unità V L’età di Calvino e Filippo II Riferimenti storiografici 1 Nel riquadro il dipinto di Pieter Bruegel ilVecchio intitolato Nozze contadine (Vienna, Kunsthistorisches Museum): si notano in primo piano i piatti a base di cereali, ampiamente coltivati in questo periodo. Sommario 1 2 3 Povertà e vagabondaggio nel Cinquecento L’arte al servizio della fede nel cattolicesimo del Cinquecento Le croniche difficoltà economiche dei re di Spagna F.M. Feltri, Chiaroscuro – Nuova edizione © SEI, 2012 4 5 6 Verso Lepanto L’attacco contro l’Inghilterra: gli obiettivi di Filippo II La posizione politica di Jean Bodin 1 Povertà e vagabondaggio nel Cinquecento UNITÀ V Nella seconda metà del Cinquecento si ebbe un notevole aumento del pauperismo e della mendicità. Per fronteggiare questo problema sociale, i principali stati d’Europa decisero di non affidare più ai privati il compito di assistere i bisognosi, ma di assumersi tale incarico direttamente, nel tentativo di distinguere i veri poveri dagli imbroglioni. L’ETÀ DI CALVINO E FILIPPO II 2 Nessun altro secolo è stato tanto consapevole del problema della povertà come il Cinquecento, in cui tutti gli osservatori concordavano nell’affermare che il numero dei poveri e le difficoltà da essi create non erano mai stati così grandi. Nel 1587 Sisto V deplorava in una bolla il comportamento dei vagabondi («Riempiono di lamenti e di grida non solo i luoghi pubblici e le case private, ma perfino le chiese; fanno nascere timori e incidenti; vanno in giro come animali selvatici, senz’altra cura che la ricerca di cibo»); Juan Luis Vives biasimava i mendicanti che invadevano le chiese mentre i fedeli erano in preghiera («Si fanno largo tra la gente riunita, sfigurati dalle piaghe, emanando un lezzo insopportabile»); secondo il cronista Pierre de l’Estoile, nel 1596 a Parigi «la folla dei poveri nelle strade era così fitta da impedire il passaggio». In molte città dell’Europa occidentale almeno un quinto della popolazione era formato da indigenti. Nel 1551 il 17 per cento della popolazione di Troyes era inclusa nella categoria dei mendicanti e vagabondi, che però non comprendeva i bisognosi domiciliati stabilmente nella città; negli stessi anni a Lovanio i poveri erano il 21,7 per cento, a Leida circa il 40 per cento e a Bruxelles il 21 per cento. A Segovia nel 1561 era classificato così un sesto della popolazione, senza contare i vagabondi; a Bergamo nel 1575 su 20000 abitanti i poveri erano il 35 per cento, ma in questa categoria erano compresi solo «i vecchi, i malati e i minori di 15 anni» a Exeter e a Leicester al tempo di Elisabetta metà della popolazione viveva al di sotto della «linea della povertà». La miseria era dunque una caratteristica innegabile delle città, dove i disoccupati abbondavano; ma sarebbe errato considerarla come un fenomeno esclusivamente urbano, e molti poveri erano originari delle campagne. [...] I poveri senza fissa dimora furono sempre guardati con sospetto e apprensione, anche quando non erano così numerosi come a Troyes nel 1551. Essi affluivano nelle città in cerca soprattutto di lavoro, di ricovero e di assistenza: in un documento del 1569 si affermava che la beneficenza aveva attirato a Londra «un gran numero di vagabondi, furfanti, sbandati e oziosi, oltre che di poveri, storpi e malati». Ben presto si cominciò a pensare che non fosse opportuno prestare a tutti i bisognosi un aiuto indiscriminato. I vagabondi erano malvisti sia perché oziosi, sia perché rappresentavano una minaccia per l’ordine sociale: erano gente senza radici e senza occupazione, estranei alla comunità che li ospitava, in una parola erano «diversi». Nel 1582 un magistrato del Kent, William Lambard, si scagliava contro «i vagabondi e i mendicanti senza fissa dimora che infettano e corrompono il mondo coi loro furti, l’ubriachezza, la prostituzione, la procreazione di [figli – n.d.r.] illegittimi, gli omicidi e infiniti altri misfatti». Naturalmente molti di questi vagabondi cercavano solo di procurarsi da vivere. L’emigrazione di mera sussistenza, in aumento nel XVI secolo, era strettamente connessa col ciclo agrario: testimonianze relative all’Inghilterra degli anni dopo il 1570 mostrano che la mobilità era massima al termine della mietitura (agosto-settembre) e al tempo della semina (marzo-aprile). A differenza dei tradizionali migranti stagionali, che si trasferivano d’estate nelle zone di mietitura, ma tornavano in autunno ai loro villaggi, i nuovi migranti erano spesso degli sradicati, come quel Nicholas Lawrence, nativo dell’isola di Thanet, che dichiarò di essere «un povero bracciante, che oggi vive in un luogo e domani in un altro». [...] Le leggi, in base al presupposto che i disoccupati fossero tali per volontà propria, li trattavano duramente, come si può vedere da un decreto emanato nel 1544 nei Paesi Bassi, in cui si ordinava che fossero mandati alle galere «tutti i briganti e i vagabondi che non fanno altro che angariare la povera gente, andando di villaggio in villaggio e da una fattoria all’altra a chiedere l’elemosina, spesso con minacce, e passando la notte in taverne, fienili e luoghi simili; la loro miseria non deriva dai mali della guerra o da altre cause legittime, ma soltanto dal loro carattere riottoso e dalla loro indolenza, nel senso che non hanno nessuna voglia di guadagnarsi la vita lavorando». H. KAMEN, L’Europa dal 1500 al 1700, trad. di G. SCATTONE, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 179-182 Quale giudizio esprimevano sui poveri, le persone di alto livello sociale, nel Cinquecento? In quali provvedimenti pratici si espresse la loro valutazione? F.M. Feltri, Chiaroscuro – Nuova edizione © SEI, 2012 Mentre il calvinismo rifiutava le immagini sacre, il cattolicesimo ne fece un uso sempre più marcato nei propri luoghi di culto, concependo l’arte come uno strumento capace di affascinare i fedeli e di tenerli legati alla Chiesa di Roma. [Grazie ai nuovi ordini religiosi sorti nel Cinquecento], la Chiesa si salvò, e poté guidare da Roma una delle più straordinarie rivoluzioni dall’alto che la storia conosca. Diresse la battaglia in modo riflessivo. La civiltà che essa propagò – poco importa il nome – fu una civiltà di combattimento, e la sua arte un mezzo, un mezzo in più. Si tratta, in realtà, d’un’arte che appartiene alla propaganda. In certo qual modo, con i suoi lati buoni e cattivi, è un’arte guidata dall’alto. A Rubens come a Caracciolo, al Domenichino come a Ribera o a Zurbarán o a Murillo, dei religiosi accorti, dei teologi chiesero l’esecuzione di quadri da essi composti in spirito; salvo poi a rifiutarli, se l’esecuzione sembrasse loro difettosa. Contro il protestantesimo, nemico dei templi sontuosi e delle immagini, la Chiesa volle coscientemente costruire le più belle case di Dio sulla terra, immagini di Paradiso, lembi di cielo. L’arte è un mezzo potente per combattere e istruire. Un mezzo per affermare, mediante la potenza dell’immagine, la santità immacolata della madre di Dio, il valore efficace dei santi, la realtà possente dell’eucarestia, il primato di San Pietro, un mezzo per trarre argomento dalle visioni e dalle estasi dei santi. Pazientemente esaminati, pazientemente insegnati, temi iconografici identici circolano così in tutta l’Europa. Se il barocco forza la nota, se ha il gusto della morte, della sofferenza, dei martiri presentati con un realismo senza debolezze, se sembra abbandonarsi al pessimismo, al desengano spagnolo del secolo XVII, ciò dipende dal fatto che esso vuole e deve provare, che ricerca il particolare drammatico che colpisce e fa effetto. È un’arte ad uso dei fedeli, che si vuol convincere e trascinare, ai quali si vuole insegnare con l’azione una sorta di verismo, l’esattezza di tanti dogmi contestati: quelli del Purgatorio o dell’Immacolata concezione. Arte teatrale e consapevolmente teatrale: il teatro non servì forse d’arma da guerra ai gesuiti, specialmente nella conquista della Germania, in un tempo, aggiungiamolo, in cui esso aveva dappertutto i suoi diritti, le sue compagnie ambulanti, ben presto le sue scene fisse? F. BRAUDEL, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, trad. di C. PISCHEDDA, Einaudi, Torino 1976, pp. 881-882 Con quali finalità venne usata l’arte dalla Chiesa cattolica, nel Cinquecento e nel Seicento? Che cosa significa l’affermazione secondo cui «L’arte è un mezzo potente per combattere e istruire»? Spiega che cosa significa la seguente affermazione: «Il barocco (...) è un’arte ad uso dei fedeli (...) Arte teatrale e consapevolmente teatrale». F.M. Feltri, Chiaroscuro – Nuova edizione © SEI, 2012 UNITÀ V L’arte al servizio della fede nel cattolicesimo del Cinquecento 3 RIFERIMENTI STORIOGRAFICI 2 3 Le croniche difficoltà economiche dei re di Spagna UNITÀ V Artiglieria, fanteria e flotte da guerra erano costosissime: i re di Spagna, che dovevano combattere su diversi fronti contemporaneamente, si trovarono costantemente in gravissime condizioni economiche; furono costretti a indebitarsi con i finanzieri tedeschi o genovesi e infine, a più riprese, dichiararono bancarotta. L’ETÀ DI CALVINO E FILIPPO II 4 Rotta, da parte francese, sulla frontiera delle Fiandre, la tregua di Vaucelles la notte dell’Epifania, nel gennaio 1557 Filippo II decide di radunare un grande esercito per attaccare a fondo il nemico e penetrare in Francia nell’estate: che sarà, di fatto, l’estate di San Quintino [= guidato dal duca di Savoia Emanuele Filiberto, l’esercito spagnolo riportò una grande vittoria, dopo la quale i due contendenti stipularono la pace di Cateau-Cambrésis – n.d.r.]. Ma a raccoglier truppe – mercenari spagnoli, tedeschi, italiani – occorron molti soldi; e di soldi il trentenne re di Spagna non ne ha. Unica risorsa, tesoro sembra sicuro, l’oro e l’argento giunti a Siviglia il 3 e il 4 ottobre 1556 da Tierra Firme e dalla Nuova Spagna: e vale a dire da Panama, Venezuela, Colombia e dal Messico: più di cinque milioni di ducati, si ritiene, depositati nella Casa de Contratacion di Siviglia. Una gran parte, certo, non spetta alla Corona, sì [= bensì – n.d.r.] a mercanti, a passeggeri tornati dall’America su quelle stesse navi che han recato i cassoni pieni d’oro e d’argento, in lingotti e in verghe, persino a «defunti», e quindi ai loro eredi in Spagna. Ma già Carlo V ha contratto l’abitudine – non apprezzata da nessuno – di prelevare, quando ne abbia bisogno, anche la parte de’ mercanti e de’ passeggeri, accordando loro in compenso juros, al 5 o al 7% generalmente, quelli che oggi chiameremmo titoli di rendita pubblica (ed era assai magro rifacimento): e Filippo ha dato ordine che, anche questa volta, né pur un lingotto esca dalla Casa de Contratacion. Così, meditando il suo gran piano, spedisce in Spagna il suo favorito, Ruy Gomez de Silva, conte di Melito, che deve premere in loco per l’immediato invio di grosse somme, in Fiandra e pur [= anche – n.d.r.] in Italia, dove la situazione appare inquietante e non si sa che possono combinare papa Paolo IV, i Francesi e quei pochi Italiani irriducibilmente nemici a Spagna. Senza il minimo indugio, occorrono 1650000 ducati per le Fiandre, 800000 ducati per l’Italia; e ancora altri 600000 ducati per le piazzeforti spagnole sulla costa nordafricana, La Goletta e Orano, e per la difesa della frontiera pirenaica: tutti, s’intende, da prelevare sul favoloso oro di Siviglia. Si deve fare uno sforzo supremo, «el ultimo esfuerço», e per sollecitarlo Filippo postilla di propria mano una lettera alla sorella Giovanna [= in quegli anni governatrice di Spagna – n.d.r.]. Ma a Siviglia non vi sono più non diciamo i cinque milioni vagheggiati a Bruxelles, sì nemmeno i poco più di due milioni risultanti dai computi del Consejo de Hazienda a Valladolid: vi si trovano, a disposizione del sovrano, soli 489000 ducati, un’inezia, una miseria di fronte alle spese che si preannunziano – nell’estate, la paga mensile dell’esercito di Fiandra ammonterà, da sola, a quasi 400000 scudi. Il resto è stato subito portato via dai mercanti e dai passeggeri, bene attenti a mettere al sicuro i preziosi lingotti. Fu un duro colpo per Filippo. Aveva accarezzato un grande progetto, tale da dargli gloria e onore [...]. Ed ecco, gli vengon meno d’improvviso i mezzi. «Niuna nuova [= Nessun’altra notizia – n.d.r.] – scrive alla sorella, – sarebbe potuta giungermi più angosciosa; è il peggior tradimento che mi si potesse fare, e coloro che ne sono responsabili hanno posto a rischio il mio onore e la mia reputazione, che è la cosa a cui più tengo, tanto più essendo questa la prima campagna che devo intraprendere.» Così lamentava il giovane re. Ma, da Yuste [= il monastero dopo si era ritirato dopo l’abdicazione del 1556 – n.d.r.], salì allora una voce ch’era ben altro che lamento: e fu quella di Carlo V. [...] In lui, Carlo, l’imprevista falla a Siviglia rivolgeva animo e pensieri a tante altre volte quando s’era trovato con «el agua en çima de la boca», ed era stato costretto a ricorrere agli espedienti più vari per mettere insieme un po’ di quattrini. Da quei lontani giorni tra fine febbraio e primi di marzo del ’25, quando già i suoi generali a Pavia avevano sconfitto e addirittura fatto prigioniero il rivale acerrimo, Francesco I re di Francia; ed egli, nulla sapendo del già avvenuto trionfo – la battaglia fu combattuta il 24 febbraio, e la notizia ne giunse a Madrid solo il 10 marzo, tant’era immenso allora il mondo e lento il contatto fra paesi anche d’un solo sovrano –, affidava a un breve scritto autobiografico, in francese, le sue preoccupazioni e il suo scontento. E nelle annotazioni balzava anzitutto in luce il bisogno di denaro: «Io mi trovo solo, i miei amici mi hanno piantato in asso, è quasi impossibile trovar denaro... e l’unico vero rimedio è ch’io sposi l’infanta di Portogallo, Isabella, al più presto, sì da ricavar dalla dote la maggior somma possibile di denaro in contanti». La «faute d’argent», la mancanza di denaro, è ritornello costante. [...] Ultimo, e più doloroso ricordo, nell’uomo Yuste che rivedeva il passato, l’anno della umiliazione, il 1552 [= Carlo V fu sconfitto dai principi protestanti tede- schi – n.d.r.]: anche allora, l’acqua alla gola per mancanza di denaro in un momento criticissimo; e il rifiuto di prestiti da parte dei banchieri troppo bene informati della situazione, consapevoli della miseria dell’imperatore, fors’anche d’accordo con i suoi nemici. Così che né ad Augusta né altrove il signore delle miniere d’oro e d’argento del Messico e del Perù trovava qualcuno che si lasciasse convincere ad accordar un prestito, per quanto buone fossero le condizioni offerte; e a Carlo V sola risorsa finanziaria un certo momento furono duecentomila scudi inviati dal viceré di Napoli. F. CHABOD, Carlo V e il suo impero, Einaudi, Torino 1985, pp. 555-557; 559-560 Individua i principali stratagemmi attuati dai re di Spagna, per fronteggiare le loro croniche difficoltà economiche. F.M. Feltri, Chiaroscuro – Nuova edizione © SEI, 2012 Lo storico Fernand Braudel ha definito la battaglia di Lepanto una “vittoria senza conseguenze”, poiché essa non segnò una vera svolta nei rapporti di forza tra cristianità e Islam. Il brano che segue illustra la complessità delle relazioni internazionali e delle pressioni che si contrapposero alla corte dei sultani nei decenni che precedettero la battaglia. Nel 1566 scomparve il grande Solimano. L’Occidente tirò un sospiro di sollievo; qua e là vi furono anche manifestazioni di gioia. Eppure, un velo di mestizia sembrò offuscare quel prevedibile giubilo. Era venuto meno uno dei protagonisti della storia del secolo, un uomo politico e un sovrano che aveva saputo affascinare anche l’Occidente: che continuamente aveva parlato di lui, ne aveva imitato immaginificamente i fasti e i costumi nelle sue feste e nei suoi apparati, lo aveva ammirato, lo aveva perfino a più riprese ritratto. Lo stesso Tiziano aveva dipinto ben tre volte la sue effigie, fondandosi su immagini che gli erano state messe a disposizione e sforzandosi d’interpretarle. Paolo Giovio lo aveva lodato come pio e magnanimo. Fu soprattutto grazie a Solimano e al suo mito occidentale –alimentato da Montaigne, da Bodin, da Charon – che si fondò l’idea diffusa della giustizia, dell’ordine, della potenza severa e inesorabile dell’impero turco, parallela a quella della sua temibilità in guerra e della crudeltà dei suoi costumi. I molti viaggiatori cinquecenteschi francesi in Oriente non risparmiavano elogi nei confronti del Gran Turco che governava le sue genti in pace e giustizia. Si onorava la «pace turchesca» da lui imposta al suo impero: un’espressione d’onore, evidentemente ispirata alla pax romana, per quanto non mancasse chi ne sottolineava il carattere tirannico e feroce. L’imponente macchina da guerra ottomana era comunque ancora in moto. Il nuovo sultano Selim II (15661574), sistemate sia pur provvisoriamente le cose sul fronte balcanico-danubiano con la pace di Adrianopoli del 1568, tornava a investire con foga e da più versanti lo scacchiere mediterraneo. In un paio d’anni i cristiani persero infatti, a ruota, Tunisi (occupata nel 1569 da UlujAli succeduto al defunto Dragut come governatore di Algeri), e Cipro, conquistata dagli infedeli fra il luglio del 1570 e l’agosto dell’anno successivo, quando la piazzaforte veneziana di Famagosta si arrese. La perdurante intesa con i francesi rendeva più efficace l’offensiva turca. Come accolse l’Occidente la morte di Solimano? Quali fattori determinarono l’alleanza tra Spagna e Venezia? F.M. Feltri, Chiaroscuro – Nuova edizione © SEI, 2012 Si dispiegava intanto, presso il sultano, l’attività politica e diplomatica d’un uomo geniale: Giuseppe Nasi, esponente autorevole degli ebrei spagnoli esuli a Istanbul e nelle altre città dell’impero ottomano. Mentre il vizir Mehmet Sôqüllü insisteva affinché si proseguisse la guerra contro la Spagna per il controllo dell’Africa settentrionale e magari si riprendesse quella contro l’impero per l’Ungheria, il Nasi caldeggiava invece un conflitto contro Venezia: e aveva intensificato la propaganda in tal senso dopo che, nel 1566, il sovrano turco lo aveva investito duca di Nasso e di altre isole dell’Egeo. Egli organizzava intanto attorno a Tiberiade delle colonie ebraiche chiamandovi gli ebrei espulsi dall’Italia. Se nella sua politica nordafricana il sultano seguiva le indicazioni del suo vizir, non trascurava certo i consigli del suo amico ebreo. Il 25 marzo del 1570 erano difatti arrivate a Venezia le richieste turche relative alla resa di Cipro. La Serenissima – che, dopo la Prévesa, aveva sino ad allora evitato di compromettersi in un’esplicita alleanza in funzione antiturca con la Spagna per non esser coinvolta nelle questioni nordafricane – dovette rivolgersi accorata, ora, all’unico che sembrava disposto a fermar gli ottomani: Filippo II. La Spagna cristiana – scossa da uno sbarco dei maghrebini in Andalusia, seguito dalla rivolta dei moriscos di quella regione tra 1565 e 1570 – rispose entusiasta. Cipro seguiva come sappiamo il suo destino: cadeva Nicosia il 9 settembre del 1570, cadeva Famagosta il 5 agosto del 1571: quattro giorni più tardi il fratellastro del Rey prudente, Giovanni d’Austria – il vincitore dei moriscos andalusi –, sbarcava a Napoli; e poco più d’un mese più tardi una flotta ispano-veneto-papale salpava da Messina. L’Occidente fu investito dalle notizie relative a Cipro, che sortirono però un effetto opposto a quel che i turchi – seminando al loro solito il terrore attraverso una crudeltà sapientemente ostentata – avevano immaginato. Il racconto del martirio inflitto al comandante veneziano di Famagosta, Marcantonio Bragadin, che lo aveva sostenuto con impavido stoicismo, fece presto il giro della Cristianità: e concorse a provocare proprio quel che l’abile gran vizir Mehmet Sôqüllü aveva fatto fin allora il possibile per evitare, l’alleanza tra Spagna e Venezia. F. CARDINI, Europa e Islam. Storia di un malinteso, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 234-235 UNITÀ V Verso Lepanto 5 RIFERIMENTI STORIOGRAFICI 4 5 L’attacco contro l’Inghilterra: gli obiettivi di Filippo II UNITÀ V Filippo II era profondamente religioso, ma anche capace di soppesare tutti i rischi di un’impresa militare. Il suo obiettivo principale, secondo alcuni studiosi, era di infliggere una dura lezione alla regina Elisabetta I, al fine di costringerla a interrompere i contatti politici con i ribelli protestanti dei Paesi Bassi e di obbligarla a togliere ogni appoggio e sostegno ai corsari inglesi che saccheggiavano le navi spagnole cariche d’argento, nell’Atlantico. L’ETÀ DI CALVINO E FILIPPO II 6 Indipendentemente dai suoi piani di guerra, quali erano gli obiettivi che Filippo II si proponeva di conseguire con il progettato attacco all’Inghilterra? Per lungo tempo la storiografia inglese ha privilegiato la tesi secondo la quale il re spagnolo non si proponeva nulla di meno della conquista dell’Inghilterra, del rovesciamento di Elisabetta – magari anche della sua esecuzione – e del ristabilimento del cattolicesimo in Inghilterra, come del resto il piano di Zúñiga [Juan Zúñiga, uno dei più autorevoli consiglieri politici di Filippo II, n.d.r.] indicava a chiare lettere. Coloro che parteciparono alla campagna dell’Armada, da una parte e dall’altra, sembrarono condividere in larga misura questa opinione. Più di recente però l’orientamento degli storici in merito è in parte cambiato. Certo, Filippo detestava il protestantesimo con tutte le sue forze e nulla gli sarebbe stato più gradito che vederlo schiacciato definitivamente, in Inghilterra come altrove; ma egli era anche abbastanza realista da capire quali fossero gli interessi concreti suoi e del suo regno. Come aveva scritto a Farnese, si rendeva conto del fatto che i cattolici inglesi erano ormai una minoranza perseguitata e ininfluente, e che restaurare pienamente il cattolicesimo in quel paese era ormai una causa persa. Non gli sfuggiva che, quand’anche gli fosse riuscito di sbarcare in Inghilterra e detronizzare la regina, si sarebbe poi trovato di fronte a una resistenza popolare irriducibile che avrebbe rappresentato un drenaggio insostenibile sulle risorse umane e finanziarie del suo impero. Quanto si era rivelato difficile – e alla lunga sarebbe stato impossibile – domare la rivolta olandese era un esempio più che eloquente di quale sarebbe stata l’enormità di un simile compito in un paese più vasto e popoloso, che per di più era un’isola. E poi quanto a lungo un’occupazione spagnola dell’Inghilterra sarebbe stata tollerata dalle altre potenze europee, a cominciare dalla Francia? C’era poi un altro fattore da considerare: se infatti Elisabetta fosse stata, in qualsiasi modo, eliminata, a succederle sul trono sarebbe stata Maria Stuarda, cattolica, sì, ma anche mezza francese, e che era anzi già stata regina consorte di Francia nonché legatissima alla ultrapotente fazione dei Guisa. Maria gli doveva della gratitudine: ma fino a che punto la gratitudine può prevalere sulle considerazioni politiche? Bel risultato sarebbe stato di abbattere i Tudor e i protestanti per favorire l’eventualità che suo padre, Carlo V, gli aveva raccomandato di temere più di ogni altra, una stretta alleanza fra Francia e Inghilterra! F.M. Feltri, Chiaroscuro – Nuova edizione © SEI, 2012 Quella di Filippo II era una mente complessa e capace di analisi sottili. Alla sua leadership si può rimproverare di aver voluto decidere tutto dal suo piccolo studio all’Escorial senza rendersi conto di persona delle situazioni: non solo egli non parlò mai direttamente ad Alessandro Farnese [principe reggente nei Paesi Bassi spagnoli, che avrebbe dovuto unire le proprie forze a quelle dell’Armada, n.d.r.] durante tutto questo periodo, ma non visitò mai neppure la sua flotta in allestimento a Lisbona. Anche la sua esperienza di guerra era limitata e la strategia che aveva alla fine prescelto soffriva senza dubbio una scarsa aderenza alla realtà. Ma non gli si può negare la capacità di aver soppesato attentamente i rischi che correva né di aver saputo valutare con realismo il conto dei benefici e delle perdite che potevano derivare da un’impresa. E questa capacità non gli venne certo meno in questa occasione. L’analisi dei programmi e delle azioni porta a ritenere che Filippo avesse in mente due tipi di obiettivi, anche intercambiabili, che potevano essere alternativamente privilegiati in funzione degli eventi: gli obiettivi massimi e quelli minimi. Gli obiettivi massimi erano senza dubbio realizzare lo sbarco in Inghilterra e giungere fino a Londra: ma questo non significava necessariamente l’eliminazione di Elisabetta e del suo regime. In queste condizioni e con la sua bandiera che sventolava sulla Torre di Londra, con ogni probabilità Filippo sarebbe stato disposto a una pace a condizioni per lui vantaggiose, ma non del tutto devastanti per la regina. Queste condizioni avrebbero compreso la rinuncia alla guerra di corsa e alla pirateria, il ritiro delle truppe dalle Fiandre e la cessazione del sostegno ai ribelli nonché la libertà di culto per i cattolici in Inghilterra. Probabilmente vi si sarebbe aggiunto il pagamento di una indennità di guerra e magari il ritiro delle guarnigioni inglesi dall’Irlanda, oltre alla garanzia del controllo di qualche fortificazione nella stessa Inghilterra: ma Elisabetta e il protestantesimo inglese sarebbero sopravvissuti «buoni per un altro giorno» e l’esercito spagnolo sarebbe stato ritirato dal paese. Del resto, il protestantesimo era ormai una componente dell’Europa e, al di fuori dei propri territori, Filippo non si era mai proposto concretamente l’obiettivo di sradicarlo del tutto. Naturalmente gli eventi bellici hanno poi una logica loro propria che può portare a far cambiare gli obiettivi iniziali: ma questo è un altro problema. Nel 1586 e anche nel 1588 gli obiettivi massimi del re erano più o meno quelli. I due più importanti erano certamente la cessazione degli attacchi inglesi al commercio e alle coste spagnole, obiettivo che era anche quello più sentito dalla società spagnola nel suo insieme, e la cessazione del sostegno inglese ai ribelli olandesi. La libertà di culto per i sudditi cattolici di Elisabetta era certamente un obiettivo importante, ma complementare. Se questi erano gli obiettivi massimi, l’obiettivo minimo irrinunciabile era senza dubbio farla finita con gli attacchi inglesi per mare. Ma questo si poteva perseguirlo anche per altra via che non fosse lo sbarco in Inghilterra e perfino l’invio dell’Armada. Si poteva cioè intimidire gli inglesi a tal punto da indurli a intavolare trattative di pace con la sola minaccia dell’attacco diretto e dello sbarco. Questo poteva essere ottenuto tanto facendo apparire nella Manica una grande flotta in assetto di guerra, con relativo accompagnamento di trasporti sui quali fosse imbarcato un corpo di spedizione, quanto al limite senza necessariamente che questa partisse: bastava che si sapesse che essa era in allestimento. Proprio per questo motivo però era indispensabile che i preparativi fossero credibili. […] Non vi era alcun dubbio sul fatto che inviare l’Armada nella Manica avrebbe rappresentato un drenaggio di risorse quasi insopportabile. Non sfuggiva al re che, una volta dato l’annuncio della costituzione della flotta per attaccare l’Inghilterra, egli non poteva desistere dall’impresa senza ottenere almeno il suo obiettivo minimo, e cioè la fine degli attacchi inglesi per mare, pena una gravissima perdita di prestigio all’estero e anche all’interno. Costi vi sarebbero quindi stati comunque: ma sfruttare l’elemento deterrente rappresentato dall’Armada senza dover necessariamente combattere avrebbe almeno consentito di ridurli. Fu per questo che Filippo esitò fin quasi alla fine prima di impartire ai suoi capi militari gli ordini definitivi. A. MARTELLI, La disfatta dell’Invincibile Armada. La guerra anglo-spagnola e la campagna navale del 1588, il Mulino, Bologna 2008, pp. 144-148 UNITÀ V A giudizio dell’autore, Filippo II può essere definito «fanatico», cioè determinato a lottare a qualunque costo, pur di riportare il cattolicesimo in Inghilterra e nel resto d’Europa? Quali erano gli obiettivi massimi di Filippo II? E quali, invece, gli obiettivi minimi? Qual era il principale motivo di rancore della società spagnola, nei confronti degli inglesi? Il re era sensibile a questo problema? Vi era sintonia tra il sentire del re e quello della società spagnola? RIFERIMENTI STORIOGRAFICI 7 F.M. Feltri, Chiaroscuro – Nuova edizione © SEI, 2012 6 La posizione politica di Jean Bodin Per Jean Bodin, l’autorità dello Stato dev’essere conservata a qualunque costo, pena il caos e l’anarchia. Da un lato, egli attacca i ribelli calvinisti, che giustificano la rivoluzione, ma dall’altro ritiene che la tolleranza religiosa sia indispensabile per il mantenimento dell’ordine politico. UNITÀ V A La stabilità dello Stato come obiettivo politico primario primo sottotitolo L’ETÀ DI CALVINO E FILIPPO II 8 Bodin non pretende affatto di accantonare il grande valore duraturo dell’uniformità religiosa. L’intera questione delle religioni rivali viene introdotta nel corso della discussione e a mo’ d’esempio dei pericoli della «sedizione e del fazionalismo». Egli inizia ammettendo che nulla è più importante per «conservare in vita gli Stati nel loro ordinamento», giacché serve a fornire «il fondamento primo del potere» e della forza dello Stato. Qualunque cosa Bodin fosse stato disposto ad affermare e scrivere in privato, pubblicamente, nelle sue dottrine, affermò sempre la necessità di non accettare il diritto naturale alla tolleranza delle minoranze religiose. Egli insiste al contrario che siccome «le dispute in materia religiosa» tendono più di qualsiasi altra cosa «ad apportare l’eversione degli Stati, occorre proibirle per certo con leggi inviolabilissime», cosicché una religione la quale «si regge sul consenso comune», non sia di nuovo «messa in discussione». Questi sentimenti sono tuttavia accompagnati da una percezione riluttante eppur assolutamente chiara del fatto che, rappresentando le religioni rivali una fonte talmente potente di discordia, laddove non possano essere soppresse, esse devono essere tollerate. Bodin cita la situazione del suo tempo, in cui il consenso e l’accordo della nobiltà e del popolo verso una nuova religione sono divenuti «così potenti che sarebbe impossibile o per lo meno ben difficile distruggerli senza mettere a rischio lo Stato». «In questo caso i principi più saggi hanno preso l’abitudine di fare come quei piloti (timonieri, n.d.r.] prudenti che si abbandonano alla tempesta sapendo bene che resistere ad essa provocherebbe solo un naufragio generale». Bodin sottolinea immediatamente quale lezione si deve trarre da questa similitudine: è necessario riconoscere «tutti i collegi, corpi e comunità di qualsiasi tipo» che non possono essere eliminati senza porre in pericolo o distruggere lo Stato. La prima ragione per accettare questa conclusione è, secondo Bodin, che, pur avendo il governo il dovere di sostenere l’unità religiosa, ciò non può alterare il fatto che «la salute e il benessere dello Stato» devono rimanere «la cosa principale rispettata dalla legge». Dove si scopre che l’ordine è in conflitto con l’uniformità religiosa, si deve sempre trattare come suprema priorità il mantenimento dell’ordine. B La polemica contro i monarcomachi calvinisti primo sottotitolo Bodin vide chiaramente come suo principale compito ideologico quello di attaccare e sconfessare nei Sei libri la teoria ugonotta della resistenza, che egli era giunto a considerare il maggior pericolo alla possibilità di restaurare una monarchia ben ordinata in Francia. Questo fine F.M. Feltri, Chiaroscuro – Nuova edizione © SEI, 2012 fondamentale emerge molto chiaramente nelle prefazioni programmatiche aggiunte alle edizioni successive della sua grande opera. Bodin esterna il suo estremo orrore perché vede «i sudditi armarsi contro i principi», scritti sediziosi [che incitano alla rivolta armata, n.d.r.] «pubblicarsi come fiaccole per l’incendio degli Stati» e il popolo «con lo spettro della tirannide ribellarsi al potere di quei re che sono dati alla stirpe umana per divino consiglio». Ripetutamente Bodin indica che è sua intenzione rispondere a questi «uomini pericolosi», i quali con il pretesto della libertà popolare «eccitano i sudditi alla ribellione contro i loro prìncipi naturali, aprendo la porta a quella anarchia ch’è peggio di qualsiasi tirannide del mondo, sia [perfino della, n.d.r.] la più aspra». La risposta di Bodin ai rivoluzionari ugonotti è diretta e inflessibile: nessun atto pubblico di resistenza di un suddito contro il legittimo sovrano può essere mai giustificato. […] L’attacco di Bodin alla teoria e alla pratica della rivoluzione ugonotta ci porta al cuore delle dottrine positive enunciate nei Sei libri in quanto ci conduce alla discussione della sovranità, considerata da Bodin «il punto principale e più necessario per la comprensione della natura di uno Stato». Se un governante non è «sovrano in assoluto», «è senza alcun dubbio lecito» da parte dei suoi sudditi resistergli e «procedere contro il tiranno per via di giustizia». Ma dovendo essere il fine fondamentale del governo quello di assicurare non già la libertà, bensì l’«ordine», qualsiasi atto di resistenza di un suddito contro il suo governante va completamente bandito nel nome della conservazione della fragile struttura dello Stato. Bodin è quindi tratto dalla logica del proprio impegno ideologico a sostenere che in qualsiasi società politica vi deve essere un sovrano assoluto, nel senso che egli comanda ma non è mai comandato, e quindi non può essere mai legittimamente contrastato da nessuno dei suoi sudditi. Tale conclusione è enunciata per esteso nel Libro I, Capitolo VIII, intitolato Della sovranità. Bodin inizia definendo la sovranità come «quel potere perpetuo e assoluto che è proprio dello Stato». Fa poi capire chiaramente che nel caratterizzare il sovrano come «assoluto», egli ha in mente soprattutto una cosa: perfino quando le sue ordinanze non sono mai «eque ed oneste», «al suddito non è lecito contravvenire alle leggi del suo principe» o opporsi in altri modi «col pretesto dell’onestà e della giustizia». In breve, il sovrano è per definizione esente dalla resistenza armata, poiché «sovrano è chi non riconosce nulla superiore a sé all’infuori di Dio». Sono così state già completamente gettate le fondamenta per la successiva creazione del «grande Leviatano», visto [dal filosofo inglese Thomas Hobbes, che pubblicò la sua opera principale, Leviathan, nel 1651, n.d.r.] come «Dio mortale», a cui «sotto il Dio immortale dobbiamo la pace e la difesa». Q. SKINNER, Le origini del pensiero politico moderno, II. L’età della Riforma, il Mulino, Bologna 1989, pp. 363-364, 409-413 Tra mantenimento dell’ordine e uniformità religiosa, qual è la priorità per Bodin? Come si deve porre il suddito nei confronti di ordinanze sovrane che non sono «eque ed oneste»?