2012, nel dibattimento a carico di L.I., aveva affermato di avere visto forse M. al bar insieme a L.P. e che, in un’occasione, avrebbe visto attraverso le telecamere del suo ufficio che un cugino avrebbe consegnato una
busta al ricorrente.
2.4.2. Si contesta l’efficacia dimostrativa delle dichiarazioni di S.F. classe (…), che aveva reso dichiarazioni generiche e de relato, avendo riferito di aver appreso dai cugini che durante la detenzione
di L.P.T. classe (…), “[Omissis]”, un cugino di costui, che non aveva mai visto, avrebbe riscosso le rate
del pizzo.
2.4.3. Con riguardo alle dichiarazioni rese da N.P., si evidenzia che lo stesso aveva reso due
versioni differenti: a) nella prima aveva riconosciuto fotograficamente in termini di probabilità il
ricorrente; b) mentre nel dibattimento a carico di L.I. non aveva riconosciuto il M.
2.4.4. Sempre con riguardo alle dichiarazioni di S.F. classe (…), si evidenzia la carenza di riscontri, non essendo idonei allo scopo le dichiarazioni del Nu., le dichiarazioni del Sa. classe (…), ed
il riconoscimento fotografico operato dal dichiarante. Nessuna delle dichiarazioni invocate a riscontro
si presentava individualizzante: non quelle dei Nuccio in quanto generiche, non quelle del Sa. classe
(…) in quanto de relato; non varrebbe allo scopo neanche il riconoscimento fotografico effettuato dal S.
classe (…), dato che lo stesso aveva dichiarato di conoscere il L.P. a prescindere dall’episodio in contestazione.
3. La Seconda Sezione penale, cui era stata assegnato il procedimento, con ordinanza in data 2 dicembre 2014, ha rimesso il ricorso alle Sezioni Unite ai sensi dell’art. 618 cod. proc. pen., per la constatata esistenza di un contrasto giurisprudenziale sull’utilizzo delle dichiarazioni irritualmente assunte da chi
riveste la qualifica di testimone assistito: qualifica che, si osservava, in linea con gli insegnamenti della
sentenza Mills delle Sezioni Unite, spetta al giudice verificare in termini sostanziali, al di là quindi
del riscontro di indici formali quali l’iscrizione nel registro delle notizie di reato, in relazione al momento in cui le dichiarazioni stesse vengono rese.
La concreta incidenza del problema sulla fattispecie in esame è stata limitata alle dichiarazioni
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rese in dibattimento dal S. classe (…), dal momento che, per quelle assunte in sede di indagini, è stato
pienamente condiviso l’assunto della sentenza impugnata, fondato su un consolidato indirizzo della
giurisprudenza di legittimità, secondo cui la disciplina sulle dichiarazioni indizianti non trova applicazione laddove siano proprio queste ultime a concretare un fatto criminoso.
La questione dell’utilizzabilità della deposizione dibattimentale del S. nel processo a carico del L.I., avvenuta senza l’assistenza del difensore e senza alcun previo avviso circa la possibilità di avvalersi del diritto al silenzio, è stata invece ritenuta “preliminare ed assorbente” rispetto agli altri motivi, dato che tali
dichiarazioni hanno arricchito il quadro a suo tempo valutato in primo grado dal G.u.p., e che la natura
contratta del giudizio abbreviato impone, per le necessarie verifiche di attendibilità, una valutazione contestuale di tutte le dichiarazioni rese dalla persona offesa e principale teste di accusa.
La Seconda Sezione ha osservato che lo statuto del dichiarante “coinvolto nel fatto” non si presenta
unitario, potendosi distinguere una ipotesi di connessione c.d. “forte” (art. 12, comma 1, lett. a, cod.
proc. pen.) e casi, tra cui rientra quello in esame, di connessione c.d. "debole" (artt. 12, comma 1, lett. e,
e 371, comma 2, lett. b, cod. proc. pen.), casi questi ultimi caratterizzati da un collegamento meno intenso tra il fatto di cui il dichiarante è (o può essere) accusato e il fatto giudicando, con conseguente
attenuazione delle garanzie riservate all’indagato‐imputato di reato connesso; in questo caso infatti il
diritto al silenzio non è assoluto, ma patisce una compressione ogni volta che, come stabilisce l’art. 210,
comma 6, cod. proc. pen., il dichiarante abbia reso in precedenza dichiarazioni concernenti la responsabilità dell’imputato ed altresì, sempre sulla base della stessa norma, per scelta del dichiarante, ogni volta che questi scelga di rispondere in seguito all’avvertimento di cui all’art. 64, comma 1,
lett. c), cod. proc. pen.. In ogni caso, i dichiaranti indagati per fatti collegati assumono lo statuto
processuale del testimone assistito indicato dall’art. 197‐bis cod. proc. pen.
Ad avviso della Sezione rimettente, nonostante il comma 2 dell’art. 197‐bis cod. proc. pen. faccia riferimento ai soli soggetti che scelgano di rilasciare dichiarazioni in seguito all’avviso, potrebbe “ritenersi che il regime indicato si estenda anche ai dichiaranti che hanno perso il diritto al silenzio poiché hanno dichiarato in precedenza, secondo quanto prevede l’art. 210, comma 6, primo periodo,
cod. proc. pen. (come nel caso che ci occupa, relativo alle dichiarazioni del S. classe (…))”: un regime
che prevede l’assistenza del difensore e ‐ attraverso l’inutilizzabilità relativa prevista dall’art. 197‐bis,
comma 5, cod. proc. pen. ‐ il divieto di utilizzo contra se delle dichiarazioni, comunque soggette alla
regola di valutazione di cui all’art. 192, comma 3, cod. proc. pen.
Tanto premesso, l’ordinanza di rimessione ha evidenziato che, nella giurisprudenza della Corte di
cassazione, si registrano tre diversi orientamenti, tutti sostenuti da una serie di pronunce depositate anche in epoca recente, quanto alla possibilità di utilizzo delle dichiarazioni rese dal soggetto indagato (o
indagabile) per reato connesso o collegato non assistito dal difensore di fiducia, o non previamente
avvisato ai sensi dell’art. 64, comma 3, cod. proc. pen.
Il primo indirizzo ritiene senz’altro inutilizzabili le dichiarazioni in questione, interpretando il rinvio all’art. 64 cod. proc. pen., contenuto nell’art. 197‐bis dello stesso codice, come comprensivo della
sanzione di inutilizzabilità prevista dal comma 3‐bis del predetto art. 64. Il secondo orientamento esclude la sussistenza di invalidità delle dichiarazioni, pur se assunte in modo irregolare, per la mancanza
dell’avviso ex art. 64, comma 3, lett. c), cod. proc. pen., valorizzando il fatto che mentre l’art. 64 si riferisce al solo interrogatorio, ovvero ad un atto destinato per natura a svolgersi fuori dal contraddittorio, con una conseguente più rigorosa tutela dei diritti dei terzi eventualmente coinvolti nelle dichiarazioni rese dall’interrogato, gli artt. 197‐bis e 210 si riferiscono ad esami destinati a svolgersi nel
contraddittorio delle parti. In tale ottica, si è precisato che, anche a voler ritenere che il rinvio all’art.
64, contenuto nell’art. 197‐bis, comporti l’obbligo dell’avviso, l’eventuale omissione non potrebbe comunque determinare l’inutilizzabilità delle dichiarazioni, non essendo stata richiamata anche la sanzione prevista dal comma 3‐bis dell’art. 64. Secondo il terzo indirizzo interpretativo, la conseguenza
della mancata applicazione dell’art. 210 cod. proc. pen. non è l’inutilizzabilità delle dichiarazioni
testimoniali rese, ma la nullità a regime intermedio della deposizione, dal momento che la legge non
vieta l’esame dell’imputato connesso o collegato, bensì prescrive che esso avvenga secondo determinate formalità: nullità peraltro deducibile non dall’imputato del processo principale, ma solo dal dichiarante che vede violato il suo diritto alla difesa. Anche tale prospettiva, volta soprattutto a tutelare
il dichiarante dalle dichiarazioni rese contra se, sottolinea il mancato richiamo della sanzione di inutilizzabilità di cui all’art. 64, comma 3‐bis, cod. proc. pen.
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La Seconda Sezione ha ricordato che la sentenza impugnata aveva conferito al S. la qualifica "sostanziale" di teste assistito ai sensi dell’art. 210, comma 6, cod. proc. pen., avendo egli perso il diritto al silenzio per via delle dichiarazioni precedentemente rese; ed aveva aderito all’indirizzo secondo cui gli
imputati non avevano diritto a dolersi della mancata applicazione delle norme di garanzia, previste ad
esclusiva tutela del dichiarante. Tale percorso interpretativo, peraltro, era stato censurato dalle difese,
secondo cui le dichiarazioni rese dal S. nel dibattimento a carico del L.I. erano da considerare radicalmente inutilizzabili.
In tale contesto, ed in presenza del contrasto giurisprudenziale rilevato, la Seconda Sezione ha rimesso alle Sezioni Unite la questione “se la mancata applicazione ‐ in sede di esame dibattimentale di
un imputato di reato connesso o collegato a quello per cui si procede ‐ delle disposizioni di cui all’art.
210 cod. proc. pen. relativamente alle dichiarazioni testimoniali rese da chi avrebbe dovuto essere sentito come teste assistito, perché imputato in un procedimento connesso o di un reato collegato, determina inutilizzabilità, nullità a regime intermedio o altra patologia della deposizione testimoniale”.
4. Il Primo Presidente, con decreto in data 23 dicembre 2014, ha assegnato il ricorso alle Sezioni
Unite, fissando per la trattazione l’odierna pubblica udienza.
5. Con memoria recante la data del 18 marzo 2015, depositata il 19, il difensore di F. osserva che il contrasto segnalato dalla Sezione rimettente ha in realtà limitata incidenza sulla decisione del caso concreto
dal momento che la produzione in giudizio degli atti del dibattimento parallelo a cura della stessa difesa
degli imputati non era “destinata a provare il fatto in essa accertato (l’innocenza del L.I.) ma la circostanza
che vi è stata una valutazione sulla attendibilità delle fonti di accusa, che l’esito di tale valutazione ha determinato l’incriminazione di una di esse e che le dichiarazioni rese alla p.g. sono sfate ritenute inutilizzabili erga omnes”; era stato ben evidenziato l’interesse di F., al pari degli altri imputati, a che fosse documentata l’inattendibilità di chi lo accusa e ciò avuto riguardo al significativo comportamento processuale
tenuto in aula dal S. il quale, “incriminato” per favoreggiamento, si era dapprima avvalso della facoltà di
non rispondere e poi aveva ritrattato le precedenti dichiarazioni; ribadisce che la sentenza di appello risulta compromessa dall’immotivato giudizio di attendibilità a favore del S. il cui mendacio e la cui reticenza sono storicamente certi anche se non punibili per la intervenuta ritrattazione e dalla omessa individuazione di riscontri specifici e individualizzanti relativi al F.
6. Anche nell’interesse di L.P. e M. è stata presentata una memoria, recante la data del 20 marzo
2014 e depositata lo stesso giorno, con la quale si ribadisce l’interesse a contestare l’utilizzabilità delle
dichiarazioni del S. in malam partem cioè quale conferma della tesi accusatoria. Sullo specifico quesito rimesso alle Sezioni Unite, la difesa aderisce alla tesi della sentenza impugnata secondo cui S.,
avendo già reso in precedenza dichiarazioni etero‐accusatorie, avrebbe dovuto essere sentito come teste assistito senza però aver diritto all’avviso del diritto di avvalersi della facoltà di non rispondere, e
ritiene pertanto utilizzabili le sue dichiarazioni; in ogni caso si sostiene che anche ove le Sezioni
Unite aderissero al primo indirizzo richiamato dall’ordinanza di rimessione, quello che vuole trattarsi di una prova inutilizzabile, si dovrebbe comunque tenere conto delle dichiarazioni stesse dal momento che l’istituto della inutilizzabilità di cui all’art. 191 cod. proc. pen. è posto a garanzia delle posizioni difensive e colpisce le prove illegittimamente acquisite contro divieti di legge, quindi in danno del giudicabile vale a dire come prove a carico. Tale istituto, pertanto, in tutte le sue articolazioni (una delle quali è rappresentata dall’ipotesi prevista dall’art. 195, comma 1, cod. proc. pen.) non
può essere applicato per ignorare un elemento di giudizio favorevole alla difesa che, invece, deve
essere considerato e discusso secondo i canoni logico razionali propri alla funzione giurisdizionale.
Ove poi si escludesse l’utilizzabilità di tali dichiarazioni anche in bonam partem (cioè ai fini della
verifica della attendibilità del S. classe (…), la sentenza impugnata dovrebbe comunque essere annullata per illogicità e mancanza di motivazione sulla attendibilità di S., affidata a mere congetture, frutto di non consentita valutazione frazionata e prive di riscontri sia con riferimento all’imputato
L.P. che all’imputato M.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. La complessa vicenda processuale che si è sviluppata nel presente procedimento offre alla Corte
l’occasione di affrontare il tema della utilizzazione della prova dichiarativa laddove la stessa sia condizionata dalla possibile interferenza tra la qualità di imputato e teste in relazione al contenuto di
quanto riferito dallo stesso dichiarante. Ma, ancora prima, impone di verificare quale sia la corretta
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veste giuridica del dichiarante che, proprio in virtù delle dichiarazioni rese, determini la insorgenza nei suoi confronti di elementi indizianti dei reati di false dichiarazioni al pubblico ministero, falsa testimonianza, favoreggiamento e, calunnia. Dovendosi fin da ora precisare che secondo la costante giurisprudenza di questa Corte il reato di favoreggiamento comprende anche l’ipotesi di
mendaci dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria (Sez. 6, n. 13086 del 28/11/2013, Zuber, Rv. 259497;
Sez. 6, n. 28526 del 13/06/2013, Rv. 256064) e che la Corte costituzionale, con sentenza n. 75 del 2009, ha
dichiarato l’illegittimità costituzionale del secondo comma dell’art.384 cod. pen. nella parte in cui non
esclude la punibilità anche in relazione a tale fattispecie criminosa.
1.1. S. classe (…), si era presentato alla Squadra Mobile di Palermo per denunciare le vessazioni
subite ad opera di ambienti mafiosi dall’impresa di cui era amministratore nel corso di quasi un decennio; sentito dalla polizia giudiziaria come persona informata sui fatti (art. 351, comma 1, cod. proc.
pen.) aveva omesso di riferire che anche tale G.A. aveva avuto un ruolo nella vicenda estorsiva che egli
si accingeva a denunciare e che lo riguardava. Sulla base di tali dichiarazioni si esercitava l’azione penale nei confronti di numerosi imputati i cui procedimenti assumevano forme ed esiti diversi: quella
del giudizio ordinario nei confronti di L.I.D. e di giudizio abbreviato nei confronti di L.P.T. e altri, cui si
riferisce il presente ricorso.
1.2. Nel procedimento a carico di L.I., la prova è stata assunta al dibattimento dove S. classe (…),
citato come teste comune, ha reiterato le precedenti dichiarazioni rese alla p.g., anche in relazione al
ruolo del G.
Solo alla terza udienza ha chiesto di essere nuovamente sentito ed ha ammesso la falsità di quanto in
precedenza dichiarato in relazione a costui giustificandosi con l’affermazione che riteneva che non
si trattasse di circostanze rilevanti e invocando l’affetto che nutriva per il fratello del G. che era stato per
anni istruttore di equitazione di suo figlio. Avvisato di potersi astenere dal rispondere in ragione delle
dichiarazioni autoindizianti rese, dichiarava di volersi avvalere della facoltà di non rispondere.
Con la sentenza di assoluzione, il Tribunale ordinava la trasmissione degli atti all’ufficio del pubblico
ministero per procedere contro di lui in relazione al reato di favoreggiamento. Alla pronuncia assolutoria il Tribunale perveniva ritenendo che le dichiarazioni rese a dibattimento da S., ancora prima
che inattendibili per le evidenti e gravi omissioni in cui il teste era incorso, erano inutilizzabili ex art.
63, comma 2, cod. proc. pen. in quanto rese da persona che fin dall’inizio avrebbe dovuto essere
sentita nella qualità di indagato: l’istruttoria dibattimentale aveva dimostrato che già da quando il
S. aveva denunciato i fatti alla p.g. sussistevano ed erano nella disponibilità della p.g. prima e del
p.m. poi, elementi per riscontrare il mendacio nelle sue dichiarazioni; secondo la giurisprudenza della
Corte di cassazione (Sez. U, n. 15208 del 21/04/2010, Mills) spettava al giudice verificare in termini
sostanziali la veste del dichiarante e pertanto il Tribunale riteneva che sebbene non di fatto indagato
ed iscritto nel relativo registro, S. avrebbe dovuto essere sentito con le garanzie previste per l’indagato di reato connesso, proprio in ragione delle gravi e consapevoli omissioni in merito al coinvolgimento di G.A. nella propria vicenda estorsiva, idonee a integrare il reato di cui all’art. 378 cod. pen.
1.3. Nel procedimento a carico di L.P. ed altri, celebrato come si è detto con rito abbreviato, il
Tribunale perveniva alla affermazione di responsabilità degli imputati sulla base delle dichiarazioni
rese alla polizia giudiziaria dal S., pienamente utilizzabili dovendo egli essere qualificato quale semplice
denunciante, riscontrate da numerosi altri elementi.
Con gli appelli le difese degli imputati contestavano la attendibilità del S. e la stessa utilizzabilità
delle sue dichiarazioni e chiedevano di acquisire i verbali di tutte le deposizioni testimoniali assunte
nel procedimento contro L.I., richiesta che veniva accolta.
Nel confermare la sentenza di condanna, la Corte di appello prendeva separatamente in esame i due
gruppi di dichiarazioni del S. . Con riferimento al primo gruppo, quelle rese durante le indagini, la Corte ha rilevato che la posizione del S. , per quanto poteva risultare agli inquirenti dall’insieme del materiale a loro disposizione nell’aprile del 2010, era chiaramente interpretabile come quella di un imprenditore estorto da “cosa nostra”, che aveva cercato qualcuno nell’ambiente “per mettersi a posto”, secondo una regola comunemente nota agli addetti ai lavori; doveva perciò escludersi l’applicabilità dell’articolo 63, comma 2, cod. proc. pen., e cioè che il medesimo dovesse essere sentito fin dall’inizio della denuncia come imputato o indagato in reato connesso. Doveva escludersi altresì l’applicabilità dell’articolo 63, comma 1; infatti anche ammesso che nel corso della deposizione davanti
alla p.g. si fosse evidenziata una situazione di possibile contrasto tra quanto riferiva S. e quanto già a
conoscenza degli investigatori riguardo alla posizione di G., rendendo così ipotizzabile un’ipotesi di faAVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | SONO INUTILIZZABILI LE DICHIARAZIONI ACQUISITE AI SENSI DELL'ART. 210
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voreggiamento da parte di S. nei confronti del G., era applicabile il consolidato principio fissato dalla
Corte di cassazione secondo cui la disciplina relativa alle dichiarazioni indizianti rese da persona non
imputata né sottoposta ad indagini non trova applicazione quando quelle dichiarazioni concretizzino esse stesse un fatto criminoso. Valutazione che – è opportuno subito precisare – è da questo Collegio condivisa, in quanto correttamente motivata dal giudice di merito sulla base delle risultanze
probatorie e conforme a un consolidato principio di cui appresso si dirà.
Con riferimento al secondo gruppo di dichiarazioni, quelle rese al dibattimento, la Corte palermitana, pur riconducendole alla operatività degli articoli 64, 210 e 197‐bis cod. proc. pen., riguardanti le
dichiarazioni rese da soggetto che avrebbe dovuto essere sentito come teste assistito, le ha ritenute utilizzabili nonostante l’assenza delle garanzie stabilite dall’art. 210; si è considerato non necessario
l’avvertimento di cui all’art. 64, comma 3, lett. c), dal momento che S. aveva già reso in precedenza dichiarazioni concernenti l’imputato; e si è rilevato che della mancanza di un difensore poteva dolersi
il solo S., mentre a ciò non erano legittimati gli imputati in quanto privi di interesse all’osservanza
della norma che stabilisce l’assistenza difensiva in quanto volta a tutelare unicamente l’indagato o imputato in procedimento connesso o collegato dal rischio di autoincriminarsi con le dichiarazioni rese
sotto giuramento.
2. È in relazione a tale valutazione, condivisa dalla Sezione rimettente, che il ricorso è stato rimesso alle Sezioni Unite, per risolvere il quesito "se la mancata applicazione ‐ in sede di esame dibattimentale di un imputato di reato connesso o collegato a quello per cui si procede ‐ delle disposizioni
di cui all’art. 210 cod. proc. pen. relativamente alle dichiarazioni testimoniali rese da chi avrebbe
dovuto essere sentito come teste assistito, perché imputato in un procedimento connesso o di un reato
collegato, determina inutilizzabilità, nullità a regime intermedio o altra patologia della deposizione
testimoniale", avendo la stessa Seconda Sezione avuto cura di precisare che la questione riguarda le
ipotesi di c.d. connessione debole, cioè quelle ex art. 12, comma 1, lett. c), o 371, comma 2, lett. b), cod.
proc. pen.
2.1. Esaminando la questione in via generale, e cioè a prescindere dalle precisazioni di cui in appresso sulla specifica situazione in esame, deve darsi atto della sussistenza nella giurisprudenza di
legittimità di tre distinti orientamenti, tutti sostenuti da numerose pronunce spesso espressamente
consapevoli delle opposte tesi, sulle conseguenze derivanti dalla mancata attribuzione della corretta
qualifica soggettiva al “dichiarante coinvolto nel fatto”.
Secondo un primo orientamento, di cui fanno parte decisioni intervenute sia prima che dopo la
sentenza Sez. U, De Simone, del 17/12/2009, la sanzione del mancato avviso ex art. 64, comma 1, lett.
e), cod. proc. pen. è l’inutilizzabilità della prova così assunta, salva la possibilità di rinnovare
l’escussione con le forme corrette (ex aliis, Sez. 5, n. 39050 del 25/09/2007, Costanza, Rv. 238188; Sez.
6, n. 34171 del 04/07/2008, Mannina, Rv. 241464; Sez. 1, n. 29770 del 24/03/2009, Vernengo, Rv.
244462; Sez. 5, n. 3524 del 2013 dep. 2014, Guadalaxara; Sez. 5, n. 29227 del 27/05/2014, Cavaliere, Rv.
260320; Sez. 1, n. 52047 del 10/06/2014, Simone).
Il secondo orientamento (ex aliis, Sez. 3, n. 38748 del 11/06/2004, Mainiero, Rv. 229614; Sez. 1, n.
43187 del 16/10/2012, Di Noio, Rv. 253748; Sez. 6, n. 10282 del 22/01/2014, Romeo, Rv. 259267; Sez. 4,
n. 36259 del 08/07/2014, Barisone; Sez. 5, n. 1200 del 18/09/2014, dep. 2015, Mancieri; Sez. 2, n. 5364
del 22/01/2015, Favella) ritiene invece che si verifichi una nullità a regime intermedio, come tale eccepibile solo dal diretto interessato e non dall’imputato; da un lato, si è posto in evidenza che la tesi
della inutilizzabilità finisce per stravolgere la natura dell’istituto, il quale “tende a tutelare l’imputato
o indagato nel procedimento connesso dal rischio che, deponendo nel processo principale come testimone obbligato a dire la verità, arrivi inconsapevolmente ad auto‐incriminarsi per il reato connesso o collegato e, comunque, a deporre contro se stesso”; d’altro lato, si è sottolineato che la legge non
vieta l’esame dell’imputato in procedimento connesso o collegato, ma semplicemente prescrive che
esso sia assunto secondo determinate formalità, per derivarne che il mancato rispetto di queste ultime non da luogo ad un’ipotesi – sanzionata con l’inutilizzabilità dall’art. 191, comma 1, cod. proc.
pen. – di prova assunta “in violazione dei divieti stabiliti dalla legge”, ma di nullità ai sensi degli artt.
178, comma 1, lett. c), e 180 del codice di rito; nullità che non può essere sollevata per la prima volta
in sede di legittimità, né può essere eccepita dall’imputato, privo di interesse (art. 182 cod. proc.
pen.); si è aggiunto che la tesi dell’inutilizzabilità non può essere condivisa anche perché l’art. 197‐bis,
comma 2, cod. proc. pen., si limita a richiamare, quale ipotesi di testimonianza assistita, l’art. 64,
comma 3, lett. c), ma non anche il successivo comma 3‐bis del predetto articolo, che prevede la sanAVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | SONO INUTILIZZABILI LE DICHIARAZIONI ACQUISITE AI SENSI DELL'ART. 210
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zione di inutilizzabilità delle dichiarazioni rese in mancanza dell’avvertimento di cui al comma 3.
Secondo il terzo orientamento (tra le altre, Sez. 2, n. 41052 del 25/10/2005, Piscopo, Rv. 232595; Sez.
5, n. 12976 del 31/01/2012, Monselles, Rv. 252317; Sez. 5, n. 41886 del 24/09/2013, Perri, Rv. 257839;
Sez. 5, n. 46457 del 18/03/2014, Magliano; Sez. 1, n. 41745 del 23/09/2014, Ubaldini; Sez. 5, n. 51241 del
30/09/2014, Romano, Rv. 261733) le dichiarazioni assunte in modo irregolare al dibattimento da un
soggetto indagato o indagabile per reato connesso o collegato non sono affatto viziate, ma pienamente utilizzabili; l’art. 210, comma 6, ad esse applicabili, richiama l’art. 197‐bis, che nel richiamare a
sua volta l’art. 64, comma 3, lett. c), può essere inteso come funzionale a limitare esclusivamente la
possibilità di assumere come teste l’imputato solo su fatti altrui, senza che il richiamo debba essere
necessariamente interpretato come comprensivo dell’avvertimento che assumerà l’ufficio di testimone
salve le incompatibilità e le garanzie previste; avvertimento che, mentre ha un senso per l’interrogatorio, atto assunto fuori del contraddittorio che razionalmente legittima una maggiore attenzione del
legislatore volta a tutelare i diritti dei terzi coinvolti nelle dichiarazioni rese dall’interrogato, non ha
invece senso allorché l’imputato debba dichiarare, nella veste già dichiarata di testimone, su fatti esclusivamente altrui nella sede dibattimentale, dove la garanzia del contraddittorio è piena; tanto è vero
che l’art. 210, comma 6, espressamente richiede che l’avviso sia fatto agli imputati che non abbiano reso
in precedenza dichiarazioni erga alios.
3. Il Collegio ritiene di dovere senz’altro aderire al primo orientamento, potendosi al riguardo formulare le seguenti osservazioni.
La legge 1 marzo 2001, n. 63, attuativa della riforma costituzionale sul “giusto processo” ha, come è
noto, rappresentato il punto di convergenza ed il tentativo di mediazione tra una serie di contrapposte
visioni che avevano, da un lato, alimentato la nota giurisprudenza costituzionale degli anni ’90, attenta a rimarcare il valore essenziale delle acquisizioni processuali ed a circoscrivere il pericolo della dispersione dei mezzi di prova, e, dall’altro, indotto reazioni uguali e contrarie, scaturite nella altrettanto nota riforma dell’art. 111 Cost., ove i valori della oralità e del contraddittorio avevano ricevuto le
“stimmate” di rango costituzionale.
In tale cornice, permeata, come è altrettanto noto, di significativi richiami ai principi dettati al
riguardo dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, secondo la interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo, il legislatore si è inserito dettando una complessa disciplina, attenta a ricomporre – o
a cercare di ricomporre – le linee attraverso le quali pervenire ad una adeguata ponderazione di valori antagonisti, ridisciplinando, ab imis, i contorni delle varie figure soggettive dei dichiaranti.
L’attenzione ha finito così per concentrarsi su due, importanti versanti. Per un verso, infatti, si è
inteso garantire al massimo il diritto al silenzio, in tutte quelle ipotesi in cui il dichiarante si sarebbe potuto trovare esposto al rischio di vedere compromessa la garanzia del nemo tenetur se detegere: principio di antica e consolidata tradizione che rinviene nello stesso diritto di difesa il proprio naturale fondamento. Sotto altro e contrapposto versante, si sono invece circoscritte le ipotesi di incompatibilità a
testimoniare, allargando notevolmente la platea dei dichiaranti, variamente assistiti sul piano defensionale e dei diritti.
Imputato e testimone non figurano dunque più come soggetti concettualmente alternativi sul piano
processuale, essendosi coniate – in un ordito davvero complesso – figure “intermedie”, fino a pervenire
alla “confusione” soggettiva, nei casi in cui l’imputato, previamente avvisato a norma dell’art. 64, comma 3, lett. e), cod. proc. pen., è chiamato ad assumere la figura ed il ruolo del testimone su fatti che
concernono la responsabilità di altri.
Pur non giungendosi alla possibilità, prevista in altri ordinamenti, di assumere la posizione del teste
in causa propria con gli obblighi e le facoltà connesse, la distanza concettuale fra le posizioni dei dichiaranti si è venuta tuttavia non poco ad offuscare, creandosi la inedita figura del teste assistito,
cioè del teste che è anche imputato (o imputabile) di reato connesso o collegato, la cui dichiarazione,
per assumere la forma (art. 497 cod. proc. pen.) e il valore giuridico della testimonianza (sia pure con i
limiti ex art. 192, comma 3, cod. proc. pen., richiamato dagli artt. 197‐bis, comma 6, e 210, comma 6)
non può che essere ancorata al presupposto della scelta dello stesso dichiarante di riferire circostanze relative alla responsabilità altrui, resa consapevole ed efficace dal sistema di avvisi previsti dall’art. 64, comma 3, cod. proc. pen., e in particolare da quello ex lettera c), con le conseguenze stabilite
dal comma 3 bis.
È dunque del tutto condivisibile quella giurisprudenza, confortata peraltro da autorevole e concorde.
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Dottrina, che si è richiamata alla funzione centrale svolta nell’intero sistema dal previo avvertimento
ex art. 64, comma 3, lett. c), per sottolineare la necessità che quest’ultimo preceda l’esame ex art. 210
in tutti i casi di “legame debole” in cui il soggetto non è stato previamente avvisato: non solo quindi
se egli non ha “reso in precedenza dichiarazioni concernenti la responsabilità dell’imputato” (come testualmente prevede il comma 6 dell’art. 210), ma anche se abbia deposto erga alios ma in modo non
“garantito”, ovvero non preceduto dal richiamato avvertimento.
Si tratta di un orientamento che ha ricevuto l’avallo della Corte costituzionale già all’indomani
dell’entrata in vigore della riforma (ord. n. 451 del 2002). Era stato sollevato il dubbio di costituzionalità, in riferimento agli artt. 3, 11 e 112 Cost., in relazione alla necessità di formulare l’avvertimento
previsto dall’art. 210, comma 6, cod. proc. pen. circa la facoltà di non rispondere, anche alla persona
imputata in un procedimento connesso ai sensi dell’art. 12, comma 1, lettera e), ovvero di un reato
collegato a norma dell’art. 371, comma 2, lettera b), cod. proc. pen., che abbia in precedenza reso dichiarazioni sulla responsabilità di altri nella diversa qualità di persona informata sui fatti; situazione in
tutto corrispondente a quella in cui, secondo la prospettazione dell’ordinanza di rimessione, si è venuto
a trovare S. al momento della deposizione testimoniale. La Consulta ha escluso ogni dubbio di incostituzionalità osservando, tra l’altro, che le dichiarazioni erga alios assunte da una persona informata
sui fatti non sono assimilabili a quelle rese in qualità di imputato di reato collegato, dal momento che
solo in tale ultima ipotesi la persona, avendo ricevuto l’avviso ex art. 64, comma 3, lett. e), può determinarsi liberamente a rilasciare o meno dichiarazioni accusatorie, mentre la persona informata sui
fatti ha l’obbligo di rispondere, secondo verità, alle domande rivoltele dal pubblico ministero, e, se
rifiuta di rispondere o dichiara il falso, commette il reato di false informazioni, previsto e sanzionato
dall’art. 371‐bis cod. pen.
Successivamente (sent. n. 76 del 2003) il Giudice delle leggi ha osservato che con la riforma del
2001 il legislatore ha escluso l’incompatibilità con l’ufficio di testimone per gli imputati in procedimento connesso o di reato collegato a condizione che siano stati definitivamente giudicati (e sia perciò operante il divieto di bis in idem), ovvero a condizione che abbiano volontariamente assunto la veste di
testimone (a seguito dell’avviso a norma dell’art. 64, comma 3, lettera e, cod. proc. pen.). Assunzione
volontaria che non può che essere garantita dall’avviso ex art. 64, comma 3, lett. c).
Ed è ancora il caso di ricordare che la stessa Corte cost. (sent. n. 191 del 2003) ha ribadito la esigenza che anche in dibattimento siano dati gli avvertimenti previsti dall’art. 64.
Gli argomenti letterali e logici con i quali si sostengono le contrarie tesi, tra loro strettamente collegate e spesso indicate in via alternativa o subordinata, della nullità a regime intermedio o della piena
utilizzabilità, non paiono convincenti.
La prima tesi si basa essenzialmente sulla valorizzazione del mancato richiamo negli artt. 210,
comma 6, e 197‐bis, comma 2, cod. proc. pen., all’art. 64, comma 3, lett. c); la seconda sul rilievo che l’art.
64, comma 3, lett. c), si riferisce all’interrogatorio, cioè ad un atto che per sua natura si svolge fuori del
contraddittorio, per tale ragione trovando giustificazione il maggior rigore adoperato dal legislatore a
tutela dei diritti dei terzi eventualmente coinvolti dalle dichiarazioni rese, laddove invece gli artt.
197‐bis e 210, comma 6, riguardano esami, atti cioè che si svolgono in ambito già sufficientemente garantito dal contraddittorio.
Nel privilegiare una lettura atomistica delle norme, che prescinde dalla valutazione del sistema voluto dal legislatore, confermato dalle richiamate sentenze della Corte costituzionale, tali orientamenti
trascurano di considerare che l’art. 64, comma 3‐bis, stabilisce, tra l’altro, che la persona interrogata
non ha ricevuto l’avvertimento di cui al comma 3, lett. c), non potrà assumere in ordine a fatti che concernono la responsabilità di altri, l’ufficio di testimone, in tal modo assumendo chiaramente una portata
generale sulla estensione della incompatibilità a testimoniare, a prescindere dalla mancanza di esplicito rinvio da parte degli artt. 210, comma 6, e 197‐bis, comma 2.
Si ritiene inoltre sussistente una nullità a regime intermedio che non è però specificatamente
prevista dall’ordinamento, dal momento che l’art. 178, comma 3, lett. e), tutela il diritto di difesa dell’imputato e delle altre parti, non già quello del teste assistito; teste peraltro che essendo ampiamente
protetto dalla garanzia della inutilizzabilità delle eventuali dichiarazioni rese contro di sé, non si
vede quale interesse possa avere a dedurre tale nullità; laddove invece un tale evidente interesse è
senza giustificazione negato all’imputato: al riguardo è opportuno richiamare il carattere relativo
dell’inutilizzabilità patologica prevista dall’art. 64, comma 3‐bis, lett. c), essendo le dichiarazioni utilizzabili nei confronti di chi le ha rese, ma non delle persone coinvolte; ciò che dimostra che la sanzione
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non è posta a tutela dell’interrogato, ma delle persone coinvolte dalle dichiarazioni, protette nel loro
diritto “a non essere accusati da una persona che non è stata avvertita della responsabilità che scaturirà dalle sue dichiarazioni”.
Ma soprattutto si dimentica il tenore testuale dell’art. 197, comma 1, lett. a) e b), a norma del quale
sono previsti precisi e generali divieti probatori, la cui violazione comporta necessariamente, anche nel
caso del mancato avviso di cui si discute, l’inutilizzabilità ex art. 191 cod. proc. pen. delle dichiarazioni in tal modo acquisite.
Quanto poi alla tesi secondo cui l’avviso in questione non sarebbe neppure necessario essendo sufficiente la garanzia rappresentata dalla assunzione della prova in dibattimento, e cioè nel contradditorio
delle parti, non è ben chiaro quale ne sia lo spazio applicativo in presenza dell’esplicita previsione
contenuta nel comma 6 dell’art. 210 circa la necessità che coloro che non hanno in precedenza reso dichiarazioni concernenti la responsabilità dell’imputato, ricevano l’avvertimento in questione, potendo
assumere l’ufficio di testimone solo se non si avvalgono della facoltà di non rispondere.
In conclusione, non può sussistere dubbio alcuno che, ove la eventuale violazione delle regole di assunzione probatoria incida sul terreno della stessa capacità a testimoniare, se ne deve dedurre la piena
inutilizzabilità delle dichiarazioni rese, giacché non si tratterebbe di affermazioni da “corroborare”
perché promananti da soggetto “non terzo” rispetto all’oggetto ed al tema della deposizione, ma da
persona per la quale sussiste un divieto ex lege di assumere la posizione e gli obblighi del testimone.
Devono pertanto enunciarsi i seguenti principi di diritto:
– “In sede di esame dibattimentale ai sensi dell’art. 210, comma 6, cod. proc. pen., di imputato di
reato connesso ex art. 12, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., o collegato ex art. 371, comma 2, lett. b), cod.
proc. pen., l’avvertimento di cui all’art. 64, comma 3, lett. c), deve essere dato non solo se il soggetto non
ha reso in precedenza dichiarazioni concernenti la responsabilità dell’imputato (come testualmente
prevede il comma 6 dell’art. 210), ma anche se egli abbia già deposto erga alios senza aver ricevuto tale
avvertimento".
– “In sede di esame dibattimentale ai sensi dell’art. 210, comma 6, cod. proc. pen., di un imputato
di reato connesso ex art. 12, comma 1, lett. c), o collegato ex art. 371, comma 2, lett. b), cod. proc. pen.,
a quello per cui si procede, il mancato avvertimento di cui all’art. 64, comma 3, lett. c), cod. proc. pen.,
determina la inutilizzabilità della deposizione testimoniale”.
4. La specifica situazione all’esame della Corte, impone alcune ulteriori riflessioni dovendosi affrontare il problema, cui si accennava all’inizio, di cosa debba intendersi per imputato di reato connesso o collegato a quello per il quale si procede, in riferimento alla posizione del testimone che, proprio
in virtù delle dichiarazioni rese, abbia determinato la insorgenza, nei suoi confronti, di elementi indizianti del reato di false informazioni al pubblico ministero, o di favoreggiamento o di calunnia: vale a
dire, di reati che trovano fondamento proprio nel tessuto dichiarativo della persona che deve assumere la veste di testimone nel procedimento cui quelle dichiarazioni pertengono sul piano probatorio, o al quale, comunque, appaiono probatoriamente collegate. Il quesito cui occorre dare risposta è,
in altri termini, se il reato che consiste in dichiarazioni versate nel processo possa determinare, in capo
al dichiarante, l’insorgenza di una posizione di incompatibilità rispetto al munus di testimone.
Ebbene, la giurisprudenza di legittimità, qui condivisa, si è più volte espressa in senso negativo,
con particolare riferimento alla portata da annettere alle dichiarazioni “indizianti” di cui all’art. 63
cod. proc. pen.. Si è infatti osservato che le dichiarazioni “indizianti” evocate dal comma 1 di tale articolo sono quelle rese da un soggetto sentito come testimone o persona informata sui fatti che riveli fatti
da cui emerga una sua responsabilità penale, e non quelle attraverso le quali il medesimo soggetto realizzi il fatto tipico di una determinata figura di reato (ad es. calunnia, falsa testimonianza o favoreggiamento personale). Detta norma di garanzia, infatti, è ispirata al principio nemo tenetur se detegere, che salvaguarda la persona che abbia commesso un reato, e non quella che debba ancora commettere il reato (in questi termini, Sez. 6, n. 21116 del 31/03/2004, Turturici, Rv. 229024; nello stesso
senso, ex plurimis, Sez.6, n. 33836 del 13/05/2008, Pandico, Rv. 240790; Sez.2, n. 36284 del 09/07/2009,
Pietrosanto, Rv. 245597; Sez. 3, n. 8634 del 18/09/2014, M., Rv. 262511).
Inoltre, come è stato puntualizzato dalla giurisprudenza, in base al principio di conservazione degli atti e della regola ad esso connessa del tempus regit actum, le dichiarazioni del soggetto che rivestiva ancora e soltanto lo status di persona informata sui fatti sono legittimamente utilizzabili, nulla rileAVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | SONO INUTILIZZABILI LE DICHIARAZIONI ACQUISITE AI SENSI DELL'ART. 210
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vando in contrario la circostanza che il dichiarante abbia successivamente assunto condizione di indagato/imputato (Sez. 2, n. 38621 del 09/10/2007, Di Fazio, Rv. 238222).
L’assunto si caratterizza per due aspetti. Un primo rilievo è che, già da un punto di vista concettuale, l’incompatibilità a svolgere una determinata funzione è caratteristica o qualità normativamente
predefinita, che deve necessariamente precedere gli atti che caratterizzano quella funzione: non si
può “divenire” incompatibili proprio a causa della funzione che si è legittimati a svolgere in quanto
con essa compatibili. Affermare il contrario suonerebbe come una vera e propria petizione di principio. Il soggetto che ha assunto la veste formale e sostanziale della persona informata sui fatti o
del testimone, può, infatti, sicuramente andare incontro a cause di incompatibilità a svolgere quest’ultimo ruolo processuale, ove l’esercizio della relativa funzione perduri: ma ciò, sempre in dipendenza di cause esterne ai fatti o alle condotte che integrano i momenti in cui l’esercizio della
funzione si esprime. Se il testimone diviene indagato quale concorrente nel reato cui la testimonianza si riferisce, o per altro reato ad esso connesso o collegato e ciò non sia una diretta conseguenza della sua testimonianza, è ovvio che si “incrini” la relativa investitura soggettiva e che debba conseguentemente mutare lo status di dichiarante. Ma ove il testimone non sia chiamato a rispondere di fatti diversi da quelli che integrano il tessuto delle sue stesse dichiarazioni, allora scompare il profilo di una
ipotetica incompatibilità, per venire ad emersione soltanto il ben diverso aspetto della attendibilità:
resta ferma, infatti, la capacità a testimoniare, con tutti i doveri corrispondenti, mentre si apre la valutazione giurisdizionale del narrato, senza alcuna limitazione legale dei relativi criteri di apprezzamento,
posto che la regola della corroboration, evocata come necessaria per le varie figure indicate dall’art.
192, commi 3 e 4, e dall’art. 197‐bis cod. proc. pen., non ha ragion d’essere nei confronti del testimone
“terzo” rispetto al fatto su cui è chiamato a rispondere secondo verità, a prescindere da qualsiasi
fattore che ne possa affievolire la credibilità.
Un secondo profilo che può desumersi dall’orientamento giurisprudenziale di cui si è detto è che
l’accertamento relativo alla veridicità di una fonte di prova – ad esempio, per stare alla vicenda oggetto dell’odierno scrutinio, la verifica se un teste abbia o meno mentito o sottaciuto una determinata
circostanza – non differisce dalla valutazione della relativa congruenza probatoria, nel senso che la dichiarazione ritenuta falsa non diverge, concettualmente, dalla prova ritenuta inconferente agli effetti dimostrativi del factum probandum: e ciò, dunque, anche nelle ipotesi in cui possa essere addirittura ipotizzarle uno specifico reato di “falso” dedotto da quelle dichiarazioni.
Le procedure incidentali di falso, infatti, non trovano ingresso nel processo penale, così come sono
venute meno le pregiudiziali penali, secondo una linea tesa a riaffermare l’autonomia di ogni singola
giurisdizione, privilegiando gli accertamenti incidenter tantum (art. 2 cod. proc. pen.) piuttosto che fare ricorso – salvo che per le questioni di stato (art. 3 cod. proc. pen.) – a paralizzanti arresti, con devoluzione degli incidenti al giudice competente per la causa “pregiudicante”.
Tutto ciò, d’altra parte, trova significativa eco nelle profonde differenze che è possibile cogliere tra il
codice vigente e quello abrogato, proprio in tema di dichiarazioni testimoniali sospettate di falsità. A
prescindere, infatti, dalla già segnalata soppressione delle pregiudiziali penali che determinavano, a
norma dell’art. 18 del codice del 1930, la sospensione del procedimento pregiudicato sino alla pronuncia della sentenza irrevocabile di quello pregiudicante, l’art. 458 del medesimo codice sanciva una
serie di regole che determinavano la immediata azionabilità del reato di falsa testimonianza, perizia
o interpretazione, con l’arresto “del colpevole” e la instaurazione, ove possibile, del giudizio immediato. Il giudizio principale, poi, proseguiva soltanto nella ipotesi in cui il giudice avesse ritenuto non
necessario attendere il giudizio sulla falsa testimonianza, giacché, ove fosse risultato impossibile procedere al giudizio immediato e fosse risultato necessario attendere il giudizio sulla falsità, il dibattimento doveva essere rinviato. L’ampio concetto di connessione tracciato dal codice abrogato, rendeva poi
scontata la incompatibilità dell’imputato di falsa testimonianza a continuare a rivestire, a norma dell’art. 348, ultimo comma, la qualità di testimone nel processo principale.
Ben diverso, invece, lo scenario tracciato dal codice vigente. Non soltanto, infatti, è stata testualmente esclusa la possibilità di procedere all’arresto del testimone in udienza per reati concernenti il
contenuto della deposizione (art. 476, comma 2), ma è previsto che, ove nel corso dell’esame testimoniale la persona renda dichiarazioni “contraddittorie, incomplete o contrastanti con le prove già acquisite” (i connotati, dunque, di inattendibilità, e non di falsità in sé), il giudice proceda ai necessari
avvertimenti; solo nel caso di rifiuto indebito di testimonianza si provvede alla immediata trasmisAVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | SONO INUTILIZZABILI LE DICHIARAZIONI ACQUISITE AI SENSI DELL'ART. 210
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sione degli atti al pubblico ministero perché proceda a norma di legge. è, poi, soltanto alla conclusione della fase processuale in cui il testimone ha prestato il suo ufficio che il giudice, “ove ravvisi indizi
del reato previsto dall’art. 372 del codice penale” (quando, dunque, la funzione è esaurita ed è possibile lo scrutinio circa la sussistenza di “indizi” di falsa testimonianza), informa il pubblico ministero
trasmettendogli i relativi atti (art. 207 cod. proc. pen.).
Una sequenza, quindi, che avvalora la fondatezza della tesi che esclude dalla portata applicativa
delle dichiarazioni indizianti di cui all’art. 63 cod. proc. pen. (con tutto quel che ne consegue agli effetti che qui interessano) proprio quelle che si riferiscono alle ipotesi di falsità "processuali" che traggono origine dalle dichiarazioni stesse. Va pertanto qui ribadito che in tema di valutazione della testimonianza, il sistema introdotto dal codice di rito separa nettamente la valutazione della testimonianza ai fini della decisione del processo in cui è stata resa e la persecuzione penale del testimone
che abbia eventualmente deposto il falso, attribuendo al giudice il solo compito di informare il p.m.
della notizia di reato, quando ne ravvisi gli estremi in sede di valutazione complessiva del materiale
probatorio raccolto. Ne consegue che la deposizione dibattimentale del teste, pur se falsa, rimane parte integrante del processo in cui è stata resa e costituisce prova ivi utilizzabile e valutabile in relazione all’altro materiale probatorio legittimamente acquisito, anche sulla base del meccanismo disciplinato ai sensi dell’art. 500, comma 4, cod. proc. pen. (Sez. 6, n. 18065 del 23/11/2011, Accetta, Rv.
252531; nel medesimo senso, Sez. 5, n. 19313 del 28/01/2013, Marino, Rv. 255635).
5. A conferma di tale soluzione possono altresì formularsi le seguenti osservazioni.
Deve tenersi presente la necessità, ai fini di un corretto funzionamento del sistema processuale,
di una delimitazione certa e stabile delle posizioni rivestite dai principali soggetti che vi partecipano.
Specie dopo che si è riconosciuto al giudice il potere di verificare in termini sostanziali l’attribuibilità al
dichiarante della qualità di indagato nel momento in cui le dichiarazioni vengono rese, secondo un
percorso interpretativo che ha condotto alla più volte citata sentenza delle Sez. U, n. 15208 del
21/04/2014, Mills, è necessaria una solida definizione dei parametri di riferimento onde evitare una
opinabilità di apprezzamenti diversi, che essendo collegata alla inutilizzabilità della prova può emergere in qualunque stato e grado del procedimento o anche in procedimenti diversi, come in effetti avvenuto nel presente caso, che rischia di compromettere il corretto funzionamento del processo. Da
un primo punto di vista, può essere utile ricordare che proprio la sentenza Mills ha ritenuto di dover collegare la possibilità del giudice di apprezzare autonomamente, ora per allora e sempre che siano
disponibili elementi di fatto idonei a consentire un tale giudizio, la qualità sostanziale di indagato alla
condizione della mancanza per il reato di corruzione in atti giudiziari oggetto di quel procedimento,
di una scriminante analoga a quella prevista dall’art. 384, secondo comma, cod. pen., per il reato di
falsa testimonianza; implicitamente affermando dunque che ove di falsa testimonianza (o di altro reato
per cui opera la scriminante) si fosse trattato, la veste di. testimone doveva ritenersi correttamente attribuita. Il tema delle scriminanti risulta dunque centrale nell’ambito dei delitti dichiarativi contro
l’attività giudiziaria, costituendo, da un lato, attuazione del principio nemo tenetur se detegere, e rappresentando, dall’altro, un evidente elemento di incertezza sulla valutazione del comportamento tenuto
dal dichiarante. Come noto, per tutte le ipotesi di falsa testimonianza e di favoreggiamento l’art. 384,
secondo comma, cod. pen., stabilisce la non punibilità di chi non avrebbe dovuto essere assunto come teste, trovandosi in situazione di incompatibilità; inoltre il primo comma dello stesso articolo prevede
una speciale causa di non punibilità per chi ha commesso il fatto per essere stato costretto dalla necessità di salvare sé stesso o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento alla libertà
personale o all’onore, e la giurisprudenza di questa Corte ha interpretato estensivamente tale previsione nel senso che non integra il reato di falsa testimonianza la dichiarazione non veritiera resa da
persona che non possa essere sentita come testimone o abbia facoltà di astenersi dal testimoniare, ma
non ne sia stata avvertita, nulla rilevando le finalità e i motivi che l’abbiano indotta a dichiarare il
falso che possono anche consistere nel fine di evitare un’accusa penale ovvero un procedimento
disciplinare a proprio carico (Sez. U, n. 7208 del 29/11/2007, Genovese, Rv. 238384; Sez. 3, n. 45444
del 25/06/2014, Maccioni, Rv. 260744). Una ulteriore causa di non punibilità è poi prevista dall’art. 376
con la ritrattazione.
D’altro lato con la medesima sentenza n. 15208 del 2014, le Sezioni Unite hanno ancorato a
precisi e stringenti requisiti la possibilità di sindacato successivo; è stato infatti ribadita, come già
in precedenza affermato da Sez. U, Fruci e Morea, la necessità che il giudice che procede all’assunAVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | SONO INUTILIZZABILI LE DICHIARAZIONI ACQUISITE AI SENSI DELL'ART. 210
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zione della prova sia a conoscenza già prima dell’esame o dell’escussione di elementi già sussistenti in
quel momento qualificabili quali indizi non equivoci di reità; ed è stato altresì espressamente rilevato che il giudice “per potere applicare la norma di cui all’art. 210 cod. proc. pen., deve essere
messo in condizione di conoscere la situazione di incapacità a testimoniare o di incompatibilità, le
quali, quindi, se non risultano dagli atti inseriti nel fascicolo del dibattimento, devono essere dedotte dalla parte esaminata o comunque da colui che chiede l’audizione della persona imputata o indagata in un procedimento connesso o collegato”.
Anche sulla base di tali indicazioni è difficile condividere la tesi per cui il giudice del dibattimento,
davanti al quale S. classe ’54 era stato chiamato a deporre come teste ordinario, potesse essere in
condizione di valutarne, a priori, una diversa posizione processuale derivante da atti delle indagini preliminari.
6. Venendo al procedimento in esame, da quanto sopra detto deriva che il materiale probatorio
utilizzato dalla Corte di Palermo si sottrae a censure di inutilizzabilità, ferma restando tuttavia la
necessità di un rinnovato rigoroso esame delle dichiarazioni rese da S. prima alla p.g. e poi al Tribunale, tenuto conto della seria ipoteca che è stata posta sulla sua attendibilità nel momento in cui nel
procedimento L.I. gli atti sono stati rimessi alla Procura della Repubblica per le valutazioni di competenza.
Ciò che fa difetto nella valutazione operata dalla Corte territoriale, è la disamina dei peculiari
profili che hanno caratterizzato il “fatto processuale” relativo al contenuto delle diverse dichiarazioni rese dal S. a proposito delle condotte criminose che si sono realizzate in suo danno e che lo hanno visto inizialmente reticente sulla posizione del G. Le ordinarie cautele con le quali deve essere riguardata la posizione della vittima del reato costituitasi parte civile – posizione, questa, che aveva
assunto il S. nel procedimento a carico del L.I. – e che sono state poste a fulcro di numerose pronunce
di questa Corte, devono essere infatti, ulteriormente specificate proprio nelle ipotesi in cui la vittima del
reato abbia – per le più varie ragioni – non sinceramente descritto il ruolo svolto dai singoli partecipi,
o ne abbia volutamente pretermesso alcuno, secondo una scelta favoreggiatrice, poi ritrattata nel
corso dello stesso giudizio. In tale ipotesi, infatti, occorre verificare se tale temporanea insincerità esaurisca i propri effetti, sul piano della attendibilità della complessiva narrazione della vicenda, all’interno dei rapporti soggettivi tra dichiarante e soggetto favorito o se, al contrario, proietti conseguenze dirette anche sulla posizione degli altri soggetti indicati come autori dei fatti o sulla stessa natura e
portata della vicenda narrata. È infatti legittima una valutazione frazionata delle dichiarazioni della
parte offesa, purché il giudizio di inattendibilità, riferito soltanto ad alcune circostanze, non comprometta per intero la stessa credibilità del dichiarante ovvero non infici la plausibilità delle altre parti del
racconto (Sez. 6, n. 20037 del 19/03/2014, L, Rv. 260160).
I giudici del merito, in altri termini, si sarebbero dovuti particolarmente impegnare nel verificare se la omessa indicazione del G. potesse considerarsi profilo probatoriamente “scindibile” rispetto
alla restante parte del narrato, vuoi sotto il profilo soggettivo ‐ concernente la posizione ed il ruolo dei
restanti soggetti chiamati in causa ‐ vuoi sul versante oggettivo, concernente la natura, le modalità
e la concatenazione storica dei fatti descritti.
Questa Corte, infatti, ha in più occasioni avuto modo di puntualizzare che le dichiarazioni della
persona offesa, costituita parte civile, possono da sole, senza la necessità di riscontri estrinseci, essere poste a fondamento dell’affermazione di responsabilità penale dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca
del suo racconto, che peraltro deve essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. A tal fine – si è sottolineato – è necessario che il giudice
indichi le emergenze processuali determinanti per la formazione del suo convincimento, consentendo
così l’individuazione dell’iter logico‐giuridico che ha condotto alla soluzione adottata; mentre non
ha rilievo, al riguardo, il silenzio su una specifica deduzione prospettata con il gravame qualora si
tratti di deduzione disattesa dalla motivazione complessivamente considerata, non essendo necessaria
l’esplicita confutazione delle specifiche tesi difensive disattese ed essendo, invece, sufficiente una ricostruzione dei fatti che conduca alla reiezione implicita di tale deduzione senza lasciare spazio ad una
valida alternativa (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell’Arte, Rv. 253214; Sez. 5, n. 1666 del 08/07/2014,
Pirajno, Rv. 261730).
Tanto più, dunque, simili cautele e la possibilità di effettuare una valutazione frazionata del narrato si
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impongono ove sia la stessa persona offesa, costituita parte civile, ad aver introdotto nel contesto
delle proprie dichiarazioni profili di reticenza o di mendacio, poi ritrattati.
7. Si impone, in conclusione, l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata per nuova valutazione della attendibilità del S. classe (…) alla luce dei principi innanzi indicati, rimanendo assorbiti i
restanti motivi di ricorso.
[Omissis]
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FEDERICA CASASOLE
Dottore di ricerca in Diritto processuale penale – Università degli Studi di Torino
L’avvertimento ex art. 64, comma 3, lett. c) c.p.p. è conditio sine
qua non per assumere l’ufficio di testimone nell’esame
dibattimentale ex art. 210, comma 6, c.p.p.: sono inutilizzabili
le dichiarazioni acquisite in sua assenza
The warning extablished in the art. 64, paragraph 3, lett. c) of the
criminal procedure code is conditio sine qua non to became witness
in the criminal trial: is unusable the deposition obtained ex art. 210,
paragraph 6, of the criminal procedure code without this warning
La sentenza delle Sezioni Unite, oltre che per i principi di diritto affermati, concernenti l’uno l’obbligatorietà
dell’avviso previsto dall’art. 64, comma 3, lett. c) c.p.p., nell’esame dibattimentale ai sensi dell’art. 210, comma 6,
c.p.p., l’altro l’inutilizzabilità delle dichiarazioni acquisite in assenza di tale avvertimento, merita condivisione anche
per le indicazioni fornite in merito all’interpretazione e applicazione dell’art. 63 c.p.p.
The sentence of the “Sezioni Unite”, as well as for the priciples estabilished, abaut the obligation of the warning
ex art. 64, paragraph 3, lett. c) of the criminal procedure code in the examination ex art. 210, paragraph 6, of the
criminal procedure code; and about the unusability of the deposition obtained without these warning, is important
also for the explains of the art. 63 of the criminal procedure code.
IL CASO DI SPECIE
Con ordinanza del due dicembre 2014, la Seconda sezione penale di Cassazione rimetteva alle Sezioni
Unite il seguente quesito: «se la mancata applicazione – in sede di esame dibattimentale di un imputato
di reato connesso o collegato a quello per cui si procede – delle disposizioni di cui all’art. 210 c.p.p. relativamente alle dichiarazioni testimoniali rese da chi avrebbe dovuto essere sentito come teste assistito,
perché imputato in un procedimento connesso o di un reato collegato, determina[sse] inutilizzabilità,
nullità a regime intermedio o altra patologia della deposizione testimoniale 1».
Nel caso di specie la persona offesa del reato di estorsione aveva spontaneamente denunciato alla
polizia giudiziaria di aver subito, fin dall’inizio della propria attività lavorativa, imposizioni mafiose
volte ad ottenere da lui il c.d. “pizzo”, fornendo altresì i nominativi delle persone che avevano posto in
essere gli atti criminosi.
Nel racconto agli inquirenti, tuttavia, la vittima aveva taciuto e – su precisa domanda – espressa1
Cass., sez. II, 2 dicembre 2014, n. 2756, in www.dirittopenalecontemporaneo, 23 gennaio 2015, con nota di J. Della Torre, Quali
conseguenze nei casi di violazione della disciplina di cui agli articoli 210, comma 6 e 197 bis c.p.p.? La parola alle Sezioni Unite. Cfr. anche
A. Gasparre, Violazione dello statuto del testimone assistito: sanzione dell’inutilizzabilità o della nullità?, in Dir. e giustizia, 16 dicembre
2014, p. 71 s.; V. Pazienza, Le dichiarazioni rese in violazione dello statuto del dichiarante, in Cass. pen., 2015, p. 185 ss. Un quesito analogo (seppur più impreciso perché limitato all’utilizzabilità o inutilizzabilità della deposizione) era già stato formulato da
un’altra ordinanza di rimessione: Cass, sez. V, 24 novembre 2014, n. 53739, in Dir. e giustizia, 7 gennaio 2015, p. 14 ss., con nota
di C. Minnella, Alle Sezioni Unite la quaestio sulla sorte delle dichiarazioni testimoniali della persona offesa imputata di reato collegato
non sentita come teste assistito.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | L'AVVERTIMENTO EX ART. 64, COMMA 3, LETT. C), C.P.P.
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mente negato, il ruolo attivo nelle vicende estorsive di un determinato soggetto; dichiarazione che la
persona offesa aveva ribadito anche nell’esame dibattimentale all’interno del procedimento penale a carico di uno dei coimputati (i restanti imputati avevano optato per il giudizio abbreviato). Solamente alla
terza audizione, sentito in qualità di parte civile dal proprio difensore, costui aveva affermato la falsità
delle precedenti dichiarazioni, ammettendo la partecipazione nel reato anche dell’ulteriore persona.
Conseguentemente, il Giudice aveva provveduto ad assolvere l’imputato dal reato ascrittogli, ritenendo
che le dichiarazioni rilasciate dalla persona offesa fossero inutilizzabili ai sensi dell’art. 63, comma 2,
c.p.p., in quanto dall’istruttoria dibattimentale era emerso come fossero nella disponibilità sia della polizia giudiziaria, che del pubblico ministero concreti elementi per riscontrarne la falsità e, quindi, per
procedere con l’esame nelle forme dell’art. 210 c.p.p.
Diversamente, nel giudizio abbreviato a carico degli altri coimputati, il G.u.p. aveva emesso sentenza di condanna nei confronti di costoro, ritenendo utilizzabili le dichiarazioni rilasciate in fase di indagini preliminari dalla persona offesa, riscontrate da ulteriori elementi di prova.
E la Corte d’Appello – previa rinnovazione dibattimentale volta ad acquisire i verbali delle deposizioni testimoniali assunte nel procedimento parallelo, a carico dell’imputato che aveva scelto il rito ordinario – aveva confermato il giudizio di responsabilità nei confronti degli appellanti. Secondo i Giudici
di secondo grado erano pienamente utilizzabili sia le dichiarazioni rese dalla persona offesa in sede di
denuncia – non inquadrabili come indizianti, ex art. 63, comma 1, c.p.p., in quanto nel rilasciarle il dichiarante non aveva fatto riferimento a una responsabilità penale per fatti pregressi, bensì realizzato
una fattispecie di reato –; sia quelle dibattimentali, acquisite nel processo a carico di uno dei coimputati,
in assenza delle garanzie previste dall’art. 210 c.p.p. In relazione a queste ultime, la Corte d’appello,
aveva ritenuto da un lato, che l’avvertimento previsto dall’art. 64, comma 3, lett. c) c.p.p. non fosse necessario, dal momento che il loquens, in precedenza, aveva già rilasciato dichiarazioni concernenti la responsabilità degli imputati; dall’altro, che l’assenza del difensore fosse una carenza della quale potesse
dolersi solo il dichiarante, non, invece, i coimputati, essendo posta a tutela del primo e non dei secondi.
Proprio in merito all’utilizzabilità della deposizione acquisita in violazione dell’art. 210 c.p.p., la Seconda sezione di Cassazione, investita dei ricorsi dei vari coimputati, dato atto di un persistente contrasto giurisprudenziale, rimetteva il quesito sopra indicato alle Sezioni Unite, che si esprimevano con la
sentenza in commento.
LE DICHIARAZIONI INDIZIANTI
La prima problematica che le Sezioni Unite affrontano, al fine di rispondere al quesito formulato dalla
Seconda sezione, è quello concernente le dichiarazioni contra se rilasciate dalla persona offesa e, più in
generale, da un qualsiasi soggetto ascoltato come “persona informata sui fatti” 2.
Come noto, infatti, l’art. 63 c.p.p. sancisce che qualora la persona non imputata, né indagata, renda
dichiarazioni – di fronte all’autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria – dalle quali emergano indizi
di reità a suo carico, debba essere interrotta da chi conduce l’esame ed edotta degli avvertimenti previsti dalla norma 3.
2
Sulla disciplina di cui agli artt. 197, 197-bis, 210, 63 e 64 c.p.p., in generale: E. Amodio, Giusto processo, diritto al silenzio e obblighi di verità dell’imputato sul fatto altrui, in Cass. pen., 2001, p. 3589 ss.; M. Bargis, Commento all’art. 8 l. 1.3.2001, n. 63. Modifiche al
codice penale e al codice di procedura penale in materia di formazione e valutazione della prova in attuazione della legge costituzionale di
riforma dell’art. 111 della Costituzione, in Legislazione pen., 2002, p. 26 ss.; Ead, voce Testimonianza (dir. proc. pen), in Enc. dir., II
Annali, Milano, 2008, p. 1097 ss.; F. Caprioli, Commento all’art. 5 l. 1.3.2001, n. 63. Modifiche al codice penale e al codice di procedura
penale in materia di formazione e valutazione della prova in attuazione della legge costituzionale di riforma dell’art. 111 della Costituzione,
cit., p. 177 ss.; C. Conti, L’imputato nel procedimento connesso. Diritto al silenzio e obbligo di verità, Padova, 2003; M.L. Di Bitonto,
Diritto al silenzio: evoluzione o involuzione?, in Dir. pen. proc., 2001, p. 1027 ss.; P. Ferruà, L’attuazione del giusto processo con la legge
sulla formazione e valutazione della prova. Introduzione, ivi, 2001, p. 585 ss.; G. Illuminati, L’imputato che diventa testimone, in Indice
pen., 2002, p. 387 ss.; O. Mazza, L’interrogatorio e l’esame dell’imputato nel suo procedimento, Milano, 2004; P. Moscarini, voce Silenzio
dell’imputato, in Enc. Dir., III Annali, Milano, 2010, p. 1101 ss.; M.V. Patané, Il diritto al silenzio dell’imputato, Torino, 2006; A.
Sanna, L’interrogatorio e l’esame dell’imputato nei procedimenti connessi. Alla luce del giusto processo, Milano. 2007; P. Tonini, Il diritto
al silenzio tra giusto processo e disciplina di attuazione, in Cass. pen., 2002, p. 835 ss.; D. Vigoni, Ius tacendi e diritto al confronto dopo la
l. n. 63 del 2001: ipotesi ricostruttive e spunti critici, in Dir. pen. proc., 2002, p. 87 ss.
3
Come affermato in dottrina, la norma offre una tutela anticipata del diritto al silenzio e di difesa. V.O. Dominioni, sub art.
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Nel caso di specie, la persona offesa era stata sentita dalla polizia giudiziaria quando aveva denunciato i fatti di reato e, in tale occasione, aveva omesso volontariamente la partecipazione agli atti estorsivi di uno dei coimputati – come emergerà in seguito, per l’affetto che nutriva nei confronti del fratello
di costui, per molti anni istruttore di equitazione del proprio figlio – ponendo in essere la fattispecie di
favoreggiamento personale 4.
Il G.U.P. prima, e la Corte d’Appello in seguito, avevano ritenuto pienamente utilizzabili le dichiarazioni rese in tale sede dal denunciante, applicando un consolidato principio stabilito dalla Suprema
corte, ossia che la disciplina concernente le dichiarazioni indizianti ex art. 63, comma 1, c.p.p. non trovi
applicazione quando quelle stesse dichiarazioni concretizzino una fattispecie criminosa 5.
L’assunto dei giudici di merito viene condiviso nella sentenza in commento dalle Sezioni Unite, secondo le quali correttamente il dichiarante era stato ascoltato come persona informata sui fatti, dal
momento che, in base agli elementi in possesso dagli inquirenti, era inquadrabile solamente come un
imprenditore estorto da “cosa nostra”. La Suprema corte precisa come non sia importante, ai fini dell’applicabilità dell’art. 63, comma 1, c.p.p., la circostanza che la polizia giudiziaria possa ritenere mendaci le dichiarazioni rilasciate dalla persona offesa, perché in contrasto con altri elementi d’indagine già
raccolti e, quindi, delineare a suo carico il reato di favoreggiamento personale. Ciò che rileva, è che il
dichiarante non riferisca fatti relativi a una fattispecie criminosa pregressa, ma che, proprio con quel
racconto, commetta un reato.
Le Sezioni unite, inoltre, ritengono utile procedere a «una delimitazione certa e stabile delle posizioni rivestite dai principali soggetti» che partecipano al processo, per garantirne un corretto funzionamento.
Delimitazione che, secondo la Corte di Cassazione, è diventata ancor più necessaria con l’attribuzione al giudice – da parte di un’altra recente sentenza delle Sezioni Unite 6 – del potere di verificare in
termini sostanziali lo status di indagato del dichiarante nel momento in cui viene escusso, per evitare
un’opinabilità di apprezzamenti diversi, che vanno ad incidere sull’utilizzabilità stessa della deposizione.
Al riguardo viene sottolineato come la pronuncia in questione abbia «ancorato a precisi e stringenti
requisiti la possibilità di sindacato successivo», precisando che il giudice, per poter ascoltare il dichiarante nelle forme dell’art. 210 c.p.p., deve essere a conoscenza della sussistenza di indizi non equivoci
di reità a carico di costui già prima di acquisirne la testimonianza, in quanto inseriti nel fascicolo del dibattimento, dedotti dalla parte esaminata o da chi ne chiede l’audizione 7.
Chiarito questo primo aspetto e, quindi, esclusa nel caso di specie l’inutilizzabilità ai sensi dell’art.
63, comma 2, c.p.p., le Sezioni Unite affrontano la problematica sollevata nell’ordinanza di rimessione.
63 c.p.p., in E. Amodio-O. Dominioni (a cura di), Commentario del nuovo codice di procedura penale, Milano, 1989, p. 398; R.E. Kostoris, sub art. 63, in M. Chiavario (a cura di), Commento al nuovo codice di procedura penale, Torino, 1989, p. 321; M. Montagna,
L’imputato, in Spangher (diretto da), I, Soggetti e atti, a cura di G. Dean, Torino, 2009, p. 487. Sull’articolo in esame, tra i molti, si
v. altresì: R. Aprati, Riflessioni intorno all’art. 63 comma 2 c.p.p.: accertamento dello status di persona già indiziata e ripercussioni in tema
di elusione all’iscrizione nel registro delle notizie di reato, in Cass. pen., 2004, p. 3665 ss.; C. Cesari, Le dichiarazioni rese in giudizio dal
“coindagato virtuale”: nell’intrico della disciplina codicistica, una messa a punto mancata, in Giur. cost., 2009, p. 3904 ss.; F.M. Grifantini, Sulla inutilizzabilità contra alios delle dichiarazioni indizianti di cui all’art. 63, comma 2, c.p.p., in Cass. pen., 1996, p. 2647 ss.; M.
Nigro, L’indagato sentito come testimone: quali poteri al giudice del dibattimento?, in Dir. pen. proc., 2005, p. 883 ss.; C. Rizzo, Dichiarazioni indizianti e compatibilità a testimoniare, in Giust. pen., 1999, c. 75 ss.
4
Secondo la costante giurisprudenza, tale fattispecie di reato comprende anche le dichiarazioni rilasciate alla polizia giudiziaria. Cfr. Cass., Sez. VI, 28 novembre 2013, n. 13086, in CED Cass., n. 259497; Cass., Sez. VI, 13 giugno 2013, n. 28526, ivi, n.
256064. Al riguardo è opportuno ricordare che la Corte costituzionale, con la sentenza del 20 marzo 2009, n. 75, in Dir. pen proc.,
2009, p. 547 ss., con nota di G. Di Chiara, Casi di non punibilità, ha altresì dichiarato illegittimo l’art. 384, secondo comma, c.p.,
nella parte in cui non esclude la punibilità del dichiarante anche per false o reticenti dichiarazioni rilasciate alla polizia giudiziaria dai soggetti ivi indicati.
5
Tra le molte v. Cass., sez. III, 18 settembre 2014, n. 8634, in CED Cass.,n. 262511; Cass., sez. VI, 16 ottobre 2013, n. 47556, in
Dir. e giustizia, 2 dicembre 2013; Cass., Sez. II, 9 luglio 2009, n. 36284, in CED Cass., n. 245597; Cass., sez. VI, 13 maggio 2008, n.
33836, ivi, n. 240790.
6
Cass., sez. un., 25 febbraio 2010, n. 15208, in CED Cass., 246584.
7
Si vedano altresì: Cass., sez. un., 23 aprile 2009, n. 23868, in CED Cass., n. 243417; Cass., sez. un., 22 febbraio 2007, n. 21832,
ivi, n. 236370.
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Processo penale e giustizia n. 1 | 2016
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GLI ORIENTAMENTI CONTRASTANTI DELLA GIURISPRUDENZA
Le Sezioni Unite, anzitutto, danno atto dell’esistenza di un contrasto nella giurisprudenza della Corte,
ripercorrendone i tre diversi orientamenti 8.
Secondo un primo indirizzo 9, l’esame dell’indagato (o indagabile) in un procedimento connesso ex
art. 12, comma 1, lett. c) c.p.p. o collegato ex art. 371, comma 2, lett. b) c.p.p., condotto senza osservare
l’art. 210 c.p.p., comporta la inutilizzabilità delle dichiarazioni acquisite, salva la possibilità di riassumere la medesima prova con le dovute garanzie 10. Per le pronunce in questione il richiamo all’art. 64
c.p.p., effettuato dagli artt. 197-bis, comma 2, c.p.p. e 210, comma 6, c.p.p., deve essere inteso come
comprensivo anche della sanzione dell’inutilizzabilità sancita dall’ultimo comma della disposizione.
Un secondo orientamento 11 ritiene, invece, che l’inosservanza dell’art. 210 c.p.p. non comporti
l’inutilizzabilità delle dichiarazioni acquisite, bensì una nullità di regime intermedio ex artt. 178, comma
1, lett. c) e 180 c.p.p., in quanto tale eccepibile dal diretto interessato e non da terzi. Questo indirizzo
evidenzia come in primis, il codice di rito non vieti in assoluto l’esame dell’imputato in un procedimento connesso o collegato, ma si limiti a dettarne le modalità di assunzione; in secundis come le formalità
indicate dall’art. 210 c.p.p. siano poste a garanzia del solo dichiarante, affinché non «arrivi inconsapevolmente ad auto-incriminarsi». Inoltre, le sentenze che rientrano in questa esegesi, contrariamente a
quella in precedenza esposta, evidenziano come gli artt. 197-bis, comma 2, c.p.p. e 210, comma 6, c.p.p
richiamino espressamente solo il comma 3, lett. c), dell’art. 64 c.p.p. e non anche il successivo comma 3bis, contenente la sanzione dell’inutilizzabilità.
Infine, un terzo orientamento ritiene pienamente utilizzabili le dichiarazioni acquisite senza applicare l’art. 210 c.p.p., interpretando il richiamo operato dagli artt. 210-197-bis c.p.p. all’art. 64 c.p.p. meramente «funzionale a limitare esclusivamente la possibilità di assumere come teste l’imputato solo sui
fatti altrui». Tale indirizzo, inoltre, sostiene che l’avvertimento dell’art. 64, comma 3, lett. c) abbia senso
solo nell’interrogatorio, in quanto effettuato al di fuori del contraddittorio, non, invece, nel dibattimento, ove tale garanzia è realizzata appieno. A sostegno di questa affermazione si richiama il comma 6
dell’art. 210 c.p.p., che limita la necessità di dare l’avviso anzidetto solo qualora l’escusso non abbia già
reso dichiarazioni erga alios in precedenza 12.
8
Al riguardo si v. Cass., sez. un., 17 dicembre 2009, n. 12067, in Cass. pen., 2010, p. 2583 ss., con nota di C. Conti, Le sezioni
Unite ed il silenzio della sfinge: dopo l’archiviazione l’ex indagato è testimone comune; e ivi, 2011, p. 2276 ss., con nota di G.L. Fanuli-A.
Laurino, Incompatibilità a testimoniare e archiviazione davanti alle Sezioni Unite: un nodo finalmente risolto, in cui la Corte aveva affermato che la persona offesa che rivesta la qualità di imputato in un procedimento connesso ex art. 12, comma 1, lett. c) c.p.p. o
collegato probatoriamente, debba essere sentita non come teste, ma nelle forme previste dall’art. 210 c.p.p. Tuttavia nella sentenza in questione le Sezioni Unite non avevano affrontato la problematica relativa agli effetti della mancata applicazione delle
modalità indicate dall’art. 210 c.p.p.
9
Si v. Cass., sez. V, 27 maggio 2014, n. 29227, in CED Cass., n. 260320; Cass., sez. I, 24 marzo 2009, n. 29770, ivi, n. 244462;
Cass., sez. V, 17 dicembre 2008, n. 599, in Arch. n. proc. pen., 2009, 2, p. 173; Cass., sez. VI, 4 luglio 2008, n. 34171, in CED Cass., n.
241464; Cass., sez. V, 25 settembre 2007, n. 39050, in Cass. pen., 2008, p. 2812 ss., con nota di G. Andreazza, Imputati di “reati reciproci” e incompatibilità a testimoniare: mutamento di rotta nella giurisprudenza della Corte?
10
Cfr. Cass., sez. II, 14 giugno 2006, n. 3625, in Cass. pen., 2008, p. 2544.
11
Si v. Cass., sez. II, 22 gennaio 2015, n. 5364, in www.leggiditalia.it, Cass., sez. IV, 8 luglio 2014, n. 36259, ivi; Cass., sez. VI, 22
gennaio 2014, n. 10282, in CED Cass., n. 259267; Cass., sez. I, 16 ottobre 2012, n. 43187, ivi, n. 253748; Cass., Sez. I, 11 febbraio
2010, n. 8082, in Cass. pen., 2011, p. 1528; Cass., sez. III, 11 giugno 2004, n. 38748, in CED Cass., n. 229614.
12
Si v. Cass., sez. V, 30 settembre 2014, n. 51241, in CED Cass., n. 261733; Cass., sez. V, 18 marzo 2014, n. 46457, in
www.leggiditalia.it; Cass., sez. V, 31 gennaio 2014, n. 48675, in Cass. pen., 2015, p. 1549; Cass., sez. V, 24 settembre 2013, n. 41886,
ivi, 2014, p. 3025; Cass., sez. V, 20 settembre 2013, n. 7595, in CED Cass., n. 259032; Cass., sez. VI, 11 aprile 2013, n. 17133, in Cass.
pen., 2014, 623; Cass., sez. V, 23 febbraio 2012, n. 12976, ivi, 2013, p. 3191; Cass., sez. V, 11 febbraio 2009, n. 9737, in Arch. n. proc.
pen., 2009, p. 585; Cass., sez. II, 10 aprile 2008, n. 26819, in www.leggiditalia.it; Cass., sez. II, 25 ottobre 2005, n. 41052, in CED.
Cass., 232595. Secondo Cass., sez. V, 11 dicembre 2008, n. 2096, in Cass. Pen., 2010, n. 639 con nota critica di P. Silvestri, Sulla Posizione processuale del dichiarante che sia persona offesa e (forse) imputato di reato probatoriamente collegato a quello per cui si procede,
qualora in capo al medesimo soggetto concorrano tanto la condizione di imputato, quanto quella di persona offesa del reato,
deve prevalere quest’ultima per la sua “maggior pregnanza”. Consegue a ciò che il soggetto debba essere escusso in qualità di
testimone, con obbligo di rispondere secondo verità alle domande formulategli.
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LA PRUNUNCIA DELLE SEZIONI UNITE
Le Sezioni Unite, nel rispondere al quesito formulato con l’ordinanza di rimessione, stabiliscono due
principi di diritto.
Anzitutto, il Supremo Collegio dichiara di voler aderire al primo orientamento indicato nel paragrafo precedente, che ritiene inutilizzabili le dichiarazioni acquisite senza l’osservanza dell’art. 210 c.p.p.
Al riguardo il Collegio sottolinea come con la legge attuativa della riforma costituzionale sul “giusto
processo” – la n. 63 del 2001 – il legislatore abbia, da un lato, circoscritto «le ipotesi di incompatibilità a
testimoniare, allargando notevolmente la platea dei dichiaranti, variamente assistiti sul piano defensionale e dei diritti»; dall’altro, garantito «al massimo il diritto al silenzio, in tutte quelle ipotesi in cui il dichiarante si sarebbe potuto trovare esposto al rischio di vedere compromessa la garanzia del nemo tenetur se detegere».
Con la modifica legislativa del 2001, insomma, ribadisce il Collegio, un soggetto può essere nel contempo indagato o imputato e testimone (in caso di connessione ex art. 12, comma 1, lett. c) e 371, comma
2, lett. b) c.p.p.), ma a condizioni ben precise: che renda dichiarazioni concernenti la responsabilità altrui e che le rilasci in modo consapevole, in quanto avvertito ai sensi dell’art. 64, comma 3, lett. c),
c.p.p. 13.
Se ciò non avviene, la conseguenza non può che essere l’inutilizzabilità sancita nell’art. 64, comma 3
bis, c.p.p. E ciò, ad avviso della Corte di cassazione, non solo se il testimone non abbia in precedenza già
reso dichiarazioni concernenti la responsabilità altrui, come prevede espressamente l’art. 210, comma 6,
c.p.p., ma anche in tutti i casi in cui costui «abbia deposto erga alios in modo non “garantito”, ossia non
preceduto dal richiamato avvertimento 14».
Solo con l’avviso dell’art. 64, comma 3, lett. c) c.p.p., quindi, l’indagato o imputato nel procedimento
connesso ex art. 12, comma 1, lett. c) o collegato ex art. 371, comma 2, lett. b),c.p.p., può essere escusso in
qualità di testimone 15.
I Giudici di cassazione, a sostegno della tesi avallata, sottolineano come gli altri orientamenti giurisprudenziali trascurino la portata generale dell’art. 64 comma 3 bis, c.p.p., il quale stabilisce che, in di-
13
Al riguardo cfr. A. Sanna, L’interrogatorio e l’esame dell’imputato nei procedimenti connessi, cit., p. 40 s. Si interrogano sull’effettiva consapevolezza del dichiarante nella propria scelta, a causa della formulazione generica dell’avvertimento: G. Illuminati,
L’imputato che diventa testimone, cit., p. 398 s.; R. Orlandi, Dichiarazioni dell’imputato su responsabilità altrui: nuovo statuto del diritto
al silenzio e restrizioni in tema di incompatibilità a testimoniare, in R.E. Kostoris (a cura di), Il giusto processo tra contraddittorio e diritto
al silenzio. Commento alla legge 11 marzo 2001 n. 63, aggiornato alle decisioni costituzionali n. 32 e n. 36 del 2002, p. 164 s.
14
Al riguardo cfr. Corte Costituzionale, 12 novembre 2002, n. 451, ordinanza, in Dir. pen. proc., 2003, p. 18 ss., nella quale, nel
dichiarare manifestamente infondata la questione di legittimità sollevata – relativa alla necessità di dare l’avvertimento ex art.
210, comma 6, c.p.p. anche all’imputato di reato connesso o collegato che abbia reso, in precedenza, nella veste di persona informata sui fatti, dichiarazioni erga alios, precisa come si tratti di due situazioni ben distinte, in quanto il testimone ha l’obbligo
di rispondere secondo verità alle domande formulategli, mentre solo l’imputato di un reato connesso o collegato necessita
dell’avviso di cui all’art. 64, comma 3, lett. c) c.p.p., per «determinarsi liberamente a rilasciare o meno dichiarazioni accusatorie».
Corte Costituzionale, 4 giugno 2003, n. 191, in Dir. pen. proc., 2004, p. 177 ss., con nota di C. Conti, Esame dell’imputato e avvisi ex
art. 64 c.p.p.: la Consulta suggerisce l’interpretazione «analogica». Nell’ordinanza gli ermellini hanno affermato che gli avvertimenti
previsti dall’art. 64 c.p.p. siano da dare anche in dibattimento e, conseguentemente, rigettato la questione di incostituzionalità
sollevata dal Tribunale di Monza. Si veda altresì: Corte Costituzionale, 26 giugno 2002, n. 291, in Dir. pen. proc., 2002, p. 1213,
con nota di C. Conti, La consulta valuta la testimonianza assistita: un istituto coerente con l’intento del legislatore, con la quale i Giudici
del Palazzo della Consulta hanno dichiarato costituzionalmente legittimo il divieto di utilizzare contra se le dichiarazioni rilasciate dall’imputato di reato connesso o collegato che abbia volontariamente reso dichiarazioni concernenti la responsabilità altrui, in seguito all’avvertimento dell’art. 64 c.p.p. Per una disamina della giurisprudenza sull’argomento in questione v. F. De
Caroli, Orientamenti giurisprudenziali in tema di testimonianza assistita, in Leg. pen., 2006, p. 2 ss.. Anche Autorevole Dottrina aveva
già affermato che l’avvertimento ex art. 64, comma 3, lett. c) c.p.p. dovesse trovare applicazione ai sensi dell’art. 210, comma 6,
c.p.p. anche qualora il dichiarante avesse reso in precedenza dichiarazioni concernenti la responsabilità altrui, ma senza aver
ricevuto l’avviso: V. Grevi, Le prove, in G. Conso-V. Grevi-M. Bargis (a cura di), Compendio di procedura penale, VII ed., Padova,
2014, p. 359 ss. Nello stesso senso: M. Bargis, Commento all’art. 8 l. 1 marzo 2001, n. 63, cit., nota 13 p. 231; M. Caianiello, Giusto
processo e procedimento in corso: le conseguenze derivanti dall’omissione dell’avvertimento prescritto dall’art. 64 c.p.p., in Ind. pen., 2001,
p. 1395; P. Tonini-C. Conti, Il diritto delle prove penali, II ed., Milano, 2014, nota n. 178, p. 275.
15
Al riguardo cfr. M. Nobili, Giusto processo e indagini difensive: verso una nuova procedura penale?, cit., p. 10 s., il quale sottolinea la centralità dell’art. 64 c.p.p.; nonché A. Sanna, L’interrogatorio e l’esame dell’imputato nei procedimenti connessi, cit., p. 41, la
quale afferma che «il divieto probatorio è coerente con la ratio della disciplina, trasformando l’adempimento di cui all’art. 64,
comma 3, lett. c) c.p.p. in una conditio sine qua non per il passaggio allo status di testimone […]».
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fetto dell’avvertimento in questione, le dichiarazioni eventualmente rese dalla persona interrogata sui
fatti concernenti la responsabilità altrui non siano utilizzabili nei confronti di questi. A nulla rileva, pertanto, la mancanza di un esplicito richiamo da parte degli artt. 210, comma 6, c.p.p e 197-bis, comma 2,
c.p.p.
La sentenza in commento non ritiene corretto nemmeno il richiamo alla nullità di regime intermedio
quale sanzione per l’omesso avvertimento. Da un lato, si evidenzia come l’art. 178, comma 3, lett. c),
c.p.p. tuteli il diritto di difesa dell’imputato e delle altre parti e non quello del teste assistito – il quale,
tra l’altro, è già ampiamente garantito dal divieto di utilizzo contra se del narrato –; dall’altro lato, come
venga, invece, negato l’evidente interesse a dedurre la nullità all’imputato, il quale si vedrebbe accusato
da una persona mai avvertita della responsabilità che sarebbe scaturita dalle proprie dichiarazioni, qualora avesse deciso di renderle.
Per tali ragioni, le Sezioni unite arrivano ad enunciare due principi di diritto: il primo relativo all’ambito di applicazione dell’avvertimento previsto dall’art. 64, comma 3, lett. c), c.p.p., che deve essere
dato al dichiarante, in sede di esame dibattimentale ex art. 210, comma 6, c.p.p., non solo se in precedenza costui non abbia reso dichiarazioni concernenti la responsabilità altrui; ma anche se abbia già
deposto senza essere stato opportunamente avvisato.
Il secondo concernente la sanzione dell’inutilizzabilità per il mancato avvertimento, per violazione
di una regola di assunzione probatoria che incide sul terreno della stessa capacità a testimoniare.
TESTIMONE ASSISTITO: QUANDO SI DIVENTA?
Le Sezioni Unite nella sentenza in commento ritengono di dover affrontare un’ulteriore problematica,
fondamentale nel caso di specie: «cosa debba intendersi per imputato di reato connesso o collegato a
quello per cui si procede, in riferimento alla posizione del testimone che, proprio in virtù delle dichiarazioni rese, abbia determinato l’insorgenza, nei suoi confronti di elementi indizianti del reato di false
informazioni al pubblico ministero, o di favoreggiamento, o di calunnia».
Come già precisato in precedenza, la Corte evidenzia come le dichiarazioni indizianti di cui all’art.
63, comma 1, c.p.p. siano solamente quelle rese da un soggetto che riveli fatti dai quali emerga una
propria responsabilità penale precedente, non anche quelle attraverso le quali un reato venga commesso 16.
Ciò premesso, esclusa l’inutilizzabilità assoluta di queste ex art. 63, comma 2, c.p.p., procede a verificare se «il reato che consiste in dichiarazioni versate nel processo possa determinare, in capo al dichiarante, l’insorgenza di una posizione di incompatibilità rispetto al munus di testimone».
Anzitutto, il Collegio rileva come l’incompatibilità a svolgere una determinata funzione, debba essere a questa pregressa: «non si può “divenire” incompatibili proprio a causa della funzione che si è legittimati a svolgere in quanto con essa compatibili». Certamente, precisano le Sezioni Unite, non è detto
che tale compatibilità perduri: possono insorgere cause che la fanno venire meno, ma devono essere
esterne. Il testimone ben può diventare indagato in un reato collegato o connesso a quello cui si riferisce
la sua deposizione, mutando il proprio status; ma ciò non si verifica se viene inquisito proprio per il
contenuto delle dichiarazioni rese. In questa ipotesi, afferma la Corte di cassazione, «scompare il profilo
di una ipotetica incompatibilità, per venire ad emersione soltanto il ben diverso aspetto dell’attendibilità», rimessa alla valutazione del Giudice «senza alcuna limitazione legale dei relativi criteri di apprezzamento 17».
In altri termini, occorre tenere ben distinta la valutazione della testimonianza rilasciata (che contiene
elementi mendaci) nel processo, dalla persecuzione penale del testimone che l’ha resa: la prima rimane
parte integrante del materiale probatorio acquisito.
In relazione al procedimento de quo, dunque, ad avviso del Supremo collegio le dichiarazioni acquisite dalla persona offesa non erano censurabili con l’inutilizzabilità, ma dovevano essere sottoposte ad
16
V. sopra, nota n. 4.
17
Le Sezioni Unite precisano, infatti, che la necessità dei riscontri ai sensi dell’art. 192, comma 3, c.p.p. non «ha ragione di
essere nei confronti del testimone “terzo” rispetto al fatto su cui è chiamato a rispondere secondo verità, a prescindere da qualsiasi fattore che ne possa affievolire l’attendibilità».
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un attento vaglio di attendibilità da parte del Giudice di merito. La Corte d’appello avrebbe dovuto verificare se la reticenza del dichiarante avesse esaurito i suoi effetti all’interno del rapporto soggettivo tra
il loquens e la persona favorita, o se, al contrario, avesse inficiato anche quanto riferito in merito alla responsabilità penale degli altri imputati.
Per tali ragioni la Suprema corte annulla la sentenza impugnata, rinviando il processo alla Corte di
secondo grado palermitana, affinché proceda a valutare l’attendibilità del dichiarante, alla luce dei
principi indicati.
CONCLUSIONI
L’iter motivazionale e la conclusione a cui sono giunte le Sezioni Unite sembrano condivisibili.
Il Supremo collegio ha, ad avviso di chi scrive, colto il cuore del quesito formulato dalla Seconda sezione e indicato chiaramente la direzione da seguire, al fine di evitare la continua emanazione di pronunce contrastanti 18.
Le Sezioni unite, infatti, hanno fissato importanti paletti sul terreno alquanto scivoloso dell’esame
dell’imputato in un procedimento connesso ex art. 12, comma 1, lett. c), c.p.p. o collegato ex art. 371,
comma 2, lett. b), c.p.p.
Anzitutto, la Suprema corte ha ribadito che sono indizianti ai sensi dell’art. 63 c.p.p. solo le dichiarazioni con le quali il loquens riferisce di una responsabilità penale pregressa; non anche quelle che integrano una fattispecie criminosa (quale: false informazioni al pubblico ministero, favoreggiamento, calunnia, falsa testimonianza).
Inoltre, ha precisato che il potere del giudice di stabilire in termini sostanziali se al dichiarante sia attribuibile, o meno, la qualifica di indagato è ancorato all’esistenza di «indizi non equivoci di reità», conoscibili in quanto presenti nel fascicolo dibattimentale o perché indicati dalla parte esaminata o da chi
ne richiede l’audizione.
Le Sezioni Unite, poi, hanno affermato che l’aver reso dichiarazioni mendaci non comporta l’incompatibilità a testimoniare, la quale scaturisce solo laddove il soggetto divenga indagato o imputato concorrente nel reato cui si riferisce il suo racconto; ma coinvolge il profilo, ben diverso, dell’attendibilità.
È, quindi, compito del Giudice valutare se le dichiarazioni mendaci siano scindibili dalla restante parte
del narrato e se «il giudizio di inattendibilità, riferito soltanto ad alcune circostanze, non comprometta
per intero la stessa credibilità del dichiarante».
Infine, il Collegio afferma i due importanti principi di diritto ricordati nel paragrafo precedente.
Nella sentenza le Sezioni Unite non affrontano, invece, lo specifico caso in cui l’art. 210 c.p.p. sia violato solo per l’assenza del difensore.
Tuttavia, alla luce di quanto affermato nella pronuncia, sembrerebbe potersi ritenere che tale carenza, non incidendo sulla capacità a testimoniare del dichiarante – già acquisita con l’avvertimento ex art.
64, comma 3, lett. c) – non ne comporti l’inutilizzabilità, ma integri una nullità ex art. 178, comma 3, lett.
c), c.p.p. 19 . La presenza del difensore, pur se obbligatoria, sembra infatti una garanzia posta a tutela del
dichiarante, per arginare il rischio che costui rilasci dichiarazioni a lui dannose, evenienza, oltretutto,
già ampiamente tutelata con la previsione dell’inutilizzabilità contra se. 20.
18
Ritiene, invece, che, con la sentenza in commento, le Sezioni Unite abbiano risposto solo parzialmente al quesito formulato
dalla seconda sezione: J. Della Torre, Le Sezioni Unite sulla violazione della disciplina di cui agli articoli 210, comma 6 e 197 bis c.p.p.:
un’occasione (parzialmente) perduta per ristabilire la legalità processuale?, in www.penalecontemporaneo.it, 8 ottobre 2015, p. 13, in
quanto avrebbero affrontato solo l’ipotesi della violazione dell’art. 210, comma 6, c.p.p. per il mancato avvertimento ex art. 64,
comma 3, lett. c), c.p.p.
19
Il coimputato di un reato connesso ex art. 12, comma 1, lett. c), o collegato ex art. 371, comma 2, lett. b), c.p.p., infatti, in
questa ipotesi avrebbe liberamente e consapevolmente rilasciato eventuali dichiarazioni concernenti la responsabilità altrui,
avendo ricevuto l’avvertimento dell’art. 64 c.p.p. Qualora avesse narrato fatti o circostanze contra se sarebbe sempre garantito
dall’inutilizzabilità nei propri confronti, ai sensi del quinto comma dell’art. 197 bis c.p.p., Contra J. Della Torre, Le Sezioni Unite
sulla violazione della disciplina di cui agli articoli 210, comma 6 e 197 bis c.p.p.: un’occasione (parzialmente) perduta per ristabilire la legalità processuale?, cit., p. 16.
20
Per un’opinione differente cfr. J. Della Torre, Le Sezioni Unite sulla violazione della disciplina di cui agli articoli 210, comma 6 e
197 bis c.p.p., cit., p. 16. Si veda anche la nota n. 45.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | L'AVVERTIMENTO EX ART. 64, COMMA 3, LETT. C), C.P.P.
Processo penale e giustizia n. 1 | 2016
75
In conclusione, le argomentazioni e la conclusione a cui giunge la sentenza in commento sembrano
condivisibili e apprezzabili in quanto, da un lato, ritengono sempre indispensabile l’avvertimento
dell’art. 64, comma 2, lett. c), c.p.p. ai fini dell’acquisizione del munus di testimone – nel caso di un indagato o imputato in un procedimento connesso ex art. 12, comma 1, lett. c), c.p.p. o collegato ex art.
371, comma 2, lett. b), c.p.p. –; dall’altro, chiariscono quali siano le dichiarazioni indizianti ex art. 63
c.p.p., che comportano l’incompatibilità a testimoniare ai sensi dell’art. 197, comma 1, lett. b), c.p.p.
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Processo penale e giustizia n. 1 | 2016
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Sulle conseguenze dell’impossibilità di applicare il
“braccialetto elettronico” per una carenza organizzativa
dell’ordinamento
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE I, SENTENZA 10 SETTEMBRE 2015, N. 39529 – PRES. CHIEFFI; REL. LA
POSTA
Se viene ritenuta dal giudice la idoneità degli arresti domiciliari a soddisfare le concrete esigenze cautelari, la applicazione ed esecuzione di detta misura non può essere condizionata da eventuali difficoltà di natura tecnica e/o
amministrativa concernenti il cosiddetto “braccialetto elettronico”, trattandosi di presupposti, all’evidenza, non
comparabili tra loro.
[Omissis]
RITENUTO IN FATTO
1. Il Tribunale di Bolzano, costituito ex art. 309 cod. proc. pen., in parziale accoglimento della richiesta dell’indagata, sostituiva con la misura degli arresti domiciliari con il controllo di dispositivi elettronici quella della custodia in carcere applicata a Q.E. dal Gip dello stesso tribunale per l’omicidio del
convivente H.A., colpito ripetutamente con un coltello, il (OMISSIS).
2. Avverso l’ordinanza del tribunale ha proposto ricorso, a mezzo del difensore di fiducia, l’indagata
denunciando, in primo luogo, la violazione di norma processuale ed il vizio di motivazione in relazione
alla utilizzabilità delle dichiarazioni rese dall’indagata nell’immediatezza del fatto, in violazione
dell’art. 350 cod. proc. pen., avendo il tribunale ritenuto che la Q. non aveva ancora assunto la veste di
indagata, né vi erano elementi dai quali desumere indizi a suo carico.
Trattandosi di morte violenta, l’unica persona presente sul posto, oltre i figli minorenni, doveva essere ritenuta potenziale responsabile; ciò a maggior ragione quando la ricorrente ha reso le dichiarazioni durante la notte presso gli uffici dei Carabinieri di Bolzano che avevano esaminato anche altre persone informate dei fatti che avevano riferito della condotta dell’indagata.
La ricorrente rileva, altresì, la contraddizione del tribunale laddove ha ritenuto utilizzabili le dichiarazioni delle ore 2,48 del [Omissis], rese dalla Q. senza le garanzie richieste, benché abbia affermato che
da tali dichiarazioni sono emersi elementi indizianti, avendo la stessa fornito una versione dei fatti incompatibile con la precedente.
Con il secondo motivo si denuncia la violazione di legge ed il vizio della motivazione in ordine alla
valutazione dei gravi indizi di colpevolezza.
Si rileva che la gran parte degli elementi indizianti si riferisce a circostanze indicate dall’indagata per
timore di essere ingiustamente accusata o non essere creduta, come umanamente comprensibile anche
secondo il tribunale.
La contraddizione in ordine al coltello che la donna ha detto di avere riposto dove lo aveva trovato,
ad avviso della ricorrente, non è utilizzabile e, comunque, è stata travisata non avendo alcuna valenza
confessoria. Così come l’orario di rientro indicato dalla indagata non può avere alcun rilievo indiziario,
atteso che sessanta minuti tra il rientro a casa e la chiamata al 118 per i soccorsi possono essere ragionevolmente spiegati.
La ricorrente afferma che la motivazione in ordine alla inverosimiglianza della tesi del gesto autolesionistico è illogica, tenuto conto del parere medico legale del consulente di parte che apoditticamente è
stato ritenuto non condivisibile.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | SULLE CONSEGUENZE DELL'IMPOSSIBILITÀ DI APPLICARE IL “BRACCIALETTO ELETTRONICO”
Processo penale e giustizia n. 1 | 2016
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In ordine alla valutazione delle esigenze cautelari si contesta la sussistenza del concreto pericolo di
fuga, non avendo la indagata tenuto condotte volte a sottrarsi al fermo, non avendo mezzi economici o
contatti idonei ad organizzare la fuga, tali non potendosi considerare i tentativi di difendersi per allontanare i sospetti.
Il pericolo di reiterazione è stato desunto dalla gravità del fatto senza un concreto giudizio prognostico e senza tenere conto della incensuratezza e della occasionalità della condotta collegata alle dinamiche di coppia, né che la ricorrente ha immediatamente chiesto soccorso per salvare il compagno. Del
resto, lo stesso tribunale ha affermato che si può escludere la volontà di uccidere configurando
l’omicidio preterintenzionale. Rileva, quindi, che, alla luce delle recenti modifiche introdotte dalla L. n.
47 del 2015, le esigenze cautelari non possono essere ritenute esclusivamente per la gravità del reato.
La ricorrente lamenta, altresì, l’applicazione della misura degli arresti domiciliari, ritenendo che si
sarebbe potuta applicare una misura meno afflittiva.
Infine, denuncia la violazione dell’art. 275-bis cod. proc. pen., avendo il tribunale subordinato la
scarcerazione all’applicazione del dispositivo del braccialetto elettronico ed alla disponibilità da parte
della polizia giudiziaria di tale dispositivo.
Assume che l’obbligo del braccialetto costituisce una misura accessoria sproporzionata alle esigenze
cautelari da tutelare, dovendo ritenersi adeguata la misura degli arresti domiciliari con le ordinarie prescrizioni e controlli, e lamenta che in ragione di tale provvedimento dopo oltre quindici giorni dalla
emissione il provvedimento di sostituzione non è stato eseguito per la indisponibilità del dispositivo
elettronico di controllo.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. La denunciata violazione relativa alla utilizzabilità delle dichiarazioni rese dalla Q. agli investigatori nella immediatezza dei fatti non è fondata ed è, altresì, irrilevante quanto all’apprezzamento degli
indizi posti a fondamento della misura cautelare.
Correttamente il tribunale ha rilevato che quando la donna ha reso ai carabinieri le informazioni di
cui si discute non aveva assunto la qualità di indagata e nei suoi confronti non erano emerse circostanze
indizianti sino a che non ha sostenuto la tesi dell’autolesionismo.
Del resto, secondo l’orientamento affermato da Sez. U, n. 1150 del 25/09/2008 – dep. 2009, Correnti,
tuttora prevalente, sono utilizzabili nella fase delle indagini preliminari le dichiarazioni spontanee rese
dall’indagato alla polizia giudiziaria disciplinate dall’art. 350 c.p.p., comma 7.
I rilievi difensivi sono, comunque, superati se si considera che gli indizi posti a fondamento della
misura cautelare sono costituiti da circostanze di fatto emerse aliunde, valutate unitamente alla inverosimiglianza della versione sostenuta dalla donna nel corso dell’interrogatorio di garanzia.
Il tribunale, infatti, ha evidenziato che la versione che la donna ha indicato nell’interrogatorio del
[Omissis], secondo la quale la vittima dopo una discussione si era ferita da sola con il coltello, è palesemente contrastante con quanto la stessa aveva raccontato sia all’operatore del 118 – dalla telefonata registrata risultava che la Q. aveva detto che l’uomo era entrato in casa accoltellato e pieno di sangue accoltellato – sia al dott. C., intervenuto per il soccorso – il quale ha dichiarato che la donna aveva riferito
che il compagno era rientrato in casa barcollando e che il sangue era stato rimosso dalla figlia. Queste
circostanze emerse dalle indagini sono state ragionevolmente ritenute incompatibili con la versione
dell’autolesionismo sostenuta dall’indagata che ha rappresentato di non averla indicata prima per timore di non essere creduta.
Il tribunale ha, poi, valorizzato che la donna durante l’interrogatorio si era contraddetta, avendo inizialmente raccontato che il compagno aveva preso il coltello con il quale si era colpito, mentre successivamente aveva affermato di avere riposto il coltello dove lo aveva "trovato", facendo, quindi, intendere
che era stata lei a prenderlo. Sul punto il ricorso è palesemente infondato, atteso che si tratta di dichiarazione certamente utilizzabile fatta durante l’interrogatorio di garanzia alla quale è stato attribuito un
significato logicamente ineccepibile, mentre la ricorrente, pur denunciandone il travisamento, ne propone una interpretazione alternativa.
Con argomentazioni ancorate alle circostanze di fatto accertate il tribunale ha, inoltre, evidenziato
che la Q. aveva dichiarato di essere tornata a casa con i figli alle ore 19, mentre dalle immagini riprese
dalle telecamere risultava con certezza che aveva parcheggiato l’auto nella strada di casa alle ore 18,10;
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | SULLE CONSEGUENZE DELL'IMPOSSIBILITÀ DI APPLICARE IL “BRACCIALETTO ELETTRONICO”
Processo penale e giustizia n. 1 | 2016
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quindi, dal momento del rientro alla chiamata al 118, effettata alle 19,15, era trascorsa oltre un’ora e non
venti minuti circa, come riferito della indagata.
Ulteriore discrasia è stata individuata nella circostanza che la donna aveva sostenuto di avere deciso
di sostenere la falsa versione del compagno entrato in casa ferito e sanguinante dopo avere chiamato il
118, mentre, già nella telefonata registrata al 118 risulta aver indicato dette circostanze.
Il giudizio di inverosimiglianza della riconducibilità della ferite ad atti di autolesionismo della vittima è stato ancorato dal tribunale anche alla valutazione del dottor S. che ha sostenuto trattarsi di ferite causate da accoltellamento da aggressione. Tale tesi è stata ritenuta dal tribunale, allo stato delle indagini, maggiormente convincente rispetto a quella sostenuta dal consulente di parte, professore D.L.,
in considerazione del numero, del tipo di ferite e, soprattutto delle parti del corpo attinte, pur tenendo
conto del tentativo di suicidio attuato dalla vittima un anno prima.
Di talché, considerato che la valutazione compiuta dal tribunale verte sul grado di inferenza degli
indizi e, quindi, sull’attitudine degli stessi in termini di qualificata probabilità di colpevolezza anche se
non di certezza, la motivazione dell’ordinanza impugnata supera il vaglio di legittimità demandato a
questa Corte, il cui sindacato non può non arrestarsi alla verifica del rispetto delle regole della logica e
della conformità ai canoni legali che presiedono all’apprezzamento dei gravi indizi di colpevolezza,
prescritti dall’art. 273 cod. proc. pen. per l’emissione dei provvedimenti restrittivi della libertà personale, senza poter attingere l’intrinseca consistenza delle valutazioni riservate al giudice di merito.
2. Non sono fondate le doglianze della ricorrente relative alla valutazione della sussistenza della esigenze cautelari, atteso che, indipendentemente dal pericolo di fuga, il tribunale ha fornito idonea e logica motivazione in ordine all’affermato pericolo di recidiva, valorizzando la violenza della condotta e
la pluralità delle ferite. Fermo restando che la L. n. 47 del 2015, richiamata dalla ricorrente, è entrata in
vigore in data successiva alla ordinanza in esame, il pericolo di reiterazione non è stato fondato sulla
gravità del reato, bensì sulla natura della condotta violenta, sulla modalità dei colpi ed il numero delle
coltellate.
Il tribunale, del resto, non ha formulato una diversa qualificazione del fatto, ma si è limitato a considerare ancora aperta nell’attuale fase la verifica in ordine al dolo ed alla sua intensità, ragione per la
quale ha ritenuto di poter sostituire la custodia in carcere con la misura meno afflittiva degli arresti
domiciliari, scelta sulla quale la ricorrente formula rilievi palesemente generici.
3. Quanto alla previsione del controllo attraverso l’attivazione di dispositivi elettronici, l’attuale
formulazione dell’art. 275-bis cod. proc. pen., a seguito della modifica introdotta dal D.L. n. 146 del
2013, prevede che le procedure di controllo mediante mezzi elettronici siano prescritte dal giudice
quando dispone la misura degli arresti domiciliari, anche se in sostituzione della custodia in carcere,
salvo che lo ritenga non necessario in relazione alla natura e grado delle esigenze cautelari del caso
concreto. Evidentemente, si è voluto che normalmente la misura degli ardesti domiciliari venga eseguita con la predisposizione del controllo attraverso dispositivi elettronici o altri strumenti tecnici confermando, in tale modo, che si tratta solo di una modalità esecutiva della misura domiciliare e non di una
misura ulteriore come viene sostenuto dalla ricorrente denunciando il vizio della motivazione sul punto. Del resto, nella specie, il tribunale ne ha espressamente valutato ed indicato la necessità (p. 12) in ragione delle concrete esigenze cautelari.
Non può ritenersi corretto, invece – come dedotto dalla ricorrente – il provvedimento impugnato
nella parte in cui subordina la scarcerazione all’applicazione del dispositivo elettronico, prevedendo
che “l’indagata verrà scarcerata solo una volta accertata da parte dei Carabinieri di Bolzano la disponibilità del braccialetto elettronico”. In tal modo, infatti, è stata sospesa l’esecuzione della misura degli
arresti domiciliari e la scarcerazione dell’indagata che sono state subordinate al verificarsi di un presupposto, la disponibilità e la effettiva attivazione da parte della autorità preposta al controllo del dispositivo elettronico, che, come si è detto e come è già stato affermato da questa Corte, altro non è che
una modalità esecutiva della misura domiciliare (Sez. 2, n. 6505 del 20/01/2015, Fiorillo, rv. 262600;
Sez. 3, n. 7421 del 03/12/2014 – dep. 19/02/2015, rv. 262418; Sez. 5, n. 40680 del 19/06/2012, Bottan, rv.
253716, che ha affermato che il braccialetto rappresenta una cautela che viene adotta non già ai fini della adeguatezza della misura domiciliare e, quindi, per rafforzare il divieto di non allontanarsi dalla
propria abitazione, ma ai fini della capacità effettiva dell’indagato di autolimitare la propria libertà personale di movimento). Infatti, trattandosi di una procedura di controllo da parte della polizia giudiziaria, l’attivazione del dispositivo elettronico non rappresenta una prescrizione che inasprisce la misura,
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | SULLE CONSEGUENZE DELL'IMPOSSIBILITÀ DI APPLICARE IL “BRACCIALETTO ELETTRONICO”
Processo penale e giustizia n. 1 | 2016
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come può verificarsi attraverso la previsione di prescrizioni che limitano ulteriormente le facoltà
dell’indagato.
Così che, se viene ritenuta dal giudice la idoneità della misura degli arresti domiciliari a soddisfare
le concrete esigenze cautelari, la applicazione ed esecuzione di detta misura non può essere condizionata da eventuali difficoltà di natura tecnica e/o amministrativa per l’esecuzione della misura, trattandosi
di presupposti, all’evidenza, non comparabili tra loro.
Tanto non è contraddetto, certamente, dalla previsione di cui all’art. 275 cod. proc. pen., comma 3bis come recentemente novellato, secondo la quale il giudice, quando applica la misura della custodia
in carcere, deve indicare specifiche ragioni per le quali ritiene inidonea nel caso concreto la misura degli
arresti domiciliari con le procedure di controllo di cui all’art. 275-bis c.p.p., comma 1. Essa, invero, ha la
sola finalità di imporre al giudice una valutazione rafforzata laddove opera la scelta di applicare la misura cautelare maggiormente afflittiva della custodia in carcere.
Del resto, l’art. 97-bis disp. att. cod. proc. pen. che ha riguardo alle “modalità di esecuzione del provvedimento che applica gli arresti domiciliari” nella versione modificata dal D.L. n. 92 del 2014 aveva
previsto al comma 3 che, in caso di provvedimento di sostituzione della misura della custodia in carcere con quella degli arresti domiciliari con il controllo tramite strumenti elettronici di cui all’art. 275-bis
cod. proc. pen., il direttore dell’istituto penitenziario, nel trasmettere la dichiarazione del detenuto di
accettazione dei mezzi di controllo potesse rappresentare l’impossibilità di dare esecuzione immediata
alla scarcerazione in considerazione di specifiche esigenze di carattere tecnico e che, in tal caso, il giudice avesse la possibilità di autorizzare il differimento dell’esecuzione del provvedimento di sostituzione
sino alla materiale disponibilità del dispositivo elettronico da parte della polizia giudiziaria. Il fatto che
tale previsione sia stata soppressa in sede di conversione del citato decreto legge con la L. n. 117 del
2014 deve far ritenere che il legislatore abbia voluto escludere una tale possibilità per le medesime ragioni innanzi indicate.
Sicché, la previsione del comma 1 dell’art. 275-bis cod. proc. pen. secondo la quale il giudice prescrive procedure di controllo mediante mezzi elettronici “quando ne abbia accertato la disponibilità da parte della polizia giudiziaria” deve intendersi nel senso che, una volta valutata la adeguatezza della misura domiciliare secondo i criteri di cui all’art. 275 cod. proc. pen., il detenuto dovrà essere controllato con
i mezzi tradizionali se risulti la indisponibilità degli strumenti elettronici.
Nella specie, deve, comunque, prendersi atto che la misura domiciliare applicata alla Q. è stata nel
frattempo eseguita, come risulta dal certificato aggiornato del D.A.P.
In conclusione, il ricorso deve essere rigettato e la ricorrente deve essere condannata al pagamento
delle spese processuali.
[Omissis]
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | SULLE CONSEGUENZE DELL'IMPOSSIBILITÀ DI APPLICARE IL “BRACCIALETTO ELETTRONICO”
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JACOPO DELLA TORRE
Dottorando in ricerca in Scienze Giuridiche – Università degli Studi di Udine
Per la Suprema Corte l’indisponibilità
del “braccialetto elettronico” comporta l’applicazione
degli arresti domiciliari “semplici”:
una discutibile lettura dell’art. 275-bis c.p.p.
For the Supreme Court the unavailability
of “electronic bracelet” determines the application
of “simple” house arrest:
a questionable reading of Article 275-bis c.p.p.
L’Autore analizza in modo critico una recente decisione della Cassazione in tema di braccialetto elettronico, nella
quale si afferma che la mancanza del dispositivo di controllo determina l’applicazione della misura degli arresti domiciliari “semplici”.
The Author critically analyzes a recent decision of the Supreme Court concerning electronic bracelets, which
states that the absence of the control device determines the application of “simple” house arrest.
PREMESSA
Com’è noto, nel corso degli ultimi anni, il legislatore, anche per rimediare a quella drammatica situazione
di sovraffollamento carcerario stigmatizzata dalle condanne della Corte di Strasburgo 1 e dai moniti della
Consulta 2, ha riformato in maniera continua la delicata materia delle misure cautelari personali 3.
Peraltro, posto che si è spesso trattato di «interventi “tampone”, volti a incidere in vario modo su
singoli profili della disciplina delle relative misure cautelari personali» 4, senza che si sia arrivati a una
«sempre più indispensabile opera di rimeditazione globale e sistematica della materia cautelare» 5, non
1
Il riferimento è, anzitutto, alla sentenza-pilota Corte e.d.u., 8 gennaio 2013, Torreggiani e aa. c. Italia, in Riv. it. dir. proc. pen.,
2013, p. 927 ss., con nota di M. Dova, Torreggiani c. Italia: un barlume di speranza nella cronaca del collasso annunciato del sistema sanzionatorio e in www.penalecontemporaneo.it, con nota di F. Viganò, Sentenza pilota della Corte EDU sul sovraffollamento delle carceri
italiane: il nostro Paese chiamato all’adozione di rimedi strutturali entro un anno. Cfr. anche Corte e.d.u., 16 luglio 2009, Sulejmanovic c.
Italia, in Cass. pen., 2009, p. 4927 ss., con nota di N. Plastina, L’Italia condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per l’insufficienza temporanea dello spazio individuale nella cella assegnata a un detenuto nel carcere di Rebibbia, ma assolta per la gestione, in quel
contesto, della sovrappopolazione carceraria.
2
Cfr. Corte cost., sent. 22 novembre 2013, n. 279, in Giur cost., 2013, p. 4514 ss., con note di F. Della Casa, Il monito della consulta circa il «rimedio estremo» della scarcerazione per il condannato vittima di un grave e diffuso sovraffollamento; A. Pugiotto, L’Urlo di
Munch della magistratura di sorveglianza (Statuto costituzionale della pena e sovraffollamento carcerario); M. Ruotolo, Quale tutela per il
diritto a un’esecuzione della pena non disumana? Un’occasione mancata o forse soltanto rinviata.
3
Per un ampio quadro delle riforme sul punto, nonché per i dovuti riferimenti dottrinali e giurisprudenziali, cfr. i recenti
lavori collettanei in T. Bene (a cura di), Il rinnovamento delle misure cautelari. Analisi della legge n. 47 del 16 aprile 2015, Torino, 2015,
passim; A. Diddi-R.M. Geraci (a cura di), Misure cautelari ad personam in un triennio di riforme, Torino, 2015, passim.
4
Così A. Diddi-R.M. Geraci, Introduzione, in Id, Misure cautelari ad personam in un triennio di riforme, cit., p. XIV.
5
Così A. Diddi-R.M. Geraci, Introduzione, cit., p. XV.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | PER LA SUPREMA CORTE L'INDISPONIBILITÀ DEL "BRACCIALETTO ELETTRONICO"…
Processo penale e giustizia n. 1 | 2016
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stupirà che questa tecnica di «frammentazione normativa» 6 abbia causato diverse questioni esegetiche
e applicative, che la giurisprudenza e la dottrina hanno dovuto, non senza fatica, risolvere.
In tale contesto, una delle previsioni oggetto di maggiore attenzione da parte del legislatore, nonché
di gravi dubbi interpretativi e pratici, è stata l’art. 275-bis c.p.p., che disciplina quella particolare modalità di controllo a distanza, comunemente nota con il nome di “braccialetto elettronico” 7.
La sentenza in commento affronta proprio alcune delle problematiche di più stretta attualità inerenti
a tali strumenti 8 e, in particolare, la delicata questione concernente le conseguenze della indisponibilità
di braccialetti, che è derivata dal forte incentivo all’utilizzo degli stessi da parte del legislatore 9, senza
la presenza di scorte adeguate 10.
IL CASO CONCRETO E LA SOLUZIONE DELLA CORTE
Nel caso di specie, il Tribunale del riesame di Bolzano sostituiva, nei confronti di una donna indagata
per l’omicidio del convivente, la misura della custodia cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari con il controllo elettronico, subordinando, però, l’effettiva scarcerazione della stessa alla concreta disponibilità di un dispositivo da parte della polizia.
L’indagata, a mezzo del suo difensore, proponeva, quindi, articolato ricorso per cassazione, denunciando, oltre a diversi altri motivi, violazione dell’art. 275-bis c.p.p.
In particolare, la ricorrente, ritenendo che la custodia domestica con “braccialetto elettronico” fosse
una misura cautelare autonoma, lamentava, anzitutto, che gli strumenti di rilevazione in commento fossero sproporzionati «alle esigenze cautelari da tutelare», dovendo, al contrario, ritenersi adeguata la
cautela degli arresti domiciliari con le ordinarie prescrizioni e controlli.
6
Cfr. A. Scalfati, Legislazione “a pioggia” sulle cautele ad personam: l’effervescente frammentarietà di un triennio, in Proc. pen.
giust., 2014, 6, p. 4 ss.
7
Com’è noto, l’art. 275-bis è stato introdotto con il d.l. 21 novembre 2000, n. 341, conv. con mod. in l. 19 gennaio 2001, n. 4 ed
era originariamente rivolto ai soli arresti domiciliari. Più recentemente, le particolari modalità di controllo oggetto di tale disposizione sono state interessate da diverse novelle tra cui il d.l. 14 agosto 2013, n. 93, conv. con mod. in l. 15 ottobre 2013, n. 119,
che ha ampliato la possibilità di applicare il braccialetto anche alla misura di cui all’art. 282-bis c.p.p.; il d.l. 23 dicembre 2013, n.
146, conv. con. mod. in l. 21 febbraio 2014, n. 10, che ha riformato il primo comma dell’art. 275-bis; la l. 16 aprile 2015, n. 47, che,
come vedremo, ha inserito, all’interno dell’art. 275 c.p.p., un nuovo comma 3-bis, che si riferisce all’art. 275-bis c.p.p.
8
Si ricordi che il cosiddetto braccialetto elettronico è, in verità, una cavigliera, che consente di monitorare gli spostamenti di
un soggetto da un luogo a un altro. L’attuazione pratica di tale mezzo di controllo è regolata dal d.m. 2 febbraio 2001. In merito
al funzionamento pratico di tali apparecchiature cfr. S. Aprile, Il sistema per il controllo elettronico delle persone sottoposte alla misura
degli arresti domiciliari previsto dall’art. 275-bis, c.p.p.: “braccialetto elettronico”. L’esperienza del Gip di Roma, in Rass. pen. crim., 2013,
2, p. 53 ss. In ottica operativa, pare particolarmente interessante anche il protocollo di gestione del braccialetto elettronico adottato dal Tribunale di Taranto, reperibile presso il sito www.tribunale.taranto.giustizia.it. Per uno sguardo sull’esperienza torinese,
cfr., invece, F. Gianfrotta, Il braccialetto elettronico questo sconosciuto, in Rass. pen. crim., 2013, 2, p. 63 ss.
9
Ci si riferisce, in particolare, alla già citata riforma dell’art. 275-bis c.p.p., operata dal d.l. 23 dicembre 2013, n. 146, che ha
sostituito, all’interno del comma 1 di tale disposizione, l’inciso «se lo ritiene necessario», con quello «salvo che le ritenga non
necessarie», creando così un’«“obbligatoria” considerazione del braccialetto elettronico come alternativa al carcere», cfr. P. Spagnolo, Per un’effettiva gradualità delle misure cautelari personali, in Leg. pen., 2014, 4, p. 337. In merito a tale modifica, cfr., fra i tanti,
oltre al commento appena citato: G. Amato, Arresti domiciliari con il braccialetto elettronico, in Guida dir., 2014, 4, p. 47 s.; M.F. Cortesi, “Braccialetto elettronico”: una inaccettabile lettura del rinnovato art. 275 bis c.p.p., in Giur. it., 2014, p. 1743 ss.; Ead, Interventi sulle
misure custodiali, in A. Diddi-R.M. Geraci (a cura di), Misure cautelari ad personam in un triennio di riforme, cit., p. 35 ss.; A. Della
Bella, Emergenza carceri e sistema penale. I decreti legge del 2013 e la sentenza della Corte cost. n. 32/2014. Aggiornato al d.l. 20 marzo
2014, n. 36, Torino, 2014, p. 24 ss.; F. Fiorentin, Con il nuovo svuota carceri 3mila detenuti in meno e braccialetto elettronico esteso ai non
domiciliari, in Guida dir., 2014, 3, p. 18 ss.; Id., Decreto svuota carceri (d.l. 23 dicembre 2013 n. 146), Milano, 2014, p. 14 ss.; M.G. Gasparri, Il monitoraggio elettronico non riduce i controlli, in Guida dir., 2014, 4, p. 34 ss.; E.M. Mancuso, Sovraffollamento carcerario e misure di urgenza: un intervento su più fronti per avvisare un nuovo corso, in C. Conti-A. Marandola-G. Varraso (a cura di), Le nuove
norme sulla giustizia penale, Padova, 2014, p. 52 ss.; M. Pittiruti, Le modalità di controllo elettronico negli arresti domiciliari e nell’esecuzione della detenzione domiciliare, in R. Del Coco-L. Marafioti-N. Pisani (a cura di), Emergenza carceri. Radici remote e recenti soluzioni
normative, Torino, 2014, p. 98 ss.
10
Attualmente il servizio è fornito da Telecom Italia al Ministero dell’Interno e prevede la disponibilità massima di 2000 dispositivi di rilevazione contemporaneamente; numero che, a seguito della modifica dell’art. 275-bis c.p.p. si è dimostrato inadeguato. Peraltro, l’ordinamento non è riuscito ad aumentare il numero degli apparecchi per la pendenza di un contenzioso amministrativo in merito alla convenzione tra la società fornitrice e il Ministero, posto che la stessa è stata impugnata da una società concorrente, in quanto conclusa “a trattativa diretta”. Cfr., per più precise indicazioni sul punto, A. Della Bella, Emergenza carceri e sistema penale, cit., p. 27.
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In secondo luogo, l’indagata denunciava che, in ragione della materiale indisponibilità del dispositivo elettronico, l’ordinanza di sostituzione della misura carceraria non era ancora stata eseguita, pur essendo trascorsi oltre quindici giorni dall’emissione della stessa.
Dal canto suo, la Suprema Corte, nella sentenza in commento, dopo aver rigettato gli altri motivi di
ricorso, affronta, innanzitutto, l’annosa questione della natura degli arresti domiciliari con braccialetto
elettronico 11, affermando che gli strumenti di controllo non vadano a costituire una misura cautelare
autonoma, ma una mera modalità esecutiva degli arresti domiciliari.
In particolare, il Collegio trae un preciso avallo di tale tesi dalla riforma, operata dal d.l. 23 dicembre
2013, n. 146, dell’art. 275-bis 12, il quale, precisa la Corte, oggi «prevede che le procedure di controllo
mediante mezzi elettronici siano prescritte dal giudice quando dispone la misura degli arresti domiciliari, anche se in sostituzione della custodia in carcere, salvo che lo ritenga non necessario in relazione
alla natura e grado delle esigenze cautelari del caso concreto». Evidentemente, affermano i giudici, con
tale novella si è voluto che di norma «la misura degli arresti domiciliari venga eseguita con la predisposizione del controllo attraverso dispositivi elettronici […], confermando, in tale modo, che si tratta solo
di una modalità esecutiva della misura domiciliare e non di una misura ulteriore».
Ciò premesso, nella parte seguente della motivazione, il Collegio afferma di non poter ritenere corretta l’ordinanza impugnata, «nella parte in cui subordina la scarcerazione all’applicazione del dispositivo elettronico, prevedendo che “l’indagata verrà scarcerata solo una volta accertata da parte dei Carabinieri […] la disponibilità del braccialetto”».
Difatti, continua la Corte, agendo in tal modo, il Tribunale ha concretamente subordinato l’effettiva
applicazione degli arresti domiciliari al verificarsi di un presupposto che altro non è che una mera modalità esecutiva della misura di cui all’art. 284 c.p.p.
Il braccialetto elettronico, infatti, precisa ancora il Collegio, consistendo in una mera procedura di
controllo da parte della polizia, «non rappresenta una prescrizione che inasprisce la misura, come può
[invece] verificarsi attraverso la previsione di prescrizioni che limitano ulteriormente le facoltà dell’indagato».
Da tale ragionamento viene tratta una precisa conclusione: una volta che il giudice ritenga adeguati
gli arresti domiciliari a soddisfare le concrete esigenze cautelari, l’applicazione ed esecuzione effettiva
di tale misura «non può essere condizionata da eventuali difficoltà di natura tecnica e/o amministrativa […], trattandosi di presupposti, all’evidenza, non comparabili tra loro».
Queste considerazioni, continua la Cassazione, conservano la propria validità anche a seguito della
novella dell’art. 275, comma 3-bis, c.p.p., operata dalla recente l. 16 aprile 2015, n. 47 13, secondo cui il
giudice, nell’applicare la misura della custodia cautelare in carcere, deve motivare sulla inidoneità della
misura domiciliare con il controllo elettronico a garantire i pericula libertatis del caso di specie. Questa
disposizione, infatti, precisa la Corte, avrebbe la sola finalità di imporre al giudice una valutazione rafforzata per applicare la misura più afflittiva.
Il Collegio, inoltre, trae una definitiva conferma della propria tesi dalla mancata conversione, da parte
della l. 11 agosto 2014, n. 117, dell’art. 4, comma 3, d.l. 26 giugno 2014, n. 92 14, il quale, modificando l’art.
97-bis, comma 3, disp. att. c.p.p., aveva previsto che, in caso di sostituzione della misura della custodia in
carcere con quella degli arresti domiciliari con il braccialetto elettronico, il direttore dell’istituto penitenziario, nel trasmettere la dichiarazione del detenuto di accettazione dei mezzi di controllo a distanza, potesse
11
Cfr., sul punto, sub § 3.
12
Cfr., supra nota 9.
13
In argomento, cfr., tra i tanti, P. Borrelli, Una prima lettura delle novità della legge 47 del 2015 in tema di misure cautelari personali, in www.penalecontemporaneo.it, p. 12 ss.; R. Bricchetti-L. Pistorelli, Carcere estrema ratio se non c’è spazio per le “interdittive”, in
Guida dir., 2015, 20, p. 42 s.; E.Campoli, L’ennesima riforma della disciplina delle misure cautelari personali: prime osservazioni e primi
approdi pratici, in Arch. n. proc. pen., 2015, p. 310; G. Fidelbo-V. Pazienza (a cura di), Le nuove disposizioni in tema di misure cautelari.
Relazione dell’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione, in www.penalecontemporaneo.it, p. 9 s.; E. Pilla, I criteri di scelta, in T.
Bene (a cura di), Il rinnovamento delle misure cautelari, cit., p. 32; A. Marandola, I nuovi criteri di scelta della misura, in G.M. BaccariK. La Regina-E.M.Mancuso, (a cura di), Il nuovo volto della giustizia penale, Padova, 2015, p. 410 s.; E.N. La Rocca, Le nuove disposizioni in materia di misure cautelari personali (Ddl 1232 b), in www.archiviopenale.it, p. 4; E. Turco, La riforma delle misure cautelari, in
Proc. pen. giust., 2015, 5, p. 108 ss.
14
In tema, cfr., in particolare, M. Daniele, Il palliativo del nuovo art. 275 co. 2 bis c.p.p. contro l’abuso della custodia in carcere, in
www.penalecontemporaneo.it.
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rappresentare l’impossibilità di dare esecuzione immediata alla scarcerazione in considerazione di specifiche esigenze di carattere tecnico, e che, in tal caso, il giudice avrebbe potuto autorizzare il differimento dell’esecuzione della sostituzione «sino alla materiale disponibilità del dispositivo elettronico». Secondo i giudici, il fatto che il legislatore abbia soppresso in sede di conversione tale modifica, «deve far ritenere che [lo
stesso] abbia voluto escludere una tale possibilità» di differimento della liberazione del soggetto.
Per tali ordini di ragioni – conclude la sentenza – la parte dell’art. 275-bis, comma 1, c.p.p. secondo
cui il giudice prescrive procedure di controllo elettroniche «quando ne abbia accertato la disponibilità
da parte della polizia giudiziaria», deve interpretarsi nel senso che, una volta ritenuta adeguata «la misura domiciliare secondo i criteri di cui all’art. 275 c.p.p., il detenuto dovrà essere controllato con i mezzi tradizionali se risulti la indisponibilità degli strumenti elettronici».
LA PRIMA QUESTIONE AFFRONTATA DALLA
CIALETTO ELETTRONICO
CORTE: IL COMPLESSO PROBLEMA DELLA NATURA DEL BRAC-
La pronuncia in commento solleva non poche problematiche esegetiche e diverse perplessità.
Pare, anzitutto, particolarmente delicata la prima questione affrontata dal Collegio, ossia il tema
concernente la natura da attribuire agli arresti domiciliari con braccialetto elettronico, in particolare dopo che la l. 16 aprile 2015, n. 47 ha inserito, all’interno dell’art. 275 c.p.p., un nuovo comma 3-bis, secondo cui «nel disporre la custodia cautelare in carcere il giudice deve indicare le specifiche ragioni per cui
ritiene inidonea, nel caso concreto, la misura degli arresti domiciliari con le procedure di controllo di cui
all’articolo 275-bis, comma 1».
Com’è noto, il quesito se il legislatore, con l’inserimento dell’art. 275-bis c.p.p., abbia o meno introdotto una misura cautelare autonoma, costituisce uno degli aspetti maggiormente discussi della disciplina de qua, sin dalla sua introduzione nell’ordinamento 15.
Peraltro, la Corte, affermando che i dispositivi di controllo costituirebbero una «modalità esecutiva della
misura domiciliare» e non una cautela a sé stante, ha ribadito non solo un’argomentazione assai ricorrente
in giurisprudenza 16, ma anche la tesi sostenuta, sin dai primi commenti dopo l’introduzione dell’art. 275-bis
c.p.p., dalla dottrina maggioritaria 17, che ha qualificato il braccialetto come «mera modalità di esecuzione
degli arresti domiciliari» 18 (valorizzando, così, l’incipit della norma – “nel disporre gli arresti domiciliari” 19).
15
Riassume efficacemente la complessità della questione G. Spangher, La pratica del processo penale – I soggetti. Gli atti. Le prove. Le
misure cautelari. Il procedimento penale davanti al giudice di pace, III, Padova, 2014, p. 757, il quale afferma che «resta ibrida la natura della
misura, non essendo chiaro se si tratti di arresti domiciliari ovvero di alternativa al carcere». Sul tema, cfr., per tutti, nel corso della
vigenza dell’originaria versione dell’art. 275-bis, con varie opinioni: D. Carcano-D. Manzione, Custodia cautelare e braccialetto elettronico.
Le nuove norme in materia di separazione dei processi, giudizio abbreviato, custodia cautelare e controllo elettronico delle persone sottoposte a misura detentiva (d.l. 341/2000 conv. in l. 4/2001), Milano, 2001, p. 55 ss.; L. Cesaris, Dal Panopticon alla sorveglianza elettronica, in M. Bargis
(a cura di), Il decreto “antiscarcerazioni”, Torino, 2001, p. 60; S. Ciappi, La sorveglianza con braccialetto elettronico, in U. Gatti-B. Gualco (a
cura di), Carcere e territorio, Milano, 2008, p. 174; M.F. Cortesi, Interventi sulle misure custodiali, cit., p. 36; M. Curtotti, Custodia cautelare
(presupposti, vicende, estinzione), in Dig. pen., III Agg., t. I, 2005, p. 304; A. Della Bella, Emergenza carceri e sistema penale, cit., p. 25; D.
Manzione, Le «nuove frontiere» della custodia cautelare: dagli arresti domiciliari al controllo a distanza, in AA.VV., Scritti in onore di Antonio
Cristiani, Torino, 2001, p. 394; A. Marandola, voce Braccialetto elettronico, in Dizionari sistematici. Procedura penale, a cura di G. Spangher,
Milano, 2008, p. 437; E. Marzaduri, sub art. 16 l. 19 gennaio 2001, n. 4, in Legislazione pen., 2001, p. 448; P. Spagnolo, sub art. 275 bis, in G.
Canzio-G. De Amicis-F. Lattanzi-P. Silvestri-P. Spagnolo (a cura di), Misure cautelari, III [G. Lattanzi-E. Lupo (a cura di), Codice di procedura penale. Rassegna di giurisprudenza e di dottrina], Milano, 2008, p. 148 s.; L. Suraci, L’art. 275 bis del Codice di Procedura Penale tra implicazioni sistematiche e risvolti pratici, in www.penale.it, p. 4. Dopo la modifica dell’art. 275-bis, in argomento, cfr., invece, in particolare,
cfr. L. Cesaris, sub art. 275 bis c.p.p., in G. Conso-G. Illuminati (a cura di), Commentario breve al codice di procedura penale, 2a ed., Padova,
2014, p. 1109; A. Cisterna, Una figura autonoma da collocare in posizione mediana, in Guida dir., 44, 2015, p. 70 ss.; M. Pittiruti, Le modalità di
controllo elettronico negli arresti domiciliari, cit., p. 100; A. Marandola, Carcere, arresti domiciliari e braccialetto elettronico, in Giur. it., 2015, p.
1724 ss.; P. Spagnolo, Per un’effettiva gradualità delle misure cautelari personali, cit., p. 336 ss.
16
Cfr., in particolare, Cass., sez. II, 20 gennaio 2015, n. 6505, in CED Cass., 262600. Generalmente, però, la giurisprudenza ha
parlato di «mera modalità di esecuzione di una misura cautelare», cfr. tra le tante, Cass., sez. III, 3 marzo 2015, n. 26520, in Dir.
giust., 25 giugno 2015; Cass., sez. V, 19 giugno 2012, n. 40680, in CED Cass., 253716.
17
Così, ad esempio, nel corso della vigenza dell’originaria versione dell’art. 275-bis c.p.p., D. Carcano-D. Manzione, Custodia
cautelare e braccialetto elettronico, cit., p. 55; L. Cesaris, Dal Panopticon alla sorveglianza elettronica, cit., p. 59; E. Marzaduri, sub art.
16 l. 19 gennaio 2001, n. 4, cit., p. 448; L. Suraci, L’art. 275 bis del Codice di Procedura Penale, cit., p. 4.
18
Così, testualmente, L. Cesaris, Dal Panopticon alla sorveglianza elettronica, cit., p. 59.
19
Cfr. L. Cesaris, Dal Panopticon alla sorveglianza elettronica, cit., p. 60. Un ulteriore argomento in base a cui si è, da subito, so-
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Tale esegesi, oltretutto, è stata confermata anche dopo che il d.l. 23 dicembre 2013, n. 146 ha sostituito in tale disposizione l’inciso «se lo ritiene necessario», con quello «salvo che le ritenga non necessarie» 20.
Difatti, si è a più riprese affermato che la novella, non mutando la natura del dispositivo, avrebbe
comportato solo la generalizzazione della prescrizione del braccialetto elettronico in tutti i casi in cui il
giudice si trovi ad applicare la cautela domiciliare 21, arrivandosi anche a definire l’art. 275-bis c.p.p.
quale «modalità ordinaria di esecuzione della misura degli arresti domiciliari» 22. Non è tutto. Si è rilevato anche che la riforma avrebbe inciso pure sull’onere di motivazione: mentre in precedenza era necessario motivare per imporre il braccialetto elettronico, ora il giudice si troverebbe a motivare quando
ritenga lo stesso non necessario 23.
Questa interpretazione, pur diffusa e plausibile, è stata però contrastata da altra parte della dottri24
na , che ha sostenuto la necessità di proporre un’esegesi alternativa della disposizione 25, «che non valorizzi la prima parte dell’art. 275-bis “nel disporre gli arresti domiciliari” – opzione che spinge gli interpreti a ricondurre il braccialetto elettronico agli arresti domiciliari – ma la seconda, ossia lo stretto
legame con la custodia cautelare in carcere, già disposta per l’eventualità in cui l’interessato non presti
il consenso al controllo elettronico» 26.
In particolare, secondo tale opinione – fondata sulla «natura complessa» del provvedimento con cui
viene disposto il braccialetto 27, nonché sulla finalità di garantire il principio della custodia in carcere
quale extrema ratio –, «la “misura” domiciliare con controllo elettronico», «più che una mera modalità
esecutiva degli arresti domiciliari […] dovrebbe essere considerata “immediatamente sostitutiva della
custodia in carcere”, la cui applicazione viene disposta dal giudice contestualmente agli arresti domiciliari e subordinatamente al consenso dell’indagato all’adozione dello strumento elettronico» 28.
A questo punto, peraltro, pare necessario valutare se il legislatore, mediante l’introduzione del citato
nuovo comma 3-bis nell’art. 275 c.p.p., abbia inserito una disposizione utile a individuare quale sia la
natura degli arresti domiciliari con i dispositivi di controllo ex art. 275-bis c.p.p.
stenuto che l’art. 275-bis non avesse introdotto una misura autonoma è stato tratto dalla Relazione al disegno di legge relativo
alla conversione in legge del d.l. n. 341 del 2000 (pubblicata in Guida dir., 2000, 45, p. 47 ss.), nella quale si affermava che «non si
tratta di creare nuove misure alternative alla detenzione o alla custodia cautelare in carcere, quanto, piuttosto, di disciplinare un
nuovo strumento di controllo applicabile, nei casi in cui ciò sia possibile, alle misure esistenti».
20
Così, ad esempio, L. Cesaris, sub art. 275 bis c.p.p., cit., p. 1109; A. Della Bella, Emergenza carceri e sistema penale, cit., p.
25; F. Fiorentin, Decreto svuotacarceri, cit., p. 18; M. Pittiruti, Le modalità di controllo elettronico negli arresti domiciliari, cit., p.
100. Per una dettagliata ricostruzione dottrinale sul punto cfr. P. Spagnolo, Per un’effettiva gradualità delle misure cautelari personali, cit., p. 337 ss.
21
Cfr. F. Fiorentin, Decreto svuotacarceri, cit., p. 18
22
Così, Parere del C.s.m. al d.l. n. 146 del 2013, p. 10, adottato il 23 gennaio 2014. In dottrina cfr. G. Amato, Arresti domiciliari
con il braccialetto elettronico, cit., p. 47. In giurisprudenza cfr. Cass., sez. II, 20 gennaio 2015, n. 6505, cit.
23
Cfr., sul punto, in dottrina tra i tanti, L. Filippi, Adelante Pedro…con (poco) iudicio. Un passo (avanti o indietro?) verso la civiltà penitenziaria, in Dir. pen. proc., 2014, p. 381; F. Fiorentin, Decreto svuotacarceri, cit., p. 14; M.G. Gasparri, Il monitoraggio elettronico non riduce i controlli, cit., p. 34; M. Pittiruti, Le modalità di controllo elettronico negli arresti domiciliari, cit., p. 99. Contra, P. Spagnolo, Per un’effettiva gradualità delle misure cautelari personali, cit., p. 340 ss. In giurisprudenza cfr., tra le tante, Cass., sez. II, 20
gennaio 2015, n. 60505, cit., secondo cui per disporre il braccialetto elettronico non è necessario che il giudice adempia ad alcun
onere di motivazione aggiuntivo.
24
Cfr. l’ampia e acuta critica di P. Spagnolo, Per un’effettiva gradualità delle misure cautelari personali, cit., p. 340 ss.
25
Cfr. P. Spagnolo, Per un’effettiva gradualità delle misure cautelari personali, cit., p. 340 ss.
26
Cfr. P. Spagnolo, Per un’effettiva gradualità delle misure cautelari personali, cit., p. 340.
27
“Complessa” in quanto con lo stesso provvedimento si applica la misura attenuata e la si sostituisce con la custodia carceraria in caso di dissenso del destinatario.
28
Cfr. P. Spagnolo, Per un’effettiva gradualità delle misure cautelari personali, cit., p. 337. L’Autrice, in questo modo, sviluppa la
tesi da tempo autorevolmente sostenuta da A. Nappi, Guida al Codice di Procedura Penale, 10a ed., Milano, 2007, p. 739, nonché
quella risalente tesi giurisprudenziale secondo cui il braccialetto elettronico sarebbe una «condizione sospensiva della custodia
in carcere», così, ex multis Cass., sez. II, 29 ottobre 2003, n. 47413, in Cass. pen., 2005, p. 896. Peraltro, pare opportuno rilevare, che
negli ultimi anni la giurisprudenza, pur continuando a definire il braccialetto elettronico come «condizione sospensiva della custodia cautelare», ha costantemente affermato che lo stesso sarebbe una «mera modalità di esecuzione di una misura cautelare
personale» (così, tra le tante, Cass., sez. III, 3 dicembre 2014, n. 7421, in CED Cass., 262418; Cass., sez. V, 19 giugno 2012, 40680,
cit.), o, ancora più precisamente, la modalità di esecuzione ordinaria della cautela domiciliare (cfr., oltre alla sentenza in commento, Cass., sez. II, 20 gennaio 2015, n. 6505, cit.).
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Dal canto suo, come si è visto, la Suprema Corte ha dato una risposta precisa: il nuovo onere di motivazione inserito dalla novella non avrebbe fatto altro che imporre al giudice una valutazione rafforzata per applicare la misura più afflittiva 29.
Sul punto, peraltro, attenta dottrina ha sostenuto una tesi differente: l’allargamento dell’onere motivazionale, operato con il nuovo comma 3-bis dell’art. 275 c.p.p., è stato letto come segnale del fatto che
gli arresti domiciliari con i dispositivi di controllo ex art 275-bis c.p.p., vadano a costituire – per come
oggi configurati – una misura autonoma, che si collocherebbe a un livello intermedio tra la custodia
cautelare in carcere e gli arresti domiciliari semplici 30.
Infatti, a seguito della novella, il giudice non dovrà più motivare sulla necessità o no del controllo
elettronico solo nel caso in cui ritenga applicabili gli arresti domiciliari: dopo aver ritenuto non applicabili gli arresti domiciliari “semplici”, dovrà pure spiegare perché neppure quelli con il controllo elettronico sarebbero adeguati a inibire i concreti pericula libertatis 31.
In sostanza, il fatto che il giudice, per applicare la misura carceraria, sia tenuto a motivare espressamente il perché non ritenga applicabile «la misura degli arresti domiciliari con le procedure di controllo di cui
all’articolo 275-bis, comma 1», è stato interpretato come il sintomo che si tratti di una cautela autonoma e
intermedia tra quella massima e gli arresti domiciliari “semplici”.
Ciò premesso, pare che la modifica dell’art. 275 c.p.p. abbia meglio precisato un ulteriore elemento
di differenziazione tra gli arresti domiciliari semplici e quelli con il monitoraggio elettronico, che potrebbe portare a sostenere la tesi della misura autonoma.
Ci si riferisce al fatto che – come emerge chiaramente sia dall’art. 275-bis c.p.p., sia dall’art. 275,
comma 3-bis, c.p.p. – la cautela con i controlli elettronici sia volta a contrastare dei pericula libertatis diversi, sia dalla cautela massima, sia dagli arresti “semplici”.
Com’è stato da tempo affermato in dottrina, infatti, «l’applicazione del braccialetto […] è pensata
per tutte quelle situazioni di pericolosità intermedia tra quella che esige il carcere e quella fronteggiabile attraverso gli arresti domiciliari, ossia per quei soggetti nei confronti dei quali [il giudice] nutre dubbi in ordine alla loro capacità auto limitativa» 32.
Peraltro, una precisa riprova di ciò, si trova proprio in uno degli argomenti testuali su cui si basa la
citata tesi dottrinale secondo cui le modalità di controllo in esame costituirebbero una misura «immediatamente sostitutiva della custodia in carcere» e con essa strettamente collegata: il fatto che l’art. 275bis faccia riferimento alla custodia cautelare in carcere, già disposta per il caso in cui l’interessato non
29
In dottrina, molti commentatori hanno proposto una lettura riduttiva degli effetti di tale novella, sostenendo che la regola
fosse già enucleabile nel sistema previgente dall’art. 275 c.p.p., che già stabiliva che la custodia in carcere poteva applicarsi solo
quando ogni altra misura risultasse inadeguata, sul punto, tra i tanti, cfr. E. Pilla, I criteri di scelta, cit., p. 32, nonché G.G. Fidelbo-V. Pazienza (a cura di), Le nuove disposizioni in tema di misure cautelari, cit., p. 32; E. Turco, La riforma delle misure cautelari, cit.,
p. 109. Peraltro, pare utile rilevare che la sussistenza di tale onere motivazione, anche prima della novella, era stato affermato
anche in giurisprudenza, cfr. Cass., sez. II, 9 dicembre 2014, n. 52747, Shiavon, in CED Cass., 261718. Contra, però, Cass., sez. II,
20 gennaio 2015, n. 6505, cit.
30
In tale senso, diffusamente, A. Cisterna, Una figura autonoma, cit., p. 70 ss. secondo cui «lo specifico e puntuale onere di
motivazione che il legislatore del 2015 ha preteso in ordine alla non applicabilità della misura degli arresti domiciliari rafforzati
con il braccialetto elettronico sta a individuare l’esistenza di un’autonoma fattispecie cautelare la quale si pone – in grado intermedio tra la custodia in carcere e gli arresti domiciliari comunemente intesi». Cfr. anche, già prima, M. Daniele, Il palliativo del
nuovo art. 275 co. 2 bis c.p.p. contro l’abuso della custodia in carcere, cit. Nello stesso senso, nella giurisprudenza di merito, cfr., Trib.
Siena, 17 settembre 2015, in www.archiviopenale.it, p. 6. Contra, esplicitamente, Cass., sez. II, 20 gennaio 2015, n. 6505, cit. La tesi
secondo cui la misura dell’art. 275-bis andrebbe distinta da quella di cui all’art. 284 c.p.p., era già sostenuta, come si è visto, da P.
Spagnolo, Per un’effettiva gradualità delle misure cautelari personali, cit., p. 340 ss.; A. Nappi, Guida al Codice di Procedura Penale, cit.,
p. 739. Dal canto suo P. Tonini sino all’edizione 5a del Manuale di procedura penale, Milano, 2003, p. 301, affermava che «gli arresti
domiciliari, sottoposti alle modalità di controllo, costituiscono una misura autonoma rispetto agli ordinari arresti domiciliari e
funzionalmente si avvicinano alla custodia in carcere». A partire dall’edizione successiva del Manuale di procedura penale, Milano, 2005, p. 326, peraltro, l’Autore ha sostenuto una tesi diversa secondo cui: «per quanto concerne la qualificazione giuridica, il
braccialetto elettronico si configura non come una misura cautelare autonoma, bensì come una modalità di sorveglianza applicabile all’arresto domiciliare nei casi nei quali i controlli ordinari sarebbero non sufficienti».
31
In questo senso, ampiamente, A. Cisterna, Una figura autonoma, cit., p. 71; M. Daniele, Il palliativo del nuovo art. 275 co. 2 bis
c.p.p. contro l’abuso della custodia in carcere, cit.
32
Cfr. P. Spagnolo, Per un’effettiva gradualità delle misure cautelari personali, cit., p. 338. Cfr. anche, M.F. Cortesi, Interventi sulle
misure cautelari, cit., p. 39; M. Curtotti, Custodia cautelare (presupposti, vicende, estinzioni), cit., p. 304; F. Fiorentin Con il nuovo svuota carceri 3mila detenuti in meno, cit., 19.
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presti il consenso 33 alle modalità di controllo, fa comprendere come, in tal modo, il legislatore abbia
preso in considerazione ipotesi in cui i pericula libertatis siano, in assenza del braccialetto, talmente elevati da meritare la cautela più grave 34.
Del resto, pare utile rilevare che il braccialetto costituisce una forma di controllo continuativo sulla
persona ristretta assai più penetrante 35 rispetto all’“autocustodia” propria degli arresti domiciliari ordinari 36, il che costituisce una differenza di non poco conto rispetto alla semplice misura ex art. 284
c.p.p.
Peraltro, la classificazione della cautela in questione, come misura intermedia, potrebbe essere utile
per una ragione specifica, che trova riscontro proprio nella pronuncia in commento: essa permetterebbe
di scongiurare il rischio che, definendo il braccialetto come mera modalità di esecuzione degli arresti
domiciliari, si perda di vista il fatto che i dispositivi di controllo sono strettamente legati alle esigenze
cautelari del caso di specie 37.
La sentenza in esame, infatti, pare essere caduta proprio in questo fraintendimento, nella parte in cui
ha affermato che, qualora venga «ritenuta dal giudice la idoneità della misura degli arresti domiciliari a
soddisfare le concrete esigenze cautelari, la applicazione ed esecuzione di detta misura non può essere
condizionata da eventuali difficoltà di natura tecnica e/o amministrativa per l’esecuzione della misura».
In ogni caso, anche ove non si aderisse alla tesi secondo cui l’art. 275-bis c.p.p. vada a costituire una
misura distinta da quella di cui all’art. 284 c.p.p., ma si ritenesse che si tratti solo di una prescrizione
aggiuntiva alla cautela degli arresti domiciliari ordinari, pare utile rilevare che i dispositivi, lungi da costituire una mera prescrizione di natura tecnica e/o amministrativa, vanno indubbiamente a incidere –
per espressa previsione del legislatore, nonché per il controllo più penetrante che permettono – sulle
concrete esigenze cautelari fronteggiabili con la misura “principale”.
Proprio in quest’ottica, infatti, in dottrina, pur qualificandosi la strumentazione de qua quale mera
modalità di esecuzione degli arresti domiciliari, si è sempre ricollegata la stessa strettamente ai pericula
libertatis 38.
Di conseguenza, tenuto conto che gli apparecchi di controllo hanno proprio lo specifico scopo di
fronteggiare delle esigenze cautelari più elevate rispetto a quelle degli arresti domiciliari ordinari,
estendendo così l’ambito di applicazione della misura di cui all’art. 284 c.p.p., pare difficile sostenere
che l’eventuale impossibilità di applicare i dispositivi possa costituire una mera “difficoltà tecnica”, che
non produce alcun effetto sull’adeguatezza della misura prescelta.
LA SECONDA QUESTIONE ESAMINATA: IL CONTRASTO GIURISPRUDENZIALE IN MERITO ALLE CONSEGUENZE DELLA CARENZA DEI DISPOSITIVI DI CONTROLLO
A questo punto, sembra opportuno rilevare che la scelta di concentrare l’attenzione sullo stretto collegamento tra braccialetto elettronico ed esigenze cautelari ha effetti determinanti sull’ulteriore questione
33
In merito alla natura “negoziale” della disciplina dell’art. 275-bis, cfr. A. Cisterna, Una figura autonoma, cit., p. 70.
34
Rilevava autorevolmente V. Grevi, Misure cautelari, in G. Conso-V. Grevi-M. Bargis (a cura di), Compendio di procedura penale, Padova, 2014, p. 437 che proprio il «particolare rapporto tra la misura custodiale e la misura degli arresti domiciliari “sotto
controllo elettronico” dimostra come quest’ultima misura si configuri quale alternativa più favorevole per l’imputato rispetto
alla eventualità della misura carceraria (di cui, peraltro, sussisterebbero tutti i presupposti)».
35
Secondo P. Tonini, Manuale di procedura penale, 16a ed., Milano, 2015, p. 420 «lo strumento incide sui diritti fondamentali
della persona e comprime la riservatezza della persona».
36
Cfr., sul punto, M.F. Cortesi, Interventi sulle misure custodiali, cit., p. 41. Sul punto, cfr. anche Trib. Siena, 17 settembre 2015,
cit., p. 5.
37
Tale collegamento è pacificamente espresso dalla lettera degli artt. 275-bis e 275, comma 3-bis c.p.p.: il primo richiama la
natura e il grado delle esigenze cautelari e il secondo l’idoneità del braccialetto a far fronte ai pericula libertatis. Una precisa riprova del nesso tra art. 275-bis ed esigenze cautelari si ricava anche dal suo collocamento sistematico: lo stesso è posto «subito
dopo i criteri di scelta delle misure, il che continua a essere indice della considerazione che il braccialetto è funzionale a rafforzare il principio della custodia cautelare in carcere quale extrema ratio» (così, P. Spagnolo, Per un’effettiva gradualità delle misure
cautelari personali, cit., p. 340).
38
Cfr., ad esempio, P. Tonini, Manuale di procedura penale, 14a ed., Milano, 2013, p. 424, nota 13. Si veda ancora, tra i più recenti, ad esempio, G. Amato, Arresti domiciliari con il braccialetto elettronico, cit. p. 47; L. Cesaris, Sub art. 275 bis, cit., p. 1109;
F.Fiorentin, Decreto svuotacarceri, cit., p. 19.
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affrontata dalla Corte, ossia sulla «doverosità o meno della sostituzione della misura carceraria con
quella intramuraria “semplice”, in caso di indisponibilità di strumenti di controllo» 39.
Difatti, è palese che, ove si optasse per un’interpretazione che vede nello strumento di cui all’art.
275-bis c.p.p. un dispositivo volto a fronteggiare esigenze cautelari più elevate rispetto a quelle proprie
della misura di cui all’art. 284 c.p.p., si dovrebbe coerentemente affermare che, in assenza del braccialetto, non riuscendosi a contrastare del tutto i pericula libertatis, il giudice sarebbe costretto a disporre
l’unica misura, concretamente disponibile ed effettivamente adeguata, ovvero quella carceraria.
Al contrario, ove si prediligesse una lettura dell’istituto del braccialetto come mero ausilio tecnicoamministrativo, quale quella fatta propria dalla sentenza in commento, slegata dai riferimenti alle esigenze cautelari contenuti negli artt. 275, comma 3-bis e 275-bis, gli effetti della indisponibilità dei dispositivi sarebbero differenti, posto che, si potrebbe ritenere di applicare, anche solo in via temporanea, la
misura domiciliare semplice.
Com’è noto, tale delicata problematica è divenuta di estrema attualità, sin da quando, a seguito della
riforma del 2013, i braccialetti elettronici si sono trasformati da «dispositivi dimenticati» 40 in quegli
strumenti “rari” descritti dalla pronuncia in commento.
Peraltro, sarà oramai chiaro che la questione concernente le conseguenze dell’impossibilità di applicare un dispositivo elettronico è particolarmente delicata per una ragione specifica: essa è foriera di
odiose disuguaglianze 41 tra soggetti che, a parità di pericula libertatis, potranno o meno usufruirne. Con
la conseguenza, che, quindi, ove si aderisse alla tesi per cui i dispositivi influirebbero sull’adeguatezza
della misura da scegliere, il richiedente, in mancanza dello strumento, potrebbe vedersi negata la possibilità di adire una misura extramuraria, solo per ragioni organizzative dell’ordinamento 42.
Considerata, quindi, l’estrema delicatezza della problematica de qua, non stupirà che la tematica della carenza patologica di braccialetti sia stata risolta in modo contrastante nella giurisprudenza.
Secondo un primo orientamento – sostenuto da una parte della giurisprudenza di legittimità 43, ma
recentemente confermato, con argomentazioni articolate, anche da quella di merito 44 – in mancanza
della strumentazione di monitoraggio, sarebbe necessario che il soggetto rimanesse (o venisse tradotto,
nei casi di prima applicazione della misura) in carcere, in attesa della disponibilità dei dispositivi, in
quanto la presenza o meno del braccialetto inciderebbe sull’adeguatezza della misura da disporre.
Questa tesi è stata, in particolare, sostenuta da due recenti pronunce della sez. II della Suprema
Corte, le quali hanno confermato che la momentanea indisponibilità dei dispositivi elettronici è causa di mantenimento della cautela carceraria, nella forma del rigetto tout court dell’istanza di sostituzione.
Nella seconda di queste decisioni si afferma espressamente che «l’impossibilità di effettuare il controllo elettronico a distanza per carenza degli strumenti tecnici, costituisce una circostanza di fatto che,
seppure non ascrivibile all’indagato, deve essere valutata ai fini del giudizio di adeguatezza della misura degli arresti domiciliari» 45.
39
Cfr. R.G. Grassia, Il braccialetto elettronico: uno strumento inespresso. Quando la tecnologia è al servizio dell’uomo, ma la copertura
finanziaria non è al servizio della tecnologia, in www.archiviopenale.it, p. 2. In merito a tale problematica, oltre al testo appena citato,
cfr. in particolare, A. Cisterna, Una figura autonoma, cit., p. 67 ss.; A. Marandola, Carcere, arresti domiciliari e braccialetto elettronico,
cit., p. 1724 ss. Si vedano ancora P. Borrelli, Una prima lettura, cit. p. 14; E. Turco, La riforma delle misure cautelari, cit., p. 110, nonché le considerazioni di M. Daniele, Il palliativo del nuovo art. 275 co. 2 bis c.p.p. contro l’abuso della custodia in carcere, cit.
40
Così, efficacemente, A. Bassi-C. Von Borries, Il braccialetto elettronico: un dispositivo dimenticato, in www.questionegiustizia.it.
Bisogna ricordare, infatti, che, sino alla riforma del 2013, il numero di braccialetti elettronici effettivamente applicati nella prassi
era stato alquanto limitato rispetto a quelli concretamente disponibili. In argomento, cfr., diffusamente, S. Aprile, Il sistema per il
controllo elettronico, cit., p. 47 ss.; F. Gianfrotta, Il braccialetto elettronico questo sconosciuto, cit., p. 70 ss.
41
Così, lucidamente, già in sede di commento dell’originaria versione dell’art. 275-bis c.p.p., E. Marzaduri, sub art. 16 l. 19
gennaio 2001, n. 4, cit., p. 449. Cfr., anche, per un cenno, Id., Dietro la perenne emergenza della giustizia una disperata ricerca di efficacia ed efficienza, in Guida dir., 45, 2000, p. 50.
42
Sul punto, cfr. A. Marandola, Carcere, arresti domiciliari e braccialetto elettronico, cit., p. 1725.
43
Cfr. Cass., sez. II, 19 giugno 2015, n. 28115, in Dir. giust., 6 agosto 2015; Cass., sez. II, 17 dicembre 2014, n. 520, ivi, 9 gennaio 2015, con nota di A. Iovolella, “Domiciliari” sì ma col “braccialetto”, però manca lo strumento tecnologico: carcere confermato.
44
Cfr., in particolare, Trib. Siena, 17 settembre 2015, cit., nonché la copiosa giurisprudenza di merito ivi citata.
45
Cfr. Cass., sez. II, 19 giugno 2015, n. 28115, cit. Peraltro, in tale pronuncia si riprende anche l’affermazione tralatizia secondo cui il «braccialetto rappresenta una cautela che il giudice può adottare, se lo ritiene necessario, non già ai fini della ade-
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Peraltro, tenuto conto delle palesi discriminazioni, motivate solo da ragioni organizzative dell’amministrazione, provocate dall’impossibilità di concedere una misura extramuraria a un soggetto idoneo
alla stessa, non stupirà che siano stati avanzati dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 275-bis c.p.p.
per contrasto con gli artt. 3 e 13 Cost.
Dal canto suo, la Suprema Corte, proprio in queste due sentenze, ha fornito una risposta sul punto,
affermando che «qualora il giudice reputi che il […] “braccialetto elettronico” sia una modalità di esecuzione degli arresti domiciliari necessaria ai fini della concedibilità della misura e, tuttavia, tale misura
non possa essere concessa per la concreta mancanza di tale strumento di controllo […], non sussiste alcun vulnus agli artt. 3 e 13 Cost., né alcuna violazione dei diritti della difesa, perché l’impossibilità della
concessione degli arresti domiciliari senza controllo elettronico a distanza dipende pur sempre
dall’intensità delle esigenze cautelari e pertanto è ascrivibile alla persona dell’indagato». Non è tutto: in
una di queste sentenze il Collegio ha aggiunto ancora che «non può pretendersi che lo Stato predisponga un numero indeterminato di braccialetti elettronici, pari al numero dei detenuti per i quali può esser
utilizzato, essendo le disponibilità dell’Amministrazione necessariamente limitate, come sono limitate
[…] tutte le prestazioni pubbliche offerte ai cittadini, senza che ciò determini alcuna violazione del
principio di eguaglianza» 46.
L’esegesi secondo cui, in caso di indisponibilità del braccialetto, il soggetto debba rimanere in carcere è stata ripresa e sviluppata anche nella giurisprudenza di merito e, in particolare, in una pronuncia,
assai articolata, del Tribunale di Siena, depositata nel settembre del 2015 47.
Nello specifico, il giudice senese, dopo aver ricostruito e contrapposto nel dettaglio la giurisprudenza sulla tematica de qua, ha aderito alla tesi del mantenimento della custodia carceraria in attesa della
disponibilità del braccialetto, sostenendo che «l’applicazione o meno del presidio elettronico incida eccome sulla valutazione di adeguatezza della misura cautelare, come si può desumere dal comma 3-bis
dell’art. 275 c.p.p.» 48.
Questa soluzione, ha precisato ancora il Tribunale, non sarebbe «solo la più condivisibile, ma anche
l’unica realmente sostenibile», in quanto la sola rispettosa delle esigenze cautelari del caso di specie.
L’orientamento opposto, invece, fatto proprio da diverse pronunce della Suprema Corte 49, cui appartiene anche la sentenza in commento, arriva a una conclusione antitetica rispetto alla problematica de qua: in
carenza dei dispositivi, la soluzione corretta sarebbe l’applicazione degli arresti domiciliari semplici.
Queste sentenze, in particolare, si occupano di fattispecie in cui era sì stata disposta la sostituzione
della misura carceraria con quella domiciliare con i controlli elettronici, ma l’effettiva esecuzione della
misura più lieve era stata subordinata alla presenza e positiva verifica delle condizioni per l’installazione dei dispositivi elettronici di controllo.
Non si tratta di un caso: infatti, proprio in conseguenza della limitata disponibilità degli strumenti in
esame, è «invalsa presso i giudici di merito la prassi di subordinare l’esecuzione dell’ordinanza di sostituzione della cautela carceraria con quella domiciliare alla procurata disponibilità di un braccialetto
elettronico, poiché questa consente l’inserimento del detenuto in una “lista d’attesa” (ciò che non sarebbe invece consentito dal rigetto tout court dell’istanza di sostituzione per momentanea indisponibilità della necessaria strumentazione tecnica)» 50.
Dal canto loro, le pronunce appartenenti al secondo filone esegetico criticano questa prassi e negano
che si possa condizionare la liberazione di un soggetto, idoneo alla misura degli arresti domiciliari, alla
presenza degli strumenti tecnici.
guatezza della misura più lieve, vale a dire per rafforzare il divieto di non allontanarsi dalla propria abitazione ma ai fini del
giudizio, da compiersi nel procedimento di scelta delle misure, sulla capacità effettiva dell’indagato di autolimitare la propria
libertà personale di movimento, assumendo l’impegno di installare il braccialetto», così, per tutte, Cass., sez. II, 29 ottobre 2003,
n. 47413, cit., p. 897.
46
Cfr. Cass., sez. II, 17 dicembre 2014, n. 520, cit.
47
Cfr. Trib. Siena, 17 settembre 2015, cit., che cita altresì, nello stesso senso, Trib. Ravenna, G.i.p., 1 settembre 2015, inedita;
Trib. Milano, 29 maggio 2015, inedita.
48
Cfr. sul punto, le chiare parole di A. Cisterna, Una figura autonoma, cit., p. 70 secondo cui «è implicita o espressa – soprattutto in sede di applicazione della misura ex art. 275 bis del c.p.p. al momento genetico dell’adozione del provvedimento coercitivo – la considerazione che il giudice non stima affatto adeguata la misura degli arresti domiciliari ex articolo 284 del Cpp».
49
Cfr., in particolare, Cass., sez. IV, 3 luglio 2015, n. 35571, in Guida dir., 2015, 44, p. 64 ss. con nota di A. Cisterna, Una figura
autonoma, cit. Cass., sez. II, 23 settembre 2014, n. 50400, in CED Cass., 261439.
50
Cfr. Trib. Siena, 17 settembre 2015, cit., p. 4, nota 4. In tema, cfr. anche A. Cisterna, Una figura autonoma, cit., p. 67 ss.
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In particolare, una sentenza della sez. II ha, sul punto, affermato che «la natura, meramente modale,
del congegno elettronico […] fa sì che non possa essere subordinata alla efficienza di tale congegno la
misura custodiale che il giudice ha ritenuto doversi applicare, in ragione della valutazione di merito
sulla pericolosità dell’indagato» 51.
Non è tutto. In tale decisione il Collegio ha precisato ancora che l’idoneità del congegno elettronico è
un accertamento di fatto che deve precedere, e, comunque, per la sua natura servente non può condizionare l’effettività della misura prescelta.
Secondo l’esegesi fatta propria da questa pronuncia della Cassazione, quindi, il giudice non potrà prima
sostituire la misura carceraria e poi attendere l’effettiva presenza del braccialetto elettronico, ma dovrà controllare la disponibilità degli strumenti di controllo a distanza antecedentemente all’adozione della misura.
Dal canto suo, una sentenza della sez. IV 52, risalente allo scorso agosto, ha sostenuto, in una fattispecie analoga, che, nel caso in cui il giudice considerasse adeguata alle concrete esigenze cautelari la misura domiciliare, lo stesso non potrebbe disporre che l’imputato resti in carcere fino a che l’Amministrazione della giustizia non si trovi nella materiale possibilità di applicare un funzionante braccialetto elettronico. Con la conseguenza che, in tale occasione, la Corte ha espressamente disposto, in via immediata, l’applicazione degli arresti domiciliari semplici e la liberazione dell’imputato, non potendosi attendere il reperimento di un apparecchio de quo.
La decisione qui commentata, quindi, si inserisce proprio in tale filone esegetico quando afferma che
«una volta che il giudice ritenga adeguata la misura degli arresti domiciliari a soddisfare le concrete
esigenze cautelari, l’applicazione ed esecuzione effettiva di tale misura non può essere condizionata da
eventuali difficoltà di natura tecnica e/o amministrativa […], trattandosi di presupposti, all’evidenza,
non comparabili tra loro».
Il pensiero della Corte è chiaro: posto che i dispositivi di controllo costituiscono delle mere modalità
esecutive della cautela domiciliare, ove il giudice ritenesse adeguata al caso di specie quest’ultima misura, la concreta indisponibilità del braccialetto non avrebbe alcun effetto, in quanto si tratterebbe di
una semplice difficoltà tecnica, non idonea a incidere sull’adeguatezza della misura principale.
Per tali ordini di ragioni, quindi, il Collegio arriva alla conclusione secondo cui, una volta ritenuta
adeguata «la misura domiciliare secondo i criteri di cui all’art. 275 c.p.p., il detenuto dovrà essere controllato con i mezzi tradizionali se risulti la indisponibilità degli strumenti elettronici».
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Si è appena visto come il contrasto giurisprudenziale in merito alle conseguenze dell’indisponibilità dei
dispositivi di controllo sia particolarmente netto.
Peraltro, la situazione è resa ancora più delicata da un fattore preciso: nella giurisprudenza di legittimità
le pronunce appartenenti ai diversi filoni, pur utilizzando molto spesso le medesime argomentazioni – come
il riferimento al braccialetto elettronico quale mera modalità esecutiva di un’altra misura, oppure come condizione sospensiva della misura carceraria – giungono a soluzioni antitetiche, sembrando, quindi, che, spesso, queste affermazioni, fungano da mere clausole di stile, più che da vere rationes decidendi.
Non è tutto. Questa contrapposizione esegetica pare particolarmente insidiosa anche per un ulteriore motivo legato alla tecnica argomentativa utilizzata: le decisioni, nel proporre la loro soluzione alla
tematica, spesso non argomentano sulla non sostenibilità della tesi opposta, omettendo qualsiasi citazione delle sentenze con loro contrastanti, con la conseguenza che non sono messe in luce le reali ragioni per cui i giudici ritengono non convincenti le opinioni contrarie.
Si comprenderà, quindi, come risulti particolarmente auspicabile un intervento chiarificatore delle Sezioni Unite sulla questione, in modo tale che, finalmente, si ritrovi un equilibrio esegetico da tempo mancante.
In ogni caso, pare opportuno che prevalga il primo indirizzo interpretativo, ovvero quello secondo
cui, nel caso di indisponibilità degli apparecchi di monitoraggio, il soggetto debba rimanere (o essere
tradotto) in carcere 53.
51
Cfr. Cass., sez. II, 23 settembre 2014, n. 50400, cit.
52
Cfr. Cass., sez. IV, 3 luglio 2015, n. 35571, cit.
53
La dottrina è unanime su tali conclusioni, cfr., per tutti, A. Cisterna, Una misura autonoma, cit., p. 70 s.; A. Marandola, Carcere, arresti domiciliari e braccialetto elettronico, cit., p. 1725.
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Difatti, lo stretto collegamento tra pericula libertatis e braccialetto elettronico, desumibile dalla chiara
lettera degli artt. 275-bis e 275, comma 3-bis, fa propendere per l’opinione secondo cui, ove il giudice ritenga necessario, in relazione alla natura e al grado delle concrete esigenze cautelari, disporre il sistema
di controllo a distanza, nel caso di indisponibilità dello stesso, la cautela domiciliare semplice non potrebbe ritenersi adeguata, dovendosi, quindi, disporre l’unica misura in grado di fronteggiare i pericoli
di cui all’art. 274 c.p.p., ovvero la custodia carceraria.
Questa esegesi pare rafforzata dal fatto che, nella lettera dell’art. 275-bis c.p.p., si disciplinano già
esplicitamente le conseguenze di un’eventuale impossibilità di applicare concretamente i dispositivi di
controllo, nel caso in cui l’imputato neghi il consenso all’adozione dei mezzi de qua; dovendo lo stesso,
in tal caso, essere tradotto in carcere. Difatti, pare che il secondo periodo dell’art. 275-bis, comma 1, c.p.p.,
non possa essere letto quale ipotesi di aggravamento delle esigenze cautelari per il caso in cui l’imputato non presti il consenso al braccialetto, tale che il giudice si veda costretto a disporre il carcere 54, ma
costituisca, invece, una disposizione – a sua volta espressione dello stretto collegamento tra braccialetto
e pericula libertatis – con cui il legislatore abbia voluto fugare ogni dubbio sulle conseguenze dell’impossibilità di applicare i dispositivi di controllo, per la ragione “fisiologica” del mancato consenso del
soggetto. Con la conseguenza che, anche nel caso di carenza “patologica” dei dispositivi per un’insufficienza del sistema, pare che gli effetti non potrebbero che essere gli stessi, dovendosi tener conto che il
soggetto, in assenza dei dispositivi di controllo, non avrebbe potuto usufruire di una misura extramuraria.
Peraltro, come si è visto, in giurisprudenza non vi è nemmeno chiarezza con riferimento alle forme
con cui disporre la permanenza in carcere dell’imputato, posto che la Cassazione propende per la necessità del rigetto tout court dell’eventuale istanza di sostituzione nel caso di indisponibilità degli apparecchi 55; mentre la giurisprudenza di merito, onde permettere l’inserimento dell’interessato in una “lista d’attesa”, dispone la sostituzione della misura carceraria con gli arresti domiciliari con l’ausilio elettronico, subordinandone l’esecutività all’effettivo reperimento di un braccialetto 56.
Senza che sia possibile dilungarsi sul punto in questa sede, va osservato che la soluzione di questo
ulteriore quesito sembra dipendere da come si interpreti l’inciso «quando ne abbia accertato la disponibilità da parte della polizia giudiziaria», contenuto nell’art. 275-bis, comma 1, c.p.p.; in origine legato
alla novità degli strumenti de qua nel nostro ordinamento, ma mantenuto – significativamente – anche
dal legislatore del 2013 57. Difatti, è chiaro che, ove lo stesso venisse letto come vero e proprio «presupposto applicativo della misura», allora la soluzione obbligata sarebbe quella di un rigetto dell’istanza di
sostituzione; mentre, al contrario, ove lo si interpretasse quale mera «condizione di esecutività», sarebbe corretta la soluzione proposta dalla giurisprudenza di merito 58.
Peraltro, in particolare ove si aderisse all’esegesi, secondo cui gli arresti domiciliari con braccialetto
elettronico costituirebbero una misura autonoma, sembrerebbe corretto optare per la seconda tesi. In tal
modo, infatti, il giudice potrebbe scegliere direttamente la cautela adeguata ai pericula libertatis, dovendo solo attendersi, per l’effettiva esecuzione della stessa, l’individuazione di un funzionante dispositivo
di controllo.
In ogni caso, questa interpretazione pare essere supportata anche dal fatto che, disponendosi subito
la misura degli arresti domiciliari con l’ausilio elettronico si eviterebbe che il soggetto, una volta individuatosi il braccialetto, si ritrovi a dover riproporre un’ulteriore domanda di sostituzione su cui il giudice debba nuovamente decidere, venendosi così a evitare un’inutile ripetizione di attività processuali.
Infine, un ulteriore argomento a favore di tale interpretazione pare potersi trovare nell’art. 299,
comma 2 c.p.p., che lega la sostituzione della misura unicamente all’idoneità di ciascuna misura caute54
In tal senso, invece, S. Dragone, Le misure coercitive e interdittive, in E. Fortuna-E. Fassone-R. Giustozzi, Manuale pratico del
processo penale, Padova, 2007, p. 462, il quale afferma che «la mancata prestazione del consenso costituisce sintomo di tale pericolosità per cui sono aggravate automaticamente le esigenze cautelari e va disposta obbligatoriamente la misura più gravosa della
custodia in carcere». Non si aderisce a questa autorevole tesi per una ragione precisa: posto che il non accettare le particolari
modalità di controllo costituisce un diritto del soggetto a cui le stesse dovrebbero essere applicate, non pare condivisibile leggere nell’esercizio di un diritto un aggravamento dei pericula libertatis.
55
Cfr. Cass., sez. II, 19 giugno 2015, n. 28115, cit.; Cass., sez. II, 17 dicembre 2014, n. 520, cit.
56
Cfr. Trib. Siena, 17 settembre 2015, cit., p. 4, nota 4.
57
Cfr. sul punto, M. Pittiruti, Le modalità di controllo elettronico negli arresti domiciliari, cit., p. 99.
58
In tema, cfr. M. Daniele, Il palliativo del nuovo art. 275 co. 2 bis c.p.p., cit.
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lare a soddisfare i pericula libertatis e alla proporzionalità rispetto al fatto e alla sanzione, e non a presupposti meramente organizzativi quali la disponibilità dei dispositivi 59.
Si badi: la soluzione di far permanere un soggetto in carcere per carenza di un apparecchio di controllo, seppur maggiormente rispettosa della lettera della legge e delle concrete esigenze cautelari, risulta, in ogni caso, insoddisfacente, posto che, in tal modo, il singolo viene a pagare personalmente una carenza del sistema 60, che, ancora una volta, non riesce a fornire in concreto, ciò che prevede in astratto.
Ciononostante, le argomentazioni sostenute dal secondo orientamento non paiono convincenti, in
quanto fondate su una lettura dei dispositivi quali meri ausili tecnici, che non tiene conto del fatto che,
come si è visto, tramite gli stessi, è possibile fronteggiare delle esigenze cautelari – soprattutto legate al
pericolo di fuga 61 – certamente più elevate rispetto a quelle contrastabili con i normali controlli ex art.
284 c.p.p.
Neppure determinante pare il riferimento, contenuto nella decisione in commento, alla mancata
conversione delle modifiche apportate all’art. 97-bis, comma 3 disp. att. c.p.p. dal d.l. n. 92 del 2014, che
è stata letta dalla Corte quale segnale del fatto che il legislatore non abbia voluto subordinare l’esecuzione di un provvedimento di scarcerazione alla materiale disponibilità di un dispositivo elettronico.
A riguardo, posto che, in ogni caso, la mancata introduzione di una disposizione non pare poter costituire una ragione sufficiente per disapplicare la chiara lettera del dettato normativo vigente, da una
lettura dei lavori preparatori sul punto, non sembra emergere con precisione che il legislatore, nel non
convertire la previsione de qua, abbia perseguito così chiaramente lo scopo suggerito dalla sentenza in
esame 62.
In ogni caso, se è vero che la Corte sembra aver fondato la propria decisione, in ultima analisi,
sull’argomentazione “valoriale” per cui la disponibilità di un ausilio tecnico – seppur specificamente
creato per fronteggiare i pericula libertatis – non potrebbe incidere sull’effettiva possibilità di disporre la
liberazione di un soggetto, pare che la motivazione sul punto sarebbe potuta essere più articolata.
Difatti, la Cassazione – in particolare se avesse optato per l’esegesi secondo cui gli arresti domiciliari
con controllo elettronico costituirebbero una misura autonoma – avrebbe forse potuto esplicitamente
affermare che, ritenendosi adeguata alle esigenze cautelari la misura de qua, ma risultando carente il dispositivo, tra le due misure concretamente disponibili (gli arresti domiciliari “semplici” o la custodia
cautelare in carcere) avrebbe dovuto scegliere – in base al canone del favor libertatis 63 e del «minore sacrificio necessario» 64 – quella meno afflittiva nei confronti del soggetto, ovvero la cautela domiciliare
ordinaria.
Peraltro, tale argomentazione, seppur più seria di un mero riferimento al fatto che i dispositivi in
esame non rientrino nell’adeguatezza della misura prescelta, non sembra avrebbe potuto cogliere nel
segno, posto che il “sacrificio” richiesto al singolo, in questo caso, risulta motivato in base ai concreti pericula libertatis, non fronteggiabili in altro modo 65.
L’uso di un criterio valoriale, fondato sul marcato pregiudizio del singolo, non può far dimenticare
l’aspetto fondamentale della questione: se in presenza del braccialetto la misura effettivamente adeguata al caso di specie può essere quella degli arresti domiciliari con il dispositivo elettronico, risultando
sproporzionate sia la cautela domiciliare “semplice”, sia la custodia cautelare in carcere, una volta accertata l’indisponibilità del dispositivo, la cautela di cui all’art. 284 c.p.p. rimane inadeguata. L’unica
misura adeguata è quella carceraria, che, quindi espande – seppur temporaneamente – il suo ambito di
applicazione.
59
Così, M. Daniele, Il palliativo del nuovo art. 275 co. 2 bis c.p.p., cit.
60
Cfr. A. Marandola, Carcere, arresti domiciliari e braccialetto elettronico, cit., 1725.
61
Sul punto, cfr. Trib. Milano, sez. I, 8 maggio 2001, in Foro ambr., 2001, p. 365.
62
Cfr., in particolare, la dichiarazione di voto in Assemblea dell’On. Vittorio Ferraresi, proponente dell’emendamento che
ha portato all’eliminazione della norma de qua in Commissione Giustizia della Camera, reperibile in www.camera.it, tra i lavori
preparatori del Disegno di legge C. 2496, resoconto stenografico della seduta in Assemblea del 23 luglio 2014, p. 70 ss.
63
In argomento, per tutti, M. Chiavario, voce Favor libertatis, in Enc. dir., vol. XVII, Milano, 1968, p. 1 ss; G. Lozzi, Favor rei e
processo penale, Milano, 1968, passim; G. Vassalli, I principi generali del diritto nell’esperienza penalistica, in Riv. it. dir. proc. pen., 1991,
p. 707 s.
64
Cfr. ex multis Corte cost., sent. 21 luglio 2010, n. 265, in www.cortecostituzionale.it; Corte cost., sent. 7 luglio 2005, n. 299, ivi.
65
Sul punto cfr. A. Cisterna, Una figura autonoma, cit., p. 71.
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Dibattiti tra norme e prassi
Debates: Law and Praxis
DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | LE DICHIARAZIONI DELLE VITTIME VULNERABILI NEI PROCEDIMENTI PENALI
Processo penale e giustizia n. 1 | 2016
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MARIA MONTELEONE
Procuratrice aggiunta presso la Procura della Repubblica di Roma, Coordinatrice del “Gruppo specializzato di
magistrati per i delitti contro la libertà sessuale, la famiglia ed i soggetti vulnerabili”
VERA CUZZOCREA
Psicologa giuridica
Le dichiarazioni delle vittime vulnerabili nei procedimenti
penali
The collection of statements of vulnerable victims in criminal
proceedings
L’assunzione delle dichiarazioni delle c.d. vittime vulnerabili nell’ambito dei procedimenti penali, soprattutto in riferimento ad alcune tipologie di reato (e di vittime), è stata caratterizzata negli ultimi vent’anni da un complessivo
miglioramento del sistema di protezione dei soggetti interessati, anche per effetto delle sollecitazioni sovranazionali e del conseguente mutamento del quadro normativo nazionale. Tali evoluzioni hanno non solo prodotto un rafforzamento delle misure di tutela dei diritti delle vittime attraverso l’incontro tra diversi saperi (giuridico, investigativo e psicologico), funzioni e competenze professionali, ma stanno anche modificando gli scenari operativi (ambiti
e procedure di intervento) sin dalla acquisizione della notizia di reato.
The taking of statements from c.d. ’vulnerable victims’ in criminal cases, particularly in relation to certain types of
offenses (and victims), has been characterized in recent decades by an overall improvement of the protection system, also due to the stress and supranational shifts in the national legal. These developments not only produced a
strengthening of measures to protect the rights of the victims, but are also changing, through the meeting of different knowledge (legal, investigative and psychological).
LA VITTIMA NELL’IMPATTO CON IL SISTEMA GIUDIZIARIO: VULNERABILITÀ E RISCHI DI VITTIMIZZAZIONE
SECONDARIA
Si potrebbe analizzare la nozione di “vittima” attraverso differenti prospettive di osservazione (storica,
sociologica, giuridica, psicologica, etc.) e in considerazione di diversi ambiti di intervento (sociale, scolastico, giudiziario) che implicano o meno un’azione penale in risposta al danno (relazionale, emotivo,
economico, fisico e/o sessuale) subìto. In questa sede, l’interesse è circoscritto ad alcune riflessioni sulla
posizione che la vittima può rivestire nell’ambito di un procedimento penale in qualità di persona offesa,
e alla analisi delle procedure che devono essere osservate per la raccolta delle sue dichiarazioni, in ragione delle condizioni di particolare vulnerabilità che possono caratterizzare tale soggetto.
Negli ultimi anni si è assistito, a livello internazionale, ad un impegno normativo, istituzionale e operativo orientato ad «una crescente e sempre più specifica attenzione alle vittime dei reati, alla necessità di
definirne le caratteristiche e i diritti, sia per promuovere attività e politiche di prevenzione dei rischi di
vittimizzazione, sia, ed in particolare, per individuare e diffondere regole minime e prassi operative per la
protezione e l’assistenza […] anche in rapporto alle funzioni e alle procedure della giustizia penale» 1. Da
1
G. De Leo, Vulnerabilità e risorse nell’incontro tra le vittime del crimine ed il mondo della giustizia, con particolare riguardo alle vit-
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una parte, il sapere psicologico ha approfondito le conoscenze sulle conseguenze (psicologiche, economiche e sociali) prodotte da quanto vissuto; dall’altra, il legislatore ha rafforzato il sistema degli strumenti di protezione proprio in considerazione del danno prodotto dal reato in termini di violazione dei
diritti individuali 2.
Alcuni studi criminologici hanno peraltro consentito di evidenziare le differenze tra i danni causati
dall’offesa subita e quelli derivanti invece dalla risposta ricevuta dalle istituzioni 3. Questi ultimi – correlati all’impatto «con le regole e la modalità di funzionamento tipiche della giustizia penale, (rendono)
possibile l’emergere di nuovi rischi di amplificazione e nuclearizzazione della vulnerabilità della vittima» 4. Le ricerche che si sono concentrate su questo “terzo livello di vulnerabilità” 5 sono state particolarmente utili per guidare gli interventi da intraprendere orientando le procedure necessarie al fine di
migliorare il sistema di risposte fornite alla vittima una volta “entrata” nel sistema giustizia, alleviandone i disagi e migliorando, al contempo, l’efficacia (in termini di attendibilità) del suo contributo conoscitivo.
In un noto studio degli anni settanta sulla “vittimizzazione secondaria” 6 conseguente ad una violenza sessuale 7, vengono evidenziati alcuni aspetti che inciderebbero fortemente in tal senso, e in particolare: a. la durata dell’azione penale (con riguardo al tempo che trascorre tra la denuncia, la fase delle
indagini preliminari e l’eventuale processo); b. la pubblicità delle udienze (la possibilità cioè per la vittima di trovarsi a dover dichiarare le proprie generalità, descrivere i dettagli dell’accaduto e riferire sulla sua vita privata in presenza di estranei 8; c. il coinvolgimento delle vittime durante il procedimento/
time minorenni, in A.M. Giannini-J.M. Levin-B. Nardi (a cura di), L’intervento per le vittime del crimine, Roma, 2006, p. 21; sia consentito il rinvio a V. Cuzzocrea, L’ascolto protetto delle persone minorenni prima e dopo la ratifica della Convenzione di Lanzarote, in
questa Rivista, 2013, 2, p. 111 s.
2
Si è espressa in tal senso la Direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012 che (nel sostituire la decisione quadro 2001/220/GAI) istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e
che al punto n. 9 delle considerazioni preliminari recita: «Un reato è non solo un torto alla società, ma anche una violazione dei
diritti individuali delle vittime. Come tali, le vittime di reato dovrebbero essere riconosciute e trattate in maniera rispettosa, sensibile e professionale, senza discriminazioni di sorta fondate su motivi quali razza, colore della pelle, origine etnica o sociale,
caratteristiche genetiche, lingua, religione o convinzioni personali, opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, appartenenza a
una minoranza nazionale, patrimonio, nascita, disabilità, età, genere, espressione di genere, identità di genere, orientamento
sessuale, status in materia di soggiorno o salute. In tutti i contatti con un’autorità competente operante nell’ambito di un procedimento penale e con qualsiasi servizio che entri in contatto con le vittime, […] Le vittime di reato dovrebbero essere protette
dalla vittimizzazione secondaria e ripetuta, dall’intimidazione e dalle ritorsioni, dovrebbero ricevere adeguata assistenza per
facilitarne il recupero e dovrebbe essere garantito loro un adeguato accesso alla giustizia».
3
J. Goodey, Victims and Victimology, Research, Policy and Practice, Harrow, 2005; S. Walklate, Handbook on Victimis and Victimology, Cullompton, Devon, 2007.
4
Si ricorda a tal proposito il contributo di G. De Leo, Vulnerabilità e risorse nell’incontro tra le vittime del crimine, cit., p. 21 ss.
che, nell’affrontare il problema delle vittime, sollecita a considerare: «tre livelli basilari di vulnerabilità della vittima, per come è
possibile rilevarli e analizzarli separatamente e soprattutto per come interagiscono e si combinano fra loro: a. – la vulnerabilità
riscontrabile prima che il reato si verifichi, ossia come rischio differenziale di vittimizzazione, in relazione ai fattori come età,
sesso, marginalità, condizioni psicologiche, familiari, economiche, sociali, etc. b. – la vulnerabilità come conseguenza di un reato, ossia derivante dall’impatto di uno specifico reato (contro la persona, la proprietà, ecc.) sulle specifiche caratteristiche di una
persona, in una specifica situazione. c. – la vulnerabilità emergente nell’impatto tra una vittima di reato (dove già la vulnerabilità a. – interagisce e “si moltiplica” con la vulnerabilità b. –) con le regole e la modalità di funzionamento tipiche della giustizia
penale, rendendo possibile l’emergere di nuovi rischi di amplificazione e nuclearizzazione della vulnerabilità della vittima».
5
Cfr. nota precedente.
6
Per “vittimizzazione secondaria” si intende una condizione di sofferenza psicologica vissuta dalla vittima di un reato durante l’iter giudiziario, non derivante direttamente dall’offesa subita bensì dalla risposta formale, conseguente al reato, agita delle istituzioni (quali ad esempio procure, tribunali, uffici di polizia e servizi territoriali). Per un approfondimento in tal senso si
veda: G. Scardaccione, Autori e vittime di violenza sessuale, Roma, 1992; C. Calabrese-M.C. Biscione, La vittimizzazione secondaria:
un’indagine esplorativa sugli interventi istituzionali a seguito di una segnalazione di abuso, in Maltrattamento e abuso dell’infanzia, Milano, 2003.
7
L.L. Holmstrom-A.W. Burgess, Rape. The victim and the criminal justice system, International Journal of Criminology and Penology, 1975, 3, p. 101 ss. Per un approfondimento si veda: U. Gatti, Il contributo della criminologia allo studio delle vittime, A.G.
Giannini-B. Nardi (a cura di), Le vittime del crimine. Nuove prospettive di ricerca e di intervento, Torino, 2009.
8
Nella Direttiva 2012/29/UE il punto n. 54 delle considerazioni preliminari sollecita a: «Proteggere la vita privata della vittima può essere un mezzo importante per evitare la vittimizzazione secondaria e ripetuta, l’intimidazione e le ritorsioni, e a tal
fine è possibile avvalersi di una serie di provvedimenti fra cui, ad esempio, la non divulgazione, o la divulgazione limitata, di
informazioni riguardanti la sua identità e il luogo in cui si trova. Tale protezione è particolarmente importante in caso di vittime
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processo ai fini dell’accertamento del reato, della valutazione della sua credibilità e della raccolta di fonti
di prova. Ove ritenuto necessario, investigatori e magistrati possono anche indagare sull’eventuale consenso della vittima, sulla sua reputazione, sul suo stile di vita, sul suo carattere, etc. talvolta in modo
anche “invasivo” e non tutelante, così da esporre la stessa vittima a ulteriori rischi di vittimizzazione 9.
Per tali ragioni, soprattutto in riferimento ai reati di natura sessuale, c’è anche chi sostiene che questo
tipo di offesa comporti una “quadrupla vittimizzazione” in quanto alla violenza sessuale seguirebbero
altre forme di aggressione psicologica da parte delle forze dell’ordine, del sistema giudiziario e dell’apparato socio-sanitario 10.
Sulla scia di quanto descritto si è sviluppato un ampio filone di ricerche, volte ad indagare il ruolo
svolto dalla vittima nell’ambito del processo penale e ad analizzare in dettaglio le sue esigenze, le sue
aspettative, le sue opinioni. In particolare, l’attenzione si è concentrata sui processi di vittimizzazione
che interessano alcune categorie di persone – minorenni, anziani e donne – che per una serie di caratteristiche individuali (fisiche, psicologiche, culturali o sociali) e/o situazionali (tipologia di offesa subita,
durata e livello di intensità della vittimizzazione, etc.) risultano in particolar modo vulnerabili 11 e rispetto alle quali si ritiene che le conseguenze del reato si possano manifestare in misura maggiore rispetto
ad altri soggetti 12.
Ad esempio, riguardo alle vittime minorenni, parallelamente ad un’evoluzione storica e scientifica
delle conoscenze sul fenomeno del c.d. child abuse – dall’abuso fisico a definizioni più allargate di maltrattamento all’infanzia (che comprendono anche l’abuso sessuale, la patologia delle cure e l’abuso psicologico) 13 – si è assistito, negli anni, anche ad una maggiore attenzione ai bisogni evolutivi e all’indiminorenni e include la non divulgazione dei nomi […]». La stessa direttiva, all’art. 21 sul “Diritto alla protezione della vita privata” sollecita gli Stati membri affinché «1. […] possano adottare, nell’ambito del procedimento penale, misure atte a proteggere
la vita privata, comprese le caratteristiche personali della vittima rilevate nella valutazione individuale di cui all’articolo 22, e
l’immagine della vittima e dei suoi familiari. Gli Stati membri provvedono altresì affinché le autorità competenti possano adottare tutte le misure legali intese ad impedire la diffusione pubblica di qualsiasi informazione che permetta l’identificazione di
una vittima minorenne. 2. Per proteggere la vita privata, l’integrità personale e i dati personali della vittima, gli Stati membri,
nel rispetto della libertà d’espressione e di informazione e della libertà e del pluralismo dei media, incoraggiano i media ad
adottare misure di autoregolamentazione».
9
Interviene in tal senso la Direttiva 2012/29/UE che al principio n. 53 sottolinea l’opportunità di: «limitare il rischio di vittimizzazione secondaria e ripetuta, di intimidazione e di ritorsioni – da parte dell’autore del reato o a seguito della partecipazione al procedimento penale – svolgendo il procedimento in un modo coordinato e rispettoso, che consenta alle vittime di stabilire un clima di fiducia con le autorità. È opportuno che l’interazione con le autorità competenti avvenga nel modo più agevole possibile ma che si limiti al tempo stesso il numero di contatti non necessari fra queste e la vittima, ricorrendo ad esempio a
registrazioni video delle audizioni e consentendone l’uso nei procedimenti giudiziari. È opportuno che gli operatori della giustizia abbiano a disposizione una gamma quanto più varia possibile di misure per evitare sofferenza alle vittime durante il procedimento giudiziario […]. Inoltre, gli Stati membri dovrebbero, nella misura del possibile, organizzare il procedimento penale
in modo da evitare i contatti tra la vittima e i suoi familiari e l’autore del reato, ad esempio convocando la vittima e l’autore del
reato alle udienze in orari diversi».
10
A. Mills, One Hundred Years of Fear. Rape and the Medical Profession, Rafter-Sanko, Judge, Lauyer, Victim, Thief. Women, Gender
Roles, and Criminal Justice, Boston (Mass.), 1982.
11
Ad oggi, la considerazione di vulnerabilità è estesa anche ad altre tipologie di persone e situazioni, come espresso al punto n.
38 della Direttiva 2012/29/UE: «Alle persone particolarmente vulnerabili o in situazioni che le espongono particolarmente a un
rischio elevato di danno, quali le persone vittime di violenze reiterate nelle relazioni strette, le vittime della violenza di genere o le
persone vittime di altre forme di reato in uno Stato membro di cui non hanno la cittadinanza o in cui non risiedono dovrebbero essere fornite assistenza specialistica e protezione giuridica […]»Tale estensione è stata recepita anche a livello nazionale, come riscontrabile, dapprima, nel d.lgs. 4 marzo 2014, n. 24 che recita: «Art. 1. Principi generali. Nell’attuazione delle disposizioni del presente decreto legislativo, si tiene conto, sulla base di una valutazione individuale della vittima, della specifica situazione delle persone vulnerabili quali i minori, i minori non accompagnati, gli anziani, i disabili, le donne, in particolare se in stato di gravidanza, i
genitori singoli con figli minori, le persone con disturbi psichici, le persone che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di
violenza psicologica, fisica, sessuale o di genere» e, recentemente, come espressamente previsto nell’art. 90-quater c.p.p, così come
introdotto dal d.lgs. 15 dicembre 2015, n. 212 che definisce normativamente la “condizione di particolare vulnerabilità”.
12
U. Gatti, Il contributo della criminologia allo studio delle vittime, cit., pp. 22-25 ss.
13
Si ricordano i primi studi e riferimenti della letteratura medico-legale di Tardieu del 1960 e soprattutto di Kempe sulla c.d.
“sindrome del bambino maltrattato” (C.H. Kempe-F.N. Silverman-B.F. Steele-W. Droegmueller-H.K. Silver, The Battered Child
Syndrome, Journal of the American Medical Association, 1962, 181, pp. 17-24) fino alle più recenti teorizzazioni sull’abuso sessuale e
psicologico che hanno orientato la considerazioni circa l’opportunità di un’estensione dell’espressione in child abuse and neglect
(come sollecitata dalla stesso Kempe nel 1980) e di considerare che non si possa più parlare di singole tipologie di abuso bensì di
forme miste come evidenziato in D.M. Fergusson-P.E. Mullen, Childhood Sexual Abuse: An Evidence Based Perspective, USA, UK,
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viduazione di interventi in grado di ridurre i possibili rischi – sul piano del disagio emotivo e sociale –
derivanti dall’impatto con il sistema giudiziario.
Tale esigenza è stata evidenziata dal sapere psicologico 14 ed è riconosciuta anche a livello normativo. Si pensi ai diversi programmi di protezione delle vittime attivati in molti Paesi e sollecitati a livello
sovranazionale attraverso Convenzioni, Raccomandazioni e Direttive 15. Significativa in tal senso la Decisione-quadro 15 marzo 2001 (2001/220/GAI) del Consiglio dell’Unione Europea sulla Posizione della
vittima nel procedimento penale che ha rappresentato un importante strumento internazionale di complessivo e articolato rafforzamento dello stato di protezione delle vittime dei reati, a cui ha fatto seguito
l’importante Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012 (2012/29/UE), recante Norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato.
L’obiettivo perseguito dal legislatore europeo con la Decisione-quadro del 2001è stato quello di realizzare un sistema di «misure di assistenza alle vittime del reato prima, durante e dopo il procedimento
penale, individuando uno standard minimo di diritti che ogni Stato deve garantire alle vittime dei reati
[…] al fine di offrire alle vittime della criminalità un ruolo effettivo e appropriato rispettoso della loro dignità personale (art. 2, comma 1) indipendentemente dallo Stato in cui il reato in cui il reato è commesso. Più specificamente, la decisione-quadro, si propone di realizzare tre obiettivi fondamentali: 1) potenziare le garanzie della vittima fin dal primissimo stadio in cui avviene il contatto tra essa e le istituzioni, assicurandole un’informazione il più possibile tempestiva, completa e capillare dei diritti e delle
opportunità che le spettano sia in sede giudiziaria sia in sede amministrativa (art. 4); 2) ampliare la
gamma dei diritti e delle facoltà di cui la vittima può usufruire all’interno del processo penale, così da
assicurarle una più attiva partecipazione alla vicenda giudiziaria che la riguarda, soprattutto sotto il
profilo del contributo probatorio che essa può dare all’accertamento dei fatti e all’individuazione dei
colpevoli (art. 3). A tal fine […] le attribuisce un’adeguata protezione per evitare di esporsi ai rischi inerenti alla sua funzione di testimone in pubblica udienza (art. 8)[…];3) ricercare soluzioni per la composizione del conflitto con l’autore del reato, promuovendo la mediazione tra la vittima e il reo riguardo
ai reati che ogni Stato membro ritiene idonei per questo tipo di negoziazione (art.10)» 16.
La citata Direttiva 2012/29/UE ha ampliato la portata del sistema delle protezioni già previste dalla
Decisione – quadro del 2001, definendo un nuovo panorama che regola il riconoscimento e il sostegno
delle vittime e il loro accesso alla giustizia. La Direttiva delinea, infatti, i principi cui devono essere ispirati i servizi offerti alle vittime: dalla valutazione individuale del bisogno di protezione, necessaria per
la definizione di un trattamento mirato, alla complessiva articolazione di misure di protezione globale
durante tutte le fasi del procedimento penale 17.
India, 1999 (edizione italiana: E. Caffo (a cura di), Abusi sessuali sui minori. Un approccio basato sulle evidenze scientifiche, Torino,
2004). Si veda in tal senso per un approfondimento il contributo di F. Petruccelli, V. Cuzzocrea, Strumenti per capire, valutare, intervenire nei casi di abuso, P. Patrizi (a cura di), Manuale di Psicologia Giuridica Minorile, Roma, 2012. E. Caffo-G.B. Camerini-G. Florit, Criteri di valutazione nell’abuso all’infanzia. Elementi clinici e forensi, seconda edizione, Milano, 2004; D. Déttore-C. Fuligni,
L’abuso sessuale sui minori, seconda edizione, Milano, 2008.
14
Si veda per un approfondimento G. Mazzoni, E. Rotriquenz (a cura di), La testimonianza nei casi di abuso sessuale sui minori,
Milano, 2012.
15
Si fa riferimento, ad esempio alla Convenzione europea relativa al risarcimento delle vittime di reati di violenza, elaborata
dal Consiglio d’Europa a Strasburgo il 24 novembre 1983 che obbliga le Parti a prevedere nelle loro legislazioni o pratiche amministrative, un sistema di compensazione per risarcire, con fondi pubblici, le vittime di infrazioni violente e dolose che hanno causato gravi lesioni
fisiche o la morte; il documento dal titolo “Verso un’unione di libertà, sicurezza e giustizia” elaborato dal Consiglio europeo di
Tampere nell’ottobre del 1999 che rafforza quanto precedentemente espresso sul risarcimento del danno subito dalle vittime di
un reato violento e che, al punto 32, fa riferimento al fatto che «[…] dovrebbero essere elaborate norme minime sulla tutela delle vittime
della criminalità, in particolare sull’accesso delle vittime alla giustizia e sui loro diritti al risarcimento dei danni, comprese le spese legali»
sollecitando inoltre la creazione di «[…] programmi nazionali di finanziamento delle iniziative, sia statali che non governative, per
l’assistenza alle vittime e la loro tutela»; le diverse Raccomandazioni del Comitato dei Ministri agli Stati membri del Consiglio
d’Europa tra cui: la Raccomandazione n. R (85) 11 sulla posizione delle vittime nel quadro del diritto penale e della procedura
penale; Raccomandazione n. R (87) 21 sull’assistenza alle vittime e la prevenzione della vittimizzazione, Raccomandazione n. R
(90) 2 sulle misure sociali concernenti la violenza contro la famiglia; Raccomandazione n. R (91) 11 sullo sfruttamento sessuale,
la pornografia, la prostituzione, il commercio di bambini e di giovani adulti; Raccomandazione n. R (93) 2 sugli aspetti medicosociali del maltrattamento dei bambini; Raccomandazione n. R (2000) 11 sulla lotta contro la tratta degli esseri umani al fin di
sfruttamento sessuale e Raccomandazione Rec (2001) 16 sulla difesa dei bambini dallo sfruttamento sessuale.
16
G. Santacroce, Prefazione, in A.M. Giannini-B. Nardi (a cura di), Le vittime del crimine, cit., p. 27 ss.
17
In argomento, si veda quanto espresso all’art. 8 (Diritto di accesso ai servizi di assistenza alle vittime) della Direttiva: «1.
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LA VITTIMA COME TESTIMONE VULNERABILE: RISCHI E CRITICITÀ
La figura della “persona informata sui fatti” 18 riveste indiscutibilmente un ruolo centrale nello svolgimento delle indagini e spesso ne determina l’esito soprattutto nei procedimenti relativi a reati nei quali
tale figura coincide con quella della vittima (come accade nei reati di abuso e sfruttamento sessuale, di
maltrattamento infantile e violenza intrafamiliare).
In tutti questi casi l’impalcatura investigativa (fonti di prova) delle indagini e, successivamente, il
perno della verità processuale (prove), sono costituiti, talvolta quasi esclusivamente, dalle dichiarazioni
fornite dalla vittima/testimone 19, di modo che grande rilevanza assume la questione della attendibilità
di tali dichiarazioni: «la testimonianza della persona offesa costituisce una vera e propria fonte di prova
sulla quale può essere anche esclusivamente fondata l’affermazione di colpevolezza dell’imputato, a
condizione che sia intrinsecamente attendibile e che di ciò si dia adeguata motivazione» 20.
Particolarmente significative, soprattutto tra gli studi condotti sul tema della testimonianza, le ricerche prodotte dalle scienze psicologiche sulle capacità cognitive (percezione, attenzione, pensiero, linguaggio e memoria) ovvero sui processi che permettono alle persone di vedere, di prestare attenzione,
di capire, di parlare, di interpretare le situazioni, di decidere, di pianificare e, infine, di ricordare 21.
Con specifico riguardo alla testimonianza delle persone in età evolutiva, si è registrato nel corso degli ultimi decenni una progressiva attenzione al problema della attendibilità della testimonianza dei
bambini, come evidenziato a livello scientifico dai numerosi contributi presenti in letteratura (che hanno consentito di evidenziarne caratteristiche specifiche e variabili in grado di influenzarla), dagli orientamenti della giurisprudenza (che hanno indirizzato le prassi giudiziarie) e dalle linee guida prodotte a
livello internazionale, che hanno tracciato i binari procedurali volti a rafforzare il grado di attendibilità
delle dichiarazioni rese da tali particolari soggetti.
In sintesi, le ricerche prodotte hanno sottolineato come l’attendibilità dipenda sia dalle caratteristiche personali e cognitive della persona 22 sia da fatto riesterni, relazionali e comunicativi, relativi al conGli Stati membri provvedono a che la vittima, in funzione delle sue esigenze, abbia accesso a specifici servizi di assistenza riservati, gratuiti e operanti nell’interesse della vittima, prima, durante e per un congruo periodo di tempo dopo il procedimento
penale. I familiari hanno accesso ai servizi di assistenza alle vittime in conformità delle loro esigenze e dell’entità del danno subito a seguito del reato commesso nei confronti della vittima. 2. Gli Stati membri agevolano l’indirizzamento delle vittime da
parte dell’autorità competente che ha ricevuto la denuncia e delle altre entità pertinenti verso gli specifici servizi di assistenza. 3.
Gli Stati membri adottano misure per istituire servizi di assistenza specialistica gratuiti e riservati in aggiunta a, o come parte
integrante di, servizi generali di assistenza alle vittime, o per consentire alle organizzazioni di assistenza alle vittime di avvalersi di entità specializzate già in attività che forniscono siffatta assistenza specialistica. In funzione delle sue esigenze specifiche, la
vittima ha accesso a siffatti servizi e i familiari vi hanno accesso in funzione delle loro esigenze specifiche e dell’entità del danno
subito a seguito del reato commesso nei confronti della vittima […]» e all’art. 9(Assistenza prestata dai servizi di assistenza alle
vittime): «1. I servizi di assistenza alle vittime, di cui all’art. 8, paragrafo 1, forniscono almeno: a) informazioni, consigli e assistenza in materia di diritti delle vittime, fra cui le possibilità di accesso ai sistemi nazionali di risarcimento delle vittime di reato,
e in relazione al loro ruolo nel procedimento penale, compresa la preparazione in vista della partecipazione al processo; b) informazioni su eventuali pertinenti servizi specialistici di assistenza in attività o il rinvio diretto a tali servizi; c) sostegno emotivo
e, ove disponibile, psicologico; d) consigli relativi ad aspetti finanziari e pratici derivanti dal reato; e) […] consigli relativi al rischio e alla prevenzione di vittimizzazione secondaria e ripetuta, di intimidazione e di ritorsioni […]».
18
Tale è la denominazione che assume il teste prima del giudizio e cioè nella fase delle indagini preliminari.
19
«Nei reati di violenza sessuale, la dichiarazione testimoniale della parte offesa è, se non sempre in un’altissima percentuale
dei casi, decisiva, per la tipologia della condotta criminosa, sia sotto il profilo della sua consumazione che generalmente non avviene in presenza di terzi, sia sotto il profilo dell’esistenza o meno del consenso all’atto sessuale»: Cass., sez III, 5 giugno 2013, n. 32798.
20
Cass., sez. III, 3 maggio 2011,n. 28913.
21
L. De Cataldo Neuburger, Psicologia della testimonianza e prova testimoniale, Milano, 1988; G. Mazzoni-E. Rotriquenz, La testimonianza, cit.; G.Mazzoni-E. Rotriquenz, La psicologia della testimonianza, S. Ciappi-S. Pezzuolo, Psicologia giuridica. La teoria, le
tecniche, la valutazione, Firenze, 2014; U. Fornari, Trattato di psichiatria forense, Milano, 2010; G. Gulotta e coll., Elementi di psicologia
giuridica e di diritto psicologico, Milano, 2000. Per un approfondimento si veda anche: A. Kapardis, Psychology and law. A critical
introduction, 2014, Cambridge.
22
M. Bruck-S.J. Ceci, The suggestibility of children’s memory, in Annual Review of Psychology, 1999, 50, pp. 419-439; M. Bruck-L.
Melnyk, Individual differences in children’s suggestibility: A review and synthesis. AppliedCognitivePsychology,2004, 18, pp. 947-996;
C.A. Carter-B.L. Bottoms-M. Levine, Linguistic and socio emotional influence son the accuracy of children’s reports, Lawand Human
Behavior, 1996, 20,pp. 335-358; S.J. Ceci-D.F. Ross-M.P. Toglia, Suggestibility of children’s memory: Psycho legal implications, JournalofExperimentalPsychology:General,1987, 116,p. 38 ss.; G. De Leo-M. Scali-L. Caso, La Testimonianza. Problemi, metodi e strumenti nella
valutazione dei testimoni, Bologna, 2005; Goodman, Children’s eye witness memory: A modern history and contemporary commentary, in
Journal of Social Issues, 2006, 62, p. 811 ss.
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testo e alla situazione in cui vengono raccolte le dichiarazioni. Le evidenze scientifiche hanno consentito di rilevare i fattori in grado di influenzare la capacità di rievocazione, la suggestionabilità 23 e la distorsione del ricordo e di comprendere come questi elementi possano essere legati all’età (della persona
da ascoltare), alla tipologia di domande poste durante il colloquio e al tempo trascorso tra il presunto
fatto e la testimonianza.
Alcuni studi, neltentativodiindividuareloscartotralecompetenzetestimonialiproprie della persona in
età evolutiva e le influenze legate al metodo di raccolta delle dichiarazioni, hanno rilevato nella suggestionabilità una fonte cruciale di distorsione dell’attendibilità della testimonianza 24.
Lericerchechehannoconsideratol’andamentodellasuggestionabilitànell’arcodivitahannorilevatoche
essa è maggiore nei bambini; che è molto variabile in funzione dell’età e delle competenze cognitive,
sociali e comunicative possedute; e che tende a diminuire nel tempo.
Un altro aspetto osservato è il fenomeno della distorsione del resoconto di un evento vissuto all’aumentare del numero di volte che il medesimo è ripetuto. È stato infatti dimostrato sperimentalmente sia
nel testimone adulto e, particolarmente, nella persona minorenne che l’effetto della ripetizione sulla
qualità e accuratezza della narrazione sia molto significativo. Tali le ragioni che hanno indotto alcune
società scientifiche a raccogliere queste evidenze per trasformarle in linee guida, utili per orientare il lavoro degli esperti incaricati di ascoltare o effettuare delle valutazioni (ad esempio sull’idoneità a testimoniare) delle vittime minorenni 25.
Le dichiarazioni maggiormente attendibili sono quelle raccolte per la prima volta in un tempo ravvicinato al fatto, sempre che siano state acquisite con metodologie appropriate. Non stupisce pertanto che, sul
ruolo della ripetizione del ricordo, in una sentenza si legga che: «le primissime dichiarazioni spontanee sono quelle maggiormente attendibili proprio perché non inquinate da interventi esterni che possono alterare
la memoria dell’evento. L’indagine sulla genesi della testimonianza è sempre opportuna per escludere la
presenza di falsi ricordi» 26; ed altresì, che: «risulta sperimentalmente dimostrato che un bambino, quando è
incoraggiato e sollecitato a raccontare un episodio da persone che esercitano una certa influenza su di lui
(ogni adulto è, per un bambino, un soggetto autorevole) tende a fornire la risposta compiacente che
l’interrogante si attende la quale dipende, in buona parte, dalla formulazione della domanda), e che lo stesso, addirittura, se reiteramente sollecitato con inappropriati metodi di intervista, può introitare le informazioni che hanno condizionato le sue risposte sino al radicarsi in lui di falsi ricordi autobiografici, i quali si
potranno innestare nella memoria come ricordi di fatti realmente vissuti, ingannando l’interlocutore» 27.
Si comprendono, pertanto, le ragioni per le quali – in considerazione delle problematiche connesse
23
La suggestionabilità può essere definita come il fenomeno per cui le persone giungono ad accettare e successivamente ad
incorporare informazioni post evento all’interno del loro sistema menestico (G.H. Gudjonsson, Suggestibility, intelligence, memory
recall and personality: an experimental study, British Journal of Psychiatry, 1983, 142, p. 35 ss.) e considerata come variabile di tratto
individuale, come predisposizione della persona o vulnerabilità alle influenze suggestive.
24
L. Caso-F. Soardi-F. Paccanelli, La suggestionabilità interrogativa nei bambini: una ricerca sperimentale sull’influenza dell’età e dell’autorevolezza dell’intervistatore, in Giornale Italiano di Psicologia, 2013,40, p. 313 ss. L’analisi rileva che l’autorevolezza dell’intervistatore influisce in modo debole sulla suggestionabilità del minore, mentre l’età mostra avere influenza sulla tendenza a cedere
alle domande suggestive e sul punteggio generale della suggestionabilità.
25
In argomento, si vedano le Linee Guida Nazionali del 2010: «2.25 Il ricordo di ogni persona, adulto o bambino, è suscettibile
di modifiche dovute a suggerimenti. Alcuni individui sono più suscettibili di altri all’influenza di suggerimenti; ciò è definito
suggestionabilità. 2.26 Il livello di suggestionabilità nelle fasi dello sviluppo è inversamente proporzionale all’età. La suggestionabilità non rende di per sé il bambino incapace di rendere testimonianza, costituendo solo un fattore di rischio. Pur in presenza
di suggestionabilità, se le domande sono poste correttamente il bambino può fornire risposte coerenti ai suoi contenuti di memoria. 2.27 La vulnerabilità alle domande suggestive aumenta col diminuire dell’età del testimone. Secondo alcune ricerche a 4
anni le domande suggestive inducono risposte errate in percentuale pressoché doppia rispetto a 10 anni e pressoché tripla rispetto all’adulto. 2.28 È frequente che l’adulto significativo intervenga per aiutare il bambino a selezionare certi ricordi ed a organizzarli. Questa influenza però non solo favorisce l’organizzazione e la coesione dei ricordi ma può talvolta modificarli o deformarli. […] 2.31 Molteplici fattori sono in grado di modulare la possibilità di un bambino di riferire adeguatamente circa fatti
di cui è stato testimone o protagonista, fra cui i più importanti sono: a) l’abilità dell’intervistatore nell’ottenere informazioni; b)
l’abilità del bambino non tanto (o solo) nel ricordare, quanto nel saper esprimere ciò che ricorda. Svolge ruolo importante anche
l’assetto cognitivo del minore, con particolare riguardo a: c) livello intellettivo; e) capacità attentive; f) capacità di giudizio morale (es. distinguere tra bene e male, tra bugia e verità); Particolare attenzione dovrà essere prestata poi in caso di veri e propri disturbi mentali dell’infanzia o dell’adolescenza» (AA.VV., L’ascolto del minore testimone. Linee Guida Nazionali, Roma, 2010, p. 5 ss.).
26
Cass., sez. III, 8 marzo 2007, n. 127.
27
S. Codognotto-T. Magro, La testimonianza del minore. Strumenti e protocolli operativi, Santarcangelo di Romagna, 2012, p. 8.
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soprattutto al ruolo di testimone che la vittima riveste nel processo penale 28 – nel panorama normativo
internazionale si ponga sempre più l’accento sulla vulnerabilità di alcune categorie di soggetti, e, quindi,
sulla necessità di una loro specifica “protezione”: in tutte le fasi del procedimento occorre ricercare un
punto di equilibrio tra la necessità derivante dal dovere di accertamento dei fatti, la tutela dell’integrità
psicofisica del dichiarante ed il rispetto delle garanzie dell’imputato 29.
È utile ricordare come in una sentenza della Corte di Giustizia del 2005 30 – nota come la c.d. “sentenza Pupino” – sia stata significativamente rinforzata la strada già delineata da altre indicazioni normative rispetto all’audizione protetta delle vittime vulnerabili, sottolineando l’esigenza di predisporre
modalità di raccolta della testimonianza adeguate alla sua condizione, parallelamente al rispetto delle
esigenze di garanzia del giusto processo: «Gli artt. 2, 3 e 8, n. 4, della decisione quadro 31 devono essere
interpretati nel senso che il giudice nazionale deve avere la possibilità di autorizzare bambini in età infantile che, come nella causa principale, sostengano di essere stati vittime di maltrattamenti a rendere la
loro deposizione secondo modalità che permettano di garantire a tali bambini un livello di tutela adeguato, ad esempio al di fuori dell’udienza e prima della tenuta di quest’ultima. Il giudice nazionale è
tenuto a prendere in considerazione le norme dell’ordinamento nazionale nel loro complesso e ad interpretarle, per quanto possibile, alla luce della lettera e dello scopo della detta decisione quadro» 32.
È altresì importante considerare le problematiche che gli investigatori e l’autorità giudiziaria devono
affrontare nei procedimenti penali che coinvolgono le c.d. “vittime vulnerabili”; esse investono spesso,
preliminarmente, l’accertamento della idoneità a testimoniare (soprattutto nei casi di vittime minori);
riguardano i tempi e le modalità di assunzione delle dichiarazioni nelle varie fasi procedimentali; implicano l’assistenza affettiva e psicologica del dichiarante; richiedono la corretta valutazione della rilevanza probatoria delle dichiarazioni acquisite.
LA CORNICE NORMATIVA
In tema di protezione del “dichiarante vulnerabile” nel processo penale, il legislatore italiano è intervenuto, di recente, con importanti modifiche, anche sotto lo stimolo di Convenzioni internazionali, di Direttive Europee e di significative pronunce della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo
(come richiamate anche nella nota 28).
28
La Corte di giustizia delle Comunità Europee nella sentenza del 16 giugno 2005 n.105 ha in tal senso rivolto una particolare
attenzione a «due tipologie probatorie caratterizzate da significative decisioni rispetto al modello tipico, imperniato sul principio
del contraddittorio; si tratta, precisamente, delle dichiarazioni rese dai testimoni anonimi e dai testi vulnerabili». Si veda, per un
approfondimento: A. Balsamo-S. Recchione, La protezione della persona offesa tra Corte europea, Corte di giustizia delle comunità europee e
carenze del nostro ordinamento, Balsamo-Kostoris (a cura di), Giurisprudenza europea e processo penale italiano, Torino, 2008, p. 317. Vanno in questa direzione anche le due Convenzioni europee sottoscritte e ratificate dall’Italia: la Convenzione del Consiglio d’Europa
sulla Protezione dei bambini contro l’abuso e lo sfruttamento sessuale, firmata a Lanzarote il 25 ottobre 2007 e la Convenzione del
Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, firmata ad
Istanbul l’11 maggio 2011, che contiene anche indicazioni sul tema dell’assunzione della testimonianza da soggetti vittime di violenza di genere o domestica. Rispetto a quest’ultima, l’art. 56 (sulle misure di protezione) impegna le parti ad adottare le misure
legislative o di altro tipo destinate a proteggere «i diritti e gli interessi delle vittime compresi i loro particolari bisogni in quanto testimoni in tutte le fasi delle indagini e dei procedimenti giudiziari» e quindi specifica quali possano essere dette misure, tra cui: a)
garantire che siano protette, insieme alle loro famiglie e ai testimoni; b) consentire alle vittime di testimoniare in aula, secondo le
norme previste dal diritto interno, senza essere fisicamente presenti, o almeno senza la presenza del presunto autore del reato, grazie in particolare al ricorso a tecnologie di comunicazione adeguate, se sono disponibili. Quanto al teste minorenne, la Convenzione
richiede (art. 56, comma 2) che «un bambino vittima e testimone di violenza contro le donne e di violenza domestica, deve, se necessario, usufruire di misure di protezione specifiche, che prendano in considerazione il suo interesse superiore».
29
Si è espressa in tal senso una recente sentenza della Corte di Cassazione che ha affermato che «il nostro sistema normativo
è votato alla ricerca di un punto di equilibrio tra la necessità derivante dal dovere di accertamento dei fatti e quella di tutela
dell’integrità psicofisica del minore» ed ha ribadito come l’esame del minore riveste aspetti di particolare delicatezza, poiché è
necessario preservare l’integrità psichica di tale soggetto che rileva non solo nel suo sviluppo, ma ha diretto riflesso sulla genuinità dell’apporto che il teste può fornire alla ricostruzione dei fatti (Cass., sez. III, 29 novembre 2012, n. 5854).
30
La causa (C-105/03) aveva ad oggetto una domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’art. 35
UE, dal giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Firenze con decisione 3 febbraio 2003, pervenuta in cancelleria
il 5 marzo 2003, nel procedimento penale a carico della sig.ra Maria Pupino. La sentenza è del 16 giugno 2005.
31
Il riferimento è alla già citata Decisione-quadro 2001/220/GAI.
32
Il testo citato fa riferimento al punto 61 della sentenza indicata nella nota 30.
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Le prime disposizioni sul tema sono quelle introdotte con la legge di ratifica della Convenzione di
Lanzarote (la l. n. 172 del 2012) ed hanno riguardo all’assunzione di informazioni da persone minorenni, in procedimenti analiticamente indicati dal legislatore, tra i quali anche quelli per prostituzione minorile, pedopornografia, violenza sessuale e maltrattamenti in famiglia.
Più nel dettaglio, l’intervento normativo ha riguardato innanzi tutto la fase delle indagini preliminari attraverso la modifica dell’articolo 351 comma 1-ter, sull’assunzione di informazioni da parte della
polizia giudiziaria, dell’articolo 362 comma 1-bis relativa alle dichiarazioni rese al pubblico ministero –
e 391-bis c.p.p., che contempla l’ipotesi delle dichiarazioni rese ai difensori in sede di investigazioni difensive. La novità sta nella previsione che dette dichiarazioni rese da soggetto minore, sia esso persona
offesa o solo informata sui fatti, devono essere assunte con “l’ausilio” di un “esperto in psicologia o psichiatria infantile”, nominato – nelle prime due ipotesi – dal pubblico ministero 33.
Le “condizioni di particolare vulnerabilità” della persona offesa, che aveva assunto rilievo nel nostro
sistema processuale per la prima volta con la novella del comma 4-quater all’art. 498 c.p.p. sull’esame diretto e controesame dei testimoni nel dibattimento ad opera della l. n. 119 del 2013 (in esecuzione alla Convenzione di Istanbul), ha fatto ingresso nel nostro sistema processuale a seguito dell’entrata in vigore
del d.lgs 15 dicembre 2015, n. 212 34, attuativo proprio della più volte citata Direttiva europea in materia
di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato.
Il primo aspetto rilevante è che il legislatore del 2015 ha normativamente definito la figura della persona offesa dal reato “in condizione di particolare vulnerabilità” con l’introduzione dell’articolo 90quater c.p.p. nel quale si afferma che: «[…] la condizione di particolare vulnerabilità della persona offesa è desunta, oltre che dall'età e dallo stato di infermità o di deficienza psichica, dal tipo di reato, dalle
modalità e circostanze del fatto per cui si procede» e precisando anche che, a tale fine: «[…] si tiene conto se il fatto risulta commesso con violenza alla persona o con odio razziale, se è riconducibile ad ambiti
di criminalità organizzata o di terrorismo, anche internazionale, o di tratta degli esseri umani, se si caratterizza per finalità di discriminazione, e se la persona offesa è affettivamente, psicologicamente o
economicamente dipendente dall'autore del reato».
Tanto premesso si evidenzia che le recenti modifiche normative sono intervenute, innanzi tutto, sulle disposizioni che disciplinano l’esame della persona offesa, in condizione di particolare vulnerabilità,
già nella fase delle indagini preliminari.
Sono infatti state modificate le disposizioni degli artt. 351 e 362 c.p.p. sui minori estendendole anche
alle sommarie informazioni da assumere da «persona offesa, anche maggiorenne, in condizione di particolare vulnerabilità».
Nell’evidenziare che ai fini di detta qualificazione occorre fare riferimento al disposto del citato articolo 90 quater c.p.p., è necessario precisare che non solo detto esame deve svolgersi con “l’ausilio” di
un “esperto in psicologia o psichiatria infantile”, nominato dal pubblico ministero ma che, per espressa
disposizione del legislatore, chi procede al compimento dell’atto «in ogni caso assicura che la persona
offesa particolarmente vulnerabile in occasione della richiesta di sommarie informazioni non abbia contatti con la persona sottoposta ad indagini e che non sia chiamata più volte a rendere sommarie informazioni, salva l’assoluta necessità per le indagini».
La condizione di “particolare vulnerabilità della persona offesa” rileva anche sotto altri profili ed in
diverse altre fasi processuali.
Attraverso la modifica dell’art. 392 c.p.p. è, infatti, previsto che la sua testimonianza possa sempre
essere assunta con le modalità dell’incidente probatorio a prescindere dall’esistenza di particolari ragioni che la giustificano, purché ne faccia richiesta il pubblico ministero, la stessa persona o l’indagato;
in detta ipotesi, il giudice può disporre anche modalità protette, sempre che vi sia richiesta in tal senso
della persona offesa o del suo difensore.
Completa il quadro normativo riferibile al dichiarante vulnerabile il nuovo disposto degli art. 398,
comma 5-quater e 498 comma 4-quater c.p.p., così come modificati dal citato d.lgs del 2015, secondo cui,
ove debba essere assunta la loro testimonianza, il giudice «dispone l’adozione di modalità protette», se
vi è richiesta in tal senso della persona offesa o del suo difensore.
33
Si veda, per un approfondimento: M. Monteleone, Ratifica ed esecuzione della Convenzione di Lanzarote parte III: le modifiche al
codice di procedura penale, Giurisprudenza di Merito, 7/8, 2013 e il già citato articolo di V. Cuzzocrea, L’ascolto protetto delle persone
minorenni prima e dopo la ratifica della Convenzione di Lanzarote, cit.
34
Il d.lgs. n. 212 del 2015 è entrato in vigore il 20 gennaio 2016.
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Vi sono alcuni aspetti di interesse nelle disposizioni in esame che non possono essere trascurati, atteso che certamente spetta al giudice riscontrare la condizione di particolare vulnerabilità della vittimatestimone ed anche individuare nel concreto “le modalità protette” più idonee nella fattispecie, al fine
di garantire la tutela più adeguata alla vittima, tuttavia se vi è richiesta dei soggetti legittimati (persona
offesa o difensore) il giudice deve disporle.
Nell’esercitare detta discrezionalità al prudente apprezzamento del giudice è affidata non solo la
salvaguardia delle esigenze di protezione della parte offesa ma anche delle garanzie della difesa dell’imputato e, non da meno, l’assicurazione del contraddittorio (che trova la sua espressione più qualificata nel rispetto della oralità e della immediatezza nell’assunzione della prova).
Le modalità concrete, quindi, vanno individuate dal giudice, anche su indicazione delle stesse parti
e possono essere da quelle più semplici di consentire l’assunzione delle dichiarazioni senza che il teste
debba “vedere” l’imputato eventualmente presente in aula (ad esempio facendo ricorso ad un “paravento”), fino anche al ricorso alla videoconferenza, secondo le indicazioni delle citate Convenzioni internazionali.
PROCEDURE OPERATIVE E BUONE PRASSI (LOCALI)
Quanto alle modalità di svolgimento dell’atto ed in particolare alla raccolta delle dichiarazioni del minore e
alle misure di protezione adottabili, si ritiene che non si possa prescindere dalle stesse disposizioni della Convenzione di Lanzarote ed in particolare dal contenuto dell’art. 35. In base a quest’ultima disposizione è necessario che i “colloqui con il minore”: a) abbiano luogo senza alcun ritardo ingiustificato dopo
che i fatti siano stati segnalati alle autorità competenti; b) abbiano luogo, ove opportuno, presso locali
concepiti o adattati a tale scopo; c) vengano condotti da professionisti addestrati a questo scopo; d) nel limite del possibile e, ove opportuno, la persona minorenne sia sempre sentita dalle stesse persone; e) il numero dei colloqui sia limitato al minimo strettamente necessario al corso del procedimento penale; f) i colloqui
con la vittima, o ove opportuno, con un minore testimone dei fatti, possano essere oggetto di registrazioni audiovisive e tali registrazioni possano essere accettate come prova durante il procedimento penale 35.
Nel solco di tali indicazioni si collocano le modifiche degli artt. 351, comma 1-ter, 362, comma 1-bis e
391-bis, comma 5-bis,c.p.p. e delle altre disposizioni, ispirate alla esigenza – che deve essere necessariamente tenuta in considerazione dagli investigatori, nonché da tutti gli interlocutori coinvolti – che la
persona in età evolutiva sia protetta fin dall’inizio delle indagini e che, pertanto, laddove debba rendere
sommarie informazioni, dovrà essere “ascoltata” con le cautele più adeguate.
Ebbene, secondo gli studi maggiormente accreditati, si ritiene che tale esigenza possa essere garantita dalla presenza di un esperto in psicologia o psichiatria infantile, il quale, essendo chiamato a prestare ausilio all’organo investigativo, assume la veste di consulente tecnico di parte 36.
35
Article 35 – Interviews with the child. 1 Each Party shall take the necessary legislative or other measures to ensure that: a
interviews with the child take place without unjustified delay after the facts have been reported to the competent authorities; b
interviews with the child take place, where necessary, in premises designed or adapted for this purpose; c interviews with the
child are carried out by professionals trained for this purpose; d the same persons, if possible and where appropriate, conduct
all interviews with the child; e the number of interviews is as limited as possible and in so far as strictly necessary for the purpose of criminal proceedings; f the child may be accompanied by his or her legal representative or, where appropriate, an adult
of his or her choice, unless a reasoned decision has been made to the contrary in respect of that person. 2 Each Party shall take
the necessary legislative or other measures to ensure that all interviews with the victim or, where appropriate, those with a
child witness, may be videotaped and that these videotaped interviews may be accepted as evidence during the court proceedings, according to the rules provided by its internal law. 3 When the age of the victim is uncertain and there are reasons to believe that the victim is a child, the measures established in paragraphs 1 and 2 shall be applied pending verification of his or her
age.
36
In argomento, si veda Cass., sez. III, 23 novembre 2011, n. 46769, in CED Cass., n. 251634, secondo cui «non sussiste alcuna
incompatibilità per l’ausiliario, nominato dalla p.g. nella prima fase delle indagini, ad assumere la veste di consulente tecnico
del p.m., in quanto le preclusioni previste dall’art. 225 comma 3 c.p.p. trovano applicazione soltanto per il perito d’ufficio. (Nella specie, trattavasi di psicologo nominato ausiliario di p.g. per assumere le dichiarazioni di un minore abusato, successivamente nominato consulente tecnico del P.M.)». Cfr. Cass., sez. III, 3 dicembre 2010, n. 3845, in Arch. n. proc. pen., 2011, p. 316. In argomento, si veda anche Id., sez. III, 17 gennaio 2008, n. 8377, in CED Cass., n.239282, per la quale «deve escludersi l’incompatibilità con l’ufficio di testimone per il consulente tecnico incaricato dal P.M. non rivestendo costui la qualità di ausiliario
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L’incarico conferito all’esperto – consistente, secondo la terminologia utilizzata dal legislatore, nel
“prestare ausilio” – non si deve ridurre ad una mera assistenza “passiva” all’assunzione di informazioni della persona minorenne da parte della polizia giudiziaria, ovvero limitarsi a fare da tramite nella
formulazione delle domande, ma deve esplicarsi in un’attività ben più pregnante, coerente anche con le
finalità che hanno ispirato la modifica legislativa.
Si intende con ciò sottolineare che l’esperto – da individuarsi tra i professionisti e le professioniste
possibilmente formate in psicologia giuridica con una competenza specialistica e una consolidata esperienza professionale nell’ascolto giudiziario delle vittime vulnerabili – dovrebbe, più significativamente, fornire un supporto qualificato e “attivo” all’organo inquirente in un’ottica di scambio professionale
e di reciproca collaborazione.
È auspicabile, in altri termini, che assista la polizia giudiziaria affinché siano adeguatamente valutati
tempi e modalità della raccolta delle dichiarazioni, tenendo in dovuta considerazione sia le specifiche
esigenze investigative in cui si colloca l’atto previsto dall’art. 351 c.p.p, che quelle di tutela della persona, in considerazione dell’età, delle sue condizioni psico-fisiche (attuali, pregresse e/o conseguenti al
reato) come pure delle caratteristiche del fatto sul quale è chiamata a rendere dichiarazioni 37, proponendo, ove opportuno, anche lo svolgimento del colloquio in uno “spazio neutro”, idoneo ad assicurare
la genuinità e la spontaneità del racconto 38.
Nell’eventualità che il minore sia stato già sentito dalla polizia giudiziaria con l’ausilio di un esperto,
si è dell’avviso che il pubblico ministero debba – tendenzialmente – avvalersi del medesimo specialista, in
conformità con le indicazioni esplicitate nell’art. 35, comma 1, lett. d) della Convenzione di Lanzarote,
dove si prevede che «nel limite del possibile e, ove opportuno, il minore sia sempre sentito dalle stesse
persone».
Rispetto alla finalità dell’atto assunto secondo le indicate modalità, si ritiene importante sottolineare che non si tratta di un intervento valutativo o terapeutico, bensì di un’attività a forte impronta investigativa, essendo essa volta, essenzialmente, alla ricostruzione narrativa e causale del fatto, alla
comprensione della dinamica (relazionale e ambientale) e del contesto in cui sarebbe avvenuto il fatto
e all’eventuale individuazione dell’autore (o degli autori), quindi all’acquisizione di fonti di prova
dell’organo inquirente, in quanto è tale solo l’ausiliario in senso tecnico che appartiene al personale della segreteria o della cancelleria dell’ufficio giudiziario e non già un soggetto estraneo all’amministrazione giudiziaria che si trovi a svolgere, di fatto ed
occasionalmente, determinate funzioni previste dalla legge»; e Id., sez. VI, 26 aprile 2007, n. 33810, in Cass. pen., 2008, p. 3395,
secondo cui «il consulente tecnico nominato dal p.m. non è incompatibile con l’ufficio di testimone, perché non assume la qualità di ausiliario del p.m.».
37
Tra le caratteristiche del fatto da considerare, si pensi, ad esempio alla tipologia di reato (anche) in relazione al legame della presunta vittima con l’indagato, se noto (reato intrafamiliare o extrafamiliare), alla prossimità con il fatto in termini di esposizione – diretta (nel caso si tratti della presunta vittima) o indiretta (nel caso il bambino sia chiamato come testimone, come ad
esempio nei reati di violenza domestica) – e con i tempi di esposizione all’evento (evento cronico o episodico), alla distanza fisica o temporale dal fatto, alla modalità di emersione e rilevazione dello stesso (se ad esempio determinata da dichiarazioni spontanee del bambino/adolescente o se presunte da terzi) e ad eventuali altri fattori che potrebbero rappresentare, ad un esame più
approfondito, dei rischi in termini di suggestionabilità della persona minorenne (legate ad esempio a pregresse e inappropriate
modalità di raccolta delle dichiarazioni in ambiente informale, dai genitori o da terzi, attraverso domande inducenti, incalzanti,
chiuse e suggestive). Rispetto alla tipologia di reato, un altro aspetto da considerare, nella scelta delle modalità da adottare, è
l’eventuale coinvolgimento di altre persone vicine al bambino/adolescente (minorenni e/o adulte): nel caso ad esempio di persone offese o informate sui fatti vicine tra loro (familiari, compagni di classe, minori all’interno di una casa famiglia; etc.) sarebbe opportuno prevedere che l’eventuale ascolto collettivo avvenga nello stesso giorno, così da evitare possibili contaminazioni
delle dichiarazioni da rendere.
38
In tal senso si è determinata la Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Roma che, a seguito dell’entrata
in vigore della legge 172 del 2012, relativamente all’assunzione delle dichiarazioni da persona minore degli anni 18, ha tempestivamente impartito disposizioni alla polizia giudiziaria che hanno consentito, sul piano strettamente operativo, un perfetto
raccordo tra il pubblico ministero, la polizia giudiziaria operante sul territorio e il consulente tecnico individuato con immediatezza rispetto agli specifici obiettivi dell’atto ma anche rispetto ai tempi e al luogo di espletamento dell’ascolto. Tali disposizioni
sono state emesse dalla Procura di Roma in data 30 gennaio 2013 (prot. n. 177 del 2013) e rispetto al “ruolo” affidato dalla legge
al “Consulente” contengono queste indicazioni: «si deve ritenere che questi, informato sommariamente dei fatti per cui si procede e della condizione del minore, non soltanto assisterà all’esame, ma potrà dare indicazioni alla p.g. sulla eventuale necessità
di effettuare l’esame con modalità protette o proporre che l’esame sia effettuato, anziché nei locali della p.g., in uno “spazio neutro”, così da assicurare che l’atto sia rispettoso delle esigenze del minore e, nello stesso tempo, utile ai fini investigativi. Il Consulente, ove ritenuto opportuno, potrà anche svolgere il ruolo di intermediario nella conduzione dell’esame proponendo direttamente al minore le eventuali domande utili ai fini della prosecuzione delle indagini […]».
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utili e necessarie per la più efficace prosecuzione dell’indagini.
La presenza della figura tecnica dell’esperto deve in tal senso rappresentare uno strumento specialistico al fine di massimizzare le “informazioni” da acquisire, limitando al contempo le eventuali fonti di
stress al dichiarante e le possibili contaminazioni nel recupero del ricordo 39; a tal fine, esistono in letteratura, alcune importanti indicazioni metodologiche da utilizzare in questa tipologia di colloqui (protocolli di intervista investigativa 40, così come sollecitato dalla comunità scientifica nell’ambito di diverse
linee guida 41.
Rispetto alle modalità di raccolta delle dichiarazioni dalla persona minorenne ex art. 351 c.p.p. – e in
generale dalle vittime vulnerabili 42 e in “condizioni di particolare vulnerabilità” 43– occorre riflettere sul
39
Come sottolineato dalla Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza (SINPIA, Linee guida in tema di
abuso sui minori, Trento, 2007) le procedure d’intervista devono mirare a massimizzare il ricordo e minimizzare le contaminazioni, evitando le domande “guidate” o comunque suggestive, e combinando le attuali conoscenze sullo sviluppo dei soggetti in
età evolutiva con le tecniche di memoria che possono facilitare il ricordo di particolari episodi. Si veda in tal senso per un approfondimento anche il documento prodotto dalle istituzioni inglesi circa le misure da adottare nella raccolta delle dichiarazioni di
vittime e testimoni: Ministry of Justice, Achieving Best Evidence in CriminalProceedings. Guidance on interviewing victims and witnesses, and guidance on using special measures, 2011.
40
In letteratura esistono diverse tecniche (protocolli di intervista investigativa) riconosciute dalla comunità scientifiche e
utilizzate per la raccolta delle dichiarazioni delle vittime e dei testimoni vulnerabili, con particolare attenzione ai bambini e
agli adolescenti; le linee guida più accreditate a livello nazionale rimandano all’opportunità di fare uso di questi protocolli.
Secondo la SINPIA, Linee guida in tema di abuso sui minori, cit., è preferibile utilizzare, quando possibile, tecniche d’intervista
semi strutturata sufficientemente validate e condivise – quali la Step-Wise Interview di Yuille e colleghi (1993), l’Intervista
Cognitiva di Fisher e colleghi (1987), il protocollo di intervista di Cheung (1997) e l’NICHD di Orbach e colleghi (2000) – e
l’uso di tali tecniche richiede una specifica preparazione e formazione. Per una lettura dei principali documenti prodotti dalla comunità scientifica nazionale (Protocollo di Venezia del 2007, Carta di Noto III e Linee Guida Nazionali del 2010) si veda:
G. Mazzoni, Appendice, G. Mazzoni-E. Rotriquenz, La testimonianza, cit. In argomento, per un approfondimento si v. anche G.
De Leo-M. Scali-L. Caso, La Testimonianza, cit.; L. Caso-A. Vrij, L’interrogatorio giudiziario e l’intervista investigativa, Bologna,
2009. G.B. Camerini-C. Barbieri, R. Vacondio, Bambini vittime e testimoni: manuale operativo, Santarcangelo di Romagna, 2015;
G.B. Camerini-V. Cuzzocrea, P. Roma, La raccolta della testimonianza. Metodi e tecniche d’intervista, G.B. Camerini-E. Di Cori-U.
Sabatello (a cura di), Compendio di psichiatria e psicologia forense dell’età evolutiva, Milano, in press; S. Villani-D. Dèttore, Valutazione in casi di sospetto abuso sessuale su minori in ambito peritale, S. Ciappi-S. Pezzuolo (a cura di), Psicologia giuridica. La teoria, le tecniche, la valutazione, cit.
41
Ad esempio, nel Protocollo di Venezia del 2007 si rimanda all’opportunità di procedere alla raccolta delle dichiarazioni
dopo un’attenta pianificazione dell’attività atta a definire preliminarmente – a seguito di un accordo tra A.G., P.G. e consulente
individuato, in linea con le esigenze investigative e di tutela della o delle persone da sentire – il setting del colloquio ovvero
l’insieme di aspetti organizzativi come il chi condurrà il colloquio, il dove si svolgerà, il come verrà gestito (ad esempio in riferimento agli strumenti di audio e/o video registrazione e alle modalità di contatto dei familiari o di altre persone di riferimento
per la convocazione). Lo stesso documento indica come metodologicamente opportuno organizzare il colloquio per fasi:
«a)Richiesta del racconto libero –Richiesta della narrazione secondo una sequenza cronologica naturale degli eventi –Richiesta della narrazione secondo una sequenza alterata degli eventi; b) Domande investigative (Le domande devono essere poste secondo la sequenza che
segue al fine di non compromettere il racconto del minore) – Domande aperte –Domande specifiche –Domande chiuse –Domande “suggestive” ma mai “fuorvianti” (anche su fatti irrilevanti al fine di valutare la suggestionabilità specifica del minore); c) Contenuto delle domande: scelta dei temi da approfondire tra cui ineludibili: –Analisi relative al tipo di relazione tra i minori coinvolti – Analisi delle
relazioni tra i minori e gli adulti coinvolti; d) Congedo del bambino-Dare la possibilità al minore di porre delle domande alle quali rispondere –Tornare ad un livello di comunicazione neutra – Chiusura dell’intervista; e) Riassunto degli elementi emersi-Riassumere gli elementi più importanti emersi –Suggerire eventuali percorsi di sostegno psicologico, di accompagnamento processuale, sia sul minore che sulla
famiglia. Per un approfondimento si veda anche R. Bull, Una corretta modalità di intervista con minori nel processo penale, MazzoniRotriquenz, La testimonianza, op. cit.
42
Con “vittime vulnerabili” si fa riferimento in questa sede a quelle persone che sono coinvolte come persone offese in un procedimento penale e che per caratteristiche personali legate a fattori come età, sesso, marginalità, condizioni psicologiche, familiari, economiche e sociali (ad esempio: minori, minori non accompagnati, anziani, disabili, donne, in particolare se in stato di
gravidanza, genitori singoli con figli minori, le persone con disturbi psichici, etc.) o poiché vicine a situazioni che le espongono
ad un rischio elevato di danno (come ad esempio coloro che hanno subito delle violenze reiterate nelle relazioni strette o altre
forme di reato come torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica, sessuale o di genere) possono essere considerate “vulnerabili”. Per un approfondimento si vedano le note 4 e 11.
43
L’espressione fa riferimento a quanto contenuto nel nuovo comma 5-ter introdotto nell’art. 398 c.p.p. dal già citato d.lgs. n.
24 del 2014, in cui è prevista: l’ammissione della testimonianza degli offesi maggiorenni rispetto ai reati indicati dall’art. 392,
comma 1bis,c.p.p.(artt. 572, 600, 600-bis, 600-ter e 600-quater c.p., anche se relativi al materiale pornografico di cui agli artt. 600quater, 600-quinquies, 601, 602, 609-bis, 609-quater, 609-quinquies, 609-octies, 609-undecies e 612-bis, c.p.); la norma indica inoltre,
come unica condizione necessaria per la concessione della protezione, il riconoscimento della esistenza di una condizione di
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fatto che, malgrado il legislatore del 2012 abbia omesso qualsiasi indicazione circa la metodologia e gli
strumenti adottabili in detta fase, si ritengono analogicamente applicabili le disposizioni processuali
che regolano l’incidente probatorio e l’esame nel dibattimento.
In merito alla conduzione del colloquio – con riguardo a quanto precedentemente evidenziato, ovvero all’attenzione da porre nella formulazione delle domande e alle finalità dell’atto – il riferimento principale è costituito dall’art. 499 c.p.p. (regole per l’esame testimoniale) e ad alcune utili indicazioni: «1.
L’esame testimoniale si svolge mediante domande su fatti specifici. 2. Nel corso dell’esame sono vietate
le domande che possono nuocere alla sincerità delle risposte. 3. nell’esame condotto dalla parte che ha
chiesto la citazione del testimone e da quella che ha un interesse comune sono vietate le domande che
tendono a suggerire le risposte. 4. Il presidente cura che l’esame del testimone sia condotto senza ledere
il rispetto della persona […]».
Rispetto alla documentazione dell’atto, si trova un’utile indicazione nell’art. 398, comma 5-bis, c.p.p.
ove è previsto espressamente che avvenga attraverso mezzi di riproduzione fonografica o audiovisiva e con
la conseguente redazione del verbale in forma riassuntiva.
Per quanto concerne l’aspetto dei tempi di svolgimento dell’atto, in ragione anche delle finalità immediatamente investigative che lo rendono necessario, è auspicabile che venga posto in essere in tempi
quanto più ravvicinati all’acquisizione della notizia di reato; a tal fine, è quanto mai auspicabile che
siano predisposti dei turni di reperibilità di psicologi o psichiatri infantili esperti particolarmente nell’ascolto dei minori 44 che assicurino il compimento dell’atto, previa nomina da parte del P.M. (che può
essere anche orale, salvo conferma scritta successiva), laddove si ritenga che la raccolta delle dichiarazioni abbia un carattere di urgenza 45.
Quanto evidenziato, nel complesso, in termini di regole per la conduzione dell’ascolto, della metodologia e della strumentazione tecnica da utilizzare per “fotografare” le informazioni raccolte, dovrebbe divenire – tendenzialmente – il modo ordinario di operare fin dalle prime fasi del procedimento 46.
In tale contesto assume particolare rilievo la modifica legislativa introdotta dal d.lgs. n. 212 del
2015 che intervenendo sull’art. 134 c.p.p. che riguarda la documentazione degli atti consente sempre,
anche al di fuori delle ipotesi di assoluta indispensabilità, la videoripresa delle dichiarazioni della
persona offesa “in condizione di particolare vulnerabilità”.
Con riguardo alle modalità di assunzione delle dichiarazioni della persona offesa maggiorenne
“particolare vulnerabilità” consentendo, pertanto, l’accesso alle modalità speciali anche nel caso di dichiarazioni rese da un soggetto vulnerabile non offeso, e soprattutto, di estendere la protezione oltre il perimetro tracciato dall’elenco di reati indicato
nell’art. 398, comma 5-bis,c.p.p. (artt. 609-bis, 609-ter, 609-quater e 609-octies c.p.) attraverso le modalità indicate nell’ambito dello
stesso articolo. Il legislatore, in sintesi, ha previsto un’estensione delle modalità di protezione delle vittime rispetto alla “condizione di particolare vulnerabilità” in cui si troverebbero; tale condizione prescinde dall’età delle vittime, tiene in considerazione
maggiori tipologie di reati e si estende anche ai testimoni.
44
Nelle Disposizioni suindicate (nota 33) si fa riferimento alla predisposizione da parte della Procura di Roma di «turni di
reperibilità urgente di Consulenti del P.M. che saranno disponibili nell’arco delle 24 ore di tutti i giorni (anche festivi) e che interverranno al compimento dell’atto a seguito della nomina da parte del P.M. di turno».
45
Si pensi ad esempio al caso – realmente verificatosi – di un adolescente che si reca autonomamente presso un ufficio di polizia per denunciare una situazione di grave maltrattamento intrafamiliare, magari dopo essere scappato di casa, o anche al caso
di un’aggressione sessuale appena avvenuta e operata da estranei per cui è necessario procedere all’identificazione degli autori.
Si pensi anche all’esposizione di bambini ad eventi traumatici quali l’omicidio di uno o più familiari. Rispetto al carattere di urgenza e tempestività dell’intervento, si cita quanto sollecitato nella Convenzione di Istanbul che all’articolo 27 (Risposta immediata prevenzione e protezione) sollecita le Parti ad adottare «le misure legislative e di altro tipo necessarie per garantire che le autorità incaricate dell’applicazione della legge affrontino in modo tempestivo e appropriato tutte le forme di violenza che rientrano
nel campo di applicazione della presente Convenzione, offrendo una protezione adeguata e immediata alle vittime» e «operino
in modo tempestivo e adeguato in materia di prevenzione e protezione contro ogni forma di violenza […] ivi compreso utilizzando misure operative di prevenzione e la raccolta delle prove».
46
Si consideri, al riguardo, che il già citato art. 35 (colloqui con il minore) della Convenzione di Lanzarote al comma 2 prevede
che: «ciascuna Parte adotterà i necessari provvedimenti legislativi o di altro genere affinché i colloqui con la vittima, o ove opportuno, con un minore testimone dei fatti, possano essere oggetto di registrazioni audiovisive e che tali registrazioni possano
essere accettate come prova durante il procedimento penale, in accordo con le norme previste dalla legislazione interna». Pare,
al riguardo, utile ricordare che l’art. 134, comma 4, c.p.p., quanto alle modalità di documentazione degli atti, prevede che ove le
modalità ordinarie di documentazione siano «ritenute insufficienti, può essere aggiunta la riproduzione audiovisiva se assolutamente indispensabile».
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che si trovi, appunto, nelle citate condizioni, deve ritenersi che le modalità operative siano sostanzialmente quelle previste per le persone minorenni; in tal senso, depone il nuovo disposto degli
artt. 351 e 362 c.p.p., laddove contemplano che: «si procede allo stesso modo». Ciò sta a significare
che anche l’esame della vittima vulnerabile maggiorenne debba svolgersi con l’ausilio di un esperto
in psicologia nominato dal pubblico ministero. Tuttavia, va evidenziato che la normativa del 2015
contempla ulteriori spazi di protezione nell’acquisizione di detta fonte dichiarativa disponendo
espressamente che: «in ogni caso assicura che la persona offesa particolarmente vulnerabile, in occasione della richiesta di sommarie informazioni, non abbia contatti con la persona sottoposta ad
indagini e non sia chiamata più volte a rendere sommarie informazioni, salvo l’assoluta necessità
per le indagini».
Merita anche una breve riflessione quella particolare modalità di assunzione delle dichiarazioni in
sede processuale rappresentata dalla videoconferenza, modalità espressamente prevista dalla normativa convenzionale, che garantisce la più efficace tutela della vittima vulnerabile e, nello stesso tempo,
consente di assicurare la formazione della prova nelle migliori condizioni possibili.
È opportuno ricordare che già la Convenzione di Lanzarote all’art. 36 sui procedimenti giudiziari al
comma 2, lett. b) afferma che: «Ciascuna Parte adotterà i necessari provvedimenti legislativi o di altro
genere affinché, nell’ambito delle norme previste dalla legislazione interna […] la vittima possa venire
ascoltata in udienza senza esservi presente specie mediante il ricorso di appropriate tecnologie di comunicazione».
Analoghe sono le disposizioni della Direttiva del Parlamento Europeo 2012/29/UE che all’articolo
23 regola il diritto alla protezione delle vittime con esigenze particolari di protezione, prevedendo che:
«durante le indagini penali ...possono avvalersi delle seguenti speciali misure: audizione della vittima
in locali appositi […], misure per evitare il contatto visivo tra le vittime e gli autori dei reati, anche durante le deposizioni, ricorrendo a mezzi adeguati fra cui l’uso delle tecnologie di comunicazione, –
misure per consentire alla vittima di essere sentita in aula senza essere fisicamente presente, in particolare ricorrendo ad appropriate tecnologie di comunicazione».
Esplicita anche la previsione della Convezione di Istanbul che all’art. 56 richiede che sia consentito
«alle vittime di testimoniare in aula, secondo le norme previste dal diritto interno, senza essere fisicamente presenti, o almeno senza la presenza del presunto autore del reato, grazie in particolare al ricorso
a tecnologie di comunicazione adeguate, se sono disponibili».
Nell’attesa che il legislatore introduca specifiche disposizioni normative, può ritenersi che l’indicata modalità di assunzione delle dichiarazioni sia comunque già consentita nel nostro sistema
processuale.
Al riguardo, occorre riflettere sul fatto che si tratta di una modalità di assunzione della testimonianza già disciplinata in casi determinati e che la sua applicazione al di fuori delle ipotesi espressamente
previste dalla legge, non rende l’atto inutilizzabile, come ha espressamente avuto modo di affermare la
Cassazione in una sentenza del 2007 (Cass.,sez.I, 4 dicembre 1997, n. 2607) la quale, peraltro, ha affermato che: «non solo l’assunzione di dichiarazioni testimoniali attraverso un sistema di impianto audiovisivo a circuito chiuso non è affatto vietato, ma essa è addirittura prevista dalla stessa legge, che la autorizza in presenza di determinati presupposti. L’art.147-bis delle norme di attuazione del codice di
procedura penale prevede infatti la possibilità di disporre che l’esame in dibattimento possa svolgersi
mediante un collegamento audiovisivo, anche a distanza, quando si tratti di persone sottoposte a programmi o misure di protezione, ovvero nel caso di gravi difficoltà ad assicurare la comparizione delle
persone che devono essere sottoposte ad esame».
In tale contesto normativo e alla luce dell’indicato orientamento giurisprudenziale della Cassazione,
si ritiene legittimo, anche in sede di incidente probatorio, il ricorso a detta modalità di assunzione della
prova dichiarativa.
Importante linea guida nel condurre l’esame della persona in età evolutiva è che bisogna sempre tenere presente “il suo interesse superiore” 47, ne consegue l’opportunità di assumerne la testimonianza
47
Si cita a tal proposito quanto sancito dalla Convenzione di Istanbul che all’articolo 56 sulle “misure di protezione” sollecita le Parti ad adottare «le misure legislative o di altro tipo destinate a proteggere i diritti e gli interessi delle vittime,
compresi i loro particolari bisogni in quanto testimoni in tutte le fasi delle indagini e dei procedimenti giudiziari, in particolare [….] d. offrendo alle vittime, in conformità con le procedure del loro diritto nazionale, la possibilità di essere ascoltate,
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solo se indispensabile, ricorrere a modalità adeguate, prestare l’assistenza anche affettiva, secondo le
previsioni dell’art. 609-decies, comma 3, c.p. così come modificato dalla l. n. 172 del 2012 secondo cui:
«l’assistenza affettiva e psicologica della persona offesa minorenne, è assicurata in ogni stato e grado
del procedimento (quindi anche nelle indagini preliminari) dalla presenza dei genitori, o di altre persone idonee indicate dal minorenne, nonché di gruppi, […] associazioni ed organizzazioni non governative di comprovata esperienza nel settore dell’assistenza e del supporto alle vittime dei reati […] con il
consenso del minorenne, e, ammessi dall’autorità giudiziaria che procede».
Come può rilevarsi da detta disposizione, l’assistenza affettiva del minore richiede, sul piano operativo, circostanze ed indicazioni precise, considerato che, comunque, è subordinata anche al consenso
dello stesso soggetto e che le persone chiamate a dare assistenza affettiva devono essere “ammesse”
dall’autorità che procede, che certamente dovrà valutarne la compatibilità con le esigenze investigative
e probatorie 48.
Per dare contenuto concreto a quanto detto ed attesa l’esigenza di operare concretamente perché le
novità normative indicate possano trovare applicazione adeguata, anche alla luce di quanto previsto
dalla Convenzione di Lanzarote e da quella di Istanbul, è auspicabile che siano emanate precise direttive alla polizia giudiziaria e che siano adottate iniziative organizzative degli uffici inquirenti finalizzate,
da un lato, alla massima protezione del dichiarante minorenne (o, comunque, vulnerabile), dall’altro,
che favoriscono un percorso giudiziario tempestivo e, nello stesso tempo, che assicuri il rispetto dei diritti della difesa.
In questo ambito può essere utile il riferimento ad iniziative concrete che sono orientate in tale direttiva e che, ad una prima valutazione, paiono realizzabili senza eccessive difficoltà.
Ci si riferisce, ad esempio, alla disponibilità effettiva da parte della polizia giudiziaria e della magistratura di un “luogo protetto”, dotato degli strumenti necessari all’ascolto dei minori e delle vittime
particolarmente vulnerabili secondo le modalità richieste anche dalla normativa internazionale 49, da
individuarsi in luogo “idoneo” – come rappresentato ad esempio dal c.d. “Spazio Neutro” – che assicuri il compimento dell’indicato atto e la sua documentazione con strumenti tecnici adeguati.
In tal senso, sono confortanti i dati acquisiti a seguito di una prima esperienza maturata presso un
ufficio inquirente 50 che ha operato nel senso indicato rendendo effettive dette disposizioni attraverso la
di fornire elementi di prova e presentare le loro opinioni, esigenze e preoccupazioni, direttamente o tramite un intermediario, e garantendo che i loro pareri siano esaminati e presi in considerazione […]». In argomento, appare di interesse il principio espresso dalla Corte di Cassazione in una sentenza del 2013 (sez. VI, 13 novembre 2013, n.5132) secondo la quale: «in tema di esame testimoniale del minorenne, il presidente può disporre modalità particolari (nella specie, l’uso di un vetro specchio) ai sensi degli artt. 498, comma quarto bis e 398, comma quinto, cod. proc. pen., non solo nei processi relativi a reati sessuali, ma anche nei casi in cui vi sia richiesta di parte ovvero egli lo ritenga necessario, per evitare che l’esame diretto possa
nuocere alla serenità del minore».
48
In argomento, di interesse, la pronuncia della Corte di Cassazione (sez. III,16 ottobre 2013, n.44448) secondo la quale:
«non comporta alcuna nullità né irregolarità e non è comunque deducibile dall’imputato l’audizione di un teste minorenne
effettuata in presenza della madre anziché di un esperto in psicologia infantile, poiché le norme del c.p.p. che prevedono
l’audizione protetta sono dettate nell’interesse esclusivo del minore e riconoscono al giudice, tenuto conto delle peculiarità
del caso concreto, la facoltà di disporla o meno e di determinare le forme più idonee alla realizzazione di un contesto di
ascolto adeguato all’età del testimone. (Fattispecie relativa all’audizione di un bambino di cinque anni, testimone di un fatto
di violenza sessuale)».
49
È bene ricordare che la Convenzione di Lanzarote anche al riguardo contiene già importanti disposizioni, (analoghe a
quelle recepite successivamente dalla Convenzione di Istanbul) nel già citato art. 35 (note 33 e 42). È anche opportuno ricordare
che la citata Direttiva 2012/29/UE all’articolo 24 richiede agli Stati di provvedere affinché: «nell’ambito delle indagini penali
tutte le audizioni del minore vittima di reato possano essere oggetto di registrazione audiovisiva e tali registrazioni possano essere utilizzate come prova nei procedimenti penali», pur precisando che «le norme procedurali per le registrazioni audiovisive e
la loro utilizzazione sono determinate dal diritto nazionale».
50
Il riferimento è alla esperienza operativa presso la Procura della Repubblica di Roma e riguarda i dati relativi ai minorenni
ascoltati con le modalità protette, come previsto dalla l. n. 172 del 2012 e secondo le disposizioni impartite nelle direttive alla
polizia giudiziaria sopra richiamate. Il primo significativo elemento di valutazione è il numero dei minori ascoltati che, nel volgere di un anno, sono raddoppiati passando da 161 nel 2013 a ben 329 nel 2014. Ancora più rilevanti le seguenti osservazioni. Ci
si riferisce, innanzi tutto, ai tempi dell’ascolto: ben 22 minori nel 2013sono stati ascoltati nello stesso giorno di acquisizione della
notizia di reato, mentre nel 2014 il numero passa a 49. Entro 7 giorni sono stati sentiti, il 1° anno 110 bambini e nel 2° 146. I reati
più frequenti che hanno coinvolto minori sono stati quelli attinenti ad ipotesi di violenza sessuale (passate da 93 casi nel 2013 a
189 nel 2014) ed i maltrattamenti contro familiari e conviventi (44 nel 2013 e 124 nel 2014). Circa il ruolo del minore dichiarante è
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sperimentazione di un maggiore coordinamento, adottando nuovi modelli organizzativi degli uffici
giudiziari per assicurare un più stretto raccordo tra strutture e figure specializzate, sia investigative che
giudiziarie.
In questa prospettiva, si è rivelata di grande efficacia anche la formazione di gruppi specializzati di
magistrati in diverse procure d’Italia, e, soprattutto, l’istituzione (attualmente già operativa presso la
Procura della Repubblica di Roma) di turni di reperibilità (24 ore su 24, tutti i giorni dell’anno) svolti da magistrati specializzati nei delitti contro la libertà sessuale, la famiglia ed i soggetti vulnerabili, in modo da
assicurare un perfetto e tempestivo raccordo tra la polizia giudiziaria operante sul territorio ed il magistrato inquirente.
A ben vedere, si tratta di un modello organizzativo predisposto per assicurare, anche nell’immediatezza dell’intervento delle forze di polizia operanti sul territorio (ed in specie nella flagranza di reato), che siano assunte determinazioni quanto più appropriate possibili, grazie ad un efficace coordinamento con la magistratura inquirente specializzata.
In tale contesto, gli interventi preventivi e repressivi sono stati resi più efficaci anche dalla istituzione di “referenti” specializzati all’interno delle strutture investigative della polizia giudiziaria, ancora
più rilevanti soprattutto dopo l’entrata in vigore della l. n. 119 del 2013 e alle importanti modifiche processuali sull’arresto obbligatorio per i delitti di maltrattamenti contro familiari e conviventi ed atti persecutori e alla introduzione della nuova misura precautelare dell’allontanamento urgente dalla casa
familiare (art. 384-bis c.p.p.).
RIFLESSIONI CONCLUSIVE
Appare innegabile come l’assunzione di dichiarazioni dalla persona informata sui fatti, ancora più
se particolarmente vulnerabile e se vittima di reati attinenti alla sfera sessuale ed alla violenza domestica, rivesta una importanza determinante, sia ai fini dello svolgimento delle indagini, che della successiva/eventuale fase del giudizio.
Si dovrà anche convenire che le indicate problematiche assumano un non trascurabile rilievo
considerato che, spesso, le dichiarazioni rese dalle vittime vulnerabili, soprattutto nelle prime fasi
delle indagini, sono fondamentali per orientare utilmente la prosecuzione delle indagini ed impostare correttamente il successivo svolgimento del dibattimento (il primo verbale di informazioni,
spesso redatto ex art. 351 c.p.p., assume non di rado rilevanza probatoria in ragione della possibile
irripetibilità dell’atto).
Conclusivamente si può affermare che il tema dell’assunzione delle dichiarazioni del teste “particolarmente vulnerabile” presenta aspetti di significativa complessità e pone problematiche del tutto specifiche, soprattutto con riferimento alle modalità di conduzione dell’atto e ai tempi da rispettare nello
svolgimento dell’atto medesimo.
Per queste ragioni tra le modalità di assunzione di informazioni da vittime (e testimoni) “vulnerabili” – considerati tali sia in rapporto alla minore età che in ragione di altre caratteristiche individuali o per il loro coinvolgimento in fatti/reati di particolare violenza 51 – devono essere privilegiadi notevole rilievo il fatto che egli è vittima (non semplice testimone) nella maggior parte dei casi, e precisamente: nel 2013 in
118 ascolti (su 161 complessivi) e nel 2014 in 246 (su 329 complessivi). Altro elemento di significativo rilievo è chela maggioranza delle vittime restano le bambine: 113 (su 161 ascolti) il 1° anno e200 il 2° anno (su 329 ascolti). Come occorre anche riflettere
circa il presunto autore del fatto: nel 2013 in 161 ascolti in ben 26 l’indagato era il padre del minore esaminato e nel 2014 su 329
ascolti lo era in 108! Non può non rilevarsi l’inquietante circostanza che nel 2014 circa 1/3 dei procedimenti riguarda ipotesi delittuose intrafamiliari addebitabili al genitore del minore e, se si aggiungo 23 ipotesi a carico della madre del minore, registrati
nello stesso periodo, emerge che in 131 casi (su 329 audizioni protette effettuate) la violenza su minori è riconducibile ad uno
dei genitori. Ulteriore elemento di valutazione è l’età dei minori coinvolti in sede giudiziaria (abbiamo già rilevato in grande
prevalenza come vittime): nel 2013 78 minori (su un totale di 161) avevano meno di 14 anni, nel 2014 sono compresi in detta fascia di età ben 160 bambini (su un totale di 329). Una ultima notazione significativa è il luogo di assunzione delle informazioni
dal minorenne, perché circa la metà degli atti si sono svolti presso la “Sala ascolto protetto C. Caputo” istituita negli uffici della
Procura della Repubblica di Roma, dotata di tutta la strumentazione necessaria ed idonea anche a consentire la video conferenza come richiesta dalle Convenzioni Internazionali.
51
In un’ottica di orientamento, si cita il principio espresso nella Direttiva europea del 2012 al punto n. 56: «Le valutazioni
individuali dovrebbero tenere conto delle caratteristiche personali della vittima, quali età, genere, identità o espressione di ge-
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te quelle più idonee ad assicurare una successiva ed eventuale valutazione ad opera di organi giudicanti 52.
Alla luce di ciò, appare inderogabile la necessità che fin dall’inizio delle attività investigative questa
primaria fonte di informazioni sia cristallizzata con modalità e tecniche adeguate, tenendo a mente la
irrinunciabilità delle pur complesse procedure idonee ad assicurare la protezione delle vittime, da una
parte, e a scongiurare, dall’altra, il pericolo concreto che la eventuale condizione di “particolare vulnerabilità” si trasformi in “vulnerabilità della (successiva) testimonianza”, comprimendo inaccettabilmente sia le garanzie della difesa che lo stesso accertamento della verità.
Per queste ragioni si ritiene che un corretto esercizio dell’azione giudiziaria non possa prescindere da una formazione mirata e integrata 53 di tutti gli operatori coinvolti – forze dell’ordine, magistratura, esperti e avvocatura 54 – e dalla promozione di maggiori occasioni concrete e “spazi” condinere, appartenenza etnica, razza, religione, orientamento sessuale, stato di salute, disabilità, status in materia di soggiorno, difficoltà di comunicazione, relazione con la persona indagata o dipendenza da essa e precedente esperienza di reati. Dovrebbero
altresì tenere conto del tipo o della natura e delle circostanze dei reati, ad esempio se si tratti di reati basati sull’odio, generati da
danni o commessi con la discriminazione quale movente, violenza sessuale, violenza in una relazione stretta, se l’autore del reato godesse di una posizione di autorità, se la residenza della vittima sia in una zona ad elevata criminalità o controllata da
gruppi criminali o se il paese d’origine della vittima non sia lo Stato membro in cui è stato commesso il reato» e l’art. 22 della
stessa Direttiva sulla “valutazione individuale delle vittime per individuarne le specifiche esigenze di protezione”: «1. Gli Stati
membri provvedono affinché le vittime siano tempestivamente oggetto di una valutazione individuale, conformemente alle
procedure nazionali, per individuare le specifiche esigenze di protezione e determinare se e in quale misura trarrebbero beneficio da misure speciali nel corso del procedimento penale […] essendo particolarmente esposte al rischio di vittimizzazione secondaria e ripetuta, di intimidazione e di ritorsioni. 2. La valutazione individuale tiene conto, in particolare, degli elementi seguenti: a) le caratteristiche personali della vittima; b) il tipo o la natura del reato; e c) le circostanze del reato. 3. Nell’ambito della valutazione individuale è rivolta particolare attenzione alle vittime che hanno subito un notevole danno a motivo della gravità del reato, alle vittime di reati motivati da pregiudizio o discriminazione che potrebbero essere correlati in particolare alle loro
caratteristiche personali, alle vittime che si trovano particolarmente esposte per la loro relazione e dipendenza nei confronti
dell’autore del reato. In tal senso, sono oggetto di debita considerazione le vittime del terrorismo, della criminalità organizzata,
della tratta di esseri umani, della violenza di genere, della violenza nelle relazioni strette, della violenza o dello sfruttamento
sessuale o dei reati basati sull’odio e le vittime con disabilità. 4. Ai fini della presente direttiva si presume che i minori vittime di
reato abbiano specifiche esigenze di protezione essendo particolarmente esposti al rischio di vittimizzazione secondaria e ripetuta, di intimidazione e di ritorsioni. […]. 5. La portata della valutazione individuale può essere adattata secondo la gravità del
reato e il grado di danno apparente subito dalla vittima. 6. La valutazione individuale è effettuata con la stretta partecipazione
della vittima e tiene conto dei suoi desideri […]».
52
Si pensi, ad esempio, al caso in cui il giudice di appello ritenga di dovere procedere ad una nuova valutazione delle
dichiarazioni rese dalla persona minorenne nelle fasi precedenti. È, infatti, evidente che nella sua libera attività valutativa
possa anche pervenire a conclusioni diverse da quelle fatte proprie nella sentenza impugnata anche apprezzando diversamente una prova dichiarativa già assunta (ancor più nei casi in esame nei quali è fisiologico che il tempo trascorso dai
fatti non renda possibile assumere nuovamente la testimonianza). Ove ricorra tale evenienza, il giudice deve potere rivalutare direttamente l’esame del dichiarante già reso in precedenza e ciò è possibile soltanto se l’atto sia stato videoregistrato, come è opportuno che sia, già in sede di informazioni alla p.g. (ex art. 351, comma 1-ter, c.p.p.) o davanti al
P.M. (ai sensi dell’art. 362 c.p.p.), ovvero in incidente probatorio o nel giudizio di primo grado. Si intende con ciò dire che
una tempestiva assunzione delle informazioni, unita ad una adeguata modalità di ascolto, sono imprescindibili anche per
consentire una valutazione “postuma” della testimonianza: così operando, si limitano i rischi connessi alla sua ripetizione, inaccettabili compressioni del diritto di difesa dell’imputato, nonché il pericolo che possa essere pregiudicato
l’accertamento della verità.
53
All’articolo 18 della Convenzione di Istanbul si fa riferimento, tra l’altro, alla necessità di adottare prassi che «siano basate
su un approccio integrato che prenda in considerazione il rapporto tra vittime, autori, bambini e il loro più ampio contesto sociale».
54
Si veda il principio espresso al punto 61 della Direttiva 2012/29/UE: «È opportuno che i funzionari coinvolti in procedimenti penali che possono entrare in contatto personale con le vittime abbiano accesso e ricevano un’adeguata formazione sia
iniziale che continua, di livello appropriato al tipo di contatto che intrattengono con le vittime, cosicché siano in grado di identificare le vittime e le loro esigenze e occuparsene in modo rispettoso, sensibile, professionale e non discriminatorio. È opportuno
che le persone che possono essere implicate nella valutazione individuale per identificare le esigenze specifiche di protezione
delle vittime e determinare la necessità di speciali misure di protezione ricevano una formazione specifica sulle modalità per
procedere a tale valutazione. Gli Stati membri dovrebbero garantire tale formazione per i servizi di polizia e il personale giudiziario. Parimenti, si dovrebbe promuovere una formazione per gli avvocati, i pubblici ministeri e i giudici e per gli operatori che
forniscono alle vittime sostegno o servizi di giustizia riparativa. Tale obbligo dovrebbe comprendere la formazione sugli specifici servizi di sostegno cui indirizzare le vittime o una specializzazione qualora debbano occuparsi di vittime con esigenze particolari e una formazione specifica in campo psicologico, se del caso […]».
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visi di sensibilizzazione, ricerca e scambio di buone prassi 55 in un’ottica interististuzionale 56 e transdisciplinare 57.
55
Nella Direttiva 2012/29/UE il punto 62 delle considerazioni preliminari recita: «Gli Stati membri dovrebbero incoraggiare
le organizzazioni della società civile, comprese le organizzazioni non governative riconosciute e attive che lavorano con le vittime di reato, e collaborare strettamente con esse, in particolare per quanto riguarda le iniziative politiche, le campagne di informazione e sensibilizzazione, i programmi nel campo della ricerca e dell’istruzione, e la formazione, nonché la verifica e valutazione dell’impatto delle misure di assistenza e di protezione di tali vittime. Per prestare alle vittime di reato assistenza, sostegno e protezione adeguate è opportuno che i servizi pubblici operino in maniera coordinata e intervengano a tutti i livelli amministrativi: a livello dell’Unione e a livello nazionale, regionale e locale. Le vittime andrebbero assistite individuando le autorità competenti e indirizzandole ad esse al fine di evitare la ripetizione di questa pratica. Gli Stati membri dovrebbero prendere in
considerazione lo sviluppo di «punti unici d’accesso» o «sportelli unici», che si occupino dei molteplici bisogni delle vittime allorché sono coinvolte in un procedimento penale, compreso il bisogno di ricevere informazioni, assistenza, sostegno, protezione
e risarcimento». L’art. 26 (Cooperazione e coordinamento dei servizi) della Direttiva suindicata auspica inoltre che «1. Gli Stati
membri adottano azioni adeguate per facilitare la cooperazione tra Stati membri al fine di migliorare l’accesso delle vittime ai
diritti previsti dalla presente direttiva e dal diritto nazionale. Tale cooperazione persegue almeno i seguenti obiettivi: a) scambio
di migliori prassi; b) consultazione in singoli casi; e c) assistenza alle reti europee che lavorano su questioni direttamente pertinenti per i diritti delle vittime. 2. Gli Stati membri adottano azioni adeguate, anche attraverso internet, intese a sensibilizzare
circa i diritti previsti dalla presente direttiva, riducendo il rischio di vittimizzazione e riducendo al minimo gli effetti negativi
del reato e i rischi di vittimizzazione secondaria e ripetuta, di intimidazione e di ritorsioni, in particolare focalizzandosi sui
gruppi a rischio come i minori, le vittime della violenza di genere e della violenza nelle relazioni strette. Tali azioni possono includere campagne di informazione e sensibilizzazione e programmi di ricerca e di istruzione, se del caso in cooperazione con le
pertinenti organizzazioni della società civile e con altri soggetti interessati».
56
All’art. 15, comma 2, della Convenzione di Istanbul si fa riferimento alla necessità di promuovere «dei corsi di formazione
in materia di cooperazione coordinata inter istituzionale, al fine di consentire una gestione globale e adeguata degli orientamenti da seguire».
57
L’interdisciplinarietà è positiva perché permette a persone che lavorano in campi diversi di dialogare, ma occorrerebbe fare
un ulteriore passo in avanti in direzione della transdisciplinarietà, la sola capace di costruire un pensiero globale in grado di articolare i diversi saperi (E. Morin, Il metodo e la conoscenza, Milano, 2007).
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FRANCESCO VITALE
Avvocato – Foro di Palermo
La legge “Pinto”: profili critici tra diritto intertemporale
e disciplina a regime dopo la l. n. 134 del 2012
"Pinto" Act: critical profiles between intertemporal law
and current discipline after the Act n. 134 of 2012
La l. 24 marzo 2001, n. 89 (c.d. legge Pinto) ha disciplinato il diritto a chiedere l’equa riparazione per il danno patito
a causa dell’irragionevole durata del processo, recependo la giurisprudenza di Strasburgo in materia di equo indennizzo per la violazione dell’art. 6, § 1, Cedu.
Il contributo affronta le incompiutezze della disciplina, ponendo in risalto alcuni rischi di ineffettività.
The Law of 24 March 2001, n. 89 (so-called legge Pinto) set the right to seek fair compensation for the damage
suffered because of the unreasonable length of the trial, transposing the Strasbourg jurisprudence on the field of
fair compensation for the violation of art. 6 § 1 ECHR.
The article deals with the incompleteness of the discipline, highlighting some risks of ineffectiveness.
L’ATTUALE QUADRO NORMATIVO E IL CONTESTO GIURIDICO EUROPEO
Con il d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito dalla l. 7 agosto 2012, n. 134 sono state introdotte novità e
modifiche normative con riferimento alla disciplina dell’equa riparazione dovuta a fronte della durata
irragionevole dei processi.
Quest’ultima, racchiusa nella c.d. legge “Pinto” del 24 marzo 2001, n. 89, è di fondamentale importanza; il suo fine è insito nella propria rubrica e si radica in principi cardine dell’ordinamento costituzionale italiano ed europeo: essa, infatti, fu introdotta nel 2001 per dare concreta attuazione alla legge
costituzionale n. 2 del 1999 in tema di “Giusto Processo” 1.
1
In materia la letteratura è assai ampia. Tra gli altri, S. Lorusso, La tendenziale economia della prova nei riti differenziati, in Dir. pen. e
proc., 2012, 3, p. 269 ss., il quale sottolinea come, con riferimento ai riti alternativi previsti dal codice di procedura penale,
l’economia processuale e quindi la ragionevole durata, rappresenta un valore del processo penale riformato, che dopo la riscrittura
dell’art. 111 Cost. si traduce in un obiettivo di rilevanza costituzionale: la durata ragionevole del processo può infatti essere garantita anche e proprio grazie a cadenze procedimentali che assicurino apprezzabili “economie di scala”; ma si leggano anche E. Amodio, Ragionevole durata del processo, abuse of process e nuove esigenze di tutela dell’imputato, in Dir. pen. proc., 2003, 7, p. 797; E. Amodio, Riforme urgenti per il recupero della celerità processuale, in Dir. pen. proc., 2010, 11, p. 1269; T. Bene, Tra ragionevole durata del processo e funzionalità processuale, in Dir. pen. proc., 2011, 6, p. 755; A. Colella, L’Italia condannata a Strasburgo per il ritardo nella liquidazione dell’equa riparazione ex art. 2 della cd. legge Pinto: la Corte europea richiede l’adozione di misure strutturali, in dirittopenalecontemporaneo.it, 23 dicembre 2010; F. Conti, La giurisprudenza costituzionale sul giusto processo penale: riflessioni a un lustro dall’entrata in
vigore del “nuovo” art. 111 Cost., in L. Filippi (a cura di)., Equo processo. Normativa italiana ed europea a confronto, Padova, 2006, p.
115 ss.; D. Curtotti Nappi, La “durata ragionevole” del processo penale è anche un problema di norme, in Dir. pen. proc., 1999, 8, p. 1030;
F. Dinacci, Impugnazioni e ragionevole durata, in AA.VV., Il codice di procedura penale in vent’anni di riforme, Torino, 2009, p. 145 ss.;
F. Dinacci, Processo penale e Costituzione, Milano, 2010, p. 469 ss.; P. Ferrua, Il “giusto” processo tra modelli, regole e principi, in Dir.
pen. proc., 2004, 4, p. 405; A. Furgiuele, La “ragionevole durata” delle indagini preliminari, in Dir. pen. proc., 2004, 10, p. 1193; V. Garofoli, La durata ragionevole del processo (garanzia oggettiva) e la durata irragionevole del “processo breve” (garanzia soggettiva), in treccani.it, 25 febbraio 2010; V. Garofoli, La malintesa endiadi tra pubblica sicurezza e durata ragionevole del processo, in Dir. pen. proc.,
2009, 6, p. 673; F. Giunchedi, I tempi di applicazione del giusto processo allo scrutinio delle Sezioni Unite – Commento, in Dir. pen. proc.,
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Tale principio, si radica nel contenuto dell’art. 6 Cedu (ma anche dell’art. 14, comma 3, lett. c) del
Patto internazionale sui diritti civili e politici; dell’art. 47, comma 2 della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione Europea) quale, per l’appunto, regola il c.d. “due process”, e cioè un vero e proprio “manifesto” delle norme di “civiltà processuale” frutto dell’elaborazione di decenni di cultura giuridica europea e anglosassone 2. In particolare, il paragrafo 1 della disposizione convenzionale stabilisce che «ogni
persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa
penale formulata nei suoi confronti».
La riforma del 2012 ha investito profondamente la normativa di riferimento, incidendo in modo decisivo sulle concrete possibilità di azionare il ricorso per l’irragionevole durata dei processi tramite
l’inserimento di una serie di “disposizioni-filtro” e di barriere evidentemente dirette ad un generale risparmio della spesa pubblica, pur a detrimento delle giuste pretese individuali, considerando i notevoli
esborsi connessi all’equo indennizzo per l’irragionevole durata del processo 3.
Se da un lato, quindi, il nuovo regime sembra regolare più analiticamente la procedura per l’ottenimento dell’equo indennizzo, scansionandone meglio le fasi, dall’altra pone veri e propri “paletti” al ricorso, limiti al riconoscimento del petitum (con l’attribuzione, al giudice, di indici di discrezionalità non
previsti dalla legislazione europea), prevedendo gravi conseguenze per il ricorrente nei casi di inammissibilità.
Tra le varie novità, infatti, spiccano alcuni interventi, come ad esempio la riformulazione dell’art. 2,
comma 2 4, col quale è stato ex novo imposto al giudice del procedimento di accertare la complessità del
caso e il comportamento delle parti del giudizio in cui si è ecceduta la ragionevole durata (va da se che
tale accertamento deve essere condotto al fine di valutare se si sia verificata violazione della ragionevole durata del procedimento in conseguenza della condotta dilatoria della parti).
Il suddetto obbligo, che viene imposto all’organo giudicante in merito alla verifica circa la sussistenza della eventuale violazione, si pone in stretta correlazione a quanto previsto dal combinato disposto
degli artt. 2, commi 2-bis e quinquies, stessa legge, i quali hanno manifestato problematiche di legittimità
costituzionale del nuovo impianto normativo.
Un primo elemento di novità attiene alla precisa individuazione, contenuta nell’art. 2, comma 2-bis,
dei tempi il cui sforamento determina violazione della durata ragionevole: infatti «si considera rispettato il termine ragionevole di cui al co. 1 se il processo non eccede la durata di tre anni in primo grado, di
due anni in secondo grado, di un anno nel giudizio di legittimità. Ai fini del computo della durata, il
processo penale si considera iniziato con l’assunzione della qualità di imputato, di parte civile o di responsabile civile, ovvero quando l’indagato ha avuto legale conoscenza della chiusura delle indagini
preliminari. Si considera comunque rispettato il termine ragionevole se il giudizio viene definito in
modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni. Ai fini del computo non si tiene conto del tempo in cui il processo è sospeso e di quello intercorso tra il giorno in cui inizia a decorrere il termine per
proporre l’impugnazione e la proposizione della stessa».
Il secondo, in modo del tutto inedito, prevede espressamente i casi nei quali viene escluso l’inden2005, 3, p. 329; V. Grosso, Appunti sull’applicazione della “Legge Pinto” in campo penale, in Dir. pen. proc., 2003, 11, p. 1403; G. Marra
(a cura di), La responsabilità disciplinare da ritardo e l’irragionevole durata dei processi, in Dir. pen. proc., 2011, 8, p. 1015; D. Pulitanò, Tempi del processo e diritto penale sostanziale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2005, p. 1402; A. Nappi, La ragionevole durata del giusto processo, in
Cass. pen., 2002, p. 1540; A. Scalfati, A proposito della durata ragionevole del processo, in Proc. pen. giust., 2011, p. 2; P. Troisi, L’equa riparazione per irragionevole durata del processo, in G. Dalia-P. Troisi, Risarcimento del danno da processo, Cedam, 2007, p. 167 ss.
2
Utile riferimento sul punto è sicuramente rappresentato dal recente contributo di M. Gialuz, L’apertura al sistema convenzionale muta gli equilibri e i connotati del giusto processo, in Dir. pen. proc., 2014, 12, p. 8, il quale abilmente sottolinea come l’apertura
al sistema convenzionale operata da una serie di sentenze del Giudice delle Leggi sta trasformando nel profondo la giustizia
penale italiana, non soltanto con riferimento alla la fisionomia del processo (come conseguenza di riforme indotte dalla giurisprudenza di Strasburgo), e sta generando una radicale rivoluzione della nozione di equo processo.
3
Tra le tante, con la Relazione “Giustizia e organizzazione in Europa, l’Impatto della funzionalità dei tribunali sul contesto economico del territorio”, Mario Barbuto al XVI Congresso dell’UE dei funzionari giudiziari nel 2010 indicava che alla fine del 2009 il debito complessivo per la Legge Pinto, comprensivo delle somme pagate fino al 2008 e di quelle ancora da pagare era stato quantificato in 267 milioni di euro, indicando in 500 milioni di euro all’anno il rischio economico per l’Italia negli anni avvenire con
riferimento alle esigenze di equa riparazione.
4
In assenza di altre indicazioni, i richiami normativi si riferiscono alla c.d. legge Pinto.
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nizzo: sembra trattarsi di quelle fattispecie nelle quali il legislatore ha ritenuto che alla parte debbano
essere attribuite alcune responsabilità nella lunghezza del giudizio.
Nel caso in cui il ricorso abbia ad oggetto il processo penale, specifici motivi di non accoglimento
della domanda di indennizzo sono introdotti dalle lett. d) ed e) dell’art. 2, comma 2-quinquies. Nella
prima ipotesi non è riconosciuto alcun indennizzo quando si verifica l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione connessa a condotte dilatorie della parte; nel secondo caso quando l’imputato non ha
depositato istanza di accelerazione del processo penale nei trenta giorni successivi al superamento dei
termini cui all’art. 2-bis (30 giorni dal momento in cui il termine ultimo di 6 anni di ragionevole durata
processuale sia spirato).
Per altro verso, il nuovo art. 2-bis stabilisce l’esatta quantificazione dell’indennizzo che spetta alla
parte. Nel determinare tale ammontare il giudice dovrà tenere conto del comportamento delle parti e
del valore della controversia.
Inoltre, il nuovo art. 3 ha subìto incisive trasformazioni circa l’attivazione della procedura per chiedere ed ottenere l’indennizzo. A decidere è un magistrato consigliere della corte d’appello (la norma dispone che il ricorso sia presentato al presidente della corte, che usualmente designa un magistrato cui
assegna il procedimento istaurato) il quale, inaudita altera parte, emette un decreto su domanda di ingiunzione di pagamento presentata ad istanza di parte nella forma del ricorso previsto dal codice di
procedura civile. Contro il decreto è possibile fare opposizione aprendo un giudizio che sarebbe destinato a concludersi, in teoria, in pochi mesi.
L’art. 4 ha invece previsto un termine di proponibilità. La domanda per la riparazione può essere
proposta a pena di decadenza entro 6 mesi dal momento in cui la decisione che definisce il procedimento è divenuta definitiva.
Un ultima importante modifica è quella che ha avuto ad oggetto l’art. 5-quater: il nuovo testo, infatti,
stabilisce che, se la domanda di indennizzo è giudicata inammissibile o manifestamente infondata, il
ricorrente sarà condannato al pagamento di una ammenda che è compresa tra le 1.000 euro e le 10.000
euro.
Come a breve si vedrà, con espresso riferimento al processo penale, destano perplessità gli effetti che
la riforma già produce in termini di effettivo esercizio del diritto ad un’equa riparazione nel caso, molto
frequente in Italia, in cui l’iter processuale si prolunghi oltre i limiti consentiti: sembra che gli strumenti
introdotti dalla riforma del 2012 siano principalmente oneri per il potenziale ricorrente, il quale, a vario
titolo, viene spinto dal legislatore ad abdicare ai suoi diritti.
L’intervento legislativo, peraltro, sembra paradossalmente comprimere il diritto allo svolgimento
del processo in tempi brevi. Si aggiunga che le nuove disposizioni rappresentano chiaramente un sistema, neanche particolarmente artefatto, il cui chiaro fine si rivela l’aggiramento della normativa convenzionale.
Occorre una precisazione: sebbene la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (e quindi gli artt. 6
e 13, con riferimento al processo) sia divenuta oggetto dell’art. 6 TUE, §§ 2 e 3, a seguito dell’importante
modifica intervenuta ad opera del Trattato di Lisbona, entrato in vigore l’1 dicembre 2009, pur rappresentando un univoco punto di riferimento per gli interpreti, allo stato essa non ha efficacia diretta
nell’ambito dell’ordinamento interno.
Sul punto, peraltro, è necessario registrare la recente pronuncia con la quale la Corte di Giustizia
dell’Unione Europea, il 18 dicembre 2014, ha adottato il parere negativo n. 2/13 pronunciandosi sulla
compatibilità del Progetto riveduto di accordo per l’adesione dell’Unione alla Cedu, presentato a Strasburgo il 10 giugno 2013. La Corte di giustizia dell’Unione europea, in particolare, sottolineando la peculiarità dell’ordinamento giuridico dell’Unione, ha identificato sei principali profili di incompatibilità
del Progetto con il diritto primario dell’Unione riguardanti, rispettivamente: l’applicazione dell’art. 53
Cedu rispetto ai diritti riconosciuti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’UE (CDFUE); la preservazione del principio della fiducia reciproca fra gli Stati membri dell’UE; l’autonomia ed efficacia del
meccanismo del rinvio pregiudiziale alla luce del Protocollo XVI alla Cedu; la compatibilità tra l’art. 344
TFUE e l’art. 33 Cedu; il meccanismo del convenuto-aggiunto (co-respondent) e del previo coinvolgimento della Corte di giustizia dell’Unione europea; l’attribuzione esclusiva alla Corte Edu della competenza
a pronunciarsi sulla violazione dei diritti in ambito PESC/PESD.
In ragione di tutti gli aspetti identificati, i giudici dell’Unione hanno quindi concluso che il progetto
di accordo sull’adesione dell’Unione europea alla Cedu, allo stato, non è compatibile con le disposizioni
del diritto europeo, cosicché le norme contenute nella Convenzione continuano a risultare non diretta-
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mente applicabili nel nostro ordinamento interno: e tuttavia esse devono essere ricomprese nell’alveo
dei c.d. “obblighi internazionali”, indicati dall’art. 117 Cost., con la conseguenza che la norma nazionale
incompatibile con una norma convenzionale, e dunque, con stessi gli obblighi internazionali viola per
ciò stesso il nuovo parametro costituzionale.
L’INDIVIDUAZIONE DEL DIES A QUO PER L’ANALISI DELL’IRRAGIONEVOLE DURATA: CRITICITÀ DI DIRITTO
INTERTEMPORALE
Le problematiche insorte alla luce della normativa riformata, con riferimento espresso al processo penale, sono essenzialmente due: una di portata generale, presenta possibili ripercussioni riguardanti la legittimità costituzionale delle nuove disposizioni; l’altra potenzialmente incide in modo anomalo
sull’interpretazione dell’art. 11 disp. prel. c.c., nonché su principi che trascendono l’intero ordinamento
giuridico.
Una prima questione riguarda quei casi processuali tutt’ora in corso in cui, a seconda che si applichi
la legge “Pinto” pre-riforma o la sua nuova versione, il calcolo del periodo di 6 anni di durata ragionevole del processo varia a seconda del giorno iniziale di riferimento: nell’originaria formulazione delle
norme in oggetto il legislatore non aveva specificato la decorrenza di tale termine (così la Cassazione,
facendo propri i canoni interpretativi ed esplicativi utilizzati dalla Corte di Strasburgo, aveva previsto
che il dies a quo ai fini del computo del termine di 6 anni di durata ragionevole potesse fissarsi già col
primo atto garantito nel corso dell’indagini preliminari, ad es. l’interrogatorio).
Diversamente la nuova disciplina ha esplicitamente determinato, con riferimento al processo penale,
il termine iniziale dei 6 anni dall’avviso di conclusione indagini.
Nello spazio di apposita indeterminatezza della precedente norma, la quale rinviava espressamente
a quanto stabilito dalla Cedu, il termine iniziale decorreva da tutti quegli atti che producessero un “vero coinvolgimento” del soggetto nelle indagini (si è detto, dalla comunicazione dell’avviso di garanzia
o dall’esperimento di un’attività analoga): la clausola aperta prevista dalla formulazione originaria della legge costituiva un vero e proprio “canale diretto” tramite il quale il giudice interno, dovendo decidere sulla domanda di equa riparazione, potesse di volta in volta applicare i parametri interpretativi
propri della Corte di Strasburgo, adattati ai tempi e alle caratteristiche proprie dell’ordinamento nazionale, garantendo comunque che l’applicazione interna delle disposizioni europee fosse sempre conforme agli standard della Convenzione. In tal modo, l’indagato aveva la possibilità di computare, come
dies a quo, il momento in cui fosse venuto a conoscenza del procedimento nei suoi confronti anche durante un periodo delle indagini più risalente nel tempo, comunque precedente all’esercizio dell’azione
penale 5.
Il nuovo art. 2, comma 2-bis della legge, stabilisce che «Il processo penale si considera iniziato con
l’assunzione della qualità di imputato, di parte civile o di responsabile civile, ovvero quando l’indagato
ha avuto legale conoscenza della chiusura delle indagini preliminari».
In tal senso, la nuova norma presenta potenziali criticità da approfondire, anche alla luce della prassi: è noto che le investigazioni dell’Autorità Giudiziaria possano durare diversi anni, nel corso dei quali
5
A tal riguardo, appare utile la consultazione di diverse pronunce della Suprema Corte, tra le quali le Cass., Sez. I, 5 agosto
2004, n. 15087, in Mass. giur. it., 2004, la quale ha per l’appunto stabilito che con esplicito riferimento al processo penale, il "dies a
quo" in relazione al quale valutare la durata del processo deve essere individuato nel momento, eventualmente anteriore all’esercizio dell’azione penale da parte del Pubblico Ministero, in cui l’indagato ha conoscenza legale dello svolgimento di indagini nei suoi confronti” (successive conformi Cass., sez. I, 8 novembre 2010, n. 22682, in CED Cass. n. 2010; Cass., sez. VI, Ord., 30 luglio 2010, n. 17917, in
Plurisonline; Cass., sez. I, 23 dicembre 2009, n. 27239, in Plurisonline; Cass., sez. I, 7 dicembre 2006, n. 26201, in Mass. giur. it.,
2006; Cass., sez. I, 13 febbraio 2003, n. 2148, in Mass. Giur. It., 2003, e Arch. Civ., 2004, p. 137; Cass., sez. I, 30 gennaio 2003, n.
1405, in Giust., 2003, 11, p. 1174, e Guida dir., 2003, 40, p. 37. La giurisprudenza ha però escluso in diverse pronunce che la semplice iscrizione della notitia criminis nel registro di cui all’art. 335 c.p.p., o l’indicazione del nome della persona cui si attribuisce
il reato, sia idonea a definire il termine iniziale dal quale determinare la ragionevole durata del procedimento, in quanto ha ritenuto che non sussistano danni patrimoniali o personali. Tra le tante, si veda sul punto Cass., sez. I, 6 febbraio 2003, n. 1740, in
Arch. civ., 2003, p. 1373. In realtà, con riferimento a tale ultimo indirizzo viene da chiedersi se anche il solo fatto di venire a conoscenza ex art. 335 c.p.p. di un indagine a proprio carico (nel caso di iscrizione della notitia criminis nel modello 21), anche in
mancanza dell’esperimento di qualsivoglia atto garantito non sia già idoneo di per sé a giustificare quello stato d’ansia e di timore verso il procedimento penale in atto, e tale quindi da giustificarne la considerazione ai fini del calcolo del tempo ragionevole.
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l’indagato perviene alla conoscenza legale delle stesse nell’ambito, ad esempio, della richiesta di interrogatorio, o dell’irrogazione di misure cautelari a suo carico e del contemporaneo istaurarsi di un procedimento cautelare, comportante un’eventuale ricorso al Tribunale delle Libertà, in Cassazione, in generale con qualsiasi atto garantito. La questione non sembrerebbe di secondaria importanza, dal momento che l’indagato, essendo già a conoscenza del processo a suo carico, patirebbe tutte le conseguenze dello stesso, in termini legali ed umani.
Alla luce di ciò, è opportuno chiedersi quale normativa debba essere applicata alle domande di equa
riparazione aventi ad oggetto un processo penale sorto prima della riforma del 2012 e finito dopo la
stessa. A ben vedere, una più semplice soluzione sarebbe da ricercare nell’applicazione dell’ultima legge entrata in vigore, la quale regola la procedura di ricorso da utilizzare nel caso specifico; una tesi del
genere senza dubbio avvantaggerebbe lo Stato, il quale, a fronte di uno spostamento in avanti del dies a
quo, eviterebbe ingenti richieste di indennizzo: si pensi ad esempio al caso di un procedimento penale
in cui, pur avendo avuto luogo l’interrogatorio a febbraio 2007, sia stato disposto avviso di conclusione
delle indagini ex art. 415-bis c.p.p. solo nel giugno 2008, a fronte di una sentenza divenuta irrevocabile
nel luglio 2014. In siffatto caso, è evidente, l’imputato assolto verrebbe privato del diritto a proporre la
domanda e ricevere un equo indennizzo.
A tal proposito è opportuno osservare come la consolidata giurisprudenza di Strasburgo avesse in
precedenza individuato il possibile dies a quo nel momento dell’arresto, o con l’applicazione di una misura cautelare, o ancora, con l’esperimento di uno dei mezzi di ricerca della prova, quali l’esecuzione di
una perquisizione, di un’ispezione o di un sequestro, in senso opposto al sentiero percorso dalla nuova
normativa italiana 6.
Una parziale luce sui dilemmi ermeneutici sorti potrebbe individuarsi nel fatto che il ricorso per
l’equa riparazione è strettamente correlato a specifiche fasi e momenti del processo principale. Partendo
da tale presupposto, la nuova normativa si dovrebbe considerare inapplicabile alle domande che hanno
ad oggetto un processo sorto precedentemente alla riforma del 2012: e in tal senso, l’adozione di una disciplina transitoria che avesse regolato in modo espresso e chiaro i casi di diritto intertemporale sarebbe
di certo stata garanzia a che l’ordine pubblico processuale trovasse adeguato ristoro. L’intervento di riforma sarebbe stato maggiormente informato ai principi cardine dello Stato di diritto, dalla certezza
delle situazioni giuridiche e processuali, all’affidamento del cittadino nel rispetto da parte del legislatore delle attribuzioni giuridiche già acquisite.
D’altro canto, un’analisi approfondita disvela i rischi di illegittimità costituzionale di una scelta interpretativa in senso opposto: essa, infatti, rischierebbe di collidere con l’art. 3 Cost., per il fatto di trattare in modo diverso situazioni uguali, così come col combinato disposto degli artt. 111, comma 2, e
117, comma 1, Cost.
Un utile presupposto da cui partire è che, nello Stato di diritto, il processo penale può istaurarsi ed
avere vita solo se ricompreso e regolato nell’alveo di regole fondamentali ben definite: esso, si dice, può
essere celebrato nella misura in cui è legale. All’uopo, l’esperienza giuridica occidentale ha prodotto un
substrato di principi, in assenza dei quali alcun processo potrà mai venire alla luce: nel nostro ordinamento, la concentrazione di tali valori giuridici costituisce il contenuto dell’art. 111 della Costituzione, il
quale, a sua volta, ha recepito, successivamente all’entrata in vigore della l. cost. n. 2 del 1999, il disposto dell’art. 6 Cedu. Il complesso di tali principi, quindi, si può dire del tutto irrinunciabile e ontologicamente connaturato alla “nascita” di qualsivoglia attività giurisdizionale.
Tra i tanti, il criterio della ragionevole durata è forse ciò che rappresenta il proposito più ambito della giustizia: la snellezza, la velocità, la concreta applicazione entro un termine congruo delle regole, la
risoluzione veloce delle controversie. È, in effetti, su ciò che i cittadini fanno maggiormente legittimo
affidamento. Vieppiù, il processo penale rappresenta una “spada di Damocle” incombente sui consociati ad esso sottoposti, concretantesi nella sanzione penale, foriera delle conseguenze più incisive sul piano giuridico e sociale, come più volte evidenziato dalla Corte di Strasburgo: l’amministrazione della
giustizia non può, infatti, essere caratterizzata da ritardi talmente gravi da comprometterne l’efficacia e
la credibilità.
Un siffatto assunto trova ancor più rilievo nel processo dei reati, in cui costituisce il principale rimedio al rischio che una persona “resti troppo a lungo sotto il peso di un’accusa”, con ciò che essa com6
Ex plurimis, Corte e.d.u., Messina c. Italia, 26 febbraio 1993; Corte e.d.u., Manzoni c. Italia, 19 febbraio 1991; Corte e.d.u., Eckle
c. Repubblica Federale Tedesca, 15 luglio 1991.
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porta in termini giuridici e sociali 7: allo scopo, gli ordinamenti nazionali europei, così come l’Italia con
la legge “Pinto”, hanno destinato specifiche regole applicative.
Orbene, se ne trarrebbe che il rimedio posto in caso di violazione della ragionevole durata non dovrebbe essere “condizionato”, postergato, rispetto all’eventuale postuma violazione del termine previsto dalla legge, bensì connaturato al criterio della ragionevole durata in sé considerato, a sua volta carattere fondante e ontologico del processo.
Dato che l’effettiva ratio del ricorso per l’equa riparazione andrebbe ricercata nell’affidamento del
cittadino nella giustizia, che nasce nel momento in cui, per l’appunto, insorge l’iter processuale, ulteriore corollario ne sarebbe che il poter del cittadino di esperire la domanda per l’equa riparazione dovrebbe insorgere, già, all’”alba” del processo, tale potendosi considerare non un diritto che si acquisisce una
volta superato il tempo limite previsto dalla legge, ma un diritto “acquisito per il processo stesso”.
Da ciò sembrerebbe derivarne che il soggetto indagato abbia già acquisito il diritto di potersi eventualmente avvalere della richiesta dell’equa riparazione a fronte del ritardo della giustizia. E peraltro,
come su specificato, è il caso di osservare come nella maggioranza dei casi, nell’esperimento
dell’attività di cui all’art. 335 c.p.p. in ordine alla conoscenza dell’avvenuta iscrizione di un’indagine a
proprio carico (c.d. modello 21), il soggetto si avvale già (da tale momento) del proprio avvocato difensore di fiducia.
In effetti, nell’ottica di voler garantire un diritto all’indennizzo per l’irragionevole decorso delle tempistiche processuali, non si vede come si possa escludere il computo del dies a quo fin già dall’avvenuta
conoscenza dell’iscrizione della notitia criminis a proprio carico, se è vero che punto focale della richiesta di indennizzo deve essere quel patema d’animo, quello stato emotivo di ansia patologica derivante
dalla conoscenza di un’indagine intrapresa nei propri confronti (come ribadito a più riprese dalla Suprema Corte).
A tal punto è facile comprendere come, se si considera il diritto a ottenere l’equa riparazione ontologicamente connaturato al “giusto” processo, ai giudizi ancora pendenti, ma iniziati in tempo anteriore
rispetto all’intervento riformatore del 2012, potrebbe essere validamente applicata la normativa precedente, in virtù di quei legami che la legge “Pinto” articola tra il giudizio per l’indennizzo e il suo oggetto.
SEGUE: PROFILI DI LEGITTIMITÀ DELLA DISCIPLINA “A REGIME” E L’INTERVENTO DELLA CORTE COSTITUZIONALE
Un’analoga impostazione interpretativa potrebbe adottarsi in relazione ai giudizi sorti a seguito della
riforma del 2012: come si è detto, infatti, prima dell’entrata in vigore delle nuove disposizioni la durata
del processo penale era calcolata computando il termine iniziale dal momento in cui l’indagato veniva a
conoscenza delle indagini a suo carico. Sul punto gli interpreti, compiendo una scelta dalla ratio pur
condivisibile, se da un lato avevano sostenuto l’insufficienza dell’iscrizione nel registro degli indagati,
dall’altro, come si è visto, ritenevano idonea l’informazione di garanzia, di una perquisizione, della ri-
7
Si veda Corte e.d.u., H. c. Francia, 24 ottobre 1989. Nello stesso senso si veda Corte e.d.u., Wemhoff c. R.T.F., 27 giugno 1968.
Tali principi, chiaramente, valgono ancora più intensamente quando l’indagato sia detenuto (Corte e.d.u., sez. III, Djaid c. Francia, 29 settembre 1999). Interessante notare, sulla scia di quanto finora esposto, come i giudici di legittimità, in Cass. civ., Sez. I, 3
gennaio 2008, n. 321, e con preciso riferimento ad alle pronunce della Corte di Strasburgo sopra indicate, abbiano sostenuto la
tesi secondo cui l’eventuale applicazione di misure cautelari in itinere non incida negativamente sull’an ma al più sul quantum
debeatur, con la conseguenza che ben potrebbero essere considerate alla stregua di dies a quo, dal momento che è alternativamente dalla loro applicazione che insorge quello stato di ansia rilevato dalla Corte di legittimità, il quale legittima la richiesta di indennizzo. In ordine a tali decisioni e ai valori che esse proclamano, risultano del tutto carenti di costituzionalità alcuni altri passaggi della riforma. Essa, infatti, ha previsto che l’indennizzo per il danno da eccessiva durata del processo debba essere determinato tenendo conto anche dell’esito del processo la cui durata si ritiene irragionevole. Tale disposizione, in linea di principio,
appare inaccettabile. Se è vero, infatti, che l’art. 111 Cost. parla di ragionevole durata del processo, se ad essa ha diritto,
nell’ambito del processo penale, l’imputato che poi verrà assolto, non si comprende perché mai non dovrebbe averne diritto
l’imputato che sarà poi condannato: entrambi hanno diritto a che i fatti oggetto dell’imputazione formulata siano il prima possibile oggetto di accertamento e di decisione, né l’art. 111 Cost., né tantomeno il codice di procedura penale, recano alcuna differenza sostanziale, in ordine alle garanzie previste, tra imputato assolto e imputato condannato. Di conseguenza, per la stesso
principio in base al quale la “ragionevole durata” è connaturata all’art. 111 Cost., al giusto processo, non si vede come il condannato non possa giustamente esperire il rimedio “Pinto” così come l’assolto. Non può ritenersi, infatti, che si possa legare in
modo inscindibile la riparazione del danno all’esito del giudizio che si assume di durata irragionevole.
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chiesta di proroga delle indagini preliminari o, generalmente, di un qualsiasi atto legale col quale
l’indagato potesse venire a conoscenza dell’esistenza di indagini a suo carico.
Se ne evince che la norma precedentemente in vigore, costituendo una clausola aperta di perenne
adattamento giurisprudenziale alle concrete fattispecie processuali, consentiva a che l’intera fase delle
indagini preliminari (in alcuni casi, l’esperienza della prassi insegna, prolungata oltre ogni misura prevista dal codice di procedura penale) fosse computata ai fini della determinazione della durata
dell’intero procedimento, considerato, quindi, nella sua effettiva totalità.
Su questo versante, le nuove disposizioni apparirebbero gravate da alcuni profili di illegittimità costituzionale: con riferimento al parametro previsto dall’art. 3 Cost., per il quale la legge deve trattare in
modo identico identiche situazioni, e in modo difforme situazioni difformi; agli artt. 111, commi 1 e 2 e
117 Cost., in merito sia al mancato rispetto dei principi del giusto processo, sia all’“evasione” dagli obblighi internazionali; sia poi dall’art. 6, § 1, Cedu. E peraltro la portata applicativa delle nuove disposizioni si porrebbe in contrasto con i parametri della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, la quale
da sempre ha considerato la fase delle indagini preliminari come ricompresa nel periodo di durata
complessiva del processo ai fini della determinazione della sua ragionevole durata.
Con riguardo alla necessità di annoverare il periodo d’indagine, ancor più se eccessivamente protrattosi, nel computo della durata ragionevole, un tassello fondamentale è stato apportato dall’intervento della corte d’appello di Firenze. I giudici di merito, che con ordinanza del 1 aprile 2014, n. 180,
hanno rimesso la questione alla Corte Costituzionale pronunciandosi su un caso in cui il periodo delle
investigazioni era durato diversi anni in ragione della complessità degli accertamenti compiuti dall’Autorità Giudiziaria, aventi ad oggetto reati tributari e societari, hanno considerato la questione rilevante
nella fattispecie non solo per l’evidente applicabilità (e applicazione in sede di rigetto del ricorso) della
norma richiamata, ma anche per la rilevanza concreta della durata delle indagini preliminari (nella fattispecie, oltre sei anni e mezzo) nella complessiva durata del procedimento definito con sentenza del 28
gennaio 2013 della Corte di Cassazione. La Corte ha sostenuto anche che «quanto alla non manifesta infondatezza, non può non osservarsi come, secondo la pacifica interpretazione della giurisprudenza di
legittimità ante riforma, una interpretazione che limitasse la valutazione della ragionevole durata del
processo al solo periodo successivo all’esercizio dell’azione penale, finirebbe col non tenere in alcuna
considerazione la fase delle indagini preliminari, e ciò si risolverebbe in una violazione sia dell’art. 6
della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, sia della stessa legge n. 89 del 2001, che all’art. 6 citato
si richiama espressamente».
Infatti, la nozione di causa, o di processo, considerata dalla Cedu e dalla Legge “Pinto”, si identifica,
con qualsiasi procedimento si svolga dinanzi agli organi pubblici di giustizia per l’affermazione o la
negazione di una posizione giuridica di diritto o di soggezione facente capo al soggetto che il processo
promuova o subisca. Processo, in tal senso, è dunque anche la fase delle indagini che precedono il momento in cui si configura il vero e proprio esercizio dell’azione penale: nel caso in cui l’operato investigativo sia protratto irragionevolmente nel tempo, esso ben deve poter assumere rilievo, ai fini dell’equa
riparazione, a partire dal momento in cui sia possibile identificare uno o più soggetti che di quel procedimento siano effettivamente divenuti parte per essere stati informati della pendenza del procedimento
medesimo e posti in grado di parteciparvi 8.
Nel caso analizzato dai giudici di Firenze, il dies a quo era pacificamente identificato col compimento
di atti che comportassero l’invio dell’avviso di garanzia o la partecipazione dell’indagato o del suo difensore al processo (con l’informazione di garanzia ex art. 369 c.p.p. e con l’ordinanza del G.i.p. di custodia cautelare in carcere), apparendo peraltro davvero insostenibile che il periodo di custodia cautelare non potesse essere calcolato nella durata del processo ai fini della sua ragionevole durata, e a maggior ragione della sua natura di massimo strumento coercitivo dello Stato nella persecuzione dei reati.
In merito, è opportunamente giunto l’intervento chiarificatore del Giudice delle leggi, con la sentenza 23 luglio 2015, n. 184 9. La Corte costituzionale ha infatti stabilito l’illegittimità dell’art. 2, comma 2
bis, della l. 24 marzo 2001, n. 89 nella parte in cui prevede che il processo penale si consideri iniziato
con l’assunzione della qualità di imputato, ovvero quando l’indagato ha avuto legale conoscenza della
8
Sul punto, La Corte d’Appello di Firenze ha rinviato a due pronunce dei giudici di legittimità, in particolare Cass., sez. I, 30
gennaio 2003, n. 1405; Cass, sez. I, 5 agosto 2004, n. 15087.
9
In www.processopenaleegiustizia.it, sub Corte costituzionale.
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chiusura delle indagini preliminari, anziché quando l’indagato, in seguito a un atto dell’autorità giudiziaria, abbia avuto conoscenza del procedimento penale a suo carico.
Sulla scorta di varie pronunce della Corte di Strasburgo 10, la declaratoria d’illegittimità ha sottolineato come al principio espresso dall’art. 6 della Carta – che riconduce alla lesione del diritto alla durata ragionevole del processo la pretesa riparatoria nei confronti dello Stato – debba conseguire che l’equa
riparazione riguardi non soltanto la fase che la normativa nazionale qualifica come “processo”, ma anche le attività procedimentali propedeutiche a quest’ultimo: se è vero che la Cedu deve considerarsi il
parametro interposto sul quale confrontare la legittimità delle scelte legislative in tema di giusto processo, la stessa nozione di “processo” in ambito penale, deve considerarsi autonoma e onnicomprensiva
inglobando tutte le fasi dell’accertamento delineate dal legislatore nazionale, indipendentemente dal
nomen loro attribuito.
La Cedu, quindi, si pone come superiore strumento volto al superamento dell’inquadramento formale delle fattispecie giuridiche (tipico delle legislazioni nazionali), e alla preminente e sostanziale valorizzazione dei diritti umani ivi tutelati.
Con la pronuncia appena richiamata, i giudici costituzionali hanno affermato che «la stessa legge n.
89 del 2001 intende dichiaratamente offrire un rimedio interno per i casi di violazione dell’art. 6, comma 1, della Cedu (art. 2, comma 1, l. n. 89 del 2001), così confermando che nell’ordito normativo è
quest’ultima disposizione, nel significato conferitole dalla consolidata giurisprudenza europea, a definire il ventaglio delle opzioni che si offrono al legislatore», facendo espresso riferimento ai criteri di
quantificazione dell’equa riparazione, adottati, per l’appunto, discrezionalmente da ogni Stato, purché
non conducano ad accordare un indennizzo manifestamente incongruo rispetto a quello che sarebbe
stato invece conseguito ove fosse stato esperito ricorso avanti alla Corte di Strasburgo 11.
Sotto tale profilo, quindi, si individua uno spazio per l’esercizio di scelte discrezionali che incidano
sul quantum dell’equa riparazione, purché esse «siano esercitate nel rispetto dei principi cardine con cui
la Corte di Strasburgo colora di significato l’art. 6 della CEDU e qualora tali scelte non si prestino, in linea astratta, ad incidere sull’an stesso del diritto».
È questo il nucleo fondante della pronuncia d’illegittimità dell’art. 2, comma 2-bis della legge “Pinto”: il legislatore erroneamente, ripiegando sulla qualificazione nazionale di “procedimento” e di “processo, ha formulato una previsione la cui applicazione si prestava ad incidere negativamente non solo
sulla misura della riparazione, ma anche sulla praticabilità del relativo diritto.
D’altra parte, la Corte costituzionale ha osservato come, secondo la costante giurisprudenza di Strasburgo, l’art. 6 della Cedu non imponga di attribuire rilievo l’intera fase delle indagini se esse non hanno comportato la comunicazione formale dell’accusa penale o, comunque, il compimento di atti, da parte dell’autorità giudiziaria, che siano ricaduti nella sfera giuridica della persona: il soggetto indagato, se
ignaro del procedimento a suo carico, non può aver subito ancora alcun patimento 12.
Sul tema, della necessità di annoverare le indagini preliminari nel computo della ragionevole durata
del processo, va sottolineato come la decisione della corte d’appello di Firenze così come il conseguente
intervento del giudice delle leggi non siano stati peregrini. Sulla scorta di diverse decisioni della Corte
Edu, la giurisprudenza di legittimità interna si è più volte pronunciata sul punto, confermando una sorta di “principio di unitarietà” dell’intero processo ai fini del computo del suo corretto iter temporale. La
Suprema Corte ha messo chiaramente in luce come la nozione di causa, o di processo, considerata dalla
Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, cui fa riferimento
l’art. 2, l. n. 89 del 2001, si identifica con qualsiasi procedimento svoltosi dinanzi agli organi pubblici di
giustizia per l’affermazione o la negazione di una posizione giuridica di diritto o di soggezione facente
capo a chi il processo promuova o subisca: in tale novero deve ricomprendersi anche quello relativo alla
fase delle indagini preliminari, che, precedendo l’esercizio dell’azione penale, ove irragionevolmente
protratte nel tempo, assumono rilievo ai fini dell’equa riparazione 13.
10
Tra le quali le già citate Corte e.d.u. Messina c. Italia, Manzoni c. Italia ed Eckle c. Germania.
11
Corte e.d.u., Grande Camera, 29 marzo 2006, Scordino c. Italia, in Corr. giur., 2006, 7, p. 929, con nota di R. Conti..
12
Sul punto, la sentenza della Corte costituzionale ha rinviato a Cass., sez. un., 23 settembre 2014, n. 19977, in CED Cass., n.
2014.
13
Tra le altre, si faccia riferimento a Cass. civ., Sez. I, 07 luglio 2011, n. 15003, in CED Cass., n. 2011: nella fattispecie, concernente un caso in cui processo si era articolato in undici anni per tre gradi del giudizio, senza tener conto delle indagini prelimi-
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4. L’ISTANZA DI ACCELERAZIONE E “TEMPUS REGIT PROCESSUM”
Ulteriori criticità della nuova normativa andrebbero ravvisate nell’art. 2, comma 2-quinquies, l. n. 89 del
2001: infatti, nell’introdurre un elenco di filtri e “barriere” all’esperimento del ricorso, sia di natura tecnico-procedurale che di natura meramente economica a carico del cittadino, la lettera e) della disposizione in esame riguarda specificamente il processo penale, stabilendo che «non è riconosciuto alcun indennizzo quando l’imputato non ha depositato istanza di accelerazione del processo penale nei trenta
giorni successivi al superamento dei termini cui all’articolo 2-bis» (il quale, come si è visto, prevede che
in ogni caso la ragionevole durata del processo debba essere considerata in un periodo di 6 anni).
Ad una prima analisi sembrerebbe che la nuova disposizione abbia introdotto, paradossalmente, un
onere per l’imputato, il quale, proprio in ragione della sua specifica veste processuale, si trova normalmente circondato dal più ampio parterre di strumenti di garanzia volti a tutelarlo nelle more dell’intero
procedimento.
Tali garanzie, tanto quanto i criteri di “ragionevole durata”, sono incentrate in un nucleo di valori,
rintracciabili non solo negli artt. 111 Cost. e 6 Cedu, ma individuabili nel codice di procedura penale a
presidio di ogni singola fase giudiziaria.
Anche con riferimento alla disposizione in commento sorgono incertezze circa la sua applicabilità alle domande di equa riparazione per i giudizi sorti prima della riforma che l’ha introdotta: sul punto
una medesima riflessione già proposta con riguardo al dies a quo sembrerebbe potersi svolgere anche
per il neo introdotto strumento sollecitatorio. Come sopra sottolineato con riferimento al dies a quo da
cui far decorrere il computo dei 6 anni complessivi del tempo ragionevole entro il quale il processo deve svolgersi, si potrebbe coerentemente far riferimento alla precedente normativa in vigore nel caso in
cui il cittadino debba promuovere la domanda per l’equa riparazione per un procedimento penale il cui
inizio ha avuto luogo prima della modifica della l. n. 89 del 2001: infatti il diritto alla ragionevole durata
del processo, così come garantito dalla Costituzione, nonché dalla Cedu, sembra connaturare ab initio
processi il diritto al rimedio giurisdizionale a sua tutela. Tale principio, si è sottolineato, non può essere
ignorato se si pensa che evidentemente la legge “Pinto” regola lo strumento rimediale del ricorso per
l’equa riparazione ponendolo in sistematica correlazione col giudizio che ne è oggetto, e con le rispettive fasi di esso.
In effetti, la chiara volontà del legislatore a recidere di netto il legame tra le vecchie e le nuove disposizioni, non prevedendo alcuna disciplina transitoria, revocherebbe in dubbio un tale assunto, pur costituzionalmente orientato.
Sul punto occorre sottolineare che in realtà il principio regolato dall’art. 11 disp. prel. c.c., secondo il
quale «la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo», non trova diretta collocazione nella Costituzione; di conseguenza il ragionamento inferenziale che consentirebbe di trovare
una soluzione al problema sin qui prospettato deve essere ben più articolato.
Come noto, nell’ambito delle situazioni giuridiche che possono essere pendenti al momento dell’entrata in vigore della nuova norma, il processo va classificato come una species del genus “procedimento”, cioè una sequenza di norme giuridiche coordinate alla produzione di un atto finale e di un correlativo effetto giuridico finale, rispondenti allo schema secondo cui la fattispecie prevista dalla norma sucnari, la cui durata, valutata separatamente, si poteva considerare giustificata, correttamente la Corte ha affermato che «pertanto,
considerata la necessità di addivenire a una valutazione sintetica e complessiva della durata del procedimento (Cedu, 27 febbraio 1992, Ruotolo; Cedu, 14 novembre 2000, Delgado), tenendo anche conto del periodo relativo alla durata delle indagini preliminari, la corte territoriale ha omesso di considerare la durata complessiva del procedimento presupposto, che è di anni tredici, mesi due e giorni diciotto». In effetti, sullo stesso tema, già una pronuncia del 2010, da ritrovare in Cass. civ., Sez. I, 29 aprile
2010, n. 10310, in Plurisonline, aveva stabilito, motivando per relationem (Cass., Sez. I., 23 dicembre 2009, n. 27239, CED Cass., n.
610994) che nella valutazione della durata di un procedimento penale, il tempo occorso per le indagini preliminari potesse essere computato solo a partire dal momento in cui l’indagato ricevesse la concreta notizia della sua pendenza, solo da tale conoscenza sorgendo la fonte d’ansia e patema suscettibile di riparazione. Ne consegue, secondo la giurisprudenza, che, in relazione
al momento anteriore alla notificazione del decreto di citazione di giudizio, i ricorrenti sono gravati dall’onere di allegare specificamente quando abbiano appreso di essere stati assoggettati ad indagine penale. I giudici di legittimità hanno poi specificato
che, con riferimento al fatto che il ricorrente aveva detto di aver appreso della pendenza di un procedimento penale a suo carico
in occasione dell’identificazione di polizia giudiziaria del 21 settembre 2001, «il fatto che la persona identificata sia stata invitata
a indicare l’indirizzo per ulteriori comunicazioni vale di per sé a definirla come indagata, quando non vi sia stata richiesta di
una formale dichiarazione o elezione di domicilio per le notificazioni a norma dell’art.161 c.p.p., come lo stesso art. 349 c.p.p.
prevede».
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cessiva della sequenza è integrata dagli effetti prodotti dall’attuazione della norma precedente, cosicché
l’effetto giuridico previsto dalla norma successiva della serie vede sempre la sua fattispecie costitutiva
integrata dalla componente di fatto dell’effetto giuridico previsto dalla norma precedente e così via fino
al perfezionamento di una fattispecie che metta capo all’effetto finale del procedimento.
Se la situazione pendente è un procedimento, il suo regime giuridico discende dalla regola che ciascun fatto, sia per ciò che riguarda il regime della sua struttura e dei suoi requisiti, sia per ciò che riguarda il regime delle sue conseguenze, è di massima sottoposto alla legge del tempo in cui venne posto in vita, secondo il principio tempus regit actum, ove per actus si intende ciascun atto della sequenza e
per tempus il momento in cui il contegno umano perfeziona la fattispecie normativa dell’atto 14.
La ragionevolezza di tale regola permea di sé l’interpretazione dell’art. 11 delle Preleggi con riferimento alle leggi: se la legge non dispone che per l’avvenire, la legge processuale non dispone che per i
processi futuri.
Con rimando ai principi di diritto intertemporale riferiti alle norme processuali, l’assetto predisposto
in considerazione di un certo modus procedendi non può, dunque, subire lo sconvolgimento di norme
sopravvenute tramite un intervento legislativo, che rimettono inevitabilmente in discussione l’unità e la
coerenza dell’intera attività processuale, cioè l’unità e la coerenza dell’attività processuale già svolta
con quella futura.
In proposito, appare oltremodo coerente esprimere tale principio di diritto intertemporale con una
parafrasi del vecchio brocardo tempus regit actum, precisando che l’actus è quell’actus trium personarum
in cui consiste l’intero processo (o quanto meno il singolo grado di giudizio): tempus regit processum.
Ne deriva che, laddove esigenze di ordine pubblico processuale impongano l’applicabilità delle
nuove norme ai processi in corso, soccorre la ponderata adozione di norme di diritto transitorio, adempimento omesso in sede di formulazione delle nuove disposizioni: ne deriverebbe la mancanza
dell’opportuna “etica processuale”, che è ciò che informa il processo ai quei principi fondamentali dello
Stato di diritto riguardanti l’ordine del giudizio 15.
In ogni caso, se da un lato va osservato che il divieto di retroattività della legge previsto ex art. 11
delle disposizioni sulla legge in generale, pur costituendo un fondamentale valore di civiltà giuridica,
non riceve nell’ordinamento la tutela privilegiata di cui all’art. 25 Cost., riservata alla materia penale,
con la conseguenza che ben possono esistere norme con efficacia retroattiva, anche di interpretazione
autentica, purché la retroattività trovi adeguata giustificazione nell’esigenza di tutelare principi, diritti
e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono altrettanti motivi imperativi di interesse generale, ai
sensi della Cedu 16; tuttavia, dall’altro, occorre che la retroattività non contrasti con altri valori e interessi costituzionalmente protetti 17. Su tale versante, la giurisprudenza di Strasburgo ha individuato i limiti
generali all’efficacia retroattiva delle leggi attinenti alla salvaguardia di fondamenti costituzionali e di
altri valori di civiltà giuridica, tra i quali sono annoverati il rispetto del principio generale di ragionevo14
Un illuminante saggio di R. Caponi, Tempus regit processum, in Riv. dir. proc., 2006, 2, p. 449, illustra in modo acuto
l’argomento, criticando proprio il fatto che «l’intrinseca ragionevolezza del principio secondo cui non si cambiano le regole del
processo quando esso è in corso è stata messa in ombra dalla statualizzazione della procedura, con il connesso incontrollato interventismo di un legislatore, al quale solo in casi eccezionali si può riconoscere ormai una sufficiente attenzione verso la sacrosanta esigenza di certezza e di garanzia nel trattamento delle situazioni processuali».
15
Come evincibile nelle riflessioni di R. Caponi, Tempus regit processum, cit., p. 459, la distinzione tra norme di diritto intertemporale, inteso come quel complesso di regole che disciplinano la successione delle norme nel tempo, e norme di diritto
transitorio, inteso come insieme di prescrizioni dettate di volta in volta per regolare gli accadimenti compresi nel periodo in cui
si verifica un mutamento legislativo, rivela, con riferimento alla fattispecie in esame, tutta la sua utilità. Inoltre, suggerisce
l’Autore, «un principio di diritto intertemporale così impegnativo dal punto divista della conservazione dei valori giuridicoprocessuali – la litispendenza come unica situazione acquisita, in quanto tale non sottoposta all’impero del diritto nuovo – responsabilizza molto di più il legislatore nell’adozione di una calibrata disciplina transitoria in vista dell’applicazione delle nuove norme ai processi pendenti, di quanto non faccia attualmente il principio tempus regit actum riferito al singolo atto della sequenza processuale, che assicura automaticamente al legislatore il risultato per lui più interessante – l’applicabilità delle nuove
norme ai processi in corso». Conseguenza ne è che, quanto ai dettagli del passaggio dalla vecchia alla nuova disciplina, troppo
spesso il Legislatore a causa della sua condotta omissiva, costringe giudici ed avvocati a dover risolvere il problema da soli.
16
Corte costituzionale, Sent., 4 luglio 2013, n. 170, in Foro it., 2014, 6, 1, p. 1721; in Dir. e prat. trib., 2014, 1, p. 121; in Fall.,
2014, 2, p. 151. Un tale orientamento era già stato proposto dalla Corte con la sentenza 5 aprile 2012, n. 78, in Giur. it., 2012, 11, p.
2283, con nota di M. Rizzuti.
17
Ex plurimis, Corte costituzionale, sent. 21 marzo 2011, n. 93, in Sito uff. corte cost., 2011; Corte Costituzionale, sent. 9 febbraio 2011 n. 41, in Giur. it., 2012, 8-9, p. 1761.
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lezza, che si riflette nel divieto di introdurre ingiustificate disparità di trattamento; la tutela
dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale tratto distintivo dello Stato di diritto; la coerenza e la certezza dell’ordinamento giuridico; il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al
potere giudiziario 18.
Con particolare riferimento alla norma in oggetto, inoltre, si registrano le importanti pronunce del
Giudice delle Leggi, il quale ha precisato che la norma retroattiva non può tradire l’affidamento del
privato, specie se maturato con il consolidamento di situazioni sostanziali e processuali, pur se la disposizione retroattiva sia dettata dalla necessità di contenere la spesa pubblica o di far fronte ad evenienze eccezionali 19.
Nello stesso alveo si sono poste svariate pronunce giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti
dell’Uomo, in riferimento all’art. 6 della Cedu: la Corte di Strasburgo ha ripetutamente affermato, con
specifico riguardo a leggi retroattive del nostro ordinamento, che in linea di principio non è vietato al
potere legislativo di stabilire in materia civile una regolamentazione innovativa a portata retroattiva dei
diritti derivanti da leggi in vigore, ma il principio della preminenza del diritto e la nozione di processo
equo sanciti dall’art. 6 della Cedu, ostano, salvo che per motivi imperativi di interesse generale,
all’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia al fine di influenzare l’esito
giudiziario di una controversia 20.
Alla luce di tali considerazioni, anche l’art. 2, comma 2-quinquies, lett. e), l. n. 89 del 2001, sembrerebbe confliggere col principio tempus regit processum: permangono importanti dubbi sull’interpretazione
della norma in sede applicativa, tanto più per il fatto che potrebbe profilarsi una più “naturale” applicazione della normativa rimediale vigente al momento in cui il processo, oggetto del potenziale ricorso
per l’irragionevole durata del processo, è sorto.
APORIE NORMATIVE E PERPLESSITÀ CIRCA LO STRUMENTO “SOLLECITATORIO”
In ogni caso, anche con riguardo ai processi iniziati successivamente alla riforma, appare incerta la sorte dell’“istanza di accelerazione” prevista a carico dell’imputato.
In prima istanza, va osservato come siffatta norma rischierebbe di porsi in contraddizione col contenuto dell’art. 3 Cost.: gravando di un trattamento più sfavorevole una delle parti del processo penale, e
prevedendo un trattamento uguale di situazioni differenti, sembrerebbe risultare non conforme ai canoni di ragionevolezza elaborati per lungo tempo dalla giurisprudenza costituzionale italiana. Evidentemente, il riscontro di manifeste ragioni di irrazionalità o discriminazioni prive di fondamento giuridico, consentirebbe di revocare in dubbio e, quindi, di sindacare l’ampio potere discrezionale riservato al
legislatore 21: ciò che incide in tal senso è il senso di un intervento dell’imputato finalizzato ad accelera18
Tra le altre, si veda le sentenza della Corte Costituzionale 11 giugno 2010, n. 209, in Foro it., 2011, 2, 1, p. 375.
19
Ancora, ex plurimis, sentenze della Corte costituzionale, 30 gennaio 2009, n. 24 in Foro it., 2010, 2, 1, p. 415; Corte costituzionale, 23 luglio 2002, n. 374, in Giur. Cost., 2002, p. 2769.
20
Si fa riferimento a Corte e.d.u., sez. III, 11 dicembre 2003, Bassani c. Italia, in Guida dir., 2004, 2, p. 118; Corte e.d.u., 15 novembre 1996, Ceteroni c. Italia, in Fall., 1997, 3, p. 237. In proposito si vedano le decisioni di Corte e.d.u., sez. II, 11 dicembre 2012,
De Rosa c. Italia; Corte e.d.u., sez. II, 14 febbraio 2012, Arras c. Italia, in Giornale dir. amm., 2012, 6, p. 646; Corte e.d.u., sez. II, 7
giugno 2011, Agrati c. Italia, in Foro It., 2013, 1, 4, p. 1; Corte e.d.u., sez. II, 31 maggio 2011, Maggio c. Italia, in Giornale dir. amm.,
2011, 9, p. 980; Corte e.d.u., sez. II, 10 giugno 2008, Bortesi c. Italia; Corte e.d.u., Grande Camera, 29 marzo 2006, Scordino c. Italia
cit. La Corte di Strasburgo ha altresì rimarcato che le circostanze addotte per giustificare misure retroattive devono essere intese
in senso restrittivo nella già citata pronuncia Corte e.d.u., 14 febbraio 2012, Arras c. Italia, e che il solo interesse finanziario dello
Stato non consente di giustificare l’intervento retroattivo. In merito a ciò, si vedano Corte e.d.u., sez. V, 25 novembre 2010, Lilly
France c. Francia; Corte e.d.u., sez. II, 21 giugno 2007, Scanner de l’Ouest Lyonnais c. Francia; Corte e.d.u., sez. II, 16 gennaio 2007,
Chiesi S.A. c. Francia; Corte e.d.u., II sez., 9 gennaio 2007, Arnolin c. Francia; Corte e.d.u., sez. II, 11 aprile 2006, Cabourdin c. Francia. Viceversa, lo stato del giudizio e il grado di consolidamento dell’accertamento, l’imprevedibilità dell’intervento legislativo e
la circostanza che lo Stato sia parte in senso stretto della controversia, sono tutti elementi considerati dalla Corte europea per
verificare se una legge retroattiva determini una violazione dell’art. 6 della Cedu. Proprio con chiaro rimando all’oggetto
dell’analisi qui svolta, si vedano Corte e.d.u., II sez., 27 maggio 2004, Ogis Institut Stanislas c. Francia; Corte e.d.u., 26 ottobre
1997, Papageorgiou c. Grecia; Corte e.d.u., 23 ottobre 1997, National & Provincial Building Society c. Regno Unito.
21
Interessante in merito al concetto e ai limiti della discrezionalità legislativa la consultazione di Corte costituzionale, sent. 13 giugno 1997, n. 175, in Giur. Cost., 1997, p. 1777; Corte costituzionale, sent. 27 dicembre 1996, n. 416, in Cass. Pen., 1997, p. 954; Corte costituzionale, sent. 23 maggio 1995, n. 188, in Foro it., 1996, I, p. 464; Corte costituzionale, sent. 5 luglio 1995, n. 295, in CED Cass., n. 1995.
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re il giudizio, potenzialmente fuorviante e frutto di un’evidente irrazionalità, potenzialmente foriero di
una concezione stravolgente il funzionamento dell’ordinamento giudiziario interno.
Nel nostro ordinamento, infatti, l’obbligatorietà dell’azione penale e l’unitarietà delle carriere tra
magistratura giudicante e requirente fanno sì che, sebbene tutte le parti processuali debbano contribuire al corretto funzionamento dell’amministrazione della giustizia, un ruolo di certo più centrale sia presieduto dal magistrato. Da una parte il pubblico ministero, legato al processo dal principio dell’obbligo
dell’azione penale prevista ex art. 102 Cost., con tutte le caratteristiche sistemiche e procedurali che ne
derivano; l’organo giudicante dall’altra, al quale le parti si rimettono in ordine alla gestione e “l’amministrazione” del processo in tutti i suoi elementi, i suoi organi ausiliari e così via.
Così, ne discende che nel caso dell’assenza momentanea del cancelliere l’udienza penale non potrà
essere sottoposta a trattazione; come, ancor più di frequente, nel caso di sostituzione dell’organo giudicante, il processo dovrà ricominciare ab initio, senza possibilità per l’imputato di un intervento finalizzato ad imprimere velocità al giudizio.
Va aggiunto che, come noto, tramite il processo penale lo Stato pone in essere la propria ontologica
prerogativa di esercitare la pretesa punitiva nei confronti dei consociati: dato che la Costituzione e il
codice di rito prevedono l’obbligatorietà dell’azione penale, nonché una chiara scansione delle fasi procedimentali regolata della verifica dell’ipotesi accusatoria innanzi all’autorità giurisdizionale prestabilita, non potrebbe negarsi che l’ipotesi di un cittadino imputato capace di influenzare il “divenire processuale” appare quanto meno fuor di logica, e un’ipotetica convinzione di segno opposto ben potrebbe
essere considerata stravagante. Sul punto va sottolineato che il principio di indisponibilità che caratterizza i beni oggetto del processo, intorno ai quali e sui quali si equilibrano e incidono, da una parte la
libertà personale, dall’altra la potestà punitiva dello Stato, deve informare il momento giudiziale penale
ai criteri di celerità e concentrazione, specificazioni del valore costituzionale della ragionevole durata
del processo, a maggior ragione del contegno della singola parte 22.
Al vertice di ciò, appare opportuna un’ulteriore precisazione: il mezzo “sollecitatorio” ex novo attribuito all’imputato dalla legge “Pinto” non sarebbe in alcun modo assimilabile e corrispondente ai “poteri sollecitatori” che il codice di procedura penale prevede in favore della persona offesa dal reato, dal
momento che questi ultimi consistono in un impulso all’attività inquirente; diversamente, la nuova
”istanza di accelerazione” prevista in capo all’imputato incide sull’attività “gestoria” dell’organo giudicante, ponendo il rischio che la serenità del giudizio sia inficiata e incidendo potenzialmente sul libero
convincimento del giudice.
A ben vedere, inoltre, il formale obbligo di deposito dell’istanza acceleratoria del giudizio si rivelerebbe superfluo anche sotto un punto di vista pratico, dato che non sarebbe confortato né dall’organizzazione del sistema giudiziario nel suo complesso, né dalla struttura dialettica del processo penale ed in
particolare dal rispetto del principio del contraddittorio previsto dall’art. 111 Cost., nonché dalle necessarie specificazioni del diritto di difesa ex art. 24 Cost., sia, in ultimo, da ragioni di opportunità.
Va da sé, inoltre, che attribuendo un siffatto onere sulla parte che riveste la qualità di imputato del
giudizio penale, potrebbe ravvisarsi un contrasto della disposizione di cui all’art. 2 comma, 2-quinques,
lett. e), l. n. 89 del 2001 con il diritto di difesa previsto ex art. 24 Cost. e con la disciplina del giusto processo regolata dall’art. 111 Cost., in deroga all’ampio spettro degli strumenti di garanzia (financo, in
modo indiretto e subliminale, alla presunzione di innocenza prevista ex art. 27, comma 2, Cost.) recepiti
in toto dal codice di procedura penale 23.
Così come il principio della ragionevole durata, tali garanzie sono ulteriormente incentrate in un nucleo di valori afferenti alla tutela dei diritti inviolabili dell’uomo, applicata nell’ambito del processo in
ossequio all’art. 6 Cedu, e recepita per intero nella Carta fondamentale: di conseguenza, non sono peregrine le perplessità su come potrebbe il sistema giudiziario esigere dall’imputato una condotta collaborativa con l’Amministrazione della giustizia nel caso in cui allo stesso non venisse attribuito il diritto,
conformemente a Costituzione, di difendersi avvalendosi di qualsivoglia strategia processuale.
Un’impostazione del genere, inoltre, si rivelerebbe accidentata e si porrebbe in conflitto con il diritto
"a non essere costretto a deporre contro se stesso od a confessarsi colpevole", previsto dal Patto internazionale
sui diritti civili e politici del 1966 all’art. 14, § 3, lett. g), e consacrato anche all’interno del nostro codice
22
Sul punto si veda l’opinione di A. Didone, Processi e rinvii lunghi, paga lo Stato, in Dir. e giust., 2005, 17, p. 10.
23
Cass., sez. un., 3 novembre 2008, n. 26373, in Riv. dir. internaz., 2009, 1, p. 240.
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di procedura penale in disposizioni come quelle previste agli artt. 63 e 64, comma 3, c.p.p., in cui trova
espressione il principio nemo tenetur se detegere: nessuno può essere obbligato ad accusare se stesso.
È interessante osservare, sul necessario bilanciamento che va operato tra interessi giuridici in gioco
nell’ambito del giudizio di legittimità delle norme, come la Corte Costituzionale abbia di recente precisato che tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione «si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La
tutela deve essere sempre sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro»: se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che
diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e
protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona. In tal modo, il punto di equilibrio, proprio perché dinamico e non ex ante prefissato, deve essere valutato, dal legislatore
nella statuizione delle norme e dal Giudice delle Leggi in sede di controllo, secondo criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, tali da non consentire un sacrificio del loro nucleo essenziale 24.
Ne consegue che nell’ambito di una valutazione della congruenza e adeguatezza del mezzo rispetto
al fine, con precipuo riferimento ai diritti fondamentali propri dell’individuo sottoposto a processo penale, se si pongono sullo stesso piano, da una parte, il diritto a un “processo giusto” e ad ottenere una
decisione corretta da parte degli organi giurisdizionali, dall’altra il “formale” e supposto potere di accelerazione procedimentale di cui è onerato l’imputato, l’equilibrio dei valori in gioco, risulterebbe evidentemente sbilanciato, anche alla luce delle riflessioni in ordine alla struttura e al funzionamento del
sistema processuale, registrando una visibile sproporzione tra gli effetti dell’atto legislativo, in termini
di potenziali benefici prospettati e le anomalie nell’osservanza di diritti posti ancora più a monte a salvaguardia dell’individuo, imponendo così un sacrificio di attribuzioni giuridiche maggiormente ineludibili.
Sotto questo profilo, la norma de quo apparirebbe carente di ragionevolezza, venendo meno la necessaria proporzionalità dei mezzi prescelti dal legislatore nella sua insindacabile discrezionalità operativa
rispetto alle obiettive esigenze da soddisfare o alle finalità che intende perseguire, e tenuto conto della
normativa vigente a presidio del “giusto processo”. E d’altra parte, proprio l’intervento di riforma del
2012, virtualmente finalizzato a “meccanizzare” e migliorare la normativa in tema di equa riparazione,
rischia di porre in crisi il “due process” che, diversamente, avrebbe dovuto tutelare.
Conseguenza ne è che appare poco comprensibile come l’omesso esercizio degli strumenti “sollecitatori”, regolati dalla nuova norma, sia idoneo di per sé a sospendere o eventualmente differire il poteredovere dello Stato, in quanto amministrazione della giustizia, di decidere con una pronuncia sulla domanda contenuta nel ricorso per l’equa riparazione; né appare coerente il conseguente trasferimento sul
ricorrente della responsabilità per il superamento del termine di durata ragionevole in mancanza della
formale “messa in mora” 25.
Infine, ulteriori perplessità desta la discrasia tra il contenuto del nuovo art. 2, comma 2-quinquies, lett
e) della Legge “Pinto” e l’art. 117 Cost.: dal momento che la Cedu non prevede alcuna limitazione al riconoscimento dell’equa riparazione nei confronti di chi subisce un processo penale, specie in presenza
di simili “condizioni” o “filtri”, ne risulterebbe violato, il principio secondo cui la legislazione interna
deve conformarsi agli obblighi internazionali, dato che una limitazione simile non è prevista dalla Convenzione, ed anche sotto questo versante si ravviserebbe l’assenza di ragionevolezza nella trasposizione, da parte del legislatore italiano, delle disposizioni internazionali nell’ordinamento interno.
24
In proposito, Corte costituzionale, sent. 28 novembre 2012, n. 264, in www.ilcaso.it, 2013.
25
Chiaramente, da quest’impostazione va fatta salva la valutazione, prevista anche in sede europea dalla Corte di Strasburgo, del comportamento della parte in giudizio, che deve essere considerata caso per caso e secondo canoni e casi ben precisi. E
anche in questo caso non può non rappresentarsi la necessaria differenza tra processo civile e processo penale, potendo ben sostenersi anche l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-quinquies, lett. d) della Legge “Pinto”, il quale stabilisce che il ricorso è rigettato nel caso di “estinzione del reato per intervenuta prescrizione connessa a condotte dilatorie della parte”. Si vedano, inoltre, alcune pronunce dei Giudici di legittimità italiani, tra le altre quella del Supremo Consesso, Cass., sez. un., 3 dicembre 2005 n. 28507, in Giur. it. 2007, 3, p. 617 con nota di V. Palazzetti, e in Dir e giust., 2006, 5, p. 22, con nota di M.R. San
Giorgio. Il principio è stato più volte ribadito dalla stessa Corte di Cassazione. Tra le altre pronunce, si vedano Cass., sez. I, 16
novembre 2007 n. 23754, in Foro it., voce Diritti politici e civili, 2007, p. 189; Cass., sez. I, 9 novembre 2007 n. 23385, in Foro it.,
2007, p. 185; inoltre, Cass., sez. I, 4 dicembre 2006, n. 25668, in Foro it., 2007, I, p. 2109, con nota di G.R. Masera. Interessante sul
punto anche il commento di F. Conti, Le sezioni unite ancora sulla legge Pinto: una sentenza storica sulla via della piena attuazione della
Cedu, in Corr. giur., 2006, p. 842.
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È chiaro come l’intervento di riforma del 2012 abbia perseguito l’intento di drenare ex ante una considerevole percentuale dell’enorme numero di richieste di indennizzo nei confronti dello Stato, ed in
particolare quelle aventi ad oggetto l’eccessivo prolungamento del processo penale, nelle quali risulta
ontologicamente maggiore il danno non patrimoniale nei confronti di tutti i soggetti che, indagati prima ed imputati poi, sono stati infine assolti: simili fattispecie comportano di per sé una maggiore intensità del danno morale soggettivo correlato a turbamenti di carattere psicologico, quali il patema
d’animo e il disagio interiore, nonché tutte le conseguenze che derivano dal subire un processo di durata irragionevole. Sul punto si è osservato che il principio secondo cui l’equo processo si debba svolgere
in tempi ragionevoli assume un rilievo ancora più peculiare nel processo penale, laddove esso va a costituire un rimedio contro il rischio per una persona di restare troppo a lungo sotto il peso di
un’imputazione: in ciò andrebbe colta la futilità del formale obbligo di deposito dell’istanza acceleratoria del giudizio, non giustificata, come si diceva, sia dall’organizzazione del sistema giudiziario nel suo
complesso, sia dalla struttura dialettica del processo ed in particolare dal rispetto del principio del contraddittorio previsto dall’art. 111 Cost., né dalle effettive garanzie di difesa previste ex art. 24 Cost 26.
A tal proposito, la giurisprudenza interna di legittimità, anche nel caso di un processo amministrativo (non caratterizzato, come il giudizio penale, da poteri coercitivi e punitivi dello Stato) affetto da irragionevole ritardo, ha affermato, con riferimento al mancato utilizzo da parte del ricorrente degli
strumenti sollecitatori della definizione del giudizio amministrativo, che il diritto all’equa riparazione
per l’irragionevole durata del processo prescinde dall’esito dello stesso, e dà luogo all’indennizzo del
danno morale dovuto al ritardo sempre che non ricorrano circostanze particolari, che facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subito dal ricorrente: si è sostenuto, infatti che né la prognosi del giudice dell’equa riparazione sul relativo esito (quand’anche si sostanzi nella previsione della
cessazione della materia del contendere), né il mancato ricorso da parte dello stesso ricorrente ai previsti strumenti sollecitatori della definizione del processo presupposto, possano escludere il diritto
all’indennizzo del danno in questione sotto il profilo del pregiudizio morale, né possano integrare circostanze positive speciali escludenti tale danno, in quanto non elidono l’ansia ed il patema d’animo della parte correlati alla specifica domanda di giustizia, potendo avere, invece, il solo effetto riduttivo della
entità della riparazione 27.
In breve, l’attuale disposizione, per ciò che concerne i futuri giudizi cui potrà essere applicata, porta
in sé l’impossibilità di agire in giudizio per la tutela di un proprio diritto: di talché lo stesso principio
della effettività del rimedio interno previsto dalla Convenzione verrebbe inevitabilmente vulnerato. La
persona, non potendo agire per la tutela della propria attribuzione giuridica in ambito domestico, sarà
costretta a rivolgersi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per il riconoscimento del proprio diritto.
Sulla questione, una pronuncia della Corte Costituzionale già nel 2013 aveva aperto decisivi spiragli
interpretativi. Il Giudice delle Leggi ha stabilito, innanzitutto, che l’art. 6 Cedu, come applicato dalla
giurisprudenza della Corte di Strasburgo, sia letto in rapporto alle altre disposizioni costituzionali e,
nella specie, all’art. 3 Cost.: la norma convenzionale, infatti, nel momento in cui va ad integrare il primo
comma dell’art. 117 Cost., come norma interposta, diviene oggetto di bilanciamento affinché si realizzi
la necessaria “integrazione delle tutele” che deve essere assicurata dalla Corte Costituzionale.
In proposito, è d’uopo sottolineare come la Consulta con le due storiche pronunce nn. 348 e 349 del
2007 ha precisato che a seguito della riforma dell’art. 117 Cost. le norme della Cedu, nel significato loro
26
In proposito, oltre alla sopra richiamata giurisprudenza, appare interessante e conferente al tema il contributo in dottrina
di G. Romano, Il diritto alla ragionevole durata del processo penale nella giurisprudenza europea ed i suoi riflessi sull’ordinamento interno,
in Dir. umani in Italia, in www.duitbase.it.
27
Sul punto, Cass., sez. I, 2 febbraio 2007 n. 2241, in Foro it. rep., 2007, voce Diritti politici e civili, p. 233; si veda anche Cass.,
sez. un., 3 novembre 2008 n. 26373, cit., dove la Corte in applicazione di suddetto principio, ha affermato che il rispetto del diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo (derivante dall’art. 111, comma 2, Cost. e dagli artt. 6 e 13 Cedu) impone al giudice di evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano certamente quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perché non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, espresso
dall’art. 101 c.p.c., da effettive garanzie di difesa (art. 24 Cost.) e dal diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità
(art. 111, comma 2, Cost.), dei soggetti nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato ad esplicare i suoi effetti. Come si è già
evidenziato, si tenga in ogni caso presente un dato: un utilizzo dell’istanza acceleratoria reso obbligatorio, così come da norma,
imporrebbe all’imputato un onere potenzialmente in conflitto con suoi interessi, alla luce della semplice annotazione, segnatamente pratica, per cui il giudice potrebbe indisporsi al ricevere un’indicazione della difesa in tal senso.
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attribuito dalla Corte e.d.u., specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione
(art. 32, § 1, della Convenzione), integrano, quali “norme interposte”, un rango intermedio tra la legge
ordinaria e le leggi costituzionali, statuendo che nel caso in cui si profili un contrasto tra una norma interna e una norma della Cedu, il giudice nazionale deve preventivamente verificare la praticabilità di
un’interpretazione della prima conforme alla norma convenzionale, ricorrendo a tutti i normali strumenti di ermeneutica giuridica: se tale verifica desse esito negativo e il contrasto non potesse essere risolto in via interpretativa, il giudice comune, non potendo disapplicare la norma interna né farne applicazione, avendola ritenuta in contrasto con la Cedu, nella interpretazione che ne ha fornito la Corte di
Strasburgo, e pertanto con la Costituzione, dovrebbe denunciare la rilevata incompatibilità proponendo
una questione di legittimità costituzionale in riferimento all’art. 117, comma 1, Cost., ovvero all’art. 10,
primo comma, Cost., ove si tratti di una norma convenzionale ricognitiva di una norma del diritto internazionale generalmente riconosciuta 28.
Pertanto, anche quando vengono in rilievo norme della Cedu ai sensi dell’art. 117, comma 1, Cost., la
valutazione di legittimità costituzionale deve essere operata con riferimento al sistema, e non a singole
norme, isolatamente considerate, in quanto un’interpretazione frammentaria delle disposizioni normative rischierebbe di condurre, in molti casi, ad “esiti paradossali”, che finirebbero per contraddire le
stesse loro finalità di tutela.
Sembra quindi, come anticipato, che la Corte operi una valutazione sistemica e non frazionata dei diritti
coinvolti dalla norma di volta in volta scrutinata, effettuando il necessario bilanciamento in modo da assicurare la massima espansione delle garanzie di tutti i diritti e i principi rilevanti, costituzionali e sovranazionali, complessivamente considerati, che sempre si trovano in rapporto di integrazione reciproca.
Riassumendo, con riferimento alle problematiche di natura costituzionale appare incerta la sorte della nuova norma, alla luce del fatto che non appare coerente con le disposizioni costituzionali, né con le
norme convenzionali, che chi abbia subito un processo penale non possa giovarsi dell’equa riparazione
per legge prevista solo perché non ha presentato alcuna istanza di accelerazione.
Non si può che ulteriormente ribadirlo, dubbi di coerenza con il sistema della Cedu, e di conseguenza con l’assetto delle garanzie costituzionali, insorgono proprio in ragione del fatto che l’obbligo di assicurare la ragionevole durata del procedimento grava, ancor più nell’ambito della persecuzione dei
reati, sugli organi dello Stato quand’anche le parti avessero assunto comportamenti dilatori.
In attesa di una pronuncia della Corte Costituzionale in tal senso, a seguito delle numerose ordinanze di rimessione poste dai giudici nazionali, non può che auspicarsi fortemente un celere intervento del
Parlamento, che non costituisca, però, uno dei troppo frequenti interventi di “rattoppo” delle gravi aporie nel processo di produzione normativa.
Sebbene, infatti, le recenti scelte legislative abbiano perseguito un’ottica di risparmio della spesa
pubblica, esse rivelano tutte le criticità tipiche della legislazione d’emergenza: su tale versante, il patrimonio giuridico stratificatosi nel tempo in materia di “giusto” processo, e le norme inerenti di portata
applicativa, non possono ritrovarsi sottomesse ad esigenze, ancorché stringenti, di tipo finanziario che,
paradossalmente, ne distorcono il funzionamento e ne minano la funzionalità e la credibilità.
Occorrono, piuttosto, interventi a monte, come la concreta riforma del codice di procedura civile,
sottraendo al contenzioso centinaia di migliaia di potenziali “casi giudiziari”, e stimolando l’ausilio di
strumenti deflattivi (effettivi) volti alla risoluzione stragiudiziale delle controversie, così come un ripensamento della struttura dell’ordinamento giudiziario penale 29.
28
In proposito, Corte costituzionale, sent. 28 novembre 2012, n. 264, cit.; e sent. 26 ottobre 2012, n. 236; ord., 3 maggio 2012,
n. 113; 5 aprile 2012, n. 80 che confermano la validità di tale ricostruzione a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona
del 13 dicembre 2007; inoltre, per completezza si rimanda alle sentenze della Consulta del 2 gennaio 2011, n. 1; 4 giugno 2010, n.
196; del 26 novembre 2009, n. 311, consultabili in Sito uff. corte cost.
29
Quest’ultima tesi, in particolare, è stata sostenuta nel saggio di G. Pisapia-C. Nordio, In attesa di giustizia. Dialogo sulle riforme possibili, Guerini, Milano, 2010. Ex plurimis, si vedano le annotazioni di A. Scalfati, A proposito della riforma sulla durata del
processo, in processopenaleegiustizia.it, 2011, 2.
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FRANCESCO TRAPELLA
Assegnista di ricerca in Diritto Processuale Penale – Università di Ferrara
Il patteggiamento nei giudizi per reati corruttivi
The plea bargaining in trials for corruptive crimes
Il nuovo art. 444, comma 1-ter, c.p.p., introdotto con legge 27 maggio 2015, n. 69, impone la restituzione del prezzo o del profitto del reato all’imputato che intenda accedere al patteggiamento per i delitti ex artt. 314, 317, 318,
319, 319-ter, 319-quiater e 322-bis c.p.. Si tratta di uno strumento a tutela della pubblica amministrazione; il lavoro
punta a comprendere che cosa debba intendersi per “prezzo”, “profitto” e “restituzione” nei reati corruttivi, e a
valutare la critica da alcuni mossa di incostituzionalità della norma, che non estende tale meccanismo restitutorio
ai delitti contro il privato patrimonio.
According to article 444, paragraph 1-ter, c.p.p. – introduced by Law 27th may 2015, n. 69 – the defendant who
intends to apply for application of punishment upon request of the parties, during the proceedings for the crimes
referred to in Articles 314, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater e 322-bis c.p., has to return the price or the profit of
the offence. This instrument seeks to protect Italian public administration, burdened by the consequences of increasing corruption phenomena. It is necessary to understand what is meant by “price” and “profit” of corruptive
offences, and “return”. It is also necessary to assess the risk of unconstitutionality of Article 444, paragraph 1-ter,
c.p.p., given that the mechanism doesn’t concern also crimes that offend the private heritage.
CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE
L’art. 6 della legge 27 maggio 2015, n. 69 ha aggiunto all’art. 444 c.p.p. un comma 1 ter per cui, «nei procedimenti per i delitti previsti dagli articoli 314, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater e 322-bis del codice
penale, l’ammissibilità della richiesta di cui al comma 1 è subordinata alla restituzione integrale del
prezzo o del profitto del reato» 1.
La novella si colloca nel più ampio intervento normativo “anti-corruzione”, teso ad «un generalizzato aumento delle pene in materia di delitti contro la pubblica amministrazione» e ad un aggiornamento
delle «norme del codice civile in materia societaria» 2. Nello specifico, secondo i promotori della riforma, l’art. 6 ha «una valenza sia simbolica che concreta, considerato che la corruzione ha gravi effetti anche sull’economia del Paese», oltre che «una forte efficacia preventiva, in quanto p[uò] servire a dissuadere colui che intende commettere atti corruttivi» 3. Specularmente, già durante i lavori preparatori, so1
Il richiamo è ai delitti di peculato (art. 314 c.p.), concussione (art. 317 c.p.), corruzione per l’esercizio della funzione (art. 318
c.p.), corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio (art. 319 c.p.), corruzione in atti giudiziari (art. 319-ter c.p.), e induzione
indebita a dare o a promettere utilità (art. 319-quater c.p.), anche commessi nei riguardi di membri degli organi delle Comunità
europee e di funzionari delle Comunità europee o di Stati esteri (art. 322-bis c.p.).
2
A. Famiglietti, Novità legislative interne, in Proc. pen. giust., 2015, 4, p. 16. Per un commento “a caldo” sulla legge de qua, T.
Trinchera, Approvata definitivamente dalla Camera la proposta di legge che introduce nuove disposizioni in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, di associazione di tipo mafioso e di falso in bilancio, in www.penalecontemporaneo.it; F. Cingari, Una prima lettura
delle nuove norme penali a contrasto dei fenomeni corruttivi, in Dir. pen. proc., 2015, p. 805 ss.; N. Santi Di Paola, Falso in bilancio e i
reati contro la p.a.: legge anticorruzione 27 maggio 2015, Milano, 2015.
3
Così, il testo integrale della Relazione del Deputato D. Ermini in sede di discussione sulle linee generali della proposta di
legge n. 3008 ed abbinate, allegato al resoconto stenografico dell’Assemblea, seduta n. 427 di giovedì 14 maggio 2015, p. 110, in
www.camera.it.
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no giunte critiche dall’opposizione circa l’illegittimità dell’art. 6 che, da un lato, introduce «una disciplina fortemente differenziata per alcuni reati contro la pubblica amministrazione specificatamente individuati» e, dall’altro, lede l’art. 3 Cost., poiché, «se il danneggiato è la pubblica amministrazione,
l’imputato deve restituire il maltolto prima di accedere ai benefici della sospensione condizionale della
pena o del patteggiamento, mentre se la vittima del reato, anche predatorio come il furto o la rapina, è
un cittadino, il reo può usufruire della condizionale o del patteggiamento anche se non restituisce
quanto rubato o rapinato» 4.
Guardando alla c.d. “società civile”, in Italia il livello di corruzione percepita nelle istituzioni è tra i
più alti d’Europa (90%), e il 70% degli intervistati da Global Corruption Barometer – Transparency International ha dichiarato di ritenere l’esecutivo nostrano portatore di interessi settoriali 5. Ecco, allora, che
maggioranza e opposizione convergevano circa l’esigenza di un intervento di freno dei fenomeni corruttivi; quel che muta è il parere sul ricorso alla giustizia riparativa 6, intesa dagli uni quale deterrente al
compimento di illeciti contro la pubblica amministrazione, e dagli altri, come motivo di diseguaglianza
sociale.
L’argomento consente, così, di riflettere sui temi della mediazione penale 7 – intesa come luogo di «ritrovata armonia» 8 tra le parti del conflitto, reo e vittima – e dei rapporti tra prevenzione e riparazione 9 nei
procedimenti per reati contro l’apparato amministrativo. Rispetto ad altri strumenti di giustizia riparativa, l’art. 6, legge n. 69 del 2015 non vuole diminuire il sovraffollamento carcerario o alleggerire il carico degli uffici giudiziari, intendendo piuttosto rimediare ai danni cagionati alla cosa pubblica dalla corruzione. Sempre di interesse collettivo si tratta, tuttavia ciò basta a porre l’amministrazione su una corsia preferenziale rispetto alla comune vittima 10, e ad alimentare le critiche di incostituzionalità dei detrattori della riforma.
Ante 2015 parte della giurisprudenza si mostrava restia ad individuare nel risarcimento del danno
da reato la condizione per l’accesso al patteggiamento 11; d’altro canto, quelle che subordinano il consenso del pubblico ministero alla riparazione civilistica sono state, sin qui, solo «prassi striscianti» 12 negli uffici giudiziari italiani. La legge n. 69 del 2015 rompe lo schema, ma solo se oggetto dell’accordo tra
imputato e pubblica accusa è la pena per uno dei reati in elenco al nuovo art. 444, comma 1-ter, c.p.p.;
per gli altri, il risarcimento rimane estraneo alla richiesta congiunta, e al danneggiato da reato non rimane che agire in sede civilistica 13.
4
Intervento dell’On. R. Occhiuto: v. resoconto stenografico dell’Assemblea, seduta n. 427 di giovedì 14 maggio 2015, p. 89,
in www.camera.it.
5
Dati pubblicati nell’articolo Ocse, Italia al top per corruzione percepita nelle istituzioni governative, in (Il) sole 24 Ore, 25 marzo
2015.
6
Per un’analisi dell’espressione (rectius: del «lessema complesso»), G. Mannozzi, Traduzione e interpretazione giuridica nel multilinguismo europeo: il caso paradigmatico del termine “giustizia riparativa” e delle sue origine storico-giuridiche e linguistiche, in Riv. it. dir.
proc. pen., 2015, p. 137.
7
La cui «vocazione di fondo» – si ricordi – «è destinata a riverberarsi anche sulle tematiche inerenti a quel profilo personalistico che investe la definizione dei coefficienti di colpevolezza maggiormente adeguati ad esprimere il senso del “rimprovero” per il fatto commesso»; G.
De Francesco, Interpersonalità dell’illecito penale: un “cuore antico” per le moderne prospettive della tutela, in Cass. pen., 2015, p. 874.
8
D. Vicoli, La mediazione nel contesto della fase esecutiva: spunti per un inquadramento sistematico, in Cass. pen., 2015, p. 382.
9
Lo spunto è offerto da L. Eusebi, Appunti critici su un dogma: prevenzione mediante retribuzione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2006,
p. 1157 ss.
10
Con un esempio, su un piano squisitamente naturalistico v’è identità tra peculato e appropriazione indebita (C.F. Grosso –
F. Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte speciale, vol. 2, Milano, 2008, p. 309): solo nei giudizi per il primo, l’art. 444, comma 1
ter, c.p.p. pone la condizione restitutoria per l’accesso al rito, con ciò favorendo la pubblica amministrazione rispetto a quanto
accade, negli altri casi, per la vittima di appropriazione indebita.
11
Si legga questo passaggio: «non costituisce legittima motivazione idonea a supportare la decisione di giustificatezza del dissenso del
pubblico ministero all’applicazione di pena patteggiata, secondo il rito di cui agli artt. 444 s c.p.p., la circostanza che l’imputato non abbia
risarcito alla parte civile il danno prodotto dal reato»; Cass., sez. IV, 22 giugno 2000, n. 10393, in Riv. pen., 2001, p. 415. Utilissimi approfondimenti sul punto, R.M. Geraci, L’appello contro la sentenza che applica la pena su richiesta, Padova, 2011, p. 95, nota 58.
12
Con queste parole, M.E. Catalano, La tutela della vittima nella direttiva 2012/29 UE e nella giurisprudenza delle Corti Europee, in
Riv. it. dir. proc. pen., 2014, p. 1789.
13
M. Gialuz, Applicazione della pena su richiesta di parti, in Enc. dir., Annali, II, 2008, vol. I, p. 37 parla di «mortificazione degli interessi del danneggiato» in riferimento alla tradizionale disciplina ex artt. 444 ss., c.p.p., che preclude al giudice del patteggiamento di pronunciarsi sulla domanda risarcitoria della parte civile.
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L’investitura della pubblica amministrazione a vittima privilegiata in virtù degli interessi dalla stessa tutelati non è novità della recente riforma: da tempo, infatti, secondo la Suprema Corte, «quando si
procede per un reato che comporta la confisca di beni o valori, non può accogliersi la richiesta di applicazione della
pena, formulata dalle parti ai sensi dell’art. 444 c.p.p., che non comprenda anche l’accordo sull’oggetto della confisca o comunque non consenta la determinazione certa di tale oggetto da parte del giudice» 14. L’intesa sulla pena
nei giudizi per reati regolati tra gli artt. 314 e 320 c.p. è subordinata all’accordo sulla misura ablativa ex
art. 322-ter c.p., sicché, in sua assenza, il giudice, ove ritenga «che sussistano i presupposti per adottare la
misura di sicurezza patrimoniale, dovrà rigettare tout court la richiesta di applicazione di pena formulata dalle
parti» 15. Insomma, l’oggetto del patto tra pubblica accusa e imputato si allarga, e – nelle ipotesi in cui la
pubblica amministrazione è soggetto passivo 16 – comprende il richiamo all’entità dei beni da confiscare, sì da permettere, poi, al giudice di assolvere all’obbligo di motivare 17 le ragioni per cui ritiene di disporre la misura patrimoniale de qua 18.
L’alto rango degli interessi tutelati dall’art. 322-ter c.p. – oltre all’urgenza occorsa nell’introdurre un
tale istituto sulla scorta della Convenzione sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee (26
luglio 1995) e protocolli successivi, della Convenzione relativa alla lotta contro la corruzione nella quale sono
coinvolti funzionari delle Comunità europee o degli Stati membri dell’Unione europea (26 maggio 1997) e della
Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali (17 dicembre 1997) 19 – ha imposto un trattamento di riguardo alla vittima-pubblica amministrazione, giungendo la giurisprudenza ad aggiungere al pactum requisiti ulteriori a quelli previsti ex art.
444 c.p.p.
Il contesto in cui è maturato il filone interpretativo sull’art. 322-ter c.p. – da guardare unitamente
all’altro, ancorché più risalente, che nei giudizi per reati comuni impedisce di vincolare il consenso del
pubblico ministero al risarcimento del danno da reato – e in cui ha visto la luce il nuovo art. 444, comma 1-ter, c.p.p. obbliga ad un’analisi che inquadri l’art. 6, legge n. 69 del 2015 nel più generale contesto
della “giustizia riparativa” e offra una lettura del nuovo istituto alla luce dei parametri costituzionali
già emersi in sede di lavori preparatori, così valutando la legittimità della condizione risarcitoria imposta per il patteggiamento nei reati corruttivi e, de iure condendo, la possibilità di estendere una previsione
siffatta all’accesso al rito speciale per altri reati.
PROFITTO, PREZZO E PRODOTTO DEI REATI CORRUTTIVI …
In via preliminare va compreso che cosa siano il “profitto” e il “prezzo” del reato alla cui restituzione è
subordinato l’accesso al rito alternativo.
Si è recentemente detto che «il concetto di profitto o provento del reato … deve intendersi come comprensivo
non soltanto dei beni che l’autore del reato apprende alla sua disponibilità per effetto immediato e diretto
dell’illecito, ma altresì di ogni altra utilità che lo stesso realizza come conseguenza anche indiretta o mediata della
sua attività criminosa» 20.
14
Cass., sez. VI, 11 marzo 2010, n. 12508, in Cass. pen., 2011, p. 2661 ss., con nota di S. Fabbretti, Patteggiamento e confisca: la
Corte estende l’oggetto dell’accordo tra le parti.
15
S. Fabbretti, Patteggiamento e confisca, cit., p. 2666.
16
Sul punto, e in una più ampia analisi dell’art. 322-ter c.p., F. Vergine, Il «contrasto» all’illegalità economica. Confisca e sequestro
per equivalente, Padova, p. 92 ss.
17
E questo proprio perché – è noto – «nel patteggiamento l’accordo tra le parti determina il contenuto della decisione. Il che implica
una perfetta corrispondenza tra il perimetro del consenso manifestato, il tema decisorio cristallizzato nell’imputazione e la pena (determinata
nella specie e nella misura) da disporsi in concreto». Così, G. Galluccio Mezio, Brevi osservazioni in materia di sospensione condizionale
della sanzione della confisca in relazione alla sentenza di patteggiamento ex art. 63 d.lgs. n. 231 del 2001, in Cass. pen., 2012, p. 2281.
18
Cass., sez. VI, 25 settembre 2008, n. 42804, in CED Cass. n. 241875; Cass., sez. VI, 21 febbraio 2007, n. 10531, in CED Cass. n.
235928.
19
Come emerge dall’intervento del Sen. Rosario Pettinato nella seduta del Senato n. 902 del 19 settembre 2000 (in www.
parlamento.it), di presentazione della legge 29 settembre 2000, n. 300, che tra le altre cose ha introdotto nel codice penale l’art. 322
ter c.p..
20
Cass., sez. un., 24 aprile 2014, n. 38343, in CED Cass. n. 261116. Per un inquadramento sistematico nelle pronunce in tema
di confisca diretta del profitto da reato, P. Silvestri, La confisca diretta del profitto del reato, in Gli orientamenti delle Sezioni Penali.
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La vicenda è nota, trattandosi dei fatti della Thyssenkrupp: le Sezioni Unite elevano a profitto anche il
risparmio occorso all’impresa nel non adeguare i propri impianti alle vigenti normative sulla sicurezza
del lavoro. Ed infatti, la Corte parla di “utilità”, ricollegando ad essa una generica accezione di “vantaggio per il reo”: su basi analoghe, altrove s’è ritenuto che «la trasformazione che il denaro, profitto del reato, abbia subito in beni di altra natura, fungibili o infungibili, non è di ostacolo al sequestro preventivo il quale
può avere ben ad oggetto il bene di investimento così acquisito» 21. Insomma, che dall’illecito sia derivato un
guadagno o un risparmio 22, e che le somme materialmente percepite siano state investite nell’acquisto
di altri beni (c.d. surrogati 23 non importa: ogni forma di vantaggio economico 24 conseguita dal reo rientra
nella nozione di “profitto” 25.
Altro aspetto essenziale è «la correlazione diretta del profitto con il reato e [la] stretta affinità con
l’oggetto di questo» 26, necessaria onde evitare indebite estensioni in malam partem del concetto: solo
esaltando il nesso di pertinenzialità causale 27 tra il reato e il reale 28 vantaggio patrimoniale per l’agente,
infatti, sarà possibile evitare un uso indiscriminato di sequestro e confisca, rivolto, cioè, a colpire una
non ben definibile universalità di beni, in qualche misura riconducibili al reo.
Applicando quanto sopra al nuovo art. 444, comma 1-ter, c.p.p. consegue l’esigenza di stabilire un
rapporto univoco tra illecito e utilità, così da limitare la condizione di accesso al patteggiamento alla riconsegna delle somme la cui circolazione abbia determinato al contempo un vantaggio per l’agente e
un pericolo per il corretto funzionamento dell’attività amministrativa pubblica. Così, in un caso di corruzione, ove al ricorrente era «ascritto il reato finalizzato all’ottenimento dell’assenso degli enti competenti, per
effetto di false attestazioni dei pubblici ufficiali coindagati, alla realizzazione … di un impianto … senza convocare la necessaria Conferenza dei servizi», il profitto è stato specificato «solo in base al diretto beneficio indebitamente ottenuto, consistente nella realizzazione dell’impianto illecitamente autorizzato, e non già – come nella specie risulta erroneamente avvenuto – alle conseguenze indirette di tale illecito beneficio individuate nella percezione
delle somme liquidate a seguito della erogazione della energia elettrica in base alla convenzione con l’ente gestore
che – alla stregua della provvisoria formulazione dell’accusa – non risulta attinta da profili di illiceità, cosicché del
tutto privo di motivazione risulta l’assunto secondo il quale la tariffa incentivante sarebbe stata ottenuta mediante
la corruzione dei pubblici ufficiali» 29. La Corte pone, dunque, un limite all’individuazione dei surrogati del
profitto immediato 30, e i criteri già considerati in punto di confisca dovranno, de iure condendo, trovare
analoga applicazione all’art. 444, comma 1-ter, c.p.p. La conclusione trova, poi, conferma nelle rationes
Anno 2014, a cura dell’Ufficio del Massimario della Corte Suprema di Cassazione, supplemento a Cass. pen., 2015, vol. 4, p. 287.
Su una vicenda per certi versi similare, trattandosi di reato commesso da persona giuridica e di sequestro ai sensi del d.lgs. 8
giugno 2001, n. 231, L. Rapetti-A. Torri, La prova del fumus delicti nel sequestro preventivo ex artt. 19 e 53 d.lvo 231/2001, in
www.penalecontemporaneo.it.
21
Cass., sez. un., 30 gennaio 2014, n. 10561, in CED Cass. n. 258646. Meno recente ma di sicura importanza, Cass., sez. un., 25
ottobre 2007, n. 10280, in Cass. pen., 2008, p. 3171; in tema, pure R. Lottini, La nozione di profitto e la confisca per equivalente ex art.
322 ter c.p., in Dir. pen. proc., 2008, p. 1300 o M. R. Santangelo, La nozione di “profitto del reato” nella confisca dei beni derivanti da concussione, in Studium iuris, 2009, p. 70.
22
Come accade, per esempio, nei reati tributari: v. Cass., sez. un., 31 gennaio 2013, n. 18374, in Cass. pen., 2013, p. 2928: «non è
revocabile in dubbio che il profitto possa essere costituito da qualsivoglia vantaggio patrimoniale direttamente conseguente alla consumazione del reato e possa, dunque, consistere anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento del tributo, interessi e
sanzioni dovuti a seguito dell’accertamento del debito tributario».
23
Parla di «surrogati del profitto immediato del reato», C.E. Paliero, False comunicazioni e profitto confiscabile: connessione problematica o correlazione impossibile?, in Le Società, 2012, p. 76.
24
Sul carattere patrimoniale del vantaggio, Cass., sez. un., 25 giugno 2009, n. 38691, in CED Cass. n. 244191.
25
Con efficace sintesi, G. Varraso, Punti fermi, disorientamenti interpretativi e motivazioni “inespresse” delle Sezioni Unite in tema
di sequestro a fini di confisca e reati tributari, in Cass. pen., 2014, p. 2812.
26
Cass., sez. un., 27 marzo 2008, n. 26654, in Riv. it. dir. proc. pen., 2008, p. 1749.
27
In questi termini, A.M. Maugeri, La confisca per equivalente ex art. 322 ter c.p. fra obblighi di interpretazione conforme ed esigenze
di razionalizzazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2011, p. 777 o, anche, L. Pistorelli, Confisca del profitto del reato e responsabilità degli enti
nell’interpretazione delle Sezioni Unite, in Cass. pen., 2008, p. 4556.
28
Esalta il carattere della concretezza del vantaggio, C.E. Paliero, False comunicazioni e profitto confiscabile, cit., p. 76.
29
Cass., sez. VI, 14 luglio 2015, n. 33229, inedita.
30
Consapevole che, in tema di corruzione, «il profitto del reato è costituito dal vantaggio economico, già conseguito dall’imputato e
di diretta e immediata derivazione causale dal reato presupposto, calcolato ai netto dell’effettiva utilità eventualmente conseguita dal danneggiato dal reato»: v. Cass., sez. II, 12 novembre 2013, n. 8339, in CED Cass. n. 258787.
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degli artt. 322-ter c.p. e 6, legge n. 69 del 2015: entrambi esaltano la funzione pubblica espletata dall’apparato amministrativo e descrivono strumenti a tutela della stessa la cui applicazione, però, non può
sconfinare nell’arbitrio ed offendere indebitamente l’interesse privato. Si tratta, insomma, di mezzi il
cui impiego va limitato al necessario, richiedendosi per il nuovo patteggiamento uno sforzo degli interpreti almeno paritario a quello già profuso sulla misura ex art. 322-ter c.p. 31.
Identico discorso vale per la nozione di “prezzo”. Si tratta del «compenso dato o promesso per indurre, istigare o determinare un altro soggetto a commettere il reato e costituisce, quindi, un fattore che
incide esclusivamente sui motivi che hanno spinto l’interessato a commettere il reato» 32. Così, intendendo distinguere il prezzo dal profitto, la Suprema Corte «ha escluso che possano identificarsi nel
“prezzo del reato”: il denaro esposto nel gioco d’azzardo, il corrispettivo versato allo spacciatore per la
cessione di sostanza stupefacente, la cosa incautamente acquistata, il danaro consegnato dalla prostituta
al suo sfruttatore» 33.
Si tratta di nozione saldamente ancorata al disposto dell’art. 240 c.p., che viene poi ripresa dall’art.
322-ter c.p. 34, e che va applicata all’art. 444, comma 1-ter, c.p.p.. Così, in un caso di corruzione la Corte
d’appello di Roma disponeva «ai sensi dell’art. 240, comma 2, c.p. e art. 322 ter c.p., la confisca delle somme
sottoposte a sequestro preventivo fino a concorrenza di Euro 23.000 … in quanto solo per tale importo si era raggiunta adeguata prova che la stessa rappresentasse la tangente corrisposta in virtù del ritenuto patto corruttivo» 35. Ipotizzando la possibilità di assoggettare il caso al rito ex artt. 444 ss., c.p.p., può ritenersi che,
stante il nuovo comma 1 ter, il pagamento di Euro 23.000 – cioè del prezzo del reato – avrebbe costituito
la condizione necessaria per l’accesso al rito. L’auspicio è, quindi, che la giurisprudenza applichi al patteggiamento la medesima accezione di “prezzo” già precisata per la confisca, senza cambi di rotta che
sarebbero immotivati sul piano degli scopi perseguiti dal legislatore dello scorso maggio.
L’art. 444, comma 1-ter, c.p.p. non parla del prodotto del reato, ossia del «frutto che il colpevole ottiene direttamente dalla sua attività illecita» 36. La Suprema Corte ha poi recentemente chiarito che «il
prodotto … rappresenta l’oggetto materiale derivato al reo come conseguenza dell’illecito (ad esempio
l’oggetto falsificato nella falsificazione)» 37, così separandolo dal “profitto”, inteso, invece, come «utilità
economica» 38.
La nitidezza di un tale distinguo sfuma nelle parole degli interpreti. Ricostruendo la decisione del
Riesame di Reggio Calabria, che, in un caso di associazione a delinquere di stampo mafioso, confermava il «decreto emesso dal GIP dello stesso ufficio giudiziario in data 02/10/2014 con cui era stato disposto il sequestro della V. s.r.l. … e del relativo patrimonio aziendale … perché ritenuti complesso di beni serviti per commettere il reato associativo, essendo la società pienamente inserita nel meccanismo criminale e deputata a consentire alla cosca P. di reimpiegare o riciclare il denaro illecitamente accumulato», la Suprema Corte sottolinea
come, nella prospettiva del giudice di merito, per cui «il complesso aziendale costituisc[e] provento del delitto associativo, debbono ritenersi prodotto o profitto di questo sia gli oggetti dell’indebito arricchimento conseguito dall’associazione criminale attraverso la commissione dei delitti-scopo, sia i beni conseguiti dal sodalizio attraverso attività economiche fortemente lecite, ma gestite mercé l’esercizio della forza d’intimidazione mafiosa» 39.
31
Per ulteriori riflessioni, vedasi anche A. Fux, Ulteriori precisazioni sulla nozione di profitto: è necessaria l’esternalità, in Cass.
pen., 2013, p. 3253.
32
Cass., sez. un., 3 luglio 1996, n. 9148, in Cass. pen., 1997, p. 971, con nota di D. Carcano, Quando le sezioni unite non vogliono
decidere. Una complessa motivazione per una decisione non risolutiva riescono a fare chiarezza.
33
Cass., sez. un., 25 giugno 2009, n. 38691, in CED Cass. n. 244189.
34
E «a fronte della netta distinzione tra le nozioni di "prezzo" e di "profitto" del reato come sopra delineata – ed in mancanza di una
chiara indicazione normativa che attribuisca a tali termini un significato diverso da quello comunemente loro assegnato (pure tenendo conto
del travagliato iter parlamentare di approvazione della L. n. 300 del 2000, che, attraverso scansioni particolarmente tortuose, ha portato a
ripetuti assestamenti del testo legislativo) – deve convenirsi, dunque, che non esiste alcun elemento idoneo a far ritenere che il legislatore,
nella formulazione dell’art. 322 ter c.p., abbia usato il termine "prezzo" in senso atecnico, così da includere qualsiasi utilità connessa al reato»: così, sempre Cass., sez. un., 25 giugno 2009, cit..
35
Cass., sez. un., 21 luglio 2015, n. 31617, in www.processopenaleegiustizia.it.
36
G. Varraso, Punti fermi, disorientamenti interpretativi, cit., p. 2812.
37
Si veda la relazione La nozione di profitto confiscabile nella giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, a cura
dell’Ufficio del Massimario, 17 giugno 2014, p. 4, in www.cortedicassazione.it.
38
È la stessa relazione La nozione di profitto, cit., p. 4.
39
Cass., sez. VI, 10 giugno 2015, n. 33898, in www.iusexplorer.it.
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Ambo le nozioni in parola si legano al reato in una prospettiva efficientistica: il canone della pertinenzialità, che vale sia per il prodotto che per il profitto, impone ai giudici di limitare gli effetti della
misura ablativa solo a ciò che sia derivato, direttamente o come vantaggio economico, dall’illecito.
Guardando ai lavori preparatori della legge n. 69 del 2015, ci si avvede come interesse del legislatore
fosse quello di dettare «disposizioni di carattere economico» 40, così rimediando ai vulnera patiti dall’apparato pubblico per i dilaganti fenomeni corruttivi. Ecco, allora, che il binomio “prezzo-profitto” dell’art. 444, comma 1-ter, c.p.p. funge da criterio di calcolo del quantum da restituire per l’accesso al rito
speciale. Limitando alla lettera il concetto di “prodotto”, esso rimane estraneo al nuovo “patteggiamento condizionato”, non interessando all’amministrazione tornare in possesso di una res, quanto piuttosto
rientrare dei «costi diretti totali della corruzione» 41.
RESTITUZIONE E RISARCIMENTO
Chiude il cerchio un rimando alla parola “restituzione”: omettendo il termine “risarcimento”, l’art. 444,
comma 1-ter, c.p.p. compie una scelta analoga a quella del codice civile, che all’art. 2041 impone a «chi,
senza una giusta causa, si [sia] arricchito», di «indennizzare» colui che ha subito la diminuzione patrimoniale.
Il paragone è solo all’apparenza azzardato: per la Suprema Corte l’azione ex art. 2041 cc. si fonda
sull’«unicità del fatto causativo dell’impoverimento, sussistente quando la prestazione resa dall’impoverito sia andata a vantaggio dell’arricchito» 42. Le ipotesi delittuose dell’art. 444, comma 1-ter, c.p.p. offendono la pubblica amministrazione, sostanziandosi in fattispecie in cui il bene comune è impiegato
per un fine deviato. Altrimenti detto, la «prestazione» resa dall’apparato amministrativo-vittima del
reato è la funzione pubblica, esercitata in modo erroneo, per scopi personali – cioè a «vantaggio dell’arricchito» – e divenuta, di fatto, una «dis-funzione dannosa» 43.
Rispetto a ciò, però, va ricordato che «la domanda di indennizzo per arricchimento senza causa e quella di
risarcimento danni da responsabilità aquiliana non sono intercambiabili in quanto diverse per causa petendi e petitum, poiché nella prima la causa dello spostamento patrimoniale non deve essere qualificata come antigiuridica e
l’indennizzo deve essere ragguagliato alla minor somma tra arricchimento e depauperamento» 44.
Occorre anzitutto comprendere che cosa s’intenda per “causa non antigiuridica”.
Con un esempio, il medico specialista che, in regime di convenzione con un’azienda sanitaria, chieda ex art. 2041 cc. l’indennizzo per prestazioni specialistiche rese al di fuori dell’oggetto della convenzione perché compiute su pazienti eccedenti il limite numerico previsto dal rapporto, «ha l’onere di provare, oltre che la propria diminuzione patrimoniale e la oggettiva vantaggiosità in termini economici per la controparte delle prestazioni rese, anche l’accertamento da parte dell’azienda pubblica della loro utilità, in termini di
effettiva e concreta corrispondenza di dette prestazioni alle esigenze del servizio pubblico» 45.
Ancora, «è possibile configurare l’ingiustizia dell’arricchimento da parte di un convivente more
uxorio nei confronti dell’altro in presenza di prestazioni a vantaggio del primo esulanti dal mero adempimento
delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza e travalicanti i limiti di proporzionalità e adeguatezza» 46.
La causa del depauperamento non viola il generale principio del neminem laedere, e il quantum cui è
tenuto l’arricchito è certamente un «indennizzo per fatto lecito» 47, corrispondente al sacrificio subìto
40
Relazione in Commissione Giustizia dell’On. D. Ermini del 16 aprile 2015, p. 51, in www.camera.it.
41
«Che» – prosegue la Relazione dell’On. D. Ermini, citando dati della Commissione europea – «ammonterebbero a 60 miliardi
di euro l’anno (pari a circa il 4 per cento del PIL)».
42
Cass. civ., sez. un., 8 ottobre 2008, n. 24772, in CED Cass. n. 604830.
43
Come sottolinea M. Carrà, L’esercizio illecito della funzione pubblica ex art. 2043 cc., Milano, 2006, p. 98, nota 134.
44
Cass. civ., sez. un., 10 settembre 2009, n. 19448, in CED Cass. n. 609215, che pone la parola “fine” rispetto al dibattito sui
rapporti tra azioni ex art. 2041 cc. e risarcitoria: in precedenza, infatti, s’era pure ritenuto che «la domanda di indennizzo per arricchimento senza causa di quanto sia stato chiesto in primo grado a titolo di risarcimento del danno può essere proposta in appello per la prima
volta, non costituendo domanda nuova, se sia fondata sulle stesse circostanze di fatto prospettate in primo grado»: Cass. civ., sez. II, 28 novembre 1997, n. 12009, in CED Cass. n. 510512.
45
Cass. civ., sez. lav., 23 marzo 2004, n. 5792, in CED Cass. n. 571436.
46
Cass. civ., sez. III, 15 maggio 2009, n. 11330, in CED Cass. n. 608287.
47
P. Cendon, La prova e il quantum nel risarcimento del danno non patrimoniale, vol. I, Torino, 2008, p. 142.
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dall’altra parte. Ecco, allora, che, per quanto suggestivo, il confronto con l’arricchimento ingiustificato
non regge: è, sì, vero che sia l’art. 2041 cc. che l’art. 444, comma 1-ter, c.p.p. non parlano di risarcimento
e impongono a taluno di restituire ciò di cui si è arricchito indebitamente per effetto della prestazione
altrui: a monte del meccanismo introdotto con legge n. 69 del 2015 c’è, però, un fatto illecito, da ravvisarsi nelle fattispecie penali indicate dall’art. 444, comma 1-ter, c.p.p.
Il significato del termine in esame va, così, ricercato tra le norme sull’illecito civile.
La giurisprudenza di merito ha chiarito il nesso tra “restituzione” e “risarcimento” in un caso di
usurpazione: «il proprietario usurpato che non opti per la restituzione del bene – o quando tale restituzione del
bene non possa conseguire per i limiti imposti alla funzione risarcitoria in forma specifica – avendo subìto un comune fatto illecito generatore di danno ha diritto al suo risarcimento commisurato a criteri di integralità» 48. Ne
deriva che: a) la restituzione è rimedio alternativo al risarcimento; b) il risarcimento – da calcolarsi ex
artt. 1223 e 2056 cc. – deve essere corrisposto allorché la restituzione non sia possibile, come previsto
dall’art. 2058 cc.
La digressione civilistica non è fine a se stessa, ma permette di attribuire alla parola “restituzione” il
senso di rimedio idoneo a recuperare la disponibilità di un bene 49, avendola persa il legittimo detentore 50 per effetto dell’illecito altrui 51. Questi rilievi consentono la corretta esegesi dell’art. 444, comma 1
ter, c.p.p.: per accedere al patteggiamento, l’accusato deve restituire il prezzo o il profitto del reato, cioè
le utilità percepite per causa dell’illecito 52.
S’aggiunge, così, una considerazione sul bene-interesse tutelato dagli artt. 314 ss., c.p.. In tema di peculato, ad esempio, è stata sottolineata la natura plurioffensiva del reato, sicché «l’eventuale mancanza di
danno patrimoniale conseguente all’appropriazione non esclude la sussistenza del reato, atteso che rimane sempre
leso dalla condotta dell’agente l’altro interesse, diverso da quello patrimoniale, protetto dalla norma, cioè quello di
buon andamento della pubblica amministrazione» 53. La Suprema Corte distingue, così, tra: a) danno patrimoniale, costituito dalla perdita patita dall’apparato pubblico; b) danno non patrimoniale, generato dalla
lesione del buon andamento. È ora chiaro che, per l’accordo sulla pena ex art. 444, comma 1-ter, c.p.p.,
l’accusato di peculato è tenuto a restituire solo ciò che l’amministrazione ha perso per effetto della sua
condotta, oltre, ovviamente, ai frutti di cui ha beneficiato e che è possibile individuare come diretta
conseguenza del reato. Il giudice non è chiamato, invece, a calcolare il pregiudizio non patrimoniale
subìto dall’amministrazione, né l’imputato è tenuto a ristorarlo per accedere al rito alternativo.
Diverso potrebbe apparire il caso di induzione indebita a dare o promettere utilità (art. 319 quater c.p.),
se lo si considera «reato monosoggettivo, e non plurioffensivo», poiché vengono tutelati «solo l’imparzialità e il
buon andamento (non più anche la libertà di autodeterminazione e il patrimonio del privato, che continuano ad
essere protetti dall’attuale art. 317 c.p.)» 54. Un danno patrimoniale diretto alla pubblica amministrazione,
infatti, non c’è: come per la concussione il reo percepisce utilità da un terzo, sfruttando la propria qualifica di pubblico ufficiale. D’altro canto, è fuor di dubbio che l’art. 444, comma 1 ter, c.p.p. non vincoli
nemmeno in questo caso l’imputato a risarcire il danno non patrimoniale, egli rimanendo obbligato a
48
Trib. Nicosia, 26 ottobre 2002, in Foro it., 2003, I, p. 2345.
49
Vedasi R. Omodei Salè, Le Sezioni Unite sul rapporto tra azione di rivendica e azione di restituzione rispetto alla detenzione “sine
titulo”, in www.dirittocivilecontemporaneo.com.
50
Non apparendo opportuno addentrarci sul titolo che lega il detentore alla res, posto che la restituzione «si fonda su una pretesa di carattere personale, in capo a colui che agisce»: sempre, R. Omodei Salè, Le Sezioni Unite, cit..
51
Ulteriori approfondimenti in questo senso, in F. Bottoni, Tutela della proprietà, cumulo di rimedi e tramonto dell’occupazione
appropriativa, in Nuova giur. civ. comm., 2013, I, p. 737 o A. Di Biase, Occupazione abusiva di immobili e tutela giurisdizionale del proprietario: tra azioni reali ed azioni personali, in Giust. civ., 2012, p. 311 ss.
52
E d’altra parte, questo è il solo approdo accettabile: all’uopo la Cassazione parla di «beni o parti di beni su cui il danneggiato
può accampare una specifica pretesa restitutoria, ossia una pretesa alla restituzione di un bene in forza del diritto di proprietà o di un diritto
reale di godimento o di garanzia ovvero del possesso o della detenzione, pur se derivanti da un negozio produttivo di effetti obbligatori»:
Cass., sez. VI, 28 aprile 2010, n. 16526, in www.iusexplorer.it.
53
Cass., sez. VI, 31 gennaio 2005, n. 2963, in CED Cass. n. 231032. Il concetto è poi ripreso da più recente giurisprudenza:
Cass., sez. VI, 9 luglio 2010, n. 26476, in CED Cass. n. 248004 esplicita l’interesse non patrimoniale della pubblica amministrazione, qualificandolo in «legalità, imparzialità e corretto andamento del suo operato». È paradigmatico il caso sotteso a quest’ultima pronuncia: una guardia carceraria si appropriava di venti euro destinati ad un detenuto: la perdita economica dell’amministrazione
penitenziaria è nulla; grave, invece, la lesione dei valori espressi dall’art. 97 Cost.
54
M. Gambardella, La linea di demarcazione tra concussione e induzione indebita: i requisiti impliciti del “danno ingiusto” e del “vantaggio indebito”, i casi ambigui, le vicende intertemporali, in Cass. pen., 2014, p. 2018.
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restituire le somme che derivano dal reato, cioè quanto percepito dall’indotto o dal concusso. La soluzione risiede di nuovo nel distinguo tra “restituzione” e “risarcimento”. S’è detto che la prima «andrebbe
concepita come restitutio in integrum, vale a dire come "reintegrazione dello stato di cose preesistente alla commissione del reato", che, in quanto tale, "abbraccia non solo la riconsegna reale o simbolica delle cose mobili sottratte e delle cose immobili di cui si è venuti in possesso, ma più in generale il ripristino della situazione originaria"» 55. Sembrerebbe, pertanto, che il responsabile del reato ex art. 319 quater c.p. sia tenuto a restituire
le somme all’indotto prima di accordarsi sulla pena in giudizio. La conclusione è inaccettabile: anzitutto, per aversi restituzione occorre identificare un danneggiato 56, che di certo non può essere il privato.
È ben vero, infatti, che costui «dispon[e] di ampi margini decisionali [e] finisce col prestare acquiescenza alla
richiesta della prestazione non dovuta, perché motivata dalla prospettiva di conseguire un tornaconto personale,
che giustifica la previsione di una sanzione a suo carico» 57. L’indotto è, così, concorrente necessario del reato, e unico danneggiato rimane l’apparato pubblico.
Il concetto di “restituzione” sfuma in quello di “risarcimento”, vista l’assenza di un danno patrimoniale diretto all’ente amministrativo. In tal caso, infatti, l’imputato non rende alcunché allo Stato, ma lo
risarcisce di una somma equivalente alle utilità derivanti dal reato e nella quale evidentemente si identifica il valore economico della perdita subita dall’amministrazione sul piano del buon andamento 58.
Tirando le somme, occorre cogliere il significato ibrido del termine “restituzione” ex art. 444, comma
1-ter, c.p.p.; esso compendia le due anime del rimedio civilistico coniato dagli artt. 2043 ss. cc.: «reintegrare nel suo contenuto economico la situazione di interesse che era stata lesa» 59 e rimediare all’antigiuridicità
dell’evento dannoso 60; per evitare equivoci, quindi, sarebbe stato probabilmente preferibile formulare
l’art. 444, comma 1-ter, c.p.p. in termini analoghi al nuovo art. 165 c.p. sulla sospensione condizionale
della pena, magari parlando solo di «pagamento in favore dell’amministrazione lesa dalla condotta del pubblico ufficiale di una somma equivalente al prezzo o al profitto del reato».
DANNEGGIATI “SECONDARI”
Concependo il rimedio ex art. 444, comma 1-ter, c.p.p. come risarcimento del danno subìto dall’amministrazione, quantificabile a forfait nel prezzo o nel profitto del reato, deriva l’impossibilità per l’ente
danneggiato di esercitare un’autonoma azione dinnanzi al giudice civile, una volta che l’imputato abbia
onorato la condizione di accesso al patteggiamento.
L’art. 444, comma 1 ter, c.p.p. si esprime in termini assoluti e non distingue i casi in cui ci sia un diretto
55
V. Mongillo, Ulteriori questioni in materia di confisca e sequestro preventivo a carico degli enti: risparmi di spesa, crediti e diritti restitutori del danneggiato, in Cass. pen., 2011, p. 2336, che cita F. Mantovani, Diritto penale. Parte generale, Padova, 2006, p. 870.
56
Come sottolineano V. Mongillo, Ulteriori questioni in materia di confisca, cit., p. 2336, e A.M. Maugeri, Le moderne sanzioni patrimoniali tra funzionalità e garantismo, Milano, 2001, p. 157.
57
Cass., sez. un., 14 marzo 2014, n. 12228, in CED Cass. n. 258470.
58
E se così non fosse, non avrebbe senso la considerazione dei sostenitori della riforma, che salutavano «con favore la previsione dell’articolo 5 [oggi, articolo 6], che intervenendo sull’articolo 444 del codice di procedura penale, in particolare per quanto riguarda
l’applicazione della pena su richiesta delle parti, vale a dire il patteggiamento, subordina l’ammissibilità della richiesta alla restituzione integrale del prezzo o del profitto del reato. In sostanza lo Stato, anche per ragioni di economia complessiva del procedimento, accetta di
accedere alla misura del patteggiamento, ma lo fa solo con riferimento alle persone disponibili a restituire integralmente il prezzo del profitto del reato»: così il Sen. Lo Giudice alla seduta n. 416 del 25 marzo 2015, in www.senato.it. L’intervento prosegue,
poi, con l’auspicio che un tale meccanismo trovi applicazione anche alla sospensione condizionale della pena. A qualche giorno
di distanza (31 marzo 2015) il Sen. Lo Giudice otteneva l’approvazione di un emendamento all’art. 165 c.p. per cui «nei casi di
condanna per i reati previsti dagli articoli 314, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, 320 e 322-bis, la sospensione condizionale della pena è
comunque subordinata al pagamento di una somma equivalente al profitto del reato ovvero all’ammontare di quanto indebitamente percepito
dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di un pubblico servizio, a titolo di riparazione pecuniaria in favore dell’amministrazione lesa dalla condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio, ovvero, nel caso di cui all’articolo 319-ter, in favore dell’amministrazione
della giustizia, fermo restando il diritto all’ulteriore eventuale risarcimento del danno». Lo schema è il medesimo del patteggiamento,
ma si evita opportunamente di qualificare il pagamento della somma come “restituzione” o “risarcimento”.
59
D. Messinetti, Personalità (diritti della), in Enc. dir., XXXIII, Milano, 1983, p. 395.
60
Coniugando questo aspetto con l’esigenza di effettività della tutela giurisdizionale, come statuito da Cass., sez. un., 11 novembre 2008, n. 26972, in Giur. it., 2009, p. 317. Utili approfondimenti in G. Visintini, Trattato della responsabilità contrattuale, Padova, 2009, vol. III, p. 28, secondo cui, però, il risarcimento del danno non avrebbe giammai funzione sanzionatoria: così pure C.
Salvi, La responsabilità civile, in G. Iudica-P. Zatti (a cura di), Trattato di diritto privato, Milano, 2005, p. 5 ss.
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danno economico all’apparato amministrativo, da quelli in cui, invece, sia offeso solo il buon andamento dell’ente. Da ciò, la considerazione per cui la norma intende rimediare all’antigiuridicità dell’evento
dannoso, espletando – come si legge nei lavori preparatori alla legge n. 69 del 2015 – una funzione sia
preventiva che repressiva dei reati corruttivi.
Si delinea, così, una variante rispetto allo schema tradizionale che nega al giudice del patteggiamento la possibilità di pronunciarsi sulla domanda risarcitoria, sacrificando 61 l’interesse della parte civile.
Per i delitti dell’art. 444, comma 1-ter, c.p.p., infatti, il giudice non può nemmeno esaminare l’accordo
sulla pena se prima non sia stata risarcita l’amministrazione, che viene, così, elevata a danneggiato privilegiato rispetto ad altri, eventualmente toccati dalla condotta del reo.
Ricordando la natura plurioffensiva dei reati ex artt. 314 ss., c.p., nel caso di un imprenditore costretto dal sindaco di un piccolo comune a nominare quale direttore dei lavori un soggetto a lui vicino, per
evitare di soggiacere ai continui ricatti prospettatigli, poiché il pubblico ufficiale «agi[va] con modalità o
con forme di pressione tali da non lasciare margine alla libertà di autodeterminazione del destinatario della pretesa
illecita che, di conseguenza, si determina[va] alla dazione o alla promessa esclusivamente per evitare il danno minacciato» 62, è impossibile non annoverare l’imprenditore concusso tra i danneggiati dal reato.
Ancora, in materia di peculato, nell’ipotesi della guardia carceraria che, incaricata di controllare la
posta inviata ai detenuti, si impossessava della somma di venti euro, contenuta nella missiva indirizzata ad un recluso 63, quest’ultimo può senz’altro vantare una pretesa risarcitoria verso il secondino, parallela alla richiesta della pubblica amministrazione.
Sono, così, concepibili danneggiati secondari, per i quali valgono le tradizionali regole del patteggiamento e sulle cui istanze non può decidere il giudice penale. Torna per essi il dubbio di legittimità costituzionale – sul piano dell’eguaglianza – di una tale soluzione.
Va anzitutto ricordato il monito della Consulta sui rapporti tra accertamento penale e istanze civilistiche sul danno da reato: «l’azione per il risarcimento o le restituzioni ben può avere ab initio una propria autonomia nella naturale sede del giudizio civile – con un iter del tutto indipendente rispetto al giudizio penale –,
nel quale non sussistono quei condizionamenti che, viceversa, la legge impone nel caso in cui si sia preferito esercitare l’azione civile nell’ambito del procedimento penale; condizionamenti giustificati dal fatto che oggetto
dell’azione penale è l’accertamento della responsabilità dell’imputato» 64.
La sentenza fa eco ad altra, di poco più risalente, in cui la Corte sottolineò come ci sarebbe violazione dell’art. 24, comma 1, Cost. da parte degli artt. 444 ss., c.p.p., laddove inibiscono al giudice di decidere sulle questioni civili, solo se l’esercizio dell’azione risarcitoria in sede penale fosse «l’unico strumento
di tutela giudiziaria a disposizione del soggetto al quale il reato ha recato danno, nel senso di non consentirgli
l’utilizzazione di alcun’altra forma di tutela giudiziaria, una volta prescelta la via del processo penale» 65.
Insomma, non v’è nulla di sbagliato se il danneggiato viene escluso dall’accordo sulla pena 66, poiché
esiste altro luogo idoneo per la riparazione del danno, e cioè, appunto, il giudizio civile 67. Passando al
patteggiamento nei reati corruttivi, quanto detto vale per i danneggiati secondari, ma non – come s’è
visto – per la pubblica amministrazione, che ottiene di essere soddisfatta addirittura prima che venga in
essere il negozio sulla pena tra imputato e pubblico ministero.
Tale disparità di trattamento non fonda una censura ex art. 3 Cost.: quella in parola è, infatti, una
questione di discrezionalità legislativa, impedita al vaglio della Consulta 68. D’altro canto, si è trattato di
61
Di “sacrificio” parla R. M. Geraci, L’appello contro la sentenza, cit., p. 90.
62
Cass., sez. VI, 20 gennaio 2014, n. 2305, in CED Cass. n. 258655.
63
Cass., sez. VI, 9 luglio 2010, n. 26476, cit.
64
C. cost., sent., 29 dicembre 1995, n. 532, in www.giurcost.org. Al più «la persona offesa costituita parte civile ha diritto, in caso di
sentenza di patteggiamento, alla condanna dell’imputato alla rifusione anche delle spese sostenute per l’attività svolta prima della costituzione»: Cass., sez. IV, 3 febbraio 2011, n. 4136, in CED Cass. n. 249418.
65
C. cost., sent. 26 settembre 1990, n. 443, in Cass. pen., 1990, p. 372. In tema, vedasi anche G.L. Verrina, Dall’unicità del fatto
alla pluralità delle procedure: profile di interferenza e problem di coordinamento, in F. Giunchedi-C. Santoriello (a cura di), La giustizia
penale differenziata, Milano, 2010, p. 388; G.L. Verrina, Sentenza di patteggiamento e decadenza dalla carica di consigliere comunale, in
Giur. it., 1994, p. 505.
66
Utili approfondimenti in A.M. Siagura, La negoziabilità della pena. Esperienze giuridiche a confronto, Padova, 2015, p. 81 ss.
67
In tema pure E. Amodio, Giustizia penale negoziata e ragionevole durata del processo, in Cass. pen., 2006, p. 3407.
68
Si verserebbe, insomma, in un ambito nel quale il legislatore ha compiuto valutazioni di opportunità, non sottoponibili al
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Processo penale e giustizia n. 1 | 2016
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bilanciare 69 le esigenze di chi, genericamente identificato, lamenta un danno da reato, con l’interesse
della pubblica amministrazione che – si legge sempre nei lavori preparatori alla legge n. 69 del 2015 – è
offesa dal dilagare dei fenomeni corruttivi e dalle nefaste ricadute che essi producono sull’economia
nazionale 70.
Si comprende ora la scelta del legislatore nel richiamare alcuni delitti ma non altri nell’art. 444,
comma 1 ter, c.p.p.
Una recente massima chiarirà ulteriormente il concetto: «l’attività attraverso la quale una federazione
sportiva si procura i mezzi finanziari ricevendo i contributi dei propri soci e gestisce tali mezzi, è estranea
all’esercizio dell’attività sportiva; conseguentemente integra il reato di appropriazione indebita aggravata a norma
degli artt. 646 e 61 n. 11 c.p. il fatto dell’amministratore di una Federazione sportiva che si appropri del denaro
versato dai tesserati, difettando una formale e specifica destinazione di tali fondi all’esercizio della pratica sportiva.
A contrariis, integra il delitto di peculato la condotta appropriativa di fondi specificamente destinati al finanziamento dell’esercizio della pratica sportiva erogati a tale scopo dal C.O.N.I.: in relazione a tale specifica attività sono infatti riconosciute alla Federazione connotazioni evidentemente pubblicistiche» 71. Le operazioni di giroconto possono integrare tanto l’appropriazione indebita – «con riguardo alle somme [meglio, alle cifre] di
natura privata (provenienti, appunto, da tesseramenti, affiliazioni e multe irrogate dalla società ai tesserati)» – quanto il peculato, «con riguardo alle risorse finanziarie provenienti da fondi pubblici» 72: sotto
un profilo naturalistico, infatti, la condotta è la medesima, e consiste nel trattenere presso di sé somme
o beni di cui l’agente era già in possesso; quel che muta è la provenienza delle utilità – privata, per
l’appropriazione indebita, e pubblica, per il peculato – e la natura dell’offesa, rivolta all’altrui patrimonio nel primo caso, e alla pubblica amministrazione, nel secondo.
Ricordando le finalità della legge anticorruzione 73, diventa ora facile comprendere perché solo per il
peculato, e non anche per l’appropriazione indebita, il legislatore abbia posto la restituzione del prezzo
o del profitto del reato quale condizione di accesso al patteggiamento. L’obiettivo, insomma, è la tutela
del pubblico interesse, e l’art. 6 della legge n. 69 del 2015 sicuramente non si propone di creare uno
strumento di portata generale, volto a frapporre il danneggiato da qualunque reato tra il pubblico ministero e l’imputato nell’accordo ex art. 444 c.p.p.
CONCLUSIONI
Già nei lavori preparatori dell’attuale codice si evidenziò come nel patteggiamento «non occorre un
positivo accertamento della responsabilità penale. Soprattutto per questa ragione si è escluso che il giudice possa
decidere su eventuali domande della parte civile, ma si è anche considerato che una soluzione diversa sarebbe stata
fortemente disincentivante per l’imputato, la cui richiesta avrebbe finito normalmente con il comportarne la soccombenza nella controversia civile» 74.
sindacato di legittimità della Consulta, giacché valutabili sotto il profilo del “merito”. Su legittimità e merito nel giudizio della
Corte, L. Ventura, Frammenti costituzionali e disordine politico, Torino, 2015, p. 169.
69
Nel senso indicato da A. Morrone, voce Bilanciamento, in Enc. dir. Annali, vol. II, Milano, 2008, p. 196 di tecnica che «deve rispondere ad un criterio di “necessità”, nel senso che la scelta di limitare o postergare un diritto o un interesse costituzionale deve giustificarsi per la necessità di dare attuazione a un altro diritto o interesse di pari rango».
70
Mutatis mutandis, in tema di reati tributari, vale la pena un richiamo a C. cost., sent. 28 maggio 2015, n. 95, che dichiara infondata la questione di costituzionalità dell’art. 13, comma 2 bis, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, sollevata dal G.u.p. del Tribunale di
La Spezia, «laddove introduce un’esclusione oggettiva dal “patteggiamento” riferita alla generalità dei delitti in materia tributaria previsti
dal d.lgs. n. 74 del 2000, esclusione che viene meno solo quando ricorra una circostanza attenuante speciale ricollegata alla riparazione
dell’offesa causata dal reato quale è quella delineata dai commi 1 e 2 dello steso art. 13 d.lgs. n. 74 del 2000».
71
Cass., sez. VI, 23 dicembre 2014, n. 53578, in www.archiviopenale.it.
72
D. Falcinelli, “In punta di fioretto” sul reato proprio e sul reato comune (il chi e il che cosa del peculato e dell’appropriazione indebita), in Arch. pen., 2015, 1, p. 3.
73
Come da Relazione dell’On. Ermini alla seduta del 14 maggio 2015, n. 476 (www.camera.it), «il provvedimento è volto a contrastare la corruzione attraverso una serie di misure che vanno dall’adeguamento delle sanzioni penali, comprese quelle accessorie, alla riformulazione di alcuni reati come quelli che puniscono il falso in bilancio per delimitare l’eventuale area di non punibilità».
74
Così, la Relazione al Progetto Preliminare al codice del 1988, sub artt. 439 e 440. Il testo della Relazione, da G. Conso-V.
Grevi-G. Neppi Modona (a cura di), Il nuovo codice di procedura penale. Dalle leggi delega ai decreti delegati, vol. IV, Il Progetto Preliminare del 1988, Padova, 1990, p. 1029 ss.
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Con un salto di quasi trent’anni, l’iter del d.d.l. C2798, approvato alla Camera il 23 settembre 2015 75,
rivela che, rispetto al progetto iniziale 76, il testo licenziato dalla Commissione omette di intervenire
sull’art. 444, comma 1, c.p.p. e, quindi, di ridurre da cinque a tre anni la soglia di pena in concreto, al
netto della riduzione, ivi prevista per accedere al rito speciale. In origine, s’intendeva individuare un
nuovo limite, «coincidente con quello che, ordinariamente, comporta la sospensione dell’ordine di esecuzione per
l’applicazione al di fuori del circuito carcerario delle misure alternative alla detenzione» 77; poi, da più parti, si
evidenziò l’esigenza di mantenere intatta la soglia per l’accordo sulla pena 78.
La storia del patteggiamento, insomma, ruota attorno alla questione della sua appetibilità: nato come mezzo per favorire la diminuzione del carico giudiziario 79, oggi è congegno indispensabile alla gestione dei carichi penali, così ponendosi al legislatore il problema se mantenere gli attuali requisiti di
accesso al rito e i vantaggi che ne derivano o se, invece, individuare nuovi e più stringenti elementi costitutivi dell’accordo sulla pena con il pericolo, però, di disincentivare le iniziative difensive volte a definire anticipatamente il giudizio secondo gli artt. 444 ss., c.p.p.
Nel 2015 i due interventi in materia – la legge n. 69 e il d.d.l. C2798 – descrivono un trend abbastanza
preciso.
Gli elementi essenziali del negozio sulla pena rimangono quelli indicati dai legislatori del 1988 e del
2003; non vi sono, quindi, interventi sulla soglia di accesso al rito, né viene meno il patteggiamento allargato. Solo per i reati corruttivi lo schema è modificato, introducendo l’obbligo per l’imputato di risarcire la pubblica amministrazione prima di sottoscrivere l’accordo con il pubblico ministero: si tratta,
però, di un’eccezione alla regola, motivata dal bisogno di arginare l’elevato tasso della corruzione nostrana.
Ci si trova ancora lontani dall’ipotesi di un nuovo patteggiamento, che coinvolga il danneggiato al
punto di prevedere il risarcimento del pregiudizio da reato come condicio sine qua non al negozio sulla
pena. E con tutta probabilità si tratta di un traguardo cui si approderà difficilmente, almeno finché
permarrà l’interesse del legislatore a mantenere il rito speciale allettante agli occhi dell’accusato, onde
favorire la rapida conclusione dei giudizi per i reati minori 80.
Permanendo un tale stato di cose, la decisione di accogliere la proposta di pena formulata dall’imputato solo in rapporto all’avvenuto risarcimento, per i reati diversi da quelli dell’art. 444, comma 1-ter,
c.p.p., resterà rimessa alla prassi dei singoli uffici. Sicuramente, in quei casi, la spontanea 81 riparazione
del danno sarà valutata con favore nel computo delle circostanze attenuanti 82, senza, però, produrre –
salve, appunto, «prassi striscianti» 83 di procure e tribunali – altri effetti sul piano processuale.
In definitiva, l’art. 6, legge n. 69 del 2015 è norma emergenziale, che descrive un meccanismo estraneo alla logica del patteggiamento, ma che si giustifica per l’elevato interesse – quello della pubblica
amministrazione – che tutela: in ciò risiede la sua legittimità costituzionale e il probabile rigetto di qualsiasi ricorso alla Consulta che si volesse proporre per non essere il rimedio in parola estensibile ai reati
che offendono il privato patrimonio.
75
Oggi al vaglio del Senato, con numero S2067.
76
v. art. 14, comma 2 del progetto iniziale.
77
Così, la Relazione dell’On. D. Ferranti al d.d.l. C2798; v. resoconto stenografico della Seduta della Seconda Commissione
della Camera (sede referente) del 13 gennaio 2015, p. 20, in www.camera.it.
78
v. emendamenti all’art. 14 del Progetto, presentati tra il 24 giugno e il 23 luglio 2015.
79
Consentendo «non solo di risparmiare tutto il dibattimento, ma anche di eliminare un grado di impugnazione, vista l’inappellabilità
della sentenza emessa su accordo delle parti»: così, la Relazione al Progetto Preliminare al codice del 1988 (p. 237 s.), sempre su G.
Conso-V. Grevi-G. Neppi Modona (a cura di), Il nuovo codice di procedura penale, cit., p. 1025.
80
Volendo comunque usare un eufemismo, vista la possibilità di accordarsi sulla pena pure per reati come la rapina, la truffa, la sottrazione e il trattenimento all’estero di minori, i maltrattamenti in famiglia, etc., di sicuro elevato allarme sociale.
81
Cass., sez. II, 13 gennaio 2010, n. 3998, in CED Cass. n. 246428.
82
Così, D. Zaniolo, Le circostanze del reato, Torino, 2013, p. 227.
83
Ancora, M.E. Catalano, La tutela della vittima, cit., p. 1789.
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Analisi e prospettive
Analysis and Prospects
ANALISI E PROSPETTIVE | POTERI DEL GIUDICE E CONTROLLI NELLA MESSA ALLA PROVA DEGLI ADULTI
Processo penale e giustizia n. 1 | 2016
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NICOLA TRIGGIANI
Professore associato di Diritto processuale penale – Università di Bari "Aldo Moro"
Poteri del giudice e controlli nella messa alla prova degli
adulti*
Powers granted to judges and appeals in probation for adults
La messa alla prova dell’imputato adulto ruota intorno all’ufficio di esecuzione penale esterna; al giudice restano tuttavia
ampi margini di discrezionalità, sia nella fase di ammissione che in ordine alla valutazione dell’esito della prova, con possibilità di disporre – anche d’ufficio – la revoca dell’ordinanza di sospensione. Sullo spettro dei poteri attribuiti al giudice
non mancano, peraltro, i dubbi interpretativi; altrettanto dicasi per l’articolato meccanismo dei controlli sui differenti
provvedimenti emessi nel corso del procedimento, essendo la disciplina dettata dal legislatore poco chiara e lacunosa.
Probation for adult defendants pivots on the Ufficio per l’esecuzione penale esterna (External Criminal Execution
Office), nevertheless judges still keep a certain degree of discretion, both during the admission phase, and at the
moment of the evaluation of the probation period. They have the possibility to order – even ex officio – the revocation of the Order for suspension. On the other hand, the discussion about the powers granted to judges is not
entirely devoid of interpretative doubts; the same applies to the complex verification mechanism over different
measures issued during the proceedings, in consideration of the fact that the regulations dictated by the law are
currently unclear and in some way incomplete.
PREMESSA
Nella disciplina della messa alla prova degli adulti, la l. 28 aprile 2014, n. 67 ha dedicato particolare cura ai profili di diritto sostanziale, con specifico riguardo ai presupposti e ai contenuti della prova; minore attenzione, invece, ha orientato le scelte strettamente processuali 1. Ciò ha generato molteplici dubbi
* Testo revisionato della Relazione svolta a Roma il 2 luglio 2015 al Convegno dell’Associazione tra gli studiosi del processo
penale “G.D. Pisapia” su “Processo penale e pena: nuovi equilibri”.
1
Per una disamina dei vari profili dell’istituto, cfr. G. Amato, L’impegno è servizi sociali e lavori di pubblica utilità, in Guida dir.,
2014, 21, p. 67 ss.; L. Bartoli, Il trattamento nella sospensione del procedimento con messa alla prova, in Cass. pen., 2015, p. 1755 ss.; R.
Bartoli, La sospensione del procedimento con messa alla prova: una goccia deflattiva nel mare del sovraffollamento?, in Dir. pen. proc., 2014,
p. 661 ss.; B. Bertolini, Esistono autentiche forme di “diversione” nell’ordinamento processuale italiano? Primi spunti per una riflessione,
in www.penalecontemporaneo.it, 18 novembre 2014; F. Bisanti, Le modifiche in tema di casellario giudiziale, in A. Conz-L. Levita (a cura di), La depenalizzazione. Commento organico alla legge n. 67/2014, in tema di particolare tenuità del fatto, sospensione del processo e
messa alla prova, Roma, 2015, p. 133 ss.; V. Bove, L’istituto della messa alla prova “per gli adulti”: indicazioni operative per il giudice e
provvedimenti adottabili, in www.penalecontemporaneo.it, 27 novembre 2014; Ead., Messa alla prova per gli adulti: una prima lettura della L. 67/2014, in www.penalecontemporaneo.it, 25 giugno 2014; E. Buttiglione, Le modifiche al codice penale, in A. Conz-L. Levita (a
cura di), La depenalizzazione, cit., p. 65 ss.; M.S. Calabretta-A. Mari, La sospensione del procedimento (l. 28 aprile 2014, n. 67), Milano,
2014; F. Caprioli, Due iniziative di riforma nel segno della deflazione: la sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato
maggiorenne e l’archiviazione per particolare tenuità del fatto, in Cass. pen., 2012, p. 7; C. Cesari, sub artt. 464-bis, 464-novies, in G.
Conso-G. Illuminati (a cura di), Commentario breve del nuovo codice di procedura penale, Padova, 2015, p. 2122 ss.; Ead., La sospensione del processo con messa alla prova: sulla falsariga dell’esperienza minorile, nasce il probation processuale per gli imputati adulti, in
Leg. pen., 2014, p. 510 ss.; M. Chiavario, Diritto processuale penale, Torino, 2014, p. 626 ss.; R. De Vito, La scommessa della messa alla
prova dell’adulto, in Quest. giust., 2013, 6, p. 9 ss.; A. Diddi, La fase di ammissione della prova, in N. Triggiani (a cura di), La deflazione
giudiziaria. Messa alla prova degli adulti e proscioglimento per tenuità del fatto, Torino, 2014, p. 109 ss.; A. Di Tullio D’Elisiis, La messa
alla prova per l’imputato. Procedura e formulario, Rimini, 2014; G.L. Fanuli, L’istituto della messa alla prova ex lege 28 aprile 2014, n. 67.
Inquadramento teorico e problematiche applicative, in Arch. nuova proc. pen., 2014, p. 427 ss.; S. Farina, Le disposizioni attuative, in A.
ANALISI E PROSPETTIVE | POTERI DEL GIUDICE E CONTROLLI NELLA MESSA ALLA PROVA DEGLI ADULTI
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interpretativi, non tutti affrontati dalla giurisprudenza nell’ancora breve esperienza applicativa dell’istituto.
I dubbi investono anche lo spettro dei poteri attribuiti al giudice nelle varie fasi del procedimento e
il regime delle impugnazioni esperibili contro i differenti provvedimenti.
Sul piano concreto, indubbiamente l’istituto ruota attorno all’ufficio di esecuzione penale esterna,
cui spetta il compito di predisporre, elaborare e attuare il programma di trattamento, informare il giudice sul corso della prova e redigere la dettagliata relazione conclusiva.
Nondimeno, al giudice competente restano ampi margini di discrezionalità – allo scopo di bilanciare
le esigenze rieducative dell’autore del reato e quelle di sicurezza delle persone – sia nella fase di ammissione, sia in relazione all’esito della prova, con possibilità di disporre, anche motu proprio, la revoca
dell’ordinanza di sospensione del processo.
Non c’è, dunque, alcun automatismo nell’applicazione dell’istituto, come pure nella valutazione finale; non si può nascondere, però, il rischio che, nella prassi, l’eccessivo carico giudiziario possa determinare un appiattimento applicativo in senso burocratico. Peraltro, molte delle valutazioni richieste
comportano un impegno della magistratura giudicante in un campo normalmente solcato dalla magistratura di sorveglianza 2, e dunque un approccio decisamente innovativo da parte del giudice di cognizione, con la conseguente necessità di acquisire una nuova attrezzatura culturale 3.
Conz-L. Levita (a cura di), La depenalizzazione, cit., p. 130 ss.; P. Felicioni, Gli epiloghi, in C. Conti-A. Marandola-G. Varraso, Le
nuove norme sulla giustizia penale. Liberazione anticipata, stupefacenti, traduzione degli atti, irreperibili, messa alla prova, deleghe in tema
di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio, Padova, 2014, p. 415 ss.; F. Fiorentin, Preclusioni e soglie di pena
riducono la diffusione, in Guida dir., 2014, n. 21, p. 68 s.; Id., Revoca discrezionale per chi viola il programma, ivi, p. 83 ss.; Id., Risarcire
la vittima è condizione imprescindibile, ivi, p. 75 ss.; Id., Rivoluzione copernicana per la giustizia riparativa, ivi, p. 63 ss.; Id., Una sola
volta nella storia giudiziaria del condannato, ivi, p. 70 ss.; Id., Volontariato quale forma di “riparazione sociale”, ivi, p. 78 ss.; M.L. GalatiL. Randazzo, La messa alla prova nel processo penale. Le applicazioni pratiche della legge n. 67/2014, Milano, 2015; F. Giunchedi, Probation italian style: verso una giustizia riparativa, in Arch. pen. (web), 2014, 3, p. 1 ss.; A. Leopizzi, La sospensione del procedimento con
messa alla prova. Considerazioni a caldo sul prevedibile impatto della riforma e qualche riflessione de jure condendo, in Giust. pen., 2014,
III, c. 606 ss.; G. Lozzi, Lezioni di procedura penale, Torino, 2014, p. 529 ss.; C. Maggioni-R. Mancini, Le innovazioni al codice di procedura penale, in A. Conz-L. Levita (a cura di), La depenalizzazione, cit., p. 93 ss.; A. Marandola, La messa alla prova dell’imputato adulto: ombre e luci di un nuovo rito speciale per una diversa politica criminale, in Dir. pen. proc., 2014, p. 674 ss.; A. Martini, Cronaca di un
successo annunciato, in Leg. pen., 2014, p. 486 ss.; M. Montagna, La sospensione del procedimento con messa alla prova, in A. Gaito (a
cura di), Procedura penale, Milano, 2015, p. 793 ss.; Ead., Sospensione del procedimento con messa alla prova e attivazione del rito, in C.
Conti-A. Marandola-G. Varraso, Le nuove norme sulla giustizia penale, cit., p. 369 ss.; C. Morselli, I paralipomeni della sospensione del
procedimento e messa alla prova: analisi dell’esoscheletro dell’apparato applicativo della L. 67/14 che fa avanzare il processo penale oltre il
“giusto processo”, in Giust. pen., 2014, III, c. 641 ss.; M. Miedico, Sospensione del processo e messa alla prova anche per i maggiorenni, in
www.penalecontemporaneo.it, 14 aprile 2014; O. Murro, Messa alla prova per l’imputato adulto: prime riflessioni sulla legge n. 67/2014,
in Studium iuris, 2014, p. 1264 ss.; R. Muzzica, La sospensione del processo con messa alla prova per gli adulti: un primo passo verso un
modello di giustizia riparativa?, in questa Rivista, 2015, 3, p. 158 ss.; F. Nevoli, La sospensione del procedimento e la decisione “sulla prova”, in N. Triggiani (a cura di), La deflazione giudiziaria, cit., p. 145 ss.; R. Orlandi, Procedimenti speciali, in AA.VV., Compendio di
procedura penale, Padova, 2014, p. 744 ss.; C. Pansini, Procedimenti speciali, in AA.VV., Manuale di diritto processuale penale, Torino,
2015, p. 650 ss.; G. Pavich, Il punto sulla messa alla prova: problemi attuali e prospettive, in Riv. pen., 2015, p. 505 ss.; E. Pianese, Le
convenzioni in materia di pubblica utilità, in A. Conz-L. Levita (a cura di), La depenalizzazione, cit., p. 142 ss.; R. Piccirillo, Le nuove
disposizioni in tema di sospensione del procedimento con messa alla prova, in R. Piccirillo-P.Silvestri, Prime riflessioni sulle nuove disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili-Relazione dell’Ufficio del Massimario
della Corte di cassazione n. III/07/2014, Novità legislative: legge 28 aprile 2014, n. 67, in www.cortedicassazione.it; L. Pulito, Messa alla
prova per adulti: anatomia di un nuovo modello processuale, in questa Rivista, 2015, 1, p. 97 ss.; Id., Presupposti applicativi e contenuti
della misura, in N. Triggiani (a cura di), La deflazione giudiziaria, cit., p. 77 ss.; M. Riverditi, La nuova disciplina della messa alla prova
di cui all’art. 168-bis c.p.: uno sguardo d’insieme, in Studium iuris, 2014, p. 982 ss.; A. Sanna, L’istituto della messa alla prova: alternativa al processo o processo senza garanzie?, in Cass. pen., 2015, p. 1262 ss.; A. Scalfati, La debole convergenza di scopi nella deflazione promossa dalla legge n. 67/2014, in N. Triggiani (a cura di), La deflazione giudiziaria, cit., p. 1 ss.; A. Scarcella, Sospensione del procedimento con messa alla prova, in C. Conti-A. Marandola-G. Varraso, Le nuove norme sulla giustizia penale, cit., p. 339 ss.; G. Spangher, I
procedimenti speciali, in AA.VV., Procedura penale, Torino, 2014, p. 602 ss.; G. Tabasco, La sospensione del procedimento con messa alla
prova degli imputati adulti, in Arch. pen. (web), 2015, 1, p. 1 ss.; P. Tonini, Manuale di procedura penale, Milano, 2015, p. 821 ss.; G.
Ubertis, Sospensione del procedimento con messa alla prova e Costituzione, in Arch. pen. (web), 2015, 3, p. 1 ss.; G. Valer, Un punto
sull’applicazione della messa alla prova per adulti, in www.questionegiustizia.it, 27 aprile 2015; C. Valbonesi, I profili penali della sospensione
del procedimento con messa alla prova, in C. Conti-A. Marandola-G. Varraso, Le nuove norme sulla giustizia penale, cit., p. 353 ss.; G. Zaccaro, La messa alla prova per adulti. Prime considerazioni, in www.questionegiustizia.it, 29 aprile 2014; nonché, volendo, N. Triggiani, Dal
probation minorile alla messa alla prova degli imputati adulti, in N. Triggiani (a cura di), La deflazione giudiziaria, cit., p. 13 ss.
È opportuno ricordare, per comprendere le dimensioni del fenomeno, che – secondo i dati diffusi dal Ministero della Giustizia – al
31 maggio 2015 risultavano messi alla prova 3173 imputati, mentre sono state compiute 9491 indagini da parte dell’ufficio di esecuzione penale esterna, finalizzate alla richiesta di messa alla prova (i dati possono leggersi su www.ministerogiustizia.it).
2
In questi termini, M. Riverditi, op. cit., p. 992.
3
In tal senso, A. Scalfati, op. cit., p. 8.
ANALISI E PROSPETTIVE | POTERI DEL GIUDICE E CONTROLLI NELLA MESSA ALLA PROVA DEGLI ADULTI
Processo penale e giustizia n. 1 | 2016
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L’AMMISSIONE DELLA PROVA
Per quanto concerne la fase di ammissione, a norma dell’art. 464-quater, commi 1 e 3, primo periodo,
c.p.p., il giudice – ove non ricorrano gli estremi per pronunciare una sentenza d’immediato proscioglimento ex art. 129 c.p.p. e previa verifica delle condizioni formali e sostanziali di ammissibilità della richiesta – deve valutare, sentite le parti e la persona offesa, la sussistenza di due presupposti concorrenti: a) l’idoneità del programma di trattamento ad assicurare il reinserimento sociale dell’imputato; b) la
prognosi di non recidiva. Il tutto alla luce dei parametri di cui all’art. 133 c.p. e, quindi, considerando,
da un lato, la gravità del reato, dall’altro la capacità a delinquere dell’imputato.
Come ha avuto occasione di sottolineare la giurisprudenza di legittimità, è «indubbio che lo spirito
della disciplina della messa alla prova riconosce agli imputati la possibilità di procedere ad una “risocializzazione” e comunque di accedere al procedimento di “rieducazione” in conformità al disposto
dell’art. 27, comma 3, Cost.», ma «il sistema normativo non prevede un diritto assoluto per l’imputato
di accedere a tale procedura, condizionato alla sola richiesta dell’imputato stesso», implicando pur
sempre «l’esercizio di un potere valutativo del giudice, che deve inserirsi nel più ampio quadro della
situazione personale dell’imputato, nonché della situazione processuale nella quale verrebbe a operare
l’istituto» della sospensione del processo 4.
Riproponendo arresti giurisprudenziali ormai consolidati con riferimento all’omologo istituto minorile 5, la Suprema Corte ha affermato che, per la formulazione del giudizio prognostico positivo sulla
rieducazione del soggetto interessato, «non può prescindersi dal tipo di reato commesso, dalle modalità
di attuazione dello stesso e dai motivi a delinquere, al fine di valutare se il fatto contestato debba considerarsi un episodio del tutto occasionale e non, invece, rivelatore di un sistema di vita, che faccia escludere un giudizio positivo sull’evoluzione della personalità dell’imputato verso modelli socialmente
adeguati» 6.
Il giudice – nell’ambito dei contrapposti interessi da tutelare – è tra l’altro chiamato a valutare
espressamente la circostanza che il domicilio dell’imputato indicato nel programma sia tale da assicurare le esigenze di tutela della persona offesa dal reato: così dispone l’art. 464-quater, comma 3, secondo
periodo, c.p.p., in linea con analoghe prescrizioni recentemente introdotte in tema di misure cautelari
personali a garanzia dell’offeso dal reato (v., ad es., l’art. 284, comma 1-bis, c.p.p., inserito dall’art. 1,
comma 1, lett. a), d.l. 1° luglio 2013, n. 78, conv. con modif. in l. 9 agosto 2013, n. 94).
Seppure la disposizione dell’art. 464-quater, comma 3, c.p.p. nulla dica al riguardo, sembra evidente
che l’ordinanza con la quale il giudice decide sull’istanza di sospensione debba dare conto di tutte queste valutazioni, motivando adeguatamente in ordine a ciascuno dei profili coinvolti 7.
Il giudice può, inoltre, verificare la volontarietà della richiesta dell’imputato, disponendone la comparizione personale (art. 464-quater, comma 2, c.p.p.). Attraverso la convocazione, il giudice controlla
4
Cass., sez. II, 12 marzo 2015, n. 14112, in www.penalecontemporaneo.it, 20 maggio 2015, con nota di J. Della Torre, La Cassazione nega l’ammissibilità della messa alla prova “parziale” in nome della rieducazione “totale” del richiedente. Con tale decisione – sulla
quale v. anche O. Murro, Le criticità della richiesta “parziale” di messa alla prova: oscillazioni giurisprudenziali, in Arch. pen. (web),
2015, 2, p. 1 ss. – la Suprema Corte ha risposto negativamente al quesito se sia ammissibile una richiesta di messa alla prova
parziale, presentata da un soggetto nei cui confronti siano contestati cumulativamente sia reati rientranti nell’elenco ex art. 168bis c.p., sia fattispecie non ricomprese in tale disposizione. Di diverso avviso era stato Trib. Torino, ord. 21 maggio 2014, B., in
www.penalecontemporaneo.it, 25 giugno 2014, con nota di M. Miedico, Sospensione del processo e messa alla prova per imputati maggiorenni: un primo provvedimento del Tribunale di Torino; a commento di quest’ultima decisione, v. anche G. Zaccaro, Prima applicazione della messa alla prova per adulti, in www.questionegiustizia.it, 22 maggio 2014.
Merita di essere segnalata anche Trib. Milano, ord. 28 aprile 2015, X, in www.penalecontemporaneo.it, 12 maggio 2015, con nota
di S. Finocchiaro, Secondo il Tribunale di Milano, la richiesta di messa alla prova è ammissibile anche “per più reati”, secondo cui «la
presenza di una pluralità di reati contestati, quando – per ciascuno di essi, singolarmente considerato – la richiesta risulti ammissibile, non può di per sé giustificare il rigetto della richiesta di messa alla prova, a prescindere dalla sussistenza o meno di
un vincolo di continuazione fra gli stessi. Nondimeno, la pluralità di contestazioni a carico dell’imputato è un dato che il giudice
può – anzi deve – considerare nella formulazione della prognosi in ordine al futuro comportamento della persona e
all’astensione di quest’ultima dal commettere ulteriori reati».
5
Cfr., ex plurimis, Cass., sez. I, 5 marzo 2013, n.13370, in CED Cass., n. 255267; Cass., sez. V, 7 dicembre 2012, n. 14035; Cass.,
sez. III, 21 ottobre 2008, n. 45451, in CED Cass., n. 241805.
6
Cass., sez. II, 12 marzo 2015, n. 14112, cit.
7
Lo sottolinea O. Murro, Messa alla prova, cit., p. 1272.
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Processo penale e giustizia n. 1 | 2016
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che l’imputato non sia stato oggetto di pressioni indebite e sia pienamente consapevole delle conseguenze giuridiche connesse alla sua richiesta: qualora il consenso risulti viziato, gli deve essere riconosciuto il potere di revocare o modificare liberamente la propria manifestazione di volontà 8.
Per converso, va sottolineato che l’imputato non è certamente tenuto in tale sede – né successivamente – ad ammettere il fatto oggetto dell’imputazione, come chiarito espressamente dalla Corte di
cassazione 9.
Al fine di adottare la sua decisione in ordine all’ammissione della prova ed eventualmente alle modalità applicative, il giudice – oltre agli atti del fascicolo a sua disposizione nella fase in cui il rito si trova – potrà utilizzare diversi materiali, a lui trasmessi dall’ufficio di esecuzione penale esterna: il programma di trattamento; i risultati dell’indagine socio-familiare svolta direttamente dall’u.e.p.e.; le considerazioni di tale ufficio a supporto del progetto, volte ad illustrare al giudice le possibilità economiche dell’imputato, la sua capacità e possibilità di svolgere attività riparatorie e di mediazione con la
persona offesa; infine, gli elementi allegati dall’imputato alla sua richiesta di elaborazione del programma (v. art. 141-ter, commi 2 e 3, norme att. c.p.p.).
Il giudice potrebbe, tuttavia, ritenere non sufficienti queste informazioni per le sue determinazioni.
Allo scopo, dunque, di decidere sulla concessione della misura e di determinare gli obblighi e le prescrizioni a carico dell’imputato cui eventualmente subordinarla, così da calibrare nel miglior modo possibile i contenuti del programma trattamentale sulla fisionomia e sulle esigenze dell’imputato, al giudice è stato affidato – ex art. 464-bis, comma 5, primo periodo, c.p.p. – un potere finora assolutamente inedito, vale a dire quello di integrare la piattaforma delle conoscenze personologiche svolgendo ex officio
indagini sulle condizioni di vita personale, familiare, sociale ed economica dell’imputato tramite la polizia giudiziaria, i servizi sociali o altri enti pubblici.
Trattandosi di un potere di raccolta di elementi probatori d’ufficio, è un’ipotesi che si configura, evidentemente, come derogatoria rispetto alla clausola generale di cui all’art. 190 c.p.p. e, quindi, di stretta
interpretazione: ne discende, che dovrebbe leggersi con rigore il criterio di ammissione di tali accertamenti, che la legge identifica nella “necessità” 10.
La tipologia di questi accertamenti non è peraltro precisata dal legislatore, che parla genericamente
di “informazioni”: potrebbe trattarsi di acquisizione di documenti, ma anche di raccolta di dichiarazioni o di audizione di esperti 11.
L’oggetto degli accertamenti risulta comunque vasto e fisiologicamente non coincidente con i confini
tipici dell’accertamento in sede penale, sicché – malgrado l’apparente rigore del requisito di ammissibilità – è prevedibile che di questo potere di integrazione investigativa il giudice possa fare ampio uso 12.
Le informazioni acquisite devono, poi, essere “tempestivamente” portate a conoscenza del pubblico
ministero e del difensore dell’imputato, allo scopo di consentire un adeguato contraddittorio sul punto
(art. 464-bis, comma 5, secondo periodo, c.p.p.).
Il giudice può anche modificare il programma di trattamento elaborato dall’ufficio di esecuzione penale esterna: lo può fare sia all’atto della decisione sulla concessione della misura, sia in un momento
successivo.
Si tratta di un potere particolarmente pregnante, che appare significativo nel confermare l’autonomia del
giudice procedente rispetto alle scelte compiute dai servizi sociali nella proposta di programma.
In particolare, con riferimento alla fase di ammissione, l’art. 464-quater, comma 4, c.p.p. dispone che
8
In tal senso, G. Tabasco, op. cit., p. 5.
9
Cfr. Cass., sez. V, 23 febbraio 2015, n. 24011, in Dir. pen. proc., 2015, p. 975, la quale sottolinea che non è richiesta l’ammissione del fatto da parte dell’indagato/imputato, che resta dunque estranea al novero dei requisiti della sospensione del processo
con messa alla prova; la qualificazione dell’ammissione del fatto-reato quale presupposto per l’accesso al rito «risulta, anzi, incompatibile, sul piano sistematico, con la complessiva disciplina dell’istituto: posto che, in caso di revoca dell’ordinanza di sospensione il procedimento riprende il suo corso (art. 464-octies, comma 4, c.p.p.), la subordinazione dell’accoglimento dell’istanza all’ammissione del fatto-reato rivelerebbe, in tale ipotesi, profili di tensione con le garanzie sostanziali e processuali dell’imputato».
10
In tal senso, C. Cesari, sub art. 464-bis, in G. Conso-G. Illuminati, Commentario breve, cit., p. 2128; Ead., La sospensione del
processo con messa alla prova, cit., p. 540.
11
Lo sottolinea C. Cesari, sub art. 464-bis, in G. Conso-G. Illuminati, Commentario breve, cit., p. 2128; Ead., La sospensione del
processo con messa alla prova, cit., p. 540.
12
Così, ancora, C. Cesari, sub art. 464-bis, in G. Conso-G. Illuminati, Commentario breve, cit., p. 2128.
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il giudice, allo scopo evidentemente di perfezionare la congruità della prova rispetto al fine rieducativo
al quale il programma di trattamento risulta preordinato, può integrarlo o modificarlo, senza alcun limite quanto ai contenuti, anche sulla base delle “informazioni” acquisite a norma dell’art. 464-bis,
comma 5, c.p.p. Ciò, però, può avvenire soltanto «con il consenso dell’imputato», espressamente richiesto dalla norma, mentre non è prevista la necessità di sentire i servizi facenti capo all’u.e.p.e. (anche se
nulla vieta di disporne l’audizione).
Poiché la legge (art. 464-quater, comma 5, c.p.p.) indica un termine massimo di durata della sospensione (due anni o un anno, a seconda che si proceda per reati puniti con pena detentiva – sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria – ovvero con la sola pena pecuniaria), e solo indirettamente un
termine minimo – dal momento che la durata del lavoro di pubblica utilità, presupposto ineludibile
della messa alla prova, non può essere inferiore a dieci giorni (art. 168-bis, comma 3, c.p.) –, è lasciata
all’apprezzamento discrezionale del giudice l’esatta individuazione della durata della prova. Non essendo indicati i parametri ai quali fare riferimento, egli non potrà che fare ricorso, ancora una volta,
all’art. 133 c.p., sicché la durata sarà verosimilmente rapportata alla gravità del reato, ma anche alle esigenze trattamentali e di reinserimento sociale dell’imputato, oltre che all’attività di riconciliazione con
la vittima del reato 13: non è detto, naturalmente, che la prestazione del lavoro gratuito debba coprire
necessariamente l’intero periodo della sospensione 14.
Va segnalato, al riguardo, che nelle linee-guida elaborate da alcuni uffici giudiziari – al fine di offrire
agli operatori un quadro di riferimento dei limiti temporali della sospensione – si sono suddivisi i reati
per fasce, facendo riferimento alla pena edittale massima prevista per i reati per i quali l’istituto è applicabile 15.
Si tratta di un’indicazione che può apparire condivisibile, nella misura in cui rende uniforme, almeno a livello distrettuale, a parità di situazioni e dunque di natura del reato, la durata della messa alla
prova 16, lasciando però al tempo stesso al giudice quei margini di discrezionalità indispensabili per
adeguare la misura al caso specifico e, dunque, alla personalità dell’imputato.
Al giudice è, inoltre, attribuita dal legislatore l’indicazione del termine entro il quale vanno adempiuti dall’imputato le eventuali prescrizioni e i relativi obblighi inerenti le condotte riparatorie o risarcitorie imposte nel programma di trattamento (art. 464-quinquies, comma 1, primo periodo, c.p.p.).
E sempre al giudice – su richiesta dell’imputato – compete autorizzare il pagamento rateale delle
somme eventualmente dovute a titolo di risarcimento del danno, previa necessaria acquisizione del
consenso della persona offesa dal reato (art. 464-quinquies, comma 1, secondo periodo, c.p.p.).
Il giudice deve, poi, indicare la cadenza periodica delle relazioni informative dell’u.e.p.e.
sull’andamento della prova, le quali, in mancanza di diversa indicazione, dovranno essere inviate almeno ogni tre mesi (art. 141-ter, comma 4, norme att. c.p.p.).
LA SOSPENSIONE DEL PROCESSO E L’ESECUZIONE DELLA PROVA
Per quanto riguarda i poteri attribuiti al giudice durante la sospensione del processo e l’esecuzione della prova, occorre innanzitutto ricordare che l’art. 464-quinquies, comma 3, c.p.p. prevede che egli possa
modificare con ordinanza le prescrizioni originarie, al fine evidentemente di modulare il programma
sulla base dei primi risultati della “sperimentazione”, ferma restando la congruità delle nuove prescrizioni rispetto alle finalità della messa alla prova, «sentiti l’imputato e il pubblico ministero».
13
In tal senso, M. Montagna, Sospensione del procedimento con messa alla prova, cit., p. 407 s., la quale sottolinea pure che «ove
si volesse fare tesoro dell’esperienza maturata nell’ambito del corrispondente istituto della messa alla prova per il processo minorile, occorre tenere conto che i dati statistici dimostrano come tempi troppo brevi di probation non producano esiti positivi e
non agevolino la mediazione con la vittima».
Sull’attività di mediazione nel contesto della messa alla prova dei minorenni e degli adulti, v., da ultimo, D. Certosino, Mediazione e giustizia penale, Bari, 2015, p. 136 ss. e p. 207 ss., con ampi richiami bibliografici cui si rinvia.
14
Sul punto, v., tra gli altri, O. Murro, Messa alla prova, cit., p. 1268.
15
Cfr., ad esempio, le linee-guida approvate l’8 luglio 2014 dal Tribunale di Milano, pubblicate in appendice a M.L. Galati-L.
Randazzo, op. cit., p. 158 ss.
16
Cfr. A Marandola, Le “nuove” alternative al processo penale ordinario, in AA.VV., Scritti in memoria di Giuseppe Degennaro, Bari, 2014, p. 141.
ANALISI E PROSPETTIVE | POTERI DEL GIUDICE E CONTROLLI NELLA MESSA ALLA PROVA DEGLI ADULTI
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Ora, la circostanza che, per eventuali modifiche in itinere, sia utilizzata questa locuzione («sentiti
l’imputato e il pubblico ministero») sembra consentire al giudice di poter intervenire anche contro la
volontà dell’imputato a modificare le prescrizioni e gli obblighi che erano stati originariamente previsti
e accettati 17.
Tale interpretazione, benché certamente fedele alla lettera della legge – valorizzando anche la circostanza
che, durante i lavori parlamentari, è caduto il riferimento espresso alla necessità del consenso dell’imputato,
richiesto invece nella versione approvata in prima lettura dalla Camera – suscita, però, più di una perplessità, perché, riducendo l’apporto dell’interessato a mera “audizione”, sembra «legittimare un mutamento autoritativo del rapporto consensuale» che, secondo la legge, è invece alla base della richiesta 18.
In effetti, tutto il rito è strutturato su base consensuale.
È sufficiente al riguardo ricordare che: l’iniziativa dell’accesso all’istituto è attribuita soltanto all’imputato (art. 464-bis, comma 1, c.p.p.); la richiesta è un “atto personalissimo” – dovendo essere formulata
personalmente o tramite procuratore speciale (art. 464-bis, comma 3 c.p.p.) – e il giudice, come sopra ricordato, può anche disporre la comparizione dell’imputato per verificarne l’effettiva volontà e il grado
di consapevolezza (art. 464-quater, comma 2, c.p.p.); il consenso del pubblico ministero in ordine alla richiesta di sospensione è previsto soltanto laddove questa venga formulata nel corso delle indagini preliminari (art. 464-ter c.p.p.), ed è giustificato dalla necessità di formulare l’imputazione, essendo
l’esercizio dell’azione penale prodromico alla sospensione; l’elaborazione del programma di trattamento è richiesta all’u.e.p.e. dall’imputato e avviene d’intesa con questi, che deve depositare le osservazioni
e le proposte che ritenga di fare (art. 141-ter, comma 2, norme att. c.p.p.) ed esprimere poi il proprio
consenso sul programma, prima che questo venga trasmesso al giudice (art. 141-ter, comma 3, norme
att. c.p.p.); il giudice – come or ora ricordato – all’atto della decisione sulla richiesta può integrare o
modificare il programma soltanto con l’espresso consenso dell’imputato (art. 464-quater, comma 4,
c.p.p.); l’imputato è chiamato a sottoscrivere il verbale di messa alla prova (art. 464-quater, comma 6,
c.p.p.) e può chiedere di prorogare, peraltro non più di una volta e solo per “gravi motivi”, il termine
entro il quale le prescrizioni e gli obblighi relativi alle condotte riparatorie e risarcitorie devono essere
adempiuti (art. 464-quinquies, comma 1, primo periodo, c.p.p.).
Ora, alla luce di tutte queste previsioni normative, che dimostrano come la messa alla prova sia configurata nelle forme di una richiesta unilaterale dell’imputato, condivisa dal giudice 19, sarebbe quantomeno singolare che il giudice potesse modificare motu proprio, in modo discrezionale, le prescrizioni
previamente concordate con l’imputato.
Sembra allora convincente la tesi secondo la quale il mancato espresso riferimento al “consenso”
dell’imputato, come premessa per intervenire durante lo svolgimento della prova a modificare le prescrizioni, vada imputato a un difetto di coordinamento con l’art. 464-quater, comma 4, c.p.p., che invece richiede
espressamente tale consenso 20: dunque, mentre il pubblico ministero sarebbe chiamato ad esprimere un parere obbligatorio, ma non vincolante, dovrebbe ritenersi, invece, che le modifiche eventualmente apportate
al programma di trattamento originario esigano la rinnovata disponibilità dell’imputato.
D’altra parte, se così non fosse, poiché la messa alla prova implica necessariamente una serie di obblighi di facere, la previsione potrebbe collidere con l’art. 4 Cedu, laddove prescrive il divieto di «lavoro
obbligatorio o forzato» 21, e potrebbero evidenziarsi altri profili d’incostituzionalità, soprattutto in riferimento all’art. 24, comma 2, Cost. 22.
17
In tal senso, R. Orlandi, op. cit., p. 753; cfr. anche A. Marandola, La messa alla prova dell’imputato adulto, cit., p. 683, la quale
sottolinea come tale circostanza evidenzi che «è il giudice a sovraintendere all’esecuzione della prova».
18
Così M. Chiavario, op. cit., p. 633. In termini decisamente critici, v., altresì, C. Cesari, sub art. 464-quinquies, in G. Conso-G.
Illuminati, Commentario breve, cit., p. 2138, la quale evidenzia che «una volta accettati i termini dello scambio tra l’impegno assunto e i benefici processuali e sostanziali che ne derivano, essi non possono essere modificati ex auctoritate, facendo saltare la
valutazione costi-benefici che, trattandosi di strategie processuali a propria difesa, è di esclusivo appannaggio della persona sottoposta a procedimento»; Ead., La sospensione del processo con messa alla prova, cit., p. 546; G. Ubertis, op. cit., p. 6 s.
19
G. Spangher, Considerazioni sul processo “criminale” italiano, Torino, 2015, p. 61.
20
P. Tonini, op. cit., p. 826, nota 128.
21
C. Cesari, sub art. 464-quinquies, in G. Conso-G. Illuminati, Commentario breve, cit., p. 2138; P. Tonini, op. cit., p. 826, nota
128; G. Ubertis, op. cit., p. 6 s.
22
C. Cesari, La sospensione del processo con messa alla prova, cit., p. 546.
ANALISI E PROSPETTIVE | POTERI DEL GIUDICE E CONTROLLI NELLA MESSA ALLA PROVA DEGLI ADULTI
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Merita, poi, di essere segnalato che, in relazione alla possibilità di modificare in corso d’opera il programma di trattamento, non viene nominata affatto la persona offesa dal reato, sicché è pacifico che
questa non debba neppure essere consultata. Anche sotto questo profilo, la disposizione lascia perplessi
e sembra configurare un’irragionevole disparità di trattamento, posto che l’offeso viene opportunamente sentito nella fase di ammissione della prova e non si comprende per quale ragione non debba essere
interpellato ove si ritenga di modificare in seguito il programma di trattamento, posto che alcune modifiche potrebbero anche riguardarlo direttamente 23. Tanto più che tutta la legislazione più recente sembra invece valorizzare il coinvolgimento della persona offesa nelle decisioni giudiziali.
Durante la sospensione del procedimento con messa alla prova non vi è una paralisi totale dell’attività processuale, essendo consentito il compimento di atti rientranti in categorie legislativamente predeterminate: il giudice, a norma dell’art. 464-sexies c.p.p., su richiesta di parte e seguendo le modalità
previste per il dibattimento, può in particolare acquisire «le prove non rinviabili e quelle che possono
portare all’immediato proscioglimento dell’imputato».
Le prime verranno acquisite e tenute in serbo in vista di un’eventuale ripresa dell’iter processuale, a
seguito di revoca della sospensione o di esito negativo della prova. I parametri da considerare per determinare gli atti istruttori che è possibile compiere durante la sospensione sono sostanzialmente riconducibili a quelli contemplati per l’incidente probatorio ex art. 392, comma 1, c.p.p. Dunque, prove caratterizzate da un concreto e serio pericolo di dispersione.
L’acquisizione, invece, delle prove che possono condurre al proscioglimento dell’imputato, in ossequio al principio del favor rei, dovrebbe comportare la revoca della sospensione e l’emanazione di una
sentenza ex art. 129 c.p.p.
È certo possibile disporre l’abbreviazione della durata della prova (espressamente contemplata dall’art. 141-ter, comma 4, norme att. c.p.p.), mentre – stando alla lettera della legge – sembra da escludere
che il giudice possa prorogare il termine originariamente stabilito (nell’ambito dei termini massimi consentiti dalla legge), anche se questa soluzione potrebbe essere opportuna, a fronte di un andamento incerto del percorso di prova e risulta ammessa nell’esperienza applicativa della messa alla prova minorile 24.
LA REVOCA DELL’ORDINANZA DI SOSPENSIONE
La sospensione del procedimento penale cessa, invece, anticipatamente, rispetto alla naturale scadenza
stabilita nel provvedimento di ammissione, quando il giudice – su proposta dell’ufficio di esecuzione
penale esterna o motu proprio – dispone la revoca dell’ordinanza di sospensione (art. 141-ter, comma 4,
norme att. c.p.p.; art. 464-octies, comma 1, c.p.p.).
L’art. 168-quater c.p. prevede tre casi tassativi di revoca, i cui presupposti devono essere valutati dal
giudice in contraddittorio tra le parti e congiuntamente alla persona offesa dal reato, in un’udienza camerale all’uopo fissata (art. 464-octies, comma 2, c.p.p.).
Si tratta di «ipotesi che decretano il fallimento della messa alla prova rispetto agli scopi ai quali
l’istituto mira» 25. Il tratto comune è costituito dalla finalità di evitare strumentalizzazioni del beneficio,
sanzionando con rigore «condotte che disvelino a posteriori la carente volontà del soggetto di sottoporsi all’esperimento, ovvero denuncino una recrudescenza della pericolosità sociale» 26.
La prima ipotesi attiene al «caso di grave o reiterata trasgressione al programma di trattamento o alle
23
La sottolineatura è sempre di C. Cesari, sub art. 464-quinquies, in G. Conso-G. Illuminati, Commentario breve, cit., p. 2138.
Dello stesso avviso è G. Ubertis, op. cit., p. 6.
24
Favorevole alla possibilità di una proroga della sospensione del procedimento è F. Nevoli, op. cit., p. 174. Contra, C. Cesari,
La sospensione del processo con messa alla prova, cit., p. 543, anche sulla base della considerazione che il legislatore ha previsto
espressamente la possibilità di una proroga dei termini per eseguire prescrizioni e obblighi di natura riparativa, mentre non ha
previsto nulla riguardo alla proroga della sospensione del processo; P. Felicioni, op. cit., p. 420, secondo la quale «se la proroga,
per quanto non prevista, può essere ritenuta necessaria nella morfologia dell’analogo istituto operante nel processo penale minorile, in considerazione della valenza educativa dello stesso e della personalità in fieri dell’imputato, viceversa appare congrua
la mancata previsione con riferimento al processo per adulti, stante il carattere eccezionale che connota il nuovo istituto»; M.
Montagna, Sospensione del procedimento con messa alla prova, cit., p. 408, atteso che nella legge «non si fa alcun cenno ad un possibile aumento dei tempi inizialmente previsti».
25
P. Tonini, op. cit., p. 828.
26
F. Fiorentin, Revoca discrezionale, cit., p. 83.
ANALISI E PROSPETTIVE | POTERI DEL GIUDICE E CONTROLLI NELLA MESSA ALLA PROVA DEGLI ADULTI
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prescrizioni imposte». La formula si differenzia da quella – meno rigida – utilizzata dall’art. 28, comma
5, d.p.r. 22 settembre 1988, n. 448 per la messa alla prova del minore, che richiede «ripetute e gravi trasgressioni alle prescrizioni imposte», sicché la revoca sarà possibile alternativamente quando sia accertata una violazione grave delle prescrizioni ovvero quando la violazione delle stesse sia reiterata.
A seconda che si versi nell’una o nell’altra situazione, varia naturalmente l’ampiezza dell’apprezzamento discrezionale del giudice.
Sicuramente più estesa è la discrezionalità nella valutazione della “gravità” della violazione, concetto che rimane, per molti versi, ancorato a soggettivismi interpretativi 27.
A fronte, invece, della semplice constatazione di una seconda trasgressione della medesima o di altra prescrizione, anche se di modesta entità, dovrebbe a rigore ritenersi pienamente integrata l’ipotesi
di revoca.
La seconda ipotesi di revoca attiene al «rifiuto alla prestazione del lavoro di pubblica utilità», presupposto, come si è ricordato, indefettibile nel regime di messa alla prova.
La disposizione «copre sia l’ipotesi di rifiuto espresso, sia quello di sottrazione di fatto all’obbligo
del lavoro di pubblica utilità» 28: tanto un’opposizione tout court, quanto un’opposizione reiterata e ingiustificata alle eventuali legittime richieste del datore di lavoro rendono manifesta la carente volontà
del soggetto di sottoporsi all’esperimento 29.
La terza e ultima ipotesi di revoca riguarda la commissione, durante il periodo di prova, di un nuovo reato, essendo in tal caso smentita la prognosi di non recidiva.
Non è richiesta una verifica processuale provvisoria o definitiva della responsabilità penale in ordine al nuovo reato, per cui è da ritenersi sufficiente l’acquisizione della relativa notitia criminis e l’avvio
delle indagini preliminari. Diversamente, «il periodo di sospensione dovrebbe tollerare di essere a sua
volta sospeso per un periodo di tempo a priori non determinabile, necessario per la celebrazione del
processo sul nuovo fatto-reato, il cui accertamento sarebbe poi motivo di revoca dell’ordinanza sospensiva: in buona sostanza, si accetterebbe un meccanismo perverso destinato a paralizzare sine die la messa alla prova» 30.
Tuttavia, il principio della presunzione di non colpevolezza ex art. 27, comma 2, Cost. non consente
un facile automatismo, che frustrerebbe la ratio essendi della funzione giurisdizionale, privando così il
giudice di un pur minimo apprezzamento nella valutazione del caso concreto.
In ogni caso, l’imputato potrebbe vedersi revocata la messa alla prova e, magari dopo alcuni anni,
essere assolto dal reato che detta revoca ha provocato: in tale evenienza, non sembra ipotizzabile alcuna
forma di tutela 31.
A integrare l’ipotesi di revoca non è, peraltro, la commissione di qualunque nuovo reato, in quanto
deve trattarsi di «un nuovo delitto non colposo ovvero di un reato della stessa indole rispetto a quello
per cui si procede».
Il divieto di analogia in malam partem in ambito penale permette di escludere che possa costituire
motivo di revoca la commissione di un reato al di fuori dei predetti casi, anche se può apparire illogico
che la revoca derivi dalla mera violazione formale delle prescrizioni e non da comportamenti penalmente illeciti (diversi da quelli previsti), che comunque vanificano la funzione preventiva delle medesime prescrizioni, tanto da potersi profilare dubbi di legittimità costituzionale della norma, sotto il profilo della ragionevolezza della scelta del legislatore 32.
GLI ESITI DELLA PROVA
Decorso il periodo di sospensione del procedimento – sempre che l’ordinanza di sospensione non sia
stata anticipatamente revocata –, al giudice si pone l’alternativa tra l’emanazione di una sentenza di-
27
Sul punto, cfr. A. Martini, op. cit., p. 510; F. Nevoli, op. cit., p. 164.
28
F. Fiorentin, Revoca discrezionale, cit., p. 84.
29
In questi termini, G. Tabasco, op. cit., p. 30.
30
F. Nevoli, op. cit., p. 164 s.; nello stesso senso, P. Felicioni, op. cit., p. 431.
31
Il rilievo è di G.L. Fanuli, op. cit., p. 439.
32
In tal senso, F. Fiorentin, Revoca discrezionale, cit., p. 86.
ANALISI E PROSPETTIVE | POTERI DEL GIUDICE E CONTROLLI NELLA MESSA ALLA PROVA DEGLI ADULTI
Processo penale e giustizia n. 1 | 2016
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chiarativa di estinzione del reato in caso di “esito positivo” della prova (sentenza di non luogo a procedere o di non doversi procedere, a seconda della fase in cui si colloca) 33 e l’emanazione di un’ordinanza
dispositiva della ripresa del processo, in caso di “esito negativo”.
Al riguardo, occorre segnalare che il dettato legislativo dell’art. 464-septies c.p.p. è assai generico,
non precisando in cosa esattamente consista l’esito positivo o negativo, di cui si prevedono soltanto gli
effetti sul piano processuale. Ciò rende più difficoltoso il compito del giudice 34, al quale sono offerte
ben poche indicazioni: la verifica giurisdizionale attiene, in particolare, al «comportamento dell’imputato» e al «rispetto delle prescrizioni stabilite».
Utili indicazioni possono, comunque, trarsi dalla giurisprudenza di legittimità, la quale ha sottolineato
che l’esigenza di rieducazione «rappresenta un beneficio non solo per l’imputato, ma per la collettività e
l’essenza dell’istituto in esame non può certo ricollegarsi al solo fatto materiale di consentire all’imputato
di vedere estinto il reato del quale è chiamato a rispondere, ma ha radici ben più profonde (e nobili) che
tendono all’eradicazione completa delle tendenze di condotta antigiuridica del soggetto» 35.
Questo, dunque, dovrebbe essere – per la Suprema Corte – l’obiettivo ottimale e privilegiato della
prova, e dunque costituire oggetto di valutazione da parte del giudice all’esito dell’esperimento.
Di fatto, il rischio è che la decisione si fondi esclusivamente sulla relazione finale dell’u.e.p.e., pur se
valutata nel contraddittorio delle parti e della persona offesa 36.
L’UTILIZZABILITÀ DELLE INFORMAZIONI ACQUISITE AI FINI E DURANTE IL PROCEDIMENTO DI MESSA ALLA
PROVA
Un’ulteriore criticità che occorre segnalare è la mancanza di una norma che, in caso di riattivazione
dell’iter procedimentale – a seguito di revoca o di esito negativo della prova – sancisca l’inutilizzabilità
per la decisione sulla regiudicanda delle informazioni acquisite ai fini e durante il procedimento di
messa alla prova.
Una disposizione di questo tipo, com’è noto, è prevista per i procedimenti di competenza del giudice di pace dall’art. 29, comma 4, secondo periodo, d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, laddove si stabilisce che
«in ogni caso, le dichiarazioni rese dalle parti nel corso dell’attività di conciliazione non possono essere
in alcun modo utilizzate ai fini della deliberazione».
Durante i lavori parlamentari che hanno portato all’approvazione della l. n. 67 del 2014, è invece caduto il divieto di utilizzare queste informazioni (divieto che era stato, peraltro, previsto nel testo originario soltanto con riferimento all’esito negativo della prova e non anche alla revoca) 37: il che getta
un’ombra inquisitoria sugli sviluppi successivi del processo e può costituire una (ulteriore) remora nella scelta del rito, già per molti versi poco appetibile 38. Il rischio è, infatti, che il procedimento penale,
33
Non è superfluo rammentare che l’estinzione del reato, a norma dell’art. 168 ter, comma 2, c.p., non pregiudica l’applicazione di sanzioni amministrative accessorie, che saranno pertanto comminate dal giudice con il medesimo provvedimento.
34
Il rilievo è di P. Felicioni, op. cit., p. 419 s.
35
Così Cass., sez. II, 12 marzo 2015, n. 14112, cit.
36
M.S. Calabretta-A. Mari, op. cit., p. 39, sottolineano che la «legge non vincola il giudice ad un mero recepimento della relazione conclusiva dell’Uepe», sicché, pur a fronte di una relazione non pienamente positiva, «sembra possibile affermare che il
giudice potrà comunque valutare che l’esito della prova sia stato positivo», ad esempio «ritenendo che alcune inadempienze al
programma siano dipese da circostanze estranee all’imputato, o comunque al medesimo non addebitabili, ovvero che lo stesso
si sia trovato senza colpa in condizioni tali da precludergli di offrire serio ristoro alla persona offesa».
Nello stesso senso, v. C. Cesari, La sospensione del processo con messa alla prova, cit., p. 550, la quale rileva che, mentre il riferimento al «rispetto delle prescrizioni stabilite» attiene semplicemente all’adempimento dei singoli punti del programma trattamentale, il richiamo al «comportamento dell’imputato nel corso della prova» apre a una valutazione flessibile, che consente al
giudicante di tener conto della condotta complessiva dell’imputato, «permettendogli così, ad esempio, di soprassedere su inadempimenti parziali o su prescrizioni meno qualificanti ovvero su inottemperanze non dovute a difetto di diligenza da parte
dell’imputato, spostando l’attenzione sugli adempimenti cruciali e sulla condotta del protagonista valutata globalmente».
37
La previsione, contenuta nel testo approvato in prima lettura dalla Camera dei Deputati il 4 luglio 2013, è stata soppressa
dopo le modifiche apportare dal Senato.
38
Sul punto, cfr. M. Chiavario, op. cit., p. 634, il quale rileva che l’espunzione dal testo finale del periodo in cui si precisava
che «le informazioni acquisite ai fini e durante il procedimento di messa alla prova non sono utilizzabili» fa pensare che se ne
sia viceversa voluta ammettere l’utilizzabilità, «aprendosi così, tuttavia, un pesante interrogativo, dato il carattere largamente
inquisitorio di tale procedura». Analogamente, C. Cesari, La sospensione del processo con messa alla prova, cit., p. 552.
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una volta ripreso – sia in caso di revoca, sia in caso di valutazione negativa dell’esito del percorso di
prova – non goda di sufficiente “impermeabilizzazione” da tali contributi informativi e che il giudice
possa rimanerne condizionato nella deliberazione della sentenza 39.
I CONTROLLI SUI PROVVEDIMENTI DEL GIUDICE
Anche sul piano dei meccanismi di controllo sui differenti provvedimenti del giudice nel corso del procedimento di messa alla prova, la disciplina dettata dal legislatore risulta in più punti poco chiara e lacunosa.
a) L’ordinanza che decide sull’istanza di sospensione
A norma dell’art. 464-quater, comma 7, primo periodo, c.p.p., «contro l’ordinanza che decide sull’istanza di sospensione con messa alla prova possono ricorrere per cassazione l’imputato e il pubblico
ministero, anche su istanza della persona offesa».
Il tenore letterale della disposizione sembra inequivoco nel senso dell’autonoma ricorribilità di qualsiasi provvedimento decisorio, e dunque sia di quelli ammissivi che di quelli reiettivi della richiesta di
sospensione 40; né vi sono elementi di natura sistematica per ritenere che l’ordinanza con la quale il giudice rigetta la richiesta dell’imputato di sospensione del processo non sia impugnabile autonomamente,
ma solo congiuntamente alla sentenza che definisce il giudizio ex art. 586, comma 1, c.p.p., come è stato
invece sostenuto da qualche pronuncia di legittimità 41.
A confermare la conclusione dell’autonoma impugnabilità – secondo la Corte di cassazione 42 – è la
diversa disciplina dettata dall’art. 28, commi 2 e 3, d.p.r. n. 448/1988, con riferimento all’omologo istituto minorile, dalla quale emerge che soggetta a ricorso per cassazione può essere soltanto l’ordinanza
che dispone la sospensione, con la conseguenza che in quel sistema effettivamente l’ordinanza reiettiva
dell’istanza di messa alla prova dell’imputato va ricondotta alla disciplina dell’art. 586 c.p.p. 43.
Senza dire, poi, che la giurisprudenza di legittimità ha in più occasioni evidenziato che la messa alla
prova dell’adulto presuppone lo svolgimento di un iter procedimentale «alternativo alla celebrazione
del giudizio», e questa “alternatività” resta salvaguardata proprio dall’autonoma impugnabilità dell’ordinanza con la quale il giudice rigetta l’istanza di sospensione del processo con messa alla prova.
È peraltro dubbio che l’imputato possa ricorrere per cassazione contro le decisioni negative qualora
la richiesta di sospensione sia ulteriormente reiterabile prima della dichiarazione di apertura del dibattimento ex artt. 464-ter, comma 4, o 464-quater, comma 9, c.p.p. 44. D’altronde, l’ipotesi in cui l’istanza
Contra, O. Murro, Messa alla prova, cit., p. 1273, secondo la quale appare «doveroso ritenere che (seppure la norma nulla ci
dice) tutta l’attività svolta dall’u.e.p.e. (analisi valutativa, indagini conoscitive sulla personalità, e sulle capacità economiche e
socio-familiari dell’imputato, relazioni trimestrali, relazione finale, ecc.) sia inutilizzabile; come anche le informazioni che il
giudice può acquisire tramite la p.g. ai sensi dell’art. 464-bis, comma 5, c.p.p. La finalità di tali informazioni è, infatti, strettamente connessa all’individuazione del contenuto del programma di messa alla prova, alla prognosi di non recidiva e alla decisione
sull’esito della prova; pertanto, nell’ipotesi di esito negativo o di revoca, tali atti non dovrebbero costituire prove a carico
dell’imputato».
39
Cfr. F. Nevoli, op. cit., p. 169 s.
40
In tal senso, v. Cass., sez, II, 6 maggio 2015, n. 20602, in CED Cass., n. 263787; Cass., sez. II, 12 marzo 2015, n. 14112, cit.;
Cass., sez. V, 23 febbraio 2015, n. 24011, cit.; Cass., sez. VI, 9 dicembre 2014, n. 6483, in Dir. pen. proc., 2015, p. 283. Analogamente, in dottrina, C. Cesari, La sospensione del processo con messa alla prova, cit., p. 544; A. Diddi, op. cit., p. 129 s.; G.L. Fanuli, op. cit.,
p. 438; A. Marandola, op. cit., p. 683; M. Montagna, Sospensione del procedimento con messa alla prova, cit., p. 409; F. Picciché, Il ricorso per Cassazione dell’imputato contro l’ordinanza di rigetto dell’istanza di messa alla prova per gli adulti: due opinioni a confronto, in
www.questionegiustizia.it, 29 luglio 2015; R. Piccirillo, op. cit., p. 19; G. Tabasco, op. cit., p. 34.
41
Cfr. Cass., sez. V, 15 dicembre 2014, n. 5673, in CED Cass., n. 262106 («L’ordinanza con la quale il giudice del dibattimento
rigetta l’istanza di sospensione del processo per la messa alla prova dell’imputato è impugnabile, ai sensi dell’art. 586 c.p.p., solo unitamente alla sentenza»); Cass., sez. V, 14 novembre 2014, n. 5656, in CED Cass., n. 264270.
42
Cass., sez. V, 23 febbraio 2015, n. 24011, cit.
43
In tal senso, v. Cass., sez. IV, 18 giugno 2003, T., in Cass. pen., 2005, p. 905; Cass., sez. I, 8 luglio 1999, C., in Riv. pen., 1999,
p. 1100; Cass., sez. I, 24 aprile 1995, Z., in Cass. pen., 1997, p. 165; Cass., sez. I, 30 giugno 1992, Franzé, ivi, 1994, p. 1302. Contra,
Cass., sez. I, 20 novembre 1992, M., in Arch. pen., 1994, p. 49, con nota di C. Pansini, Impugnabilità delle ordinanze in tema di messa
alla prova.
44
Propende per la soluzione negativa, G. Spangher, I procedimenti speciali, cit., p. 605, secondo il quale «l’imputato non potrà
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non sia ulteriormente reiterabile deve ritenersi assai frequente, posto che molti dei reati per i quali
l’istituto è ammesso sono a citazione diretta 45.
Quanto al pubblico ministero – eventualmente sollecitato dalla persona offesa dal reato – potrà ricorrere per cassazione contro il provvedimento che accoglie la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova e le decisioni contrastanti con il parere da lui formulato.
Nulla dice la norma quanto all’ipotesi in cui il pubblico ministero non ritenga di proporre il ricorso in
cassazione come richiesto dalla persona offesa: deve, pertanto, ritenersi applicabile il generale principio previsto dall’art. 572, comma 2, c.p.p., secondo cui il pubblico ministero il quale non proponga l’impugnazione
richiesta dalla persona offesa deve provvedere con decreto motivato da notificare al richiedente 46.
La persona offesa – oltre a sollecitare il ricorso da parte del pubblico ministero – è inoltre legittimata
dall’art. 464-quater, comma 7, secondo periodo, c.p.p., a ricorrere autonomamente, a tutela del suo diritto al contraddittorio, e dunque limitatamente alle ipotesi in cui non le sia stato dato avviso dell’udienza
oppure, pur essendo comparsa, non sia stata sentita.
L’impugnativa di legittimità, naturalmente, restringe le possibili censure ai soli motivi elencati
nell’art. 606 c.p.p. e, quindi, preclude censure di fatto: restano fuori, ad esempio, se adeguatamente motivate, la valutazione dell’idoneità del programma trattamentale ad assicurare il reinserimento sociale
dell’imputato e la valutazione in merito al giudizio prognostico di non recidiva 47.
Premesso che il procedimento davanti alla Corte di cassazione segue le forme contratte previste
dall’art. 611 c.p.p., occorre segnalare che, in caso di annullamento con rinvio, gli atti dovranno essere
restituiti al giudice del provvedimento impugnato, il quale si pronuncerà di nuovo sulla richiesta, uniformandosi al principio enunciato dalla Corte.
L’ultimo periodo del comma 7 dell’art. 464-quater c.p.p. dispone, poi, che «l’impugnazione non sospende il procedimento» 48.
La ratio della previsione è di evitare condotte dilatorie da parte dell’imputato, ma si tratta di una
puntualizzazione che suscita non pochi dubbi interpretativi.
L’inciso, infatti, può essere inteso in un duplice senso, e cioè nel senso che, in caso di ricorso dell’imputato avverso un’ordinanza di rigetto, il procedimento penale segue comunque il suo corso ovvero nel
senso che, in caso di gravame del pubblico ministero o della persona offesa avverso un’ordinanza ammissiva, il procedimento con messa alla prova prosegue il suo corso e, quindi, l’interessato può dare
inizio al programma di trattamento 49.
In entrambi i casi la previsione potrebbe causare qualche inefficienza nel sistema, ove il ricorso fosse
accolto: nel primo caso, ad esempio, il progredire di un’istruzione dibattimentale che potrebbe rivelarsi
poi inutile, qualora il ricorso dell’imputato avverso l’ordinanza reiettiva dovesse rivelarsi fondato; nel
secondo caso, invece, l’imputato potrebbe, ad esempio, dare corso alle condotte riparatorie e risarcitorie, iniziare a prestare il lavoro di pubblica utilità, nonché sottoporsi all’affidamento ai servizi sociali,
per poi correre il rischio di vedere cassata l’ordinanza ammissiva 50.
Con riferimento a questa seconda ipotesi, è vero che l’art. 657-bis c.p.p. prevede, in caso di revoca
ovvero di esito negativo della messa alla prova, un criterio di ragguaglio per scomputare il periodo di
prova effettuato dalla pena da eseguire (tre giorni di prova sono equiparati a un giorno di reclusione o
arresto ovvero a 250 euro di multa o ammenda), ma è anche vero che l’interessato che si veda revocare
l’ordinanza ammissiva all’esito di un ricorso per cassazione promosso dal pubblico ministero o dalla
persona offesa potrebbe non essere in alcun modo rimproverabile sotto un profilo soggettivo (a differenza di quando accade nell’ipotesi di revoca o di esito negativo della prova) e, pur avendo diritto a
vedersi scomputare il periodo di messa in prova nel frattempo trascorso, non potrebbe comunque avere
impugnare le decisioni di rigetto dell’istanza da lui proposta, pronunciata in udienza preliminare, potendo riformulare la stessa
prima dell’apertura del dibattimento», sicché dovrebbero risultare impugnabili «le decisioni negative non reiterabili».
45
Lo sottolinea R. Orlandi, op. cit., p. 751.
46
Dubbioso, sul punto, G. Spangher, I procedimenti speciali, cit., p. 605 («non è chiaro se operi l’art. 572 c.p.p.»).
47
Sul punto, cfr. A. Marandola, La messa alla prova dell'imputato adulto, cit., p. 683; R. Orlandi, op. cit., p. 752.
48
Durante i lavori parlamentari è caduto l’espresso richiamo all’art. 588 c.p.p., contenuto nel testo originario della proposta
di legge.
49
In questi termini, G. Lozzi, op. cit., p. 530.
50
Così G. Lozzi, op. loc. cit.
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alcun ristoro per le condotte riparatorie e risarcitorie eventualmente poste in essere 51.
Come già accennato, l’impugnativa di legittimità restringe le possibili censure ai soli motivi elencati
nell’art. 606 c.p.p. e, quindi, preclude ogni valutazione sul merito delle scelte compiute dal giudice di
primo grado, con una potenziale forte penalizzazione dei diritti e delle garanzie dell’imputato, laddove
in particolare la richiesta di messa alla prova venga a innestarsi in riti privi dell’udienza preliminare
(come il giudizio direttissimo o i procedimenti con citazione diretta a giudizio) che non consentono,
pertanto, di reiterare a un secondo giudice la richiesta, nel caso non sia stata accolta in prima battuta.
Al riguardo, già nella Relazione del Massimario della Corte di cassazione si suggeriva una possibile
soluzione ermeneutica 52, poi condivisa da alcuni autori 53, vale a dire l’ammissione di un secondo sindacato da compiersi sia da parte del giudice di primo grado all’esito del dibattimento, sia da parte del
giudice d’appello eventualmente investito dell’impugnazione della sentenza di condanna, sulla scorta
di quanto statuito dalle Sezioni unite in relazione alla possibilità di recupero dei vantaggi del rito abbreviato condizionato negato dal primo giudice 54.
In caso di diniego ingiustificato della messa alla prova, tale soluzione interpretativa appare però difficilmente praticabile, quantomeno con riferimento al giudizio di appello, posto che – a differenza del
giudizio abbreviato – non si tratterebbe qui di applicare semplicemente una riduzione della pena, ma di
dar vita ad un rito particolarmente articolato e complesso 55 che la Corte di cassazione, in più circostanze, ha ritenuto assolutamente incompatibile con i giudizi di impugnazione 56.
b) L’ordinanza di revoca della sospensione
Quanto all’ordinanza di revoca della sospensione, è ricorribile per cassazione per violazione di legge
(art. 464-octies, comma 3, c.p.p.), con la precisazione che il provvedimento che dispone la revoca non è
di immediata esecutività: il legislatore, infatti, puntualizza che il procedimento riprende il suo corso e
l’esecuzione del programma di prova cessa soltanto nel momento in cui la decisione diventa definitiva.
In sostanza, il programma resta vincolante per l’imputato e la prova prosegue il suo corso fino a
quando non siano inutilmente decorsi i termini per l’impugnazione, ovvero fino a quando sia stata
emessa la pronuncia d’inammissibilità o di rigetto della Corte di cassazione 57.
c) I provvedimenti emessi all’esito della prova
Per quanto concerne, infine, i provvedimenti emessi all’esito della prova, occorre distinguere a seconda che questa sia stata o meno valutata positivamente.
La sentenza con la quale il giudice dichiara che la prova ha avuto esito positivo, con conseguente
estinzione del reato, è ricorribile per cassazione, secondo i princìpi generali (art. 111, comma 7, Cost. e
art. 568, commi 2 e 3, c.p.p.).
Interessati a un possibile annullamento potrebbero essere sia le parti che la persona offesa dal reato.
Peraltro, gli spazi per censure in sede di legittimità appaiono molto angusti, posto che la sentenza in
questione trova evidentemente il suo fulcro nel giudizio riguardante l’esito del periodo di prova, certamente insindacabile in Cassazione.
51
Così, ancora, G. Lozzi, op. cit., p. 531, per il quale sarebbe stato, pertanto, più opportuno disporre la sospensione del procedimento in attesa dell’esito del gravame, magari prevedendo anche la sospensione del corso della prescrizione, così da scongiurare, per un verso, i rischi evidenziati e, per altro verso, eventuali manovre dilatorie dell’imputato.
52
Cfr. R. Piccirillo, op. cit., p. 21.
53
M. Montagna, Sospensione del procedimento con messa alla prova, cit., p. 410; G. Tabasco, op. cit., p. 35.
54
Cfr. Cass., sez. un., 27 ottobre 2004, Wajib, in Cass. pen., 2005, p. 358.
55
Cfr. G.L. Fanuli, op. cit., p. 438 s.
56
Cfr. Cass., sez. IV, 13 gennaio 2015, n. 1281, in questa Rivista, 2015, 4, p. 131, con nota di J. Della Torre, L’assenza di una disciplina intertemporale o transitoria per la messa alla prova degli adulti: un spinoso problema tra lex mitior e tempus regit actum; Cass.,
sez. II, 4 novembre 2014, n. 48025, in Cass. pen., 2015, p. 1142, con nota di N. Pascucci, Sospensione del procedimento con messa alla
prova e assenza di una disciplina transitoria: alle omissioni del legislatore si aggiunge la scure dei giudici di legittimità; Cass., sez. fer., 9
settembre 2014, n. 42318, in CED Cass., n. 261096; Cass., sez. fer., 31 luglio 2014, n. 35717, in www.questionegiustizia.it, 24 settembre 2014, con nota di G. Zaccaro, No alla “messa in prova” in Cassazione.
57
Sul punto, cfr. C. Cesari, La sospensione del processo con messa alla prova, cit., p. 550; P. Felicioni, op. cit., p. 429.
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Residuano possibili doglianze relative a errores in procedendo (in caso di lesione del contraddittorio,
come, ad esempio, l’omesso avviso alle parti o alla persona offesa per l’udienza dedicata alla decisione
finale ex art. 464-septies, comma 1, secondo periodo, c.p.p.), a errores in iudicando (come, ad esempio,
l’errata qualificazione giuridica del fatto) o ancora all’illogicità della motivazione 58.
Alcuni sottolineano che, in mancanza di espresse indicazioni contrarie (previste, invece, per la sentenza di patteggiamento dall’art. 448, comma 2, c.p.p.), la sentenza che dichiara estinto il reato per esito
positivo della prova dovrebbe ritenersi altresì appellabile a norma dell’art. 593, comma 2, c.p.p., nella
versione risultante dagli interventi della Corte costituzionale n. 26/2007 e n. 85/2008 e, dunque, sia dal
pubblico ministero che dall’imputato 59.
Il primo potrebbe avvalersi di tale mezzo d’impugnazione per mettere in discussione l’esito positivo
della prova; il secondo potrebbe avere interesse a un proscioglimento nel merito, rivendicando
l’applicazione dell’art. 129, comma 2, c.p.p.
In entrambi i casi, il giudice d’appello – secondo quanto dispone l’art. 604, comma 6, c.p.p. – dovrebbe annullare l’estinzione del reato e decidere nel merito, dopo aver rinnovato, se occorre, il dibattimento.
Non si può omettere di segnalare la singolarità di questa impugnazione: il dibattimento di secondo
grado seguirebbe un primo grado chiuso con sentenza in camera di consiglio, senza un previo giudizio
dibattimentale e senza possibilità per l’imputato di chiedere un rito alternativo al dibattimento 60.
Resta fermo che in sede d’impugnazione della sentenza che dichiara estinto il reato per esito positivo della prova non potranno farsi valere tutte le censure relative all’ammissibilità della richiesta di sospensione del processo con messa alla prova, da ritenersi impugnabile solo con lo strumento del ricorso
per cassazione e per l’effetto precluse in esito al decorso del relativo termine 61.
Infine, l’ordinanza con la quale il giudice dichiara, invece, che la prova ha avuto esito negativo – disponendo, quindi, che il processo debba riprendere il suo corso dal momento in cui era stato interrotto,
con una tacita revoca dell’ordinanza di sospensione –, in applicazione dell’art. 586 c.p.p., dovrebbe essere impugnabile unitamente alla sentenza, se essa è stata emessa nel dibattimento, non essendo prevista la ricorribilità diretta del provvedimento 62.
Sul piano sistemico, in ogni caso, la moltiplicazione delle impugnazioni durante la procedura risulta
chiaramente in conflitto con le recenti iniziative legislative dirette a deflazionare il carico soprattutto
della Corte regolatrice 63.
58
Cfr. R. Orlandi, op. cit., p. 755.
59
In tal senso, R. Orlandi, op. cit., p. 754. Analogamente, G.L. Fanuli, op. cit., p. 439.
60
Cfr. R. Orlandi, op. cit., p. 754 s.
61
M.S. Calabretta-A. Mari, op. cit., p. 38.
62
In tal senso, cfr. G. Spangher, I procedimenti speciali, cit., p. 606.
63
Sul punto cfr., in relazione ai contenuti del d.d.l. di riforma del processo penale C. 2798/2014, M. Bargis, Primi rilievi sulle
proposte di modifica in materia di impugnazioni nel recente d.d.l. governativo, in Dir. pen. cont., 2015, 1, p. 4 ss.
ANALISI E PROSPETTIVE | POTERI DEL GIUDICE E CONTROLLI NELLA MESSA ALLA PROVA DEGLI ADULTI
Processo penale e giustizia n. 1 | 2016
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LORENZO BELVINI
Cultore di Diritto processuale penale – Università di Napoli S.O.B.
Mutamento del giudice e nuova istruttoria: note
sull’involuzione interpretativa
Change of the judge and new inquiriy: note on the interpretative involution
L’immutabilità del giudice è un aspetto caratterizzante il giusto processo ed è, implicitamente, prevista dall’art.
111, comma 3, Cost.; pertanto, la rinnovazione del dibattimento in caso di mutamento del giudice è attività doverosa. Nondimeno, l’assenza di una norma esplicita circa le modalità di rinnovazione istruttoria consente, ancora,
tentativi volti ad eludere l’applicazione della regola. Il presente contributo, alla luce degli orientamenti della Corte di
cassazione, evidenzia la necessità che la prova orale sia assunta dinanzi al giudice chiamato a decidere.
The immutability of the Court is a typical characteristic of the due process of law and is, implicitly, provided for in
Article 111, paragraph 3, of the Italian Constitution; therefore, the renewal of the hearing when a judge changes is
due.
Nevertheless, the lack of an express provision as for the procedure to be followed in the case of a renewal of the
hearing allows attempts aimed at evading the rule of immediacy.
This note, in light of the Supreme Court guidelines, highlights the necessity of collecting evidence before the
Court called to deliberate.
IMMEDIATEZZA E ORALITÀ, LINEE DI SINTESI.
Sin dalla entrata in vigore del codice di procedura penale del 1988, il tema della rinnovazione del dibattimento a seguito del mutamento del giudice ha prodotto linee interpretative contrastanti. Ad oggi,
malgrado gli interventi della Corte costituzionale 1 e delle Sezioni Unite 2, il dibattito non pare sopito;
anzi non mancano tentativi di ostacolare l’attuazione dei principi statuiti nelle sedi giurisprudenziali
più autorevoli.
In particolare, uno dei nodi centrali del dibattito è costituito dallo stabilire se, a seguito del mutamento dell’organo giudicante, è sempre e comunque necessario rinnovare il dibattimento, svolto in
precedenza dinanzi al giudice poi sostituito. Più precisamente, la querelle ruota attorno alla necessità
della nuova escussione della prova dichiarativa dinanzi al giudice subentrato ovvero alla possibilità di
utilizzare ai fini della decisione, attraverso la lettura dei relativi verbali, le dichiarazioni illo tempore rese
dinanzi al giudice sostituito. Per meglio affrontare tale tema occorre una premessa di metodo.
L’impianto codicistico pareva aver delineato in modo chiaro le modalità di formazione della prova
ed i principi che la regolano. Il metodo gnoseologico, imposto dal legislatore, è manifestato dalla triade:
contraddittorio-oralità-immediatezza. Solo ove siano rispettati tali principi si ritiene effettivamente garantito il diritto dell’imputato di difendersi “provando” 3.
1
Cfr. ex multis C. cost., sent. 3 febbraio 1994, n. 17, in Cass. pen., 1994, p. 1172; C. cost., ord. 10 giugno 2010, n. 205, in Cass.
pen., 2010, p. 3821.
2
Cass., sez. un., 15 gennaio 1999, n. 2, in Cass. pen., 1999, p. 1429.
3
Cfr., per tutti, E. Amodio, Il dibattimento nel nuovo rito accusatorio, in AA.VV., Lezioni sul nuovo processo penale, Milano, 1990,
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L’impostazione di fondo esce rafforzata dalla modifica dell’art. 111, comma 2, Cost. laddove – in linea generale – prevede che «ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a un giudice terzo e imparziale», qui il significato del contraddittorio, inteso come partecipazione dialettica delle parti al processo 4, si caratterizza con l’immediatezza. Ritenere che il confronto
dialettico si svolga dinanzi al giudice comporta da un lato che «la dialettica si sviluppi per forza in forma orale», dall’altro che «il giudice, spettatore del contraddittorio [ …] sia poi anche quello chiamato ad
assumere la decisione sul merito dell’imputazione» 5.
Il tema della rinnovazione del dibattimento non si sottrae alla delineata premessa. In particolare
l’art. 525, comma 2, c.p.p. sancisce in termini impliciti il principio di immediatezza, in base al quale il
giudice-persona fisica chiamato a pronunciare la sentenza deve essere lo stesso dinanzi al quale sono
state acquisiste le prove 6. Tale disciplina impone, appunto, la regola della immutabilità del giudice nella fase dibattimentale, naturale pendant della “concentrazione del dibattimento” sancita dall’art. 477
c.p.p.. A tale regola l’ordinamento ha attribuito una rilevanza tale da presidiarla con «l’unica nullità
speciale, espressamente definita come assoluta dal codice» 7.
Invero, l’art. 525, comma 2, c.p.p., strictu senso, non obbliga all’identità fisica tra il soggetto dinanzi al
quale viene instaurato il dibattimento per la prima volta ed il giudice-persona fisica dinanzi al quale lo
stesso deve chiudersi 8; infatti, è probabile che si verifichino vicende (avanzamento di carriera, spostamento ad altro ufficio giudiziario, morte o altri impedimenti di un componente del collegio) che impediscano all’organo designato di portare a termine il giudizio, imponendo così un’alterazione; pertanto,
quando uno o più membri del collegio per cause sopravvenute non compongano più l’organo giudicante, è ammissibile che il giudizio prosegua e si concluda in presenza di un giudice diverso. Nondimeno,
per salvaguardare i menzionati principi ed evitare di incorrere nella nullità assoluta comminata dall’art.
525, comma 2, c.p.p., è necessario che il dibattimento venga “rinnovato” dinanzi al nuovo giudice.
Del resto, una previsione analoga all’attuale art. 525, comma 2, c.p.p., era sancita dall’art. 472, comma 2, del codice di rito penale del 1930 9; ma, l’importanza della prescrizione è stata accentuata dal codice vigente ove si consideri che il legislatore ha previsto una patologia a regime assoluto, che in quanto tale è insanabile e rilevabile ex officio in ogni stato e grado del giudizio 10. Il legislatore, anche nella
precedente codificazione, ritiene che il metodo corretto per la decisione è quello che consente al giudice
di avere un rapporto diretto soprattutto con le fonti dichiarative in dibattimento 11, poiché in tal modo è
garantita la migliore possibilità per l’organo giudicante di valutarle 12. Si tratta di garantire il corretto
esercizio della funzione giurisdizionale, in quanto non solo la funzione decisoria ma anche le stesse
prerogative del giudice, di intervento e di interlocuzione nel momento di formazione della prova, sono
correttamente esercitate solo da chi ha partecipato all’istruttoria.
In linea con la ratio poc’anzi descritta le Sezioni Unite hanno chiarito che solo se il mutamento della
composizione dell’organo giudicante si verifica successivamente all’apertura del dibattimento, sarà necessario procedere ex novo dinanzi al nuovo giudice e alla ripetizione di tutti gli atti successivi alla dichiarazione prevista dall’art. 492 c.p.p. 13.
La rinnovazione del dibattimento non è un mero formalismo 14, ma è un atto dovuto volto a deterp. 193 ss.; P. Ferrua, Studi sul processo penale, Torino, 1992; D. Siracusano, Prova III (nel nuovo codice di procedura penale), in Enc.
Giur., XXV, Roma, 1991; G. Ubertis, Prova (in generale), in Dig. pen., X, Torino, 1995, p. 296 ss.
4
P. Ferrua, Il “giusto processo”, Bologna, 2012, p. 100.
5
Così, O. Mazza, Contraddittorio (principio del), (diritto processuale penale), in Enc. Dir., VII, Milano, 2014, p. 248.
6
Cfr. P. Tonini, Manuale di procedura penale, 2012, Milano, p. 638.
7
P. Tonini-C. Conti, Il diritto delle prove penali, cit., p. 551.
8
Cfr. P. Renon, Mutamento del giudice penale e rinnovazione del dibattimento, Torino, 2008, p. 113.
9
Cfr. G. Ubertis, Dibattimento (principi del), (dir. proc. pen.), in Dig. pen., III, Torino, 1989, p. 463.
10
Vigente il codice di rito penale abrogato, si era tentato di sopperire al silenzio del legislatore in via interpretativa. Cfr. sul
punto, D. Chinnici, L’immediatezza nel processo penale, Milano, 2005, p. 221 ss.
11
Cfr. F. Rigo, La sentenza, in G. Spangher (a cura di), Procedimenti speciali. Giudizio. Procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica, IV, t. 2 (Trattato di procedura penale diretto da G. Spangher), Torino, 2009, p. 536.
12
Ancora in questi termini, O. Mazza, Contraddittorio (principio del), cit., p. 270, nota 130.
13
Cass., sez. un., 15 gennaio 1999, n. 2, in Cass. pen., 1999, p. 1429.
14
F. R. Dinacci, L’art. 190-bis c.p.p.: «controriforma» del diritto probatorio, in Arch. pen., 2014, p. 3.
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minare la ripetizione della fase nella quale si forma la prova, in modo che il giudice non formi il convincimento esclusivamente su elementi formatisi aliunde e dei quali non ha avuto diretta percezione.
Peraltro, il principio di immediatezza è intimamente connesso ed effettivamente garantito, dal principio
di oralità 15, quale strumento da prediligere nella formazione della prova.
Nonostante l’assenza di una regola costituzionale esplicita relativa all’immediatezza – e a prescindere dal corollario dipendente dall’art. 111, commi 1 e 4, Cost. – il Giudice delle leggi ha, in modo implicito, riconosciuto una tutela di detto principio 16 collegandosi al diritto dell’imputato «davanti al giudice,
di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a proprio carico», sancito dall’art. 111, comma 3, Cost.; si è scritto, al riguardo, che la rinnovazione del dibattimento a seguito del
mutamento del giudice «si fonda sull’opportunità di mantenere un diverso e diretto rapporto tra giudice e prova, non garantito dalla semplice lettura dei verbali.» 17. Su questa scia, ancorché in una prospettiva attigua, si è posta la più recente giurisprudenza (interna e convenzionale) 18.
Ed è proprio tenendo conto dell’autorevolezza delle conclusioni sostenute dal Giudice delle leggi
che non convincono le contrarie opinioni le quali negano rilevanza costituzionale del principio di immediatezza 19. Il contatto diretto tra giudice e fonte di prova appare elemento fondante dell’attuale prospettiva processuale, diversamente dal passato.
Si sostiene, inoltre, che l’art. 525 c.p.p. sia solo un’indicazione legislativa che non rappresenta un
principio generale 20; di conseguenza, la richiesta di una nuova istruttoria sarebbe causa di disagio per i
testimoni, che incomprensibilmente dovrebbero di nuovo deporre su fatti già esposti 21, e si presterebbe
ad essere impiegata strumentalmente, per fini estranei all’accertamento penale 22.
Certo, l’immediatezza non può essere intesa in termini assoluti; ma, stante la sua natura di corollario
dell’art. 111, commi 3 e 4, Cost., può essere derogata solo mediante previsioni normative che ne bilancino i contenuti con valori contrapposti da garantire 23.
Ben più problematica, in effetti, è l’interazione ed il rapporto con il principio di ragionevole durata
del processo sancito dall’art. 111, comma 2, Cost.
È utile evidenziare come gli artt. 111 Cost. e 6 Cedu prevedano la ragionevole durata del processo
«giusto», vale a dire di quel processo che garantisce i diritti sanciti dalle Carte sui diritti fondamentali
tra i quali emerge, indirettamente, il principio di immediatezza; cosicché la ragionevole durata non può
essere ottenuta a qualsiasi costo.
Sul punto non va sottaciuto come una delle argomentazioni utilizzate per evitare la rinnovazione del
dibattimento stia nel fatto che la richiesta di nuova escussione della prova dichiarativa prolunga i tempi
15
P. Tonini, Manuale di procedura penale, cit., p. 637.
16
Corte cost., ord. 10 giugno 2010, n. 205, cit.
17
L’ordinanza Corte cost., 10 giugno 2010, n. 205, cit., ha valorizzato il contatto diretto da parte del giudice e la fonte di prova poiché in tal modo è possibile «cogliere tutti i connotati espressivi anche quelli di carattere non verbale, particolarmente prodotti dal
metodo dialettico dell’esame e del controesame; connotati che possono rivelarsi utili nel giudizio di attendibilità del risultato probatorio, così
da poterne poi dare compiutamente conto nella motivazione ai sensi di quanto previsto dall’art. 546 comma 1, lettera e), cod. proc. pen.».
18
La Corte di Strasburgo sostiene infatti che anche il giudice di appello è tenuto a rinnovare l’assunzione della prova orale
al fine di poterne valutare l’attendibilità, poiché il contatto diretto tra la prova dichiarativa ed il giudice è uno degli aspetti essenziali dell’equo processo (art. 6 Cedu), cfr. Corte e.d.u., 5 luglio 2011, Dan c. Moldavia; Corte e.d.u., 5 marzo 2013, Manolachi
c. Romania, Corte e.d.u., 16 settembre 2014, Mischie c. Romania. La Corte di cassazione in diversi casi si è adeguata agli insegnamenti della Corte e.d.u. affermando l’illegittimità della pronuncia del giudice che avesse proceduto a riformare «la decisione
assolutoria assunta in primo grado sulla base di un diverso apprezzamento dell’attendibilità della testimonianza della persona
offesa, senza procedere a rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale» cfr. Cass., sez. V, 7 maggio 2013, n. 28645, in CED Cass., n.
255580; Cass., sez. III, 29 novembre 2012, n. 5854, in CED Cass., n. 254850.
19
E. Aghina, Gli effetti del mutamento dell’organo giudicante tra rigidità processuali e carenze organizzative, in Proc. pen. giust., II,
2012, p. 91 ss.; G. Giostra, Contraddittorio (principio del), II, (dir. proc. pen.), in Enc. giur., VIII, p. 7 ss.
20
L’espressione è di G. Castiglia, Il principio di immediatezza e la rinnovazione del dibattimento per mutamento del giudice, in Cass.
pen., 2007, 9, p. 3182.
21
E. Aghina, Gli effetti del mutamento dell’organo giudicante tra rigidità processuali e carenze organizzative, cit., p. 96.
22
F. Tripodi, Ragionevole durata del processo penale, principio di oralità e “abuso” del processo (ancora sulla rinnovazione del dibattimento per mutamento del giudice), in Cass. pen., VII-VIII, 2008, p. 3077B.
23
Si pensi, a titolo esemplificativo – quale espressione tipica, ma non unica, delle deroghe legislative al principio di immediatezza – all’incidente probatorio.
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del processo 24, invece, bastando, in nome della ragionevole durata, dare lettura dei verbali delle dichiarazioni rese dinanzi al giudice poi sostituito.
Si tratta di argomenti non condivisibili. A tal riguardo, sono illuminanti i rilievi della Corte costituzionale, la quale, già con decisione di poco successiva alla riforma dell’art. 111 Cost., aveva affermato la
necessità di contemperare il principio della ragionevole durata del processo «con le esigenze di tutela di
altri diritti e interessi costituzionalmente garantiti rilevanti nel processo penale» 25. Opinione ribadita
successivamente, laddove si è escluso che nella materia in esame la violazione del parametro del dèlai
raisonnable possa determinare una frizione con i dettami della Convenzione europea dei diritti umani 26.
Del resto, pensando diversamente, si attuerebbe la ragionevole durata di un processo “non giusto”. E se
è innegabile, da un lato che la rinnovazione del dibattimento comporta un allungamento dei tempi,
dall’altro, ciò non comporta una compressione inutile del principio di ragionevole durata del processo 27; il rinnovamento istruttorio garantisce che la prova venga assunta dinanzi al giudice chiamato a
decidere perché possa percepirne ogni elemento utile.
PRASSI DEVIANTI ED ORIENTAMENTI VIRTUOSI
Così come già evidenziato, in caso di mutamento del giudice, è necessario disporre la rinnovazione
dell’istruttoria dibattimentale al fine di evitare la nullità assoluta prevista dall’art. 525, comma 2,
c.p.p.
L’aspetto controverso attiene, invece, alle modalità attraverso le quali deve essere disposta la nuova
assunzione della prova dichiarativa.
Invero il codice di rito penale vigente, al di là della sanzione comminata dall’art. 525, comma 2,
c.p.p., non prevede altra disciplina a proposito del mutamento dell’organo giudicante.
L’assenza di una norma esplicita che stabilisca in modo chiaro le modalità di rinnovazione dell’istruttoria genera, pertanto, incertezze interpretative.
In particolare, il fulcro della discussione attiene ai modi in cui deve essere rinnovata la prova dichiarativa e all’utilizzabilità delle dichiarazioni rese dinanzi al giudice poi mutato 28. Tuttavia si è tentato di
colmare la lacuna, valorizzando il quadro normativo esistente, seppur con esiti diversi e talvolta contrastanti.
Sul punto il Giudice delle leggi ha affermato che i verbali delle precedenti dichiarazioni, rese dinanzi
al giudice poi mutato, sono atti legittimamente compiuti e, pertanto, essi costituiscono parte integrante
del fascicolo del dibattimento 29; tuttavia è necessario chiarire in che modo e per quali fini siano utilizzabili tali dichiarazioni.
A tal riguardo, sin dalla prima metà degli anni ’90, si sono delineati due orientamenti discordanti.
Secondo parte della giurisprudenza 30 l’utilizzabilità delle dichiarazioni rese dinanzi al giudice poi
24
Cfr. Trib. Nola, ord. 30 settembre 2009, in Corriere merito, 12, 2009, nella quale si fa riferimento ad un presunto «irrazionale
allungamento dei tempi processuali». In dottrina, sul presunto uso distorto della rinnovazione dell’esame testimoniale, cfr. P.
Renon, La rinnovazione dell’istruzione dibattimentale a seguito di mutamento del giudice nel prisma della giurisprudenza costituzionale, in
Giur. cost., IV, 2011, p. 3333; G. Fanulli-A. Laurino, In quali casi è possibile dare lettura dei verbali di prove assunte dal collegio in diversa composizione?, in Riv. pen., 1999, p. 419.
25
Cfr. C. cost., ord. 11 dicembre 2001, n. 399, in Dir. pen. proc., 2001, 12, p. 1500.
26
C. cost., ord. 10 giugno 2010, n. 205, cit., che ha evidenziato come, anche ad avviso della Corte e.d.u. ogni mutamento di
composizione dell’organo giudicante deve comportare, di norma, una nuova audizione del testimone le cui dichiarazioni possano apparire determinanti per l’esito del processo. La Consulta tiene conto dell’interpretazione data all’art. 6 Cedu dalla Corte
europea dei diritti dell’uomo, cfr. sent. 9 luglio 2002, P.K. c. Finlandia, che sancisce il diritto alla rinnovazione dell’esame testimoniale dinanzi al nuovo giudice.
27
Cfr. F. Rigo, La sentenza, in Trattato di procedura penale, cit., p. 556.
28
Cfr. C. Fiorio, La prova nuova nel processo penale, Padova, 2008, p. 43; P. Renon, Mutamento del giudice penale e rinnovazione del
dibattimento, cit., p. 109.
29
Cfr. C. cost., sent. 3 febbraio 1994, n. 17 in Cass. pen., 1994, p. 1172, in particolare la Consulta ha affermato che «l’obbligo di
rinnovazione del dibattimento nel caso di mutamento del giudice persona fisica, non rende inutilizzabile – come erroneamente
ritenuto dal giudice rimettente – l’attività probatoria già eventualmente compiuta».
30
Ex multis cfr. Cass., sez. I, 18 marzo 1994, n. 1317, in Giust. pen., 1994, III, p. 297; Cass., sez. I, 8 agosto 1995, n. 9292, in CED
Cass., n. 202416; Cass., sez. I, 23 novembre 1995, n. 12779, in CED Cass. n. 203141; Cass., sez. IV, 8 maggio 1996, n. 8411, in Cass.
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sostituito era subordinata alla preventiva nuova escussione della fonte dichiarativa; pertanto la rinnovazione dell’istruttoria (con particolare riferimento alla prova orale) era una attività necessaria ed il
giudice a fronte della richiesta di parte era tenuto a disporla.
Un contrapposto orientamento sosteneva, invece, che la nuova escussione poteva essere sostituita
dalla lettura delle dichiarazioni precedentemente rese dinanzi al giudice poi sostituito, atteso che non vi
era alcuna esplicita indicazione legislativa che imponeva al giudice di disporre una nuova escussione
della fonte di prova dichiarativa 31.
Le Sezioni Unite, pronunciandosi sul contrasto poc’anzi indicato, hanno delineato con chiarezza le
modalità di rinnovazione della prova dichiarativa e, ritenendo applicabile l’art. 511, comma 2, c.p.p.,
hanno affermato che «nel caso di rinnovazione del dibattimento a causa del mutamento della persona
del giudice monocratico o della composizione del giudice collegiale, la testimonianza raccolta dal primo giudice non è utilizzabile per la decisione mediante semplice lettura, senza ripetere l’esame del dichiarante, quando questo possa avere luogo e sia stato richiesto da una delle parti» 32.
È stato, dunque, precisato che l’iter normativo che deve essere seguito per la nuova assunzione della
prova dichiarativa è quello delineato dall’art. 511, comma 2, c.p.p., il quale subordina la lettura dei verbali delle precedenti dichiarazioni rese dinanzi al giudice sostituito alla nuova escussione della fonte
dichiarativa.
Pertanto, il combinato disposto degli artt. 511, comma 2, c.p.p. e 525, comma 2, c.p.p. consente di individuare, per le dichiarazioni rese dinanzi al giudice poi mutato, un regime di utilizzabilità condizionata alla nuova escussione del dichiarante 33; da ciò consegue che la nuova escussione della fonte di
prova dichiarativa deve sempre precedere la lettura delle precedenti dichiarazioni e solo rispettando
tale iter procedurale è possibile evitare la patologia a regime assoluto comminata dall’art. 525, comma 2,
c.p.p. 34.
Ciononostante, la giurisprudenza di merito ha manifestato il proprio disagio ad attuare i principi
indicati dalle Sezioni Unite, tentando di eludere l’applicazione dell’art. 511, comma 2, c.p.p.; tant’è che
il Giudice delle leggi è stato più volte chiamato a pronunciarsi su questioni di legittimità costituzionale
degli artt. 511, comma 2, e 525, comma 2, c.p.p.
Tuttavia, sebbene tali questioni siano state diversamente prospettate, la risposta è stata inequivoca:
le disposizioni de qua, così come interpretate dalle Sezioni Unite, non sono in contrasto con la Carta
fondamentale 35. Peraltro la Corte costituzionale ha altresì evidenziato che nel disporre la rinnovazione
dell’istruttoria il giudice non può ritenere, ex art. 190 c.p.p., manifestamente superflua o irrilevante la
nuova assunzione della prova orale 36.
Malgrado tali autorevoli indicazioni, si sostiene ancora 37 che la lettura dei verbali delle precedenti
dichiarazioni è idonea a sostituire la rinnovazione della prova dichiarativa e, per tale motivo, il nuovo
giudice, nell’esercitare i poteri previsti dall’art. 190 c.p.p., può ritenere manifestamente superflua la richiesta di rinnovazione.
A rafforzare una prospettazione restrittiva, non sono mancati interventi della giurisprudenza di merito 38
pen., 1998, p. 605; Cass., sez. IV, 9 maggio 1996, n. 6500, in Cass. pen., 1997, p. 2190; Cass., sez. II, 8 luglio 1998, n. 9815, in Giust.
pen., 1999,III, p. 530.
31
Ex multis Cass., sez. III, 12 dicembre 1996, Musina, in Cass. pen., 1998, p. 1393; Cass., sez. VI, 13. marzo 1997, n. 5658, in
CED Cass., n. 209313; Cass., sez. V, 17 dicembre 1997, n. 2414, in Giust. pen., 1999, III, p. 119; Cass., sez. II, 19 giugno 1998, n.
9085, in CED Cass, 1998; Cass., sez. II, 1° luglio 1998, n. 10590, in CED Cass., 1998, n. 211658.
32
Cass., sez. un., 15 gennaio 1999, n. 2, cit.
33
Cfr. F. Rigo, La sentenza, in Trattato di procedura penale, cit., p. 549.
34
Recentemente Cass., sez. II., 7 settembre 2015, n. 36012, nel ribadire la natura assoluta di tale nullità ha altresì precisato
che tale invalidità, verificatasi in primo grado, non può essere sanata attraverso la rinnovazione dell’istruttoria in appello.
35
Ex multis C. cost., ord. 11 dicembre 2001, n. 399, in Dir. pen. proc., 2001, 12, p. 1500; C. cost., ord. 21 dicembre 2001, n. 431,
in Giur. cost., 2001, p. 4039; C. cost., ord. 15 marzo 2002, n. 59, in Giur. cost., 2002, p. 655.
36
C. cost., ord. 11 dicembre 2001, n. 399, cit.
37
G. Castiglia, Il principio di immediatezza e la rinnovazione del dibattimento per mutamento del giudice, in Cass. pen., 2007, 9, p.
3196, e D. Potetti, Corte Costituzionale e Sezioni Unite in tema di mutamento della persona del giudice e rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, in Cass. pen., 2003, p. 806.
38
In particolare, cfr. Tribunale di Nola, ord. 30 settembre 2009, cit., secondo la quale «… l’inciso a meno che l’esame non abbia luogo non può non riferirsi pure al caso in cui tale esame manchi perché il giudice l’abbia ritenuto inutile».
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che evidenziano come tra i casi in cui «l’esame non abbia luogo», previsti dall’art. 511, comma 2, c.p.p.,
debba rientrare anche l’ipotesi in cui il giudice abbia rigettato la richiesta di una delle parti di un nuovo
esame. S’intuisce che tale esegesi aggiri i principi riconosciuti dalle Sezioni Unite e dalla Corte costituzionale, attribuendo al giudice un potere discrezionale, pressoché illimitato, alla cui applicazione consegue un’elusione del principio di immediatezza.
Il tentativo di ostacolare l’attuazione dei principi statuiti dalle Sezioni Unite crea una pericolosa deroga all’immutabilità del giudice sancita dall’art. 525, comma 2, c.p.p., che non è assolutamente contemplata dal codice di rito.
Ma, sul punto – nonostante i legami dell’immediatezza con la Carta Costituzionale – è stato evidenziato che non vi è alcun ostacolo a concepire deroghe all’immutabilità essendone già contenute alcune nel
contesto del codice di procedura penale 39. Naturalmente, tale argomento non è convincente in quanto le
uniche deroghe – ammesse dal legislatore in forza di un bilanciamento di interessi – sono quelle individuate in modo esplicito; la creazione di deroghe praeter legem rappresenta il tipico tentativo di infrangere,
prima di tutto, il valore della legalità, pietra angolare del giusto processo. Del resto, ragionando diversamente il contraddittorio per la prova sancito dall’art. 111, comma 4, Cost., rischierebbe di «essere travolto
da “eccezioni”» che non trovano «valida giustificazione epistemologica» ne appaiono «finalizzate alla tutela di valori almeno pari a quelli sottesi alla scelta di fondo del metodo dialettico» 40.
L’esigenza secondo cui solo il legislatore può influire sull’an e sul quomodo relativi al principio
d’immediatezza è stata sottolineata dal Giudice delle leggi 41, laddove ha affermato che il diritto all’assunzione della prova davanti al giudice chiamato a decidere – garantito dall’art. 111, comma 3, Cost. 42 –
è un diritto sicuramente non assoluto ma “modulabile” (entro limiti di ragionevolezza) dal legislatore,
stante la sua appartenenza ad «uno degli aspetti essenziali del modello processuale accusatorio, espresso dal vigente codice di rito» 43.
Sembra, allora, chiaro che la rinnovazione del dibattimento a seguito del mutamento del giudice è
un atto dovuto e la relativa richiesta non costituisce esercizio pretestuoso di un diritto, ma rappresenta
l’impulso ad attuare una garanzia oggettiva affinché avvenga il contatto diretto tra il giudice e la prova.
LA DEROGA ALL’IMMEDIATEZZA PREVISTA DALL’ART. 190-BIS C.P.P., PROFILI CRITICI.
Alla luce della evoluzione giurisprudenziale, che ha evidenziato l’importanza dell’immediatezza nel
processo penale 44, è fondamentale valutare l’opportunità (e la legittimità) delle scelte legislative che
hanno introdotto deroghe al principio.
Il riferimento è alla possibilità, prevista dall’art. 190 bis c.p.p. di rinnovare il dibattimento mediante lettura dei verbali delle precedenti dichiarazioni omettendo la nuova assunzione della prova dichiarativa.
L’art. 190 bis c.p.p 45, com’è noto, prevede che per i procedimenti per i delitti ivi richiamati, l’esame
testimoniale o di una delle persone indicate nell’art. 210 c.p.p. – relativo a fonti già escusse nel contraddittorio delle parti – è ammesso «solo se riguarda fatti o circostanze diversi da quelli oggetto delle pre-
39
Cfr. in dottrina E. Aghina, Gli effetti del mutamento dell’organo giudicante tra rigidità processuali e carenze organizzative, cit., p.
95, secondo l’Autore il principio di immutabilità del giudice è un «semplice metodo di assunzione della prova, non rafforzato
da alcuna copertura costituzionale, anche perché oggetto di numerose deroghe nel codice di rito (vedi ad. es. gli artt. 26, 33 nonies, 238, 238 bis, 403, 431 c.p.p.)».
40
Così O. Mazza, voce Contraddittorio (principio del), cit., p. 273.
41
Cfr. C. cost., ord. 10 giugno 2010, n. 205, cit.
42
La Consulta tiene conto dell’interpretazione data all’art. 6 Cedu dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, sent. 9 luglio
2002, P.K. c. Finlandia, che sancisce il diritto alla rinnovazione dell’esame testimoniale dinanzi al nuovo giudice. Peraltro, non
va sottaciuto che la stessa corte Corte e.d.u., sez. III, 5 luglio 2011, Dan c. Moldavia, ha affermato che il giudice di appello è tenuto ha rinnovare l’esame della prova dichiarativa al fine di poter valutare la credibilità del dichiarante, ebbene se tale considerazione è valida nel giudizio di appello ancor più meritevole di apprezzamento è nel giudizio di primo grado.
43
Cfr. C. cost., ord. 10 giugno 2010, n. 205, cit.
44
Cfr. C. cost., ord. 10 giugno 2010, n. 205, cit.; Cass., sez. un., 15 gennaio 1999, n. 2, cit.; Cass., sez. V, 7 maggio 2013, n.
28645, cit.; Cass., sez. III, 29 novembre 2012, n. 5854, cit.; Corte e.d.u., 5 luglio 2011, Dan c. Moldavia, cit.
45
Articolo aggiunto con d.l. 8 giugno 1992, n. 306, in tema di criminalità mafiosa, convertito, con modificazioni, nella l. 7
agosto 1992, n. 356 e successivamente modificato con l. 1° marzo 2001 n. 63, sul giusto processo.
ANALISI E PROSPETTIVE | MUTAMENTO DEL GIUDICE E NUOVA ISTRUTTORIA: NOTE SULL'INVOLUZIONE INTERPRETATIVA
Processo penale e giustizia n. 1 | 2016
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cedenti dichiarazioni ovvero se il giudice o taluna delle parti lo ritengano necessario sulla base di specifiche esigenze».
La Corte di cassazione 46, qualificando l’art. 190 bis c.p.p. quale norma estensibile in via interpretativa, ha ritenuto applicabile tale disciplina anche nell’ipotesi in cui, nell’ambito dei procedimenti per reati indicati dalla suddetta disciplina, si deve rinnovare il dibattimento per sopravvenuto mutamento del
giudice, ritenendo superflua la nuova acquisizione della prova dichiarativa che può essere sostituita
dalla lettura delle dichiarazioni rese dinanzi al giudice poi sostituito.
Tuttavia, premesso che qualificare l’art. 190 bis c.p.p. quale regola applicabile anche fuori dalla fattispecie prevista appare una scelta non condivisibile – attesa l’evidente limitazione alla regola generale di
ammissibilità della prova (art. 190 c.p.p.) e al principio di immediatezza 47 – “a monte” non vanno rimossi i dubbi di legittimità costituzionale della disciplina.
Sul punto, occorre ricordare come l’art. 190 bis c.p.p. si inserisca nell’ambito della legislazione di
emergenza in tema di criminalità organizzata e come la ratio di tale intervento normativo fosse quella di
tutelare «l’efficienza del processo» 48 nei delitti di mafia. Allo stato, per quanto la previsione originaria
abbia subito delle modifiche dirette a renderla più vicina alle regole fondamentali, la realizzazione dei
suddetti obiettivi deve essere ancora rimeditata con i diritti e le garanzie del giusto processo ed in particolare con quanto affermato dall’art. 111, commi 2, 3 e 4, Cost.; è difficile digerire l’idea che esistano
taluni procedimenti in cui si alterano le regole del procedimento gnoseologico delineato in via generale
dal codice di rito penale per la formazione della prova.
La deroga al principio di immediatezza prevista dall’art. 190 bis c.p.p., sembra peraltro in contrasto
con gli insegnamenti del Giudice delle leggi 49. La rilevanza costituzionale del principio di immediatezza impone di valutare la conformità dell’art. 190-bis c.p.p. con l’art. 111, comma 3, Cost., e in particolare,
se la deroga all’immediatezza ivi prevista è ragionevole o lo è per tutti i procedimenti indicati dalla
previsione.
Nonostante le perplessità, la giurisprudenza 50 ha da sempre dichiarato manifestamente infondate le
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 190-bis c.p.p., e la giurisprudenza di merito 51 si è adagiata in modo acritico su tale orientamento, impedendo in tal modo al Giudice delle leggi di valutare la
questione.
A tal riguardo, va evidenziato che la Corte di cassazione, nel ritenere manifestamente infondate le
questioni di legittimità costituzionale, ha ritenuto che la disciplina prevista dall’art. 190 bis c.p.p. è volta
a prevenire «l’usura delle fonti di prova» 52 ed il pericolo di intimidazione dalla fonte di prova 53. Ma siffatte considerazioni, pur meritevoli di attenzione, non risultano diretta espressione di principi costituzionali e, in ogni caso, non sembrano idonee a giustificare un giudizio di manifesta infondatezza della
questione proposta.
Nè, tanto meno, appare lecito sostenere che la deroga contenuta nell’art. 190-bis c.p.p trova una propria logica nel fatto che i procedimenti ai quali si applica riguardano, appunto, una certa categoria di
reati (decisamente più gravi ed allarmanti) che vede imputati anche soggetti di più elevato spessore
criminale; la qual cosa determinerebbe una maggiore difficoltà di acquisire nuovamente la prova nel
contraddittorio dibattimentale. Ritenere ragionevole la deroga prevista dall’art. 190-bis c.p.p. sulla base
della gravità del reato o del “più elevato spessore criminale” dell’imputato, è un ragionamento lesivo
della presunzione di innocenza riconosciuto dall’art. 27, comma 2, c.p.p.
Il sistema processuale penale necessita di regole comuni ad ogni tipologia di reato e l’introduzione
di sottosistemi come quello contemplato dall’art. 190-bis c.p.p. è una operazione che menoma il diritto
46
Cass., sez VI, 20 aprile 2005, n. 6221, in CED. Cass., n. 233087.
47
Sul punto cfr. F. R. Dinacci, L’art. 190-bis c.p.p.: «controriforma» del diritto probatorio, cit.
48
A. Bargi, La ragionevole durata del processo tra efficienza e garanzia, in F.R. Dinacci (a cura di), Processo penale e Costituzione,
Milano, 2010, p. 470.
49
Cfr. C. cost., ord. 10 giugno 2010, n. 205, cit.
50
Cfr. Cass., sez. VI, 9 maggio 2003, n. 26119, in Cass. pen., 2005, p. 906; Cass., sez. I, 12 giugno 2001, n. 29826, in Cass. pen.,
2002, p. 3502. Da ultimo, Cass., sez. III, 11 luglio 2014, n. 30579.
51
Cfr. Trib. Paola, ord.15 luglio 2014, inedito.
52
Cfr. Cass., sez. VI, 9 maggio 2003, n. 26119, cit.
53
Cfr. Cass., sez. I, 12 giugno 2001, n. 29826, cit.
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Processo penale e giustizia n. 1 | 2016
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alla prova in relazione all’autore-imputato 54. In una prospettiva de iure condendo, deve essere rimeditata
la necessità di mantenere in vita o comunque limitare l’ambito di operatività dell’art. 190-bis c.p.p., disposizione che risponde esclusivamente a logiche emergenziali. De iure condito è auspicabile che «l’istinto di conservazione della norma» 55 manifestato dalla giurisprudenza ceda il passo al vaglio della Corte
costituzionale, la quale, confrontandosi con i propri precedenti e, in particolare, con il diritto all’assunzione della prova dinanzi al giudice che decide, potrebbe ridisegnare gli ambiti operativi dell’art. 190bis c.p.p.
54
Cfr. P. Ferrua, Carenze ed eccessi di garanzia nel diritto di difesa dell’imputato, cit., l’Autore evidenzia che «se vi è un terreno sul
quale non si giustifica un regime differenziato e più severo in funzione della gravità del reato, è quello del diritto alla prova».
55
Così, F.R. Dinacci., L’art. 190-bis c.p.p.: «controriforma» del diritto probatorio, cit.
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Processo penale e giustizia n. 1 | 2016
158
Indici | Index
AUTORI / AUTHORS
Teresa Alesci
Sezioni Unite
28
Enrico Mario Ambrosetti
La sentenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea in tema di disapplicazione dei termini di
prescrizione: medioevo prossimo venturo? / The judgment of the Court of Justice of the European Union
(CJEU) concerning the disapplication of rules limiting the interruption of the prescription periods: in the
years to come Middle Ages is to be expected?
44
Lorenzo Belvini
Mutamento del giudice e nuova istruttoria: note sull’involuzione interpretativa / Change of the judge
and new inquiriy: note on the interpretative involution
150
Federica Casasole
L’avvertimento ex art. 64, comma 3, lett. c) c.p.p. è conditio sine qua non per assumere l’ufficio di testimone nell’esame dibattimentale ex art. 210, comma 6, c.p.p.: sono inutilizzabili le dichiarazioni
acquisite in sua assenza / The warning extablished in the art. 64, paragraph 3, lett. c) of the criminal procedure code is conditio sine qua non to became witness in the criminal trial: is unusable the deposition obtained ex art. 210, paragraph 6, of the criminal procedure code without this warning
68
Elena Maria Catalano
Prassi devianti e prassi virtuose in materia di intercettazioni / Rethinking wiretapping practice
1
Marilena Colamussi
De jure condendo
13
Andrea Conti
Novità sovranazionali / Supranational news
10
Paola Corvi
Decisioni in contrasto
31
Francesca Delvecchio
Corte costituzionale
24
Jacopo Della Torre
Per la Suprema corte l’indisponibilità del “braccialetto elettronico” comporta l’applicazione
degli arresti domiciliari “semplici”: una discutibile lettura dell’art. 275-bis c.p.p. / For the Supreme Court the unavailability of “electronic bracelet” determines the application of “simple” house arrest: a questionable reading of Article 275-bis c.p.p.
80
Maria Monteleone-Vera Cuzzocrea
Le dichiarazioni delle vittime vulnerabili nei procedimenti penali / The collection of statements
of vulnerable victims in criminal proceedings
93
Francesco Trapella
Corti europee / European Courts
Il patteggiamento nei giudizi per reati corruttivi / The plea bargaining in trials for corruptive crimes
18
125
INDICI
Processo penale e giustizia n. 1 | 2016
159
Nicola Triggiani
Poteri del giudice e controlli nella messa alla prova degli adulti / Powers granted to judges and
appeals in probation for adults
137
Francesco Vitale
La legge “Pinto”: profili critici tra diritto intertemporale e disciplina a regime dopo la l. n. 134
del 2012 / "Pinto" Act: critical profiles between intertemporal law and current discipline after the Act
n. 134 of 2012
110
PROVVEDIMENTI / MEASURES
Corte costituzionale
C. cost., ord. 5 novembre 2015, n. 225
C. cost., sent. 26 novembre 2015, n. 240
25
24
Corte di Cassazione – Sezioni Unite penali
sentenza 29 luglio 2015, n. 33583
sentenza 27 ottobre 2015, n. 43264
sentenza 25 novembre 2015, n. 46653
52
28
29
Corte di Cassazione – Sezioni semplici
Sezione I, sentenza 10 settembre 2015, n. 39529
76
Decisioni in contrasto
Sezione III, ord. 28 settembre 2015, n. 39188
31
Corte europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali
Corte e.d.u., 24 settembre 2015, Paolello c. Italia
Corte e.d.u., 15 ottobre, Perinçek c. Svizzera
Corte e.d.u., 20 ottobre 2015, Dvorski c. Croazia
20
22
21
Corte di giustizia dell’Unione Europea
sentenza 8 settembre 2015, Taricco, causa C-105/14
sentenza 15 ottobre 2015, causa C-216/14 Covaci
34
18
Atti sovranazionali
Legge 24 settembre 2015, n. 161 di ratifica ed esecuzione del «Trattato di estradizione tra la
Repubblica italiana e la Repubblica popolare cinese – Roma 7 ottobre 2010»
10
De jure condendo
Disegno di legge C. 3365 «Disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità
di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato»
Disegno di legge C. 3243 «Istituzione del patrocinio a spese dello Stato per le persone disabili»
13
15
MATERIE / TOPICS
Applicazione della pena su richiesta delle parti
 I limiti al patteggiamento nei reati tributari all’indomani del d.lgs. n. 158 del 2015 (C. cost.,
ord. 5 novembre 2015, n. 225)
INDICI
25
Processo penale e giustizia n. 1 | 2016
160
 Il patteggiamento nei giudizi per reati corruttivi/The plea bargaining in trials for corruptive
crimes, di Francesco Trapella
125
Atti
 Diritto all’informazione nei giudizi penali e lingua degli atti (C. giust. UE, 15 ottobre 2015,
causa C-216/14, Covaci)
18
Cooperazione giudiziaria internazionale
 Il Trattato di estradizione tra Italia e Cina (Legge 24 settembre 2015, n. 161 di ratifica ed esecuzione del «Trattato di estradizione tra la Repubblica italiana e la Repubblica popolare cinese – Roma
7 ottobre 2010»)
10
Dibattimento
– esame
 Sono inutilizzabili le dichiarazioni acquisite ai sensi dell’art. 210, comma 6, c.p.p. in assenza
dell’avvertimento previsto dall’art. 64, comma 3, lett. c) c.p.p. (Cass., sez. Un., 29 luglio 2015,
n. 33583), con nota di Federica Casasole
52
– giusto processo
 Mutamento del giudice e nuova istruttoria: note sull’involuzione interpretativa / Change of
the judge and new inquiriy: note on the interpretative involution, di Lorenzo Belvini
150
Difesa e difensori
 Diritto all’assistenza di un difensore di fiducia (Corte e.d.u., 20 ottobre 2015, Dvorski c. Croazia)
 L’avviso all’indagato della facoltà di farsi assistere da un difensore è dovuto anche in caso
di sequestro preventivo disposto su iniziativa della polizia giudiziaria? (Cass., sez. III, ord.
28 settembre 2015, n. 39188)
Diritti fondamentali (tutela dei)
 “Carcere duro” e divieto di trattamenti inumani e degradanti (Corte e.d.u., 24 settembre 2015,
Paolello c. Italia)
 Libertà di espressione e negazionismo di crimini genocidiari (Corte e.d.u., 15 ottobre 2015,
Perinçek c. Svizzera)
21
31
20
22
Giudice di pace
– particolare tenuità del fatto
 La mancata comparizione della persona offesa nel processo innanzi al giudice di pace non
impedisce la dichiarazione di improcedibilità dell’azione penale per particolare tenuità del
fatto (Cass., sez. un., 27 ottobre 2015, n. 43264)
28
Intercettazioni di comunicazioni
 Prassi devianti e prassi virtuose in materia di intercettazioni / Rethinking wiretapping practice, di Elena Maria Catalano
1
Legalità (principio di)
 La tutela degli autori di segnalazioni di reato o irregolarità appresi in ambito lavorativo
(Disegno di legge C. 3365 «Disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato»)
13
Messa alla prova
 La Consulta sui “tempi” della messa alla prova: nessun’eccezione al tempus regit actum (C.
cost., sent. 26 novembre 2015, n. 240)
24
INDICI
Processo penale e giustizia n. 1 | 2016
161
 Poteri del giudice e controlli nella messa alla prova degli adulti/Powers granted to judges and
appeals in probation for adults, di Nicola Triggiani
137
Misure cautelari personali
– arresti domiciliari
 Sulle conseguenze dell’impossibilità di applicare il “braccialetto elettronico” per una carenza organizzativa dell’ordinamento (Cass., sez. I, 10 settembre 2015, n. 39529), con nota di Jacopo Della Torre
76
Misure cautelari reali
– sequestro preventivo
 L’avviso all’indagato della facoltà di farsi assistere da un difensore è dovuto anche in caso
di sequestro preventivo disposto su iniziativa della polizia giudiziaria? (Cass., sez. III, ord.
28 settembre 2015, n. 39188)
31
Ordinamento penitenziario
 La legge sopravvenuta modificativa del trattamento sanzionatorio è applicabile d’ufficio in
sede di legittimità anche in caso di ricorso inammissibile (Cass., sez. un., 25 novembre 2015, n.
46653)
29
Patrocinio a spese dello Stato
 Istituzione del patrocinio a spese dello Stato per le persone disabili («Istituzione del patrocinio a spese dello Stato per le persone disabili»)
15
Persona offesa
 La mancata comparizione della persona offesa nel processo innanzi al giudice di pace non
impedisce la dichiarazione di improcedibilità dell’azione penale per particolare tenuità del
fatto (Cass., sez. un., 27 ottobre 2015, n. 43264)
 Le dichiarazioni delle vittime vulnerabili nei procedimenti penali / The collection of statements of vulnerable victims in criminal proceedings, di Maria Monteleone e Vera Cuzzocrea
93
Prescrizione
 Reati lesivi di interessi finanziari dell’UE e disciplina della prescrizione (C. giust. UE, 8 settembre 2015 – Taricco, causa C-105/14), con nota di Enrico Mario Ambrosetti
34
28
Processo
– durata
 La legge “Pinto”: profili critici tra diritto intertemporale e disciplina a regime dopo la l. n.
134 del 2012 / "Pinto" Act: critical profiles between intertemporal law and current discipline after
the Act n. 134 of 2012, di Francesco Vitale
110
Prova
 Le dichiarazioni delle vittime vulnerabili nei procedimenti penali / The collection of statements of vulnerable victims in criminal proceedings, di Maria Monteleone e Vera Cuzzocrea
93
Ricorso per cassazione
 La legge sopravvenuta modificativa del trattamento sanzionatorio è applicabile d’ufficio in
sede di legittimità anche in caso di ricorso inammissibile (Cass., sez. un., 25 novembre 2015, n.
46653)
29
INDICI