LEIBNIZ, L'ESIGENZA DI CONFRONTARSI CON LOCKE
Il recupero di elementi del pensiero antico scaturisce dal confronto serrato con i filosofi moderni. La ricerca sul
funzionamento dei processi della conoscenza porta Leibniz a misurarsi con John Locke, il quale, nel 1690, con il Saggio
sull'intelletto umano, aveva proposto una svolta rivoluzionaria nella filosofia moderna. Leibniz risponde con i Nuovi saggi
sull'intelletto umano, scritti fra il 1703 e il 1704.
G. W. Leibniz, Nuovi saggi sull'intelletto umano, Prefazione
Il Saggio sull'intelletto umano scritto da un illustre inglese è uno dei libri piú belli e piú apprezzati del nostro tempo.
Ho deciso, perciò, di farvi alcune osservazioni: perché, avendo meditato per molto tempo sullo stesso argomento, e sulla
maggior parte delle materie che il saggio tratta, ho pensato che fosse una buona occasione per scriverne qualcosa,
sotto il titolo di Nuovi saggi sull'intelletto umano, in modo da introdurre piú favorevolmente i miei pensieri, presentandoli
in cosí buona compagnia.
Ho pensato, inoltre, di poter approfittare del lavoro altrui, non soltanto per diminuire il mio (perché effettivamente si fa
meno fatica a seguire il filo di un buon autore che a impiantare in modo del tutto nuovo il lavoro), ma anche per
aggiungere qualcosa a quello che egli ci ha dato: e questo è sempre piú facile che cominciare da principio.
È vero che, spesso, le mie opinioni divergono dalle sue: ma, lungi dal misconoscere per questo il merito di questo
celebre scrittore, gliene rendo testimonianza, facendogli sapere in che cosa, e perché, io mi allontani dal suo parere,
quando ritenga necessario impedire che la sua autorità prevalga sulla ragione intorno a qualche punto importante. Infatti,
sebbene l'autore del Saggio dica mille cose belle, a cui io consento, i nostri due sistemi differiscono assai. Il suo sistema
si rifà piuttosto ad Aristotele, il mio a Platone, anche se in molte cose ci allontaniamo entrambi dalle dottrine di questi
antichi.
LEIBNIZ, SULL'INNATISMO
Il metodo matematico costituisce per Leibniz un modello per tutte le scienze e per la filosofia. Il modello matematico
permette di sviluppare una conoscenza rigorosamente deduttiva, inconciliabile con l'empirismo di Locke, che
presuppone invece una mente del tutto vuota (tabula rasa) perché possa essere “impressionata” dai dati sensibili e
formulare cosí le proprie idee.
La nostra discordia verte su punti di una certa importanza. Si tratta di sapere se l'anima sia in se stessa del tutto vuota, a
guisa di una tavoletta su cui non si sia ancora scritto nulla (tabula rasa), come vogliono Aristotele e l'autore del Saggio [J.
Locke], e se tutto ciò che vi è tracciato derivi unicamente dal senso e dall'esperienza, o se, invece, l'anima contenga
originariamente i princípi di molte nozioni e dottrine, che gli oggetti esterni non fanno altro che svegliare, come
occasioni: come io credo con Platone, e anche con gli Scolastici, e con tutti coloro che danno questo significato al passo
di san Paolo (Epistola ai Romani, 2, 15) in cui egli afferma che la legge di Dio è “scritta nei cuori”. [...]
Nasce, di qui, un altro problema: e cioè se tutte le verità dipendano dall'esperienza, ossia dall'induzione e dai casi
particolari, o se ve ne siano alcune che hanno anche un altro fondamento. Se, infatti, taluni eventi si lasciano prevedere
prima di averne fatto un qualsiasi esperimento, è palese che noi vi conferiamo qualcosa da parte nostra. Le sensazioni
sebbene necessarie per tutte le nostre conoscenze in atto, non bastano punto a darci tutte le nostre conoscenze in
genere: poiché esse non offrono mai altro che casi singoli, vale a dire verità particolari o individuali. Ma tutti gli esempi
che confermano una verità generale, per quanto numerosi essi siano, non bastano a stabilire la verità universale di tale
proposizione: non ne deriva, infatti, che ciò che è accaduto accadrà sempre allo stesso modo. Per esempio, i Greci e i
Romani e tutti gli altri popoli della Terra conosciuta dagli antichi, hanno sempre osservato che, prima del decorso di 24
ore, il giorno si cangia in notte e la notte in giorno. Ma ci s'ingannerebbe se si credesse che la medesima regola si
osserva ovunque, dopo che si è esperimentato che nella Nuova Zemplia accade il contrario. E, ancora, si ingannerebbe
chi considerasse ciò una verità necessaria ed eterna per lo meno nei nostri climi: si deve infatti considerare che neppure
la Terra e il Sole esistono necessariamente, e che vi sarà forse un tempo in cui questo astro splendente non sarà piú,
almeno nella sua forma attuale, e, con lui, tutto il suo sistema. Si scorge, di qui, che le verità necessarie, quali si trovano
nelle matematiche pure, e particolarmente nell'aritmetica e nella geometria, devono avere princípi la cui prova non
dipende punto dagli esempi, né, di conseguenza, dall'attestazione dei sensi, anche se, senza i sensi, non si avrebbe mai
l'occasione di pensarci. é questa una cosa che occorre distinguere bene; ed Euclide l'ha cosí ben capita che egli
dimostra con la ragione anche ciò che si constata a sufficienza con l'esperienza e con le immagini sensibili. Anche la
logica, con la metafisica e la morale - che danno luogo, in un caso, alla filosofia naturale, e nell'altro alla giurisprudenza
naturale - sono piene di verità siffatte. Di conseguenza la loro prova non può derivare se non da princípi interni, che si
chiamano innati.
LEIBNIZ, L'INNATISMO VIRTUALE
Può darsi che il nostro valente autore [J. Locke] non sia del tutto lontano dalla mia opinione. Infatti, dopo aver impiegato
tutto il suo I libro a confutare le idee innate, prese in un certo senso, riconosce tuttavia, all'inizio del II, e in seguito, che
le idee che non si originano nella sensazione vengono dalla riflessione: ora, la riflessione non è altro che un'attenzione a
ciò che si trova in noi, e i sensi non ci danno affatto ciò che portiamo già in noi medesimi. Ciò posto, come negare che vi
siano molte cose innate nella nostra mente, dal momento che noi, per cosí dire, siamo innati a noi stessi, e in noi si trova
essere, unità, sostanza, durata, azione, percezione, piacere e mille altri oggetti di nostre idee intellettuali. E poiché
questi oggetti sono immediati, e sempre presenti al nostro intelletto (sebbene non sempre siano percepiti, a cagione
delle nostre distrazioni e dei nostri bisogni), come meravigliarsi se noi diciamo che queste idee ci sono innate, con tutto
ciò che da esse dipende? Talvolta mi son servito anche del paragone di un blocco di marmo venato, diverso da un
blocco di marmo tutto unito, o dalle tavolette vuote: ossia, da ciò che i filosofi chiamano tabula rasa. Poiché, se l'anima
fosse simile a queste tavolette vuote, le verità sarebbero in noi come la figura d'Ercole in un blocco di marmo, quando il
blocco sia assolutamente indifferente a ricevere questa o quella figura. Ma se vi fossero venature nel marmo, tali da
segnare la figura di un Ercole a preferenza di altre, quel blocco avrebbe una maggior determinazione, e l'Ercole vi
sarebbe, in qualche modo, innato, pur restando necessario un certo lavoro per scoprire le vene e per mettere a nudo la
figura, togliendo il soverchio che le impedisce di apparire. È questo il senso in cui le idee e le verità sono innate in noi,
come inclinazioni, disposizioni, abitudini o virtualità naturali, e non come azioni: anche se tali virtualità sono sempre
accompagnate da una qualche azione corrispondente, spesso insensibile.