LE EMOZIONI PLASMANO IL CERVELLO Vincenzo MANNA

LE EMOZIONI PLASMANO IL CERVELLO
Vincenzo MANNA
Medico, Psichiatra, Psicoterapeuta
Direttore f.f. UOC DSM ASL ROMA 6
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cell. +39 333 36 25 218
INTRODUZIONE
Le influenze socio-emozionali rappresentano gli stimoli ambientali più potenti nell’indurre cambiamenti neuro plastici
sulla struttura e sulla funzione del cervello. Il Sistema Nervoso Centrale (SNC) dei vertebrati sembra essere
particolarmente sensibile alle influenze sociali e questa sensibilità risulta essere ancora più evidente nei primati.
(Adolphs, 2010) Il cervello è costantemente modellato dalle forze ambientali che hanno sufficiente capacità d’incidenza. I
circuiti implicati nel comportamento sociale ed emotivo sono tra quelle strutture funzionali dell’encefalo più sensibili
all’effetto dell’esperienza e che più a lungo ne serbano memoria plastica. In particolare, le esperienze precoci di vita,
giocano un ruolo chiave nel governare le differenze tra gli individui, nella loro vulnerabilità o resistenza alle future
avversità della vita. Studi su modelli animali e negli esseri umani hanno fornito importanti informazioni per la
comprensione di come interventi progettati esplicitamente per promuovere comportamenti di socializzazione e di
benessere relazionale e interpersonale potrebbero indurre cambiamenti sulla neuro plasticità cerebrale specifica. Una
crescente messe di evidenze scientifiche suggerisce che alcuni interventi come l’esercizio fisico moderato e continuo
(Erickson, 2011), la psicoterapia cognitiva (Clark & Beck, 2010) gli interventi derivati dalle antiche pratiche di
meditazione (Lutz et al., 2008) e dalle moderne tecniche di rilassamento (Manna et al., 1983a; Manna et al., 1984)
possano indurre variazioni neuro plastiche nel cervello, alla base delle variazioni comportamentali psico-socioriabilitative.
I circuiti neurali alla base del comportamento sociale ed emotivo sono plasmati, dal periodo prenatale fino alla morte,
dalle esperienze di vita. I fattori esperienziali includono sia le influenze incidentali, quali le difficoltà insorte fortuitamente,
sia le influenze prolungate nel tempo. Tali fattori possono presentarsi come eventi o condizioni di vita negativi e
stressanti, ma anche come influenze esercitate intenzionalmente, per esempio, per promuovere, attraverso interventi
specifici, un senso di benessere soggettivo e un comportamento di socializzazione. In questa revisione passeremo in
rassegna importanti evidenze scientifiche provenienti da studi sperimentali su animali e da studi clinici sull'uomo. I precisi
meccanismi sottesi alla neuro plasticità nell’uomo non sono ancora del tutto conosciuti. Di certo lo stress moderato o
grave si associa a un incremento anatomo-funzionale di diversi settori dell’amigdala, inducendo, consensualmente, una
parziale riduzione dell’ippocampo e della corteccia prefrontale. Nel cervello sono stati osservati cambiamenti strutturali e
funzionali, non solo in rapporto ad eventi stressanti, ma anche in seguito a interventi di terapia cognitiva e dopo alcune
forme di meditazione. Ciò conferma che è possibile obiettivare nel cervello umano tanto gli effetti deleteri delle condizioni
stressanti, di breve durata o prolungate nel tempo, quanto gli effetti terapeutici indotti da psicofarmaci, psicoterapia e/o
meditazione. Il benessere e il miglioramento delle capacità di socializzazione modificano specifiche circuitazioni cerebrali
e i comportamenti socio-emozionali a essi funzionalmente correlati. Gli eventi stressanti, ma anche opportuni interventi
terapeutici, possono lasciare cioè “segni” e “memorie” in specifiche strutture e funzioni cerebrali. (Davidson & McEwen,
2012).
Esistono differenti tipi e forme di neuro plasticità che non possono essere studiati, nell’uomo “in vivo” per ovvi limiti
metodologici intrinseci. I lavori scientifici, in quest’ambito di ricerca, nell’uomo, sono stati focalizzati sulle variazioni di
diversi indici di struttura del cervello, che possono essere misurati con la moderna risonanza magnetica per immagini
(MRI). Alterazioni funzionali durature possono essere evidenziate e quantificate, utilizzando la risonanza magnetica
funzionale (fMRI) e le tecniche correlate. Le influenze neuro plastiche, dipendenti dall’esperienza, su particolari
caratteristiche cognitive, come, ad esempio l'apprendimento delle lingue, sembrano più potenti durante specifici periodi
di sensibilità, cioè, durante particolari finestre temporali (Kuhl, 2010). È interessante notare, tuttavia, come anche
l'acquisizione del linguaggio, con apprendimento “cognitivo” volontario in età adulta, è influenzato fortemente dal
contesto e dall’interazione sociale. La deprivazione sociale, in cui hanno vissuto i bambini abbandonati in alcuni
orfanotrofi di Bucarest, si è dimostrata capace di produrre un profondo deterioramento cognitivo, solo parzialmente
reversibile con un precoce affidamento a cure di tipo genitoriale. In questo studio, infatti, più precoce era l'età di
affidamento a cure parentali e, quindi, di allontanamento dall'orfanotrofio, minore era il deficit cognitivo osservato
(Nelson, 2007). L’effettiva finestra temporale, di questi periodi di specifica sensibilità neuro plastica, in rapporto al
comportamento sociale ed emotivo, non è ancora ben conosciuta. E’ stato recentemente dimostrato, in un modello
animale su roditori, che i circuiti dell’amigdala, nei neonati accuditi dalla madre, sono normalmente immaturi. In seguito
allo stimolo cortisonico, correlato allo stress o all’abbandono, tuttavia, possono essere stimolati a maturare
precocemente, consentendo al cucciolo l’apprendimento di precoci comportamenti d’avversione, utili alla sopravvivenza
(Sullivan & Holman, 2010).
Gli stress precoci insorti nell’infanzia, ma anche il tipo e la qualità del nutrimento e dell’accudimento materno, inducono
effetti incisivi e duraturi sul cervello in via di sviluppo, alcuni dei quali possono persistere per tutta la vita dell'organismo.
Gli effetti dello stress sono stati più studiati e meglio definiti su modelli animali, ovviamente. In ambito clinico, la ricerca
sugli effetti indotti dalle esperienze di stress precoce, ha sfruttato circostanze fortuite, in gran parte non intenzionali,
come i maltrattamenti o l'esposizione ad altri eventi stressanti, in età infantile. In aggiunta a questi dati di letteratura
scientifica, è disponibile, da poco tempo, una crescente mole d’informazioni obiettive sull'impatto d’interventi
esplicitamente volti a promuovere risultati terapeutici mediante l’esercizio fisico, la terapia cognitiva, le pratiche di
meditazione e, finanche, i programmi di servizio sociale per anziani (Carlson et al., 2009). A lungo ci si è domandati, in
ambito neuro scientifico, se possano essere invertiti gli effetti neuro plastici disadattivi, che conseguono ad eventi
stressanti, avvenuti durante lo sviluppo del SNC. Le ricerche sul recupero della vista, in soggetti adulti ambliopici, hanno
evidenziato diversi interessanti meccanismi che potrebbero essere utili nel modulare in senso terapeutico la neuro
plasticità negli adulti, mediante interventi di tipo comportamentale. (Bavelier et al., 2010) Va sottolineato, però, che
l’efficacia di questo tipo d’approccio alla neuro plasticità, correlata negli adulti ai comportamenti sociali, non è stata
ancora sufficientemente studiata. Un numero crescente di studi sta valutando gli interventi volti a promuovere i
comportamenti di socializzazione nei bambini, mediante learning socio-emotivo (Durlak et al., 2011) e training delle
funzioni esecutive (Diamond et al., 2011). L’efficacia di questi interventi è stata dimostrata sul piano comportamentale.
Sono stati suggeriti, con elevata probabilità, meccanismi neuro plastici alla base di tali effetti, ma non sono stati ancora
dimostrati, per ovvi motivi etici, “in vivo” nell’uomo.
In questa revisione di letteratura passeremo in rassegna alcuni risultati chiave a livello sperimentale, su modelli animali,
che hanno dimostrato la neuro plasticità strutturale del SNC, indotta cioè dalle esperienze di vita, in relazione alle
influenze sociali. La maggior parte di questi studi è stata effettuata per valutare le influenze ambientali stressanti, ma
sono stati raccolti anche alcuni dati interessanti sui fattori ambientali specifici, che sembrano promuovere il
comportamento sociale ed una emotività congrua ed adattiva (Manna, 1990). La seconda parte di questa revisione
presenterà la neuro plasticità indotta dalle esperienze di vita nell'uomo, derivanti da entrambe le influenze: quelle
indesiderate come ad esempio lo stress vissuto nei primi anni di vita, ma anche quelle indotte da strategie esplicite
d’intervento, finalizzate a promuovere una più efficace gestione dello stress e un comportamento psico-sociale
equilibrato e sano. Alcuni di questi interventi sono derivati da antiche pratiche meditative, mentre altri derivano dalla
moderna ricerca, in quest’ambito di studio e di trattamento clinico. Una conseguenza logica di queste considerazioni è
che un approccio preventivo è utile e vantaggioso nel mantenimento della salute fisica e mentale. Così come stiamo
imparando ad assumerci maggiori responsabilità per la nostra salute fisica, impegnandoci nella pratica regolare
dell’esercizio motorio, così possiamo prenderci più cura della nostra salute mentale, impegnandoci nella pratica regolare
di alcuni esercizi specifici, che possono indurre modificazioni plastiche nel cervello e che, potenzialmente, hanno
conseguenze benefiche per il comportamento sociale ed emotivo. In questa prospettiva il benessere dovrebbe essere
inteso, almeno in parte, come un risultato perseguibile, mediante interventi esplicitamente volti a promuoverlo, con effetti
benefici sul piano comportamentale e biologico. Mentre il benessere ha una scarsa stabilità in assenza d’influenze
consapevoli e intenzionali, in presenza di consapevolezza ed intenzionalità, le evidenze scientifiche accumulatesi
suggeriscono che possono verificarsi stabili cambiamenti sul piano sia neuro plastico sia psico-comportamentale.
RISULTATI DELLE RICERCHE SPERIMENTALI SU MODELLI ANIMALI
Le prove che il cervello sano di un animale adulto è in grado di plasticità strutturale sono state fornite dagli studi sul
cosiddetto "ambiente arricchito" di Bennett e colleghi (1964) I ratti che hanno vissuto per settimane in un ambiente pieno
di giocattoli, che erano cambiati ogni giorno, e che vivevano in spazi più vasti e complessi, hanno mostrato un aumento
dello spessore delle aree corticali cerebrali. Ciò è stato confermato anche nei ratti in fase d’invecchiamento. (Diamond,
1978) In studi successivi è stato dimostrato che i neuroni corticali, in questi ratti, avevano una maggiore arborizzazione
dendritica, presentavano un aumento del numero di cellule gliali e un aumento del flusso ematico cerebrale, in
proporzione alla ricchezza di stimoli ambientali, rispetto ai ratti vissuti in normali gabbie di laboratorio (Markham &
Greenough, 2004). Studi più recenti hanno dimostrato che lo stress acuto, ma ancor più quello prolungato nel tempo,
altera la densità delle spine dendritiche, la loro lunghezza e le loro ramificazioni, in diverse regioni del cervello, come
l'ippocampo, la corteccia prefrontale e l’amigdala (McEwen, 2007). L'andamento nel tempo di questi cambiamenti, è
risultato essere in gran parte reversibile, almeno nell’animale giovane (Bloss et al., 2010). Tuttavia, un recente studio con
microscopia a due fotoni, effettuato per monitorare la formazione e l'eliminazione delle spine dendritiche in vivo, dopo
trattamento con glucocorticoidi, nei topi in via di sviluppo e negli adulti, ha rilevato effetti generalizzati che possono
verificarsi in molte regioni del SNC (Liston & Gan, 2011). I meccanismi di rimodellamento sinaptico e di arborizzazione
dendritica conseguono non solo ai glucocorticoidi, ma anche all’effetto di altri neurotrasmettitori sinaptici eccitatori e di
altri neuromediatori (Popoli et al., 2012). Gli ormoni sessuali inducono neuro plasticità strutturale nell'ippocampo, nella
corteccia cerebrale, nell’ipotalamo ed in altre strutture cerebrali (McEwen, 1999). Gli ormoni ovarici, infatti, stimolano
variazioni cicliche della densità delle spine nell'ippocampo e nella corteccia sensoriale, nella corteccia motoria primaria e
nella corteccia prefrontale, sia nei roditori sia nelle scimmie (Chen et al., 2009). Questi cambiamenti sono indotti non solo
da estradiolo e progesterone, ma anche da altri aminoacidi eccitatori e altri neuromediatori (McEwen & Milner, 2007). Un
importante passo avanti nello studio della plasticità del cervello adulto è stato compiuto con la scoperta della neuro
genesi nel giro dentato, in seguito agli studi di Nottebohm (1989), Altman & Bayer (1990), Cameron & Gould (1996) e
Kaplan (2001). La neuro genesi, cioè la differenziazione da cellule staminali di neuroni vitali e attivi, nel cervello adulto, è
stimolata dall'attività fisica e dall’ambiente arricchito. Viene, invece inibita dallo stress cronico fisico e sociale. L'attività
fisica regolare induce un aumento del volume dell'ippocampo umano, stimolandone la neuro genesi (Manna, 2013a). La
neuro plasticità strutturale, nel cervello adulto, coinvolge non solo la neuro genesi, ma anche lo sprouting dendritico e la
sinaptogenesi in rapporto alle interazioni sociali, in studi sperimentali su ratto e su toporagno. Nel paradigma
sperimentale “residente / intruso”, su toporagni, è stato dimostrato un potente effetto dello stress sull’intruso con
riduzione della sua neuro genesi, ritiro dendritico e riduzione volumetrica dell’ippocampo (Gould et al., 1997). Dopo
stress cronico, mentre l'ippocampo mostra una compromessa neuro genesi con atrofia degli alberi dendritici, lo stesso
fattore di stress provoca la crescita dendritica nell’amigdala baso-laterale, che si associa a incrementati livelli d’ansia
sociale e d’aggressività interindividuale. Inoltre, i neuroni della corteccia prefrontale mediale si riducono e quelli della
corteccia orbito-frontale aumentano in volume (Liston et al., 2006). Questi cambiamenti sono in gran parte reversibili,
almeno nei giovani adulti. In fase d'invecchiamento, però, è stata dimostrata, una compromessa reversibilità dell’atrofia
neuronale nella corteccia prefrontale mediale. Lo stress cronico induce nei neuroni risposte adattive con riduzione o
aumento, di dendriti, sinapsi e volume cellulare, specifiche per struttura neuronale coinvolta, e non necessariamente la
morte neuronale. Nei modelli animali, per esempio, lo stress cronico ha effetti rilevanti sulla crescita dell’arborizzazione
dendritica nell’amigdala baso-laterale e sulla riduzione dell’arborizzazione dendritica nella corteccia orbito-frontale. I
cambiamenti indotti dallo stress, alterano, perciò, l'equilibrio tra i diversi sistemi neurali, attivati dalle esperienze di vita.
Negli esseri umani, ad esempio, la bassa autostima si associa a un ippocampo più piccolo, mentre l'impulsività e una
relativa povertà delle funzioni esecutive, si associa ad una corteccia prefrontale relativamente ipotrofica e deficitaria.
Nell’uomo, inoltre, l'aggressività e l’ansia si associano a un’iperattività dell’amigdala (McEwen & Gianaros, 2011). Le
prime esperienze di vita hanno un potenziale neuro plastico molto potente (Shonkoff et al., 2009). In entrambi i modelli,
animali e umani, le esperienze - positive e negative - plasmano questi circuiti e la loro connettività. Le esperienze di vita
possono innescare risposte morfo-funzionali adattative o disadattive, in rapporto al variare di queste complesse
interconnessioni tra differenti strutture e aree cerebrali. Negli animali, gli eventi di vita precoci, legati alle cure materne,
così come le cure genitoriali negli esseri umani, svolgono un ruolo importante sulla salute mentale e fisica, dei bambini e
dei futuri adulti. Ciò è confermato dagli studi sulle esperienze infantili sfavorevoli (Anda et al., 2010). Lo stress prenatale,
ma anche quello adolescenziale, per esempio, compromette lo sviluppo dell'ippocampo nei ratti (Isgor et al., 2004). Nei
roditori, le cure materne insufficienti o violente si associano ad un sorprendente attaccamento dei ratti neonati verso le
madri abusanti, per l’immaturità dell’amigdala (Moriceau & Sullivan, 2006). Solo l’attivazione dell’amigdala, infatti, in
rapporto all’aumentata increzione di glucocorticoidi indotta dallo stress, induce la sua precoce maturazione ed una
conseguente adeguata risposta comportamentale d’avversione. Tra le scimmie rhesus, nel modello sperimentale di
“foraggiamento variabile” l’ansia materna, induce nei figli ansia cronica ed i segni di una sindrome metabolica (Coplan et
al., 2001). La sconfitta sociale porta gli animali ad un aumento dell’autosomministrazione di sostanze psicotrope,
verosimilmente in rapporto alla neuro plasticità morfo-funzionale del sistema di ricompensa mesolimbico (disedonia)
(Manna et al., 2003). I neuroni spinosi del nucleo accumbens di medie dimensioni mostrano un’alterata formazione delle
spine dendritiche come risultato della sconfitta sociale ma anche, nell'infanzia, in rapporto alla separazione dalla madre
(Christoffel et al., 2011). Queste condizioni si associano ad una aumentata vulnerabilità alle droghe d’abuso (Miczek et
al., 2008). L’alterazione delle circuitazioni coinvolte nella ricompensa può, perciò, precedere l’uso di sostanze
psicoattive, utilizzate in senso compensativo, per ripristinare un migliore livello edonico (Manna 2013 b). L’uso di
sostanze psicoattive gratificanti (alcol, droghe, etc.) o di comportamenti autogratificanti (cibo, sesso, gioco, etc.)
possono, a loro volta, alterare la funzione e la morfologia dei circuiti cerebrali coinvolti nei meccanismi della
gratificazione (Manna, 2013c). Queste condizioni possono indurre comportamenti di dipendenza e riflettere cambiamenti
compensativi dei circuiti cerebrali coinvolti (Russo et al., 2010). Gli stimoli appetitivi naturali possono indurre una
sensibilizzazione dei circuiti della gratificazione, con necessità di reiterare lo stimolo stesso per averne effetti
soggettivamente apprezzabili (Robinson & Kolb, 2004). Alterazioni dell’omeostasi edonica possono, però, dare
un'induzione del bisogno, anche in assenza di una appetizione specifica (Manna, 2013b). Così, un’alterata morfologia
dendritica nella shell del nucleo accumbens sensibilizza l'animale, inducendo la reiterata autosomministrazione
d’anfetamine (Roitman et al., 2002). Oltre ai risultati che sottolineano gli effetti deleteri dello stress, nelle fasi iniziali della
vita, ci sono anche alcuni dati scientifici, raccolti su modelli sperimentali animali, che suggeriscono effetti protettivi
dell’accudimento materno nell’infanzia, come una maggiore resistenza agli effetti di uno stress che può insorgere
successivamente nel corso della vita. Gli studi in modelli animali di Levine e colleghi (1967) e di Meaney & Szyf (2005)
sul "trattamento neonatale" hanno contribuito enormemente alla nostra comprensione di come il cervello sia segnato
dalle cure materne, con meccanismo epigenetico trans generazionale. Oltre alla quantità di cure materne, la coerenza
nel tempo delle cure e la qualità e quantità d'esposizione agli stimoli nuovi sono molto importanti non solo nei roditori
(Akers et al., 2008) ma anche nelle scimmie (Parker & Maestripieri, 2011). In un recente studio Van Hasselt e colleghi
(2011) hanno dimostrato che i ratti che hanno ricevuto intense e continue cure materne (sono stati leccati e accuditi)
durante la prima settimana di vita postnatale, divenuti giovani adulti, hanno livelli più elevati di neuro plasticità adattiva
nell'ippocampo e una maggiore plasticità sinaptica del giro dentato. In una serie di studi su scimmie, Parker e colleghi
(2004) hanno osservato effetti benefici della precoce esposizione a stress di lieve intensità e di breve durata. Dopo
l'esposizione a uno stress lieve nelle settimane postnatali (dalla 17^ a 27^) gli animali divenuti giovani adulti evidenziano
livelli d’ansia bassi con ridotto attaccamento alla figura materna, con un comportamento esplorativo maggiore e un
equilibrato consumo di cibo. Inoltre, gli animali esposti a uno stress lieve precoce hanno più bassi livelli di ACTH
plasmatico e più bassi livelli di cortisolo, in condizioni di base e dopo stress. È stato dimostrato, successivamente, che gli
animali esposti a stress lieve precoce, nell’infanzia, presentavano migliori meccanismi di regolazione prefrontale delle
risposte comportamentali allo stress ambientale, da giovani adulti (Parker et al., 2005). In questo stesso modello di
studio, Katz et al. (2009) hanno dimostrato che l'esposizione a stress lieve precoce si associa a un aumento dell’area
cortico-sottocorticale ventro-mediale prefrontale (vmPFC) durante il periodo peripuberale. Inoltre, questi stessi ricercatori
hanno evidenziato un aumento della mielinizzazione della sostanza bianca in questa regione, mediante tecniche
d’imaging con tensore di diffusione. Durante lo sviluppo del SNC esistono particolari periodi critici (finestre temporali)
durante i quali ogni specifico circuito neuronale è stabilito e può durare sostanzialmente invariato per tutta la vita. Questa
è una delle più robuste e verificate affermazioni circa la neuro plasticità del cervello. Tuttavia, recenti studi suggeriscono
che la neuro plasticità, almeno di alcuni circuiti e per specifiche funzioni, può essere invertita riaprendo quelle finestre
temporali. Per esempio, lo squilibrio da precoce deprivazione monoculare nella dominanza oculare può essere invertito,
in età adulta, dall’esposizione alla luce modulata, con un processo che può essere facilitato dalla fluoxetina, (Vetencourt
et al., 2008) e dalla restrizione di cibo, (Spolidoro et al., 2011) con un meccanismo in cui la riduzione dell'attività
neuronale inibitoria sembra giocare un ruolo centrale (Southwell et al., 2010).
Le indagini sui meccanismi di base sottesi all’apertura di una nuova finestra temporale di plasticità neuronale si stanno
concentrando sul bilanciamento fra trasmissione eccitatoria e inibitoria e, soprattutto, sulla rimozione dei circuiti e dei
neurotrasmettitori o dei neuromodulatori sinaptici che inibiscono tale plasticità (Bavelier et al., 2010). La depressione è
più frequente nelle persone che hanno avuto precoci esperienze di vita stressanti (Anda et al., 2010). Alcuni fattori
neurotrofici, tra cui il BDNF, possono svolgere un ruolo chiave nella genesi dello stato depressivo. L'elevazione dei livelli
intracerebrali di tali fattori neurotrofici, con farmaci antidepressivi, ma anche con l’attività fisica regolare, l’aumentato
apporto dietetico di omega 3 (Manna, 2007) oppure in seguito a pratiche meditative, può essere un elemento chiave del
trattamento (Duman & Monteggia, 2006). Queste constatazioni hanno anche altre importanti implicazioni cliniche, come
ad esempio la capacità, recentemente dimostrata, di alcuni antidepressivi serotinenergici, tra cui la fluoxetina, di
migliorare il recupero dopo stroke (Chollet et al., 2011). Un aspetto fondamentale di queste nuove prospettive
terapeutiche è dato dalla considerazione che il farmaco può aprire una finestra temporale di neuro plasticità (Castrén &
Rantamäki, 2010). Ciò può dare risultati terapeutici ed adattivi stabili, se associato ad un opportuno intervento
psicoterapeutico cognitivo-comportamentale, nel caso della depressione, o da interventi di fisioterapia intensiva, per
promuovere la neuro plasticità e contrastare gli effetti invalidanti di un ictus (Manna et al., 1983b).
LA NEURO PLASTICITÀ NEL CERVELLO SOCIO-EMOZIONALE DELL’UOMO
Effetti indotti da esperienze di stress
Le circuitazioni cerebrali coinvolte nell’elaborazione del vissuto sociale ed emotivo vengono continuamente modellate
dalle forze che incidono sul sistema nervoso, durante lo sviluppo prenatale e durante tutta la vita. La neuro plasticità
indotta dall'esperienza è stata documentata nel cervello sociale in una varietà di modelli animali. Ciò ha fornito le basi
concettuali e sperimentali per la ricerca di effetti simili nell'uomo. Numerose prove sono state trovate che confermano
l'impatto di ambienti stressanti sul cervello umano in via di sviluppo da Choi et al. (2009), da Heim et al. (2010), da
Shonkoff & Garner (2011) e da Gould et al. (2012). In un campione di 31 adolescenti con storia personale di abusi fisici,
confrontati con 41 teen agers senza storia di abusi, mediante Risonanza Magnetica (MRI) a scansione strutturale, con
l’utilizzo di particolari tecniche di diffeomorphic imaging e di morfometria, Hanson et al. (2010) hanno scoperto che i
soggetti vittime di abusi presentano minori volumi delle aree orbito-frontali (OFC). In questo studio, inoltre, minore è
risultato il volume della corteccia orbito-frontale, nel campione abusato, più grave è stato lo stress sociale, descritto
mediante un’intervista strutturata, sia dai bambini sia dai genitori. I bambini maltrattati fisicamente mostrano una
riduzione volumetrica orbito-frontale, rispetto ai bambini senza disturbi stressanti o traumatici dello sviluppo, con
riduzione volumetrica proporzionale allo stress familiare percepito e descritto sia dai bambini sia dagli adulti. Lo stress
nelle prime fasi della vita modula l'asse ipotalamo-ipofisi-surrene, con un produzione precoce e/o eccessiva di cortisolo. I
livelli circolanti di quest’ormone possono essere considerati, in prima approssimazione, una misura diretta dello stress e
del coinvolgimento funzione di questo sistema, anche se gli effetti indotti sono più complessi e dipendono anche dalla
presentazione temporale e dalla cronicità dell’insulto stressante (Loman & Gunnar, 2010). La prova che la pedofilia si
associa ad alterazioni di regolazione epigenetica del recettore dei glucocorticoidi è stata ottenuta in uno studio post-
mortem dell’ippocampo di suicidi, con una storia d’abuso di minori, confrontati con suicidi senza storia d’abuso.
Nell’ippocampo di questi soggetti, in particolare, McGowan et al. (2009) hanno evidenziato una diminuzione dei livelli di
mRNA del recettore glucocorticoide, una diminuzione del mRNA di trascrizione della variante recettoriale glucocorticoide
1F e un’aumentata metilazione della citosina di un promoter NR3C1. Tottenham et al. (2010) hanno studiato 38 bambini
de-istituzionalizzati, che sono cresciuti in orfanotrofi poveri, sia in Europa orientale sia in Asia, confrontandoli con 40
bambini cresciuti in famiglia. Al momento dello studio erano tutti bambini tra 8,5 e 9,5 anni di età. Quelli istituzionalizzati
erano stati internati in media all'età di 2,5 mesi. Utilizzando un algoritmo di segmentazione automatica, gli autori hanno
esaminato in maniera specifica le misure volumetriche dell’amigdala, dell’ippocampo e del nucleo caudato. Quando il
campione de-istituzionalizzato è stato confrontato direttamente con il gruppo di controllo, non sono state rilevate
differenze significative, per nessuna delle tre strutture esaminate. Successivamente il campione de-istituzionalizzato è
stato diviso tra coloro che sono stati adottati precocemente e coloro che sono stati adottati in ritardo, rispettivamente
adottati prima o dopo i 15 mesi di età. Quando i bambini sono stati divisi in questo modo, i soggetti adottati in ritardo
hanno presentato un’amigdala significativamente più grande rispetto ai soggetti adottati precocemente, utilizzati come
campione di confronto. Non si sono evidenziate differenze significative tra uno qualsiasi dei gruppi nei volumi
dell'ippocampo o caudato. Quando gli autori hanno esaminato il campione con più attenzione, hanno scoperto che più
tardiva era l’età di adozione maggiore era il volume dell’amigdala. Più alti livelli di ansia espressa e somatizzata e indici
di più difficile socializzazione sono stati correlati al maggiore volume dell’amigdala. Risultati simili sono stati ottenuti in un
campione di bambini di dieci anni, alcuni dei quali erano stati continuamente esposti ai sintomi depressivi della madre, fin
dalla nascita. confrontati con altri che non avevano mai avuto una tale esposizione (Lupien al., 2011). All'età di 10 anni, i
bambini che erano stati continuamente esposti ai sintomi depressivi materni fin dalla nascita avevano amigdale
significativamente più grandi, sia destra che sinistra, rispetto ai bambini che non avevano avuto una tale esposizione.
Non ci sono state differenze significative nel volume dell'ippocampo tra questi due gruppi. Il punteggio di depressione
medio della madre, calcolato negli ultimi 7 anni, risultava essere direttamente proporzionale al volume dell’amigdala del
figlio all'età di 10. Le madri con più numerosi e gravi sintomi di depressione avevano bambini con più grande volume
delle amigdale. L’incremento delle amigdale nei bambini istituzionalizzati e adottati tardivamente e nei bambini esposti
dalla nascita alla depressione continuativa della madre sono risultati coerenti con l'idea che lo stress, soprattutto nelle
prime fasi della vita, possa indurre cambiamenti strutturali nel cervello in via di sviluppo. I due reperti strutturali più
importanti della letteratura scientifica sull’uomo, in quest’ambito di ricerca, suggeriscono che una condizione di stress
prolungato, in tenera età, si associa a un aumento del volume dell'amigdala e a una riduzione del volume della corteccia
prefrontale. Qualche riserva va mantenuta circa i risultati descritti sul volume delle amigdale, in rapporto agli algoritmi di
segmentazione automatizzata delle strutture sottocorticali, utilizzati in questi studi (Morey et al., 2009). Inoltre, le epoche
precise in cui questi effetti si verificano devono essere ancora attentamente studiate. In particolare per l'amigdala,
l’ipertrofia precoce e l'allargamento può verificarsi in risposta alle avversità, ma si potrebbe produrre anche una
successiva precoce riduzione del volume dell’amigdala in rapporto a processi eccito-tossici (Tottenham & Sheridan,
2009). E’ stato suggerito un modello evolutivo dell'amigdala, di questo tipo, anche nella patogenesi del disturbo autistico
(Nacewicz et al., 2006; Mosconi et al., 2009). L'amigdala, la corteccia prefrontale e le loro interconnessioni sono
fortemente implicati nella regolazione delle emozioni e del benessere soggettivo (Davidson, 2004; Ochsner & Gross,
2005; Urry et al., 2006; Wager et al., 2008). Disfunzioni e / o anomalie strutturali nelle interconnessioni tra amigdala e
corteccia prefrontale sono state evidenziate in diversi quadri psicopatologici da Davidson et al. (2000), da Jhonston et al.
(2007), da Kim et al. (2009).
Interventi terapeutici e di training di socializzazione
Se gli eventi di vita stressanti lasciano tracce di neuro plasticità cerebrale, interventi terapeutici di segno opposto
possono sortire effetti altrettanto significativi e duraturi sulla struttura e sulla funzione del cervello? E’ questa una
domanda chiave ricca di conseguenze sul piano teorico e clinico. Possono, cioè, gli interventi terapeutici volti a favorire
un comportamento di socializzazione e di benessere relazionale con rapporti interpersonali positivi e adeguato sostegno
sociale, indurre cambiamenti neuro plastici nel cervello? Coan et al. (2006) in uno studio che esaminava l'effetto della
minaccia di shock, hanno trovato una significativa attenuazione della risposta neurale, in varie regioni cerebrali sensibili
tra cui l'insula anteriore e la corteccia cingolata ventrale anteriore, in donne che tenevano per mano il coniuge rispetto ai
controlli che tenevano per mano uno sconosciuto o che non tenevano per mano nessuno. Questo studio e altri analoghi
hanno esaminato l’impatto di una condizione acuta. Gli effetti acuti sono solitamente fasici e di breve durata, ma
sollevano la questione se una esposizione al sostegno sociale, continuata e cumulativa, possa indurre persistenti
cambiamenti neuro plastici benefici ed adattivi (Uchino et al., 1996). Altre forme di sostegno sociale, come l'accudimento
materno, sembrano modulare l'impatto del rischio prenatale sul volume dell'ippocampo, almeno nelle donne (Buss et al.,
2007). Una crescente messe di letteratura scientifica documenta cambiamenti funzionali e strutturali nel cervello, in
seguito a specifici interventi, soprattutto quando reiterati nel tempo. L'evidenza di variazioni stabili del comportamento, in
seguito a tali interventi, fornisce una base ragionevole per l'esplorazione di cambiamenti neurali che supportano questi
risultati comportamentali. Ad esempio, gli interventi volti a promuovere comportamenti di socializzazione attiva, con
un’efficace regolazione delle emozioni, sono stati sviluppati e inseriti in alcuni programmi scolastici per sostenere lo
sviluppo positivo delle capacità emozionali e di socializzazione in bambini in età scolare. In una recente meta-analisi di
213 programmi, svolti su più di 270.000 bambini in età scolare, Durlak et al. (2011) hanno riferito che i partecipanti a
programmi di apprendimento emotivo e di socializzazione attiva hanno presentato significativi incrementi delle abilità
sociali e della capacità di esprimere emozioni, rispetto a soggetti di controllo, con effetti positivi che si sono dimostrati del
11 per cento superiori, su misure standardizzate, sino al raggiungimento degli obiettivi accademici. Alcuni studi hanno
dimostrato l’efficacia della well-being therapy nel perseguire e mantenere specificatamente un’affettività positiva. (Fava
et al., 1998) Altre prove suggeriscono l'efficacia della terapia cognitiva nel trattamento della depressione. In un’ampia
revisione, De Rubeis et al. (2008) hanno presentato evidenze scientifiche coerenti con la considerazione che la terapia
cognitiva possa migliorare la funzione prefrontale e, tramite questa attivazione prefrontale, possa venire inibita
l'attivazione dell'amigdala. De Lange et al. (2008) hanno esaminato l'impatto della terapia cognitiva sui pazienti con
sindrome da stanchezza cronica in uno studio longitudinale a breve termine. Alla valutazione basale i pazienti
mostravano una diminuzione del volume della materia grigia della corteccia prefrontale laterale rispetto ai controlli sani. I
pazienti sono stati sottoposti, quindi, a 16 sessioni di terapia cognitiva e sono stati riesaminati dopo il trattamento. Un
aumento del volume della corteccia prefrontale laterale è stato riscontrato nei pazienti trattati, con risultati correlati ai
miglioramenti cognitivi obiettivi, misurati con il digit symbol substitution test e con il choice reaction time task. Purtroppo i
cambiamenti d’umore o di comportamento sociale non sono stati investigati in questo studio. Le tradizioni di meditazione,
che enfatizzano il coltivare atteggiamenti interpersonali di compassione e gentilezza, hanno ricevuto attenzione in studi
empirici, in un approccio pragmatico e laico. Una recente revisione della letteratura scientifica su questi temi ha concluso
che tali esercizi, orientati verso la valorizzazione di emozioni partecipative e di empatia sociale, effettivamente
aumentano le capacità di socializzazione ed un positivo tono dell’umore (Hofmann et al., 2011). Alcuni studiosi hanno
recentemente scoperto che un giorno di training in meditazione sulla compassione aumenta i comportamenti pro sociali
rispetto agli effetti indotti da un giorno di training sul controllo della memoria (Davidson & McEwen, 2012). Presi nel loro
insieme questi risultati suggeriscono che tali interventi e programmi di formazione, destinati esplicitamente a diminuire lo
stress e a migliorare l’espressione di emozioni positive possono produrre specifici effetti neuro plastici su struttura e
funzione cerebrale. Davidson et al. hanno studiato le alterazioni funzionali indotte nel cervello dalla meditazione in
praticanti esperti che avevano meditato per più di 10.000 ore nel corso della loro vita, rispetto a novizi che stavano
imparando a meditare (Davidson et al., 2003). .Nel corso di una pratica mentale esplicitamente progettata per migliorare
la compassione, Lutz et al. (2004) hanno evidenziato nei praticanti un incremento dell’attività bioelettrica cerebrale
gamma o, addirittura, una sincronia gamma rispetto ai soggetti di controllo. Inoltre alla risonanza magnetica funzionale si
è evidenziato un segnale BOLD di maggiore intensità in risposta ai suoni in alcune regioni del cervello emozionale tra cui
l'insula e la giunzione temporo-parietale che sono stati implicati in precedenti studi sull’empatia. L'aumento del ritmo
gamma e la sincronia gamma possono essere considerati effetti neuro plastici funzionali persistenti indotti dalla pratica
meditativa, suggerendo un miglioramento generale della plasticità sinaptica attraverso questa forma di pratica mentale
(Uhlhaas et al., 2010). Altre ricerche hanno suggerito che la meditazione di consapevolezza può operare tramite una
modalità neurale distinta dalla mentalizzazione soggettiva autoreferenziale, tale da favorire una transitoria esperienza
non giudicante del momento presente. Questa forma di allenamento mentale è stata trovata utile nel ridurre l'ansia e
migliorare il tono dell’umore (Kemeny et al., 2011). Alcuni autori hanno testato questa idea confrontando soggetti novizi
ed i partecipanti che avevano frequentato un corso di 8 settimane di Mindfulness Based Stress Reduction (MBSR). La
risonanza magnetica funzionale è stata utilizzata per misurare variazioni indotte in risposta ad un compito che
contrapponeva un focus esperienziale (hic et nunc), ad una focalizzazione narrativa, soggettiva, evocata in risposta ad
aggettivazioni di tratto. I partecipanti già esposti alla MBSR presentavano una ridotta attivazione prefrontale mediale e
una maggiore attivazione dell'insula e della corteccia prefrontale laterale, durante i focus esperienziali, rispetto alle
narrazioni soggettive (Farb et al., 2007). Risultati coerenti sono stati ottenuti con una strategia metodologica diversa in
un recente studio di confronto tra praticanti esperti di meditazione di consapevolezza confrontati con novizi. I meditanti
esperti hanno mostrato una ridotta attività prefrontale mediale nelle condizioni basali del segnale BOLD alla Risonanza
Magnetica funzionale rispetto ai novizi (Brewer et al., 2011). Altri risultati indicano che l'attivazione della corteccia
prefrontale mediale in condizioni basali è associata con la mente - errante (Christoff et al., 2009). Killingworth & Gilbert
(2010) hanno riferito che la mente errante, in continua libera associazione di contenuti, è associata significativamente ad
un tono dell’umore basso e alla condizione soggettiva di stress. Una limitazione importante di tutti gli studi sopra descritti
sugli effetti della meditazione è che essi derivano dal confronto di un gruppo di meditanti con un gruppo di controllo. Le
differenze registrate potrebbero essere dovute ad altri fattori confondenti più che alla pratica meditativa in se stessa.
Possono svolgere un ruolo confondente, per esempio, l’auto-selezione dei partecipanti ai due gruppi ed altri fattori
interferenti, per cui sarebbe più opportuno l’utilizzo di indagini longitudinali dei cambiamenti indotti, nel singolo meditante,
nel tempo, durante la pratica meditativa. Tale disegno è stato utilizzato per esaminare se talune forme di meditazione
possano operare effetti opposti a quelli prodotti dallo stress. Come già descritto, lo stress insorto precocemente nella vita
aumenta il volume dell'amigdala. In uno studio longitudinale su ventisei partecipanti sottoposti a un addestramento di
otto settimane in MBSR, sono state ottenute scansioni MRI prima e dopo le otto settimane di training. Un livello
soggettivo di stress è stato evidenziato dopo MBSR, sostanzialmente correlato con una riduzione del volume della
materia grigia baso-laterale nell’amigdala destra, evidenziata dalle scansioni MRI eseguite dopo le otto settimane di
allenamento e confrontate con quelle registrate prima dell’inizio dl trattamento. Questi risultati suggeriscono che
variazioni di plasticità, delle regioni del cervello implicate nello stress, possono verificarsi dopo appena otto settimane di
meditazione di consapevolezza (Hölzel et al., 2010).
CONCLUSIONI E IMPLICAZIONI
È noto da più di un secolo che il comportamento sociale ed emotivo è sostanzialmente modificato dall'esperienza.
Esistono abbondanti prove che dimostrano che lo stress e i traumi psichici, in particolare nei primi anni di vita, sono in
grado di produrre alterazioni durature nel comportamento. E’ stato inoltre sostenuto da migliaia di anni che specifiche
forme di training mentale possono produrre robusti effetti benefici e duraturi sul comportamento. La rigorosa indagine di
tali effetti e dei meccanismi neurali responsabili della loro produzione solo recentemente è diventata un serio oggetto di
studio neuro scientifico. Le scoperte che abbiamo presentato, in questa breve rassegna, dimostrano una sostanziale
neuro plasticità morfo-funzionale della circuiteria emotiva, in risposta allo stress acuto e cronico, in particolare con
alterazioni della densità delle spine, riduzione in lunghezza e ramificazione dei dendriti nell’ippocampo, nell’amigdala e
nella corteccia prefrontale. Le prove a livello animale hanno identificato diversi meccanismi di plasticità nel turnover
dendritico e sinaptico e nella neuro genesi. I dati sperimentali su modello animale e quelli clinici sull’uomo sono
sostanzialmente coerenti nel dimostrare che molte forme di stress promuovono la crescita eccessiva dell’amigdala,
mentre gli effetti a livello dell’ippocampo tendono a essere opposti. L’esistenza di periodi critici, sensibili, di specifica
neuro plasticità correlata alle influenze sociali, non è stata ancora definitivamente dimostrata. Numerosi studi
suggeriscono questa eventualità. A tal fine saranno, però, necessari studi specifici più sistematici. Alcuni fattori
ambientali, tra cui l’assunzione di alcuni farmaci antidepressivi, potrebbero riaprire una finestra temporale di neuro
plasticità nelle circuitazioni emotive. Queste opportunità di riportare a un nuovo e migliore livello di omeostasi neurosociale possono essere vantaggiosamente condizionate dall’associazione di opportune terapie psicologiche, cognitive o
socio-comportamentali. Va rilevato, però, che la reversibilità delle modifiche strutturali in seguito a variazioni delle
condizioni sociali ed emotive non è stata ancora sistematicamente esaminata. A livello umano, la ricerca sta
cominciando a documentare l'impatto degli interventi espliciti volti a ridurre lo stress e promuovere il comportamento
sociale e il benessere su struttura e funzione del cervello. Questi studi sono coerenti con la ricerca di base nel
dimostrare l’attivazione funzionale di specifiche regioni prefrontali e la tendenziale inibizione funzionale dell'amigdala.
Queste alterazioni funzionali si accompagnano a cambiamenti strutturali che mostrano aumento del volume prefrontale e
diminuzione del volume dell'amigdala. Le differenze precise tra i vari interventi che sono stati sviluppati per questo scopo
generale non sono state studiate sistematicamente, né la relazione tra i cambiamenti funzionali e strutturali sono stati
sempre accuratamente documentati. Inoltre, è evidente che la connettività strutturale e funzionale tra regioni prefrontali e
strutture sottocorticali è estremamente importante per la regolazione delle emozioni e queste connessioni rappresentano
importanti obiettivi per studiarne i correlati di neuro plasticità. Questo sarà probabilmente un obiettivo importante per
studi futuri. Infine, gli studi sugli interventi esplicitamente volti a promuovere effetti terapeutici o semplicemente effetti di
benessere soggettivo e relazionale, come la gentilezza e la presenza mentale, implicano che tali qualità possano essere
considerate, propriamente, come il prodotto di competenze che possono essere apprese ed implementate attraverso
opportuni training. Con la pratica può migliorare la performance emotivo-relazionale, come qualsiasi altra performance,
con i correlati effetti neuro-anatomici specifici. Le evidenze attualmente disponibili sembrano sostenere che questi
interventi pro-sociali modulano gli effetti negativi dello stress e inducono un funzionamento neuro-comportamentale
migliore. Questa prospettiva può portare a ritenere che le caratteristiche sociali ed emotive possono essere educate in
modi che non sono dissimili da certe forme di apprendimento cognitivo. Molte forme di meditazione e la terapia cognitiva
possono aumentare l'auto-controllo o l’autoregolazione (Chambers et al., 2009). Tali miglioramenti nel controllo di sé
sono particolarmente evidenti in contesti sociali e interpersonali. In un recente studio di una coorte di 1000 partecipanti,
valutati dalla nascita all'età 32 anni, Moffitt et al. (2011) hanno trovato che alcune valutazioni effettuate con opportuni
strumenti psicodiagnostici sulle capacità di autocontrollo nell’infanzia possono predire con buona approssimazione i livelli
di salute fisica, la dipendenza da sostanze, le finanze personali e gli eventuali carichi penali all’età 32 anni. Moffitt et al.
hanno definito l’autocontrollo come l’effetto comportamentale di una serie di processi che includono la capacità di
autodeterminarsi in previsione di un obiettivo, il livello d’attenzione, il controllo degli impulsi, le funzioni esecutive e la
capacità di ritardare la gratificazione. Questi autori hanno suggerito che gli interventi che migliorano l'autocontrollo
potrebbero ridurre tutta una serie di costi personali e sociali, promuovendo la salute e la prosperità, del singolo e della
collettività. L'allenamento mentale alla base delle tecniche sopra descritte potrebbe costituire una modalità ideale
d’intervento per promuovere un precoce autocontrollo e migliorare i risultati di adattamento sociale in età adulta. Ad
esempio, la meditazione di consapevolezza è stata dimostrata poter rafforzare gli aspetti selettivi dell’attenzione e delle
funzioni esecutive (Lutz et al., 2008). Che tali interventi possano indurre cambiamenti duraturi è una possibilità che
richiederà ulteriori ampie indagini sperimentali.
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