Itinera n. 3, 2012

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Mimesis come rappresentazione: stare a cavalcioni
sulla cornice dei mondi
di Michele Bertolini
Recensione: Alfonso M. Iacono, L’illusione e il sostituto. Riprodurre,
imitare, rappresentare, Bruno Mondadori, Milano 2010
“Noi viviamo di sostituti. Li creiamo. Costruiamo sostituti che non sostituiscono perché spesso il loro stare al posto di non è opera di supplenza, ma produzione di un mondo nuovo”1. Quando i bambini giocano
con un cavallo di legno, l’hobby horse richiamato da un famoso saggio di
Ernst Gombrich2 diventa un sostituto del cavallo di cui assume le funzioni; ma al tempo stesso, si offre come un non-cavallo, in quanto costituisce l’oggetto di un gioco nel mondo di finzione dell’hobby horse, un
mondo ben distinto dal mondo di senso in cui gli adulti vanno a cavallo.
Un universo di finzione istituisce una struttura di differenza sullo
sfondo di un tessuto di somiglianze, apre un mondo di senso autonomo
che non cessa tuttavia di mantenere un riferimento a un altro mondo,
dal quale è distinto e al quale è nello stesso tempo collegato da una
cornice o da un contesto di senso. Da questa premessa, relativa alla
pervasiva implicazione dell’atto di operare delle sostituzioni nella maggior parte dei processi cognitivi e nelle azioni dell’uomo, si sviluppa il
percorso teorico e storico-critico del testo di Iacono L’illusione e il sostituto che coinvolge innanzitutto uno dei concetti fondativi dell’estetica e
della filosofia occidentale, il concetto di mimesis, da intendersi nel suo
senso originario, pre-platonico, di rappresentazione che richiede una soA.M. Iacono, L’illusione e il sostituto. Riprodurre, imitare, rappresentare, Bruno
Mondadori, Milano 2011, p. 4.
2 Cfr. E. Gombrich, “Il cavallo a manico di scopa ovvero le radici della forma
artistica”, in A cavallo di un manico di scopa. Saggi di teoria dell’arte, tr. it. di C.
Roatta, Einaudi, Torino 1971, pp. 3-19.
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stituzione, con particolare riferimento all’azione teatrale e al gesto di
identificazione drammatica dell’attore, e non nel suo significato derivato di riproduzione o imitazione copiativa di un modello sussistente. Un
percorso che si dipana essenzialmente all’interno della filosofia continentale nella consapevolezza tuttavia della centralità del dibattito teorico sulla mimesis come rappresentazione e sostituzione nel contesto
della filosofia analitica americana, testimoniato anche dalla recente
traduzione italiana del volume di Kendall Walton Mimesis as MakeBelieve3.
Il nodo concettuale dei processi di sostituzione e di formazione
dell’illusione viene affrontato in una prospettiva ad ampio raggio che
raccoglie i contributi della filosofia, dell’antropologia, della psicologia
dell’infanzia (Winnicott), della teoria del gioco (Bateson), delle scienze
sociali ed umane, della storia dell’arte (Gombrich, Alpers).
La logica della sostituzione, sottesa anche ai processi che presiedono
al gioco infantile, impone quindi un ripensamento dell’idea di
imitazione e di ogni politica di difesa del valore dell’immagine di fronte
al rischio, sempre paventato fin dalla condanna iconoclasta del culto
delle immagini, di una confusione fra immagine e prototipo, fra copia e
originale, quale esito ultimo del processo di sostituzione. Nel concetto e
nella storia dei processi umani di sostituzione è presente dunque un
rischio, che una lucida teoria della rappresentazione deve scongiurare:
il pericolo di uno slittamento della nozione di illusione e di mimesis
verso il concetto di inganno e di simulazione, laddove il sostituto
(oggetto, immagine, idolo del Dio) tende a nascondersi e a sovrapporsi
completamente a ciò che sostituisce, annullando le differenze che lo
separano dal suo modello di riferimento. Come è testimoniato già dalla
definizione aristotelica di mimesis, l’uso greco del concetto di
imitazione oscilla fra l’idea di simulazione, che si spinge fino al piacere
Cfr. K.L. Walton, Mimesis come far finta. Sui fondamenti
rappresentazionali, a cura di M. Nani, Mimesis, Milano 2011.
3
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delle
arti
dell’inganno, e quella di rappresentazione, costruzione artificiale che
sembra quasi produrre qualcosa di cui nella realtà non esiste un vero
modello, tenendo unite insieme le sue polarità nell’unità duplice di
un’ambivalenza
costitutiva.
Condizione
imprescindibile
della
sostituzione simbolica è quindi il costante riferimento e rimando
relazionale di un universo di senso ad un altro universo che resta
presente sullo sfondo: contro l’ipotesi sostenuta da Gombrich di una
creazione artistica innocente, un fare che precede l’imitare e che opera
in assenza di riferimento, Iacono afferma l’insuperabile storicità di ogni
produzione umana, che definisce la sua originalità e autonomia nel
confronto e nella dipendenza con altri prodotti, con altri artefatti
umani.
Questa posizione teorica è confortata dalla tematizzazione del
concetto di ‘mondo intermedio’, (la cui formulazione è testimoniata non a caso – già in Paul Klee) e di ‘realtà multiple’ che Iacono ricava da
William James e Alfred Schutz: i mondi di senso in cui costantemente
abitiamo e viviamo sono quelle strutture di significato che istituiscono
la loro autonomia e specificità, il loro coerente stile cognitivo, sullo
sfondo di una relazione, di un riferimento ad altri mondi di senso e che
possiamo attraversare compiendo un passaggio di soglia. Il mondo dei
sogni, dell’arte, dell’esperienza religiosa e della contemplazione
scientifica, del lavoro e della vita quotidiana, del gioco infantile sono
altrettante province di senso che non devono tuttavia essere
assolutizzate e naturalizzate, ma riconosciute nella loro genesi storicoculturale, nella loro costitutiva artificialità.
Una precisa delimitazione del concetto di illusione nei confronti di
quello
di
inganno,
appare
quindi
come
un’operazione
teorica
imprescindibile per definire il giusto valore dei processi di sostituzione,
contro le pregiudiziali condanne platoniche del III e del X libro della
Repubblica. L’illusione infatti comporta sempre “la consapevolezza del
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soggetto di entrare in un mondo intermedio”4, una “sospensione
temporanea e volontaria dell’incredulità”5 per citare le celebri parole di
Coleridge, che permette allo spettatore di percepire il sostituto come
sostituto, senza confonderlo con il sostituito. Un compito che Iacono si
assume sulla scorta di autori come Diderot e Kant (ma senza
dimenticare Du Bos, Lessing, Mendelssohn) che, nel secolo della
fondazione dell’estetica moderna, hanno perseguito in modo diverso
un’indagine
sulle
strutture
costitutive
dell’illusione
estetica,
mettendone in luce la portata veritativa e la specifica natura
semantica.
Il primo, Diderot, attraverso una riflessione sull’arte dell’attore e
sulla rappresentazione teatrale che ha nuovamente ricollegato la teoria
della mimesis alle sue radici rappresentazionali, ha sottolineato la
dimensione artificiale e costruttiva della mimesis attoriale come
dell’opera teatrale, portatrice di un verità poetica altra e parallela
rispetto alla verità filosofica e ha colto lucidamente come l’esito
dell’operazione di imitazione sia uno sdoppiamento creativo che
coinvolge al tempo stesso l’attore e lo spettatore dello spettacolo
estetico, capaci di diventare l’altro pur rimanendo se stessi. In Diderot
è possibile individuare una delle conseguenze dell’assunzione della
struttura dell’illusione come mondo intermedio posto in costante
riferimento con il mondo reale: se il mondo intermedio del gioco o
dell’arte presuppone la percezione, implicita ed esplicita, del contesto,
della cornice all’interno della quale si produce il mondo di senso in cui
siamo temporaneamente immersi (la consapevolezza per lo spettatore
dell’orizzonte di finzione in cui si realizza il coinvolgimento emotivo
prodotto dall’opera), e quindi dello sfondo costituito dagli altri mondi
intermedi, il gioco di avvicinamento e presa di distanza, di immersione
A.M. Iacono, op. cit., p. 95.
“Willing suspension of disbelief for the moment” (S.T. Coleridge, Biographia
Literaria, capitolo 14, in Samuel Taylor Coleridge, a cura di H.J, Jackson, The Oxfords Authors, Oxford 1985, p. 314).
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e allontanamento dello spettatore suggerisce l’ipotesi di una costitutiva
e strutturale duplicità dell’uomo, che si esprime al suo massimo livello
nell’abito mimetico dell’attore il cui io diventa altro per imitazione, ma
pure nell’interesse disinteressato che il fruitore rivolge nei confronti
della rappresentazione artistica, seguendo una continua oscillazione
fra immersione empatica nell’opera e presa di distanza critica.
Il secondo, Kant, che si sofferma sul rapporto fra illusione e inganno
già nel confronto con Johann Kreutzfeld nel 1777 per ritornare sul
problema nella tarda Antropologia pragmatica, vede nell’illusione una
struttura
estetica,
basata
sull’apparenza
dei
sensi,
dotata
di
permanenza (a differenza della labile fugacità dell’inganno, che
svanisce nel momento in cui si diventa consapevoli dell’errore) in cui la
mente umana s’introduce volontariamente e che si affianca, come un
mondo parallelo, al mondo della realtà stessa. La capacità della mente
di giocare all’interno di un mondo di finzione che non perde di vista,
con la coda dell’occhio, i margini e i confini su cui si costruisce, attesta
la libertà critica di un soggetto consapevole e maturo, che si lascia
ingannare dai sensi senza cadere negli errori della ragione.
Le conseguenze etiche e politiche della capacità dell’uomo di giocare
consapevolmente sulla soglia di più mondi di senso sono rilevanti:
Iacono sottolinea, sulla traccia luminosa del paragrafo 40 della Critica
del giudizio (dove la definizione del gusto come sensus communis
incontra lo sforzo di liberazione dalla superstizione del pensare da sé,
della ragione priva di pregiudizi), la convergenza fra il progetto di
conquista di autonomia di pensiero e di azione del cittadino propria
dell’Illuminismo, e lo sviluppo di una riflessione estetica che nel corso
del Settecento s’incarica di approfondire e interrogare quel mondo
intermedio di senso rappresentato dalla finzione estetica, liberandosi
dai pregiudizi morali e metafisici che persistono in Platone o in
Cartesio quando si rivolgono verso l’universo poetico del verosimile,
della fabula.
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In questo percorso di riabilitazione delle differenze e distinzioni,
anche sfumate, fra inganno e illusione, fra verosimile e falso, svolge un
ruolo fondamentale la nuova considerazione dell’esperienza sensibile,
comune
e
condivisa
intersoggettivamente,
cui
contribuisce
naturalmente anche l’opera di Vico, che contesta l’assimilazione
cartesiana fra verosimile e falso, in quanto il verosimile, da cui si
genera il senso comune, “è come intermedio fra il vero e il falso, giacché
essendo per lo più vero, assai di rado è falso”6. L’operazione vichiana
risulta decisiva per il suo tentativo di liberare la verità del verosimile,
lo sforzo di “interpretare il ruolo epistemologico della verità di ciò che è
creduto vero”7 da una comunità, da un popolo, da una nazione,
superando l’opposizione manichea fra verità della ragione e falsità del
sapere popolare. La costruzione di un sapere umano e storico
consapevole dei limiti a partire dai quali sono state edificate le utili
finzioni delle parole e dei simboli matematici, rivela la dimensione
sociale, intersoggettiva, prospettica della conoscenza, che si mostra
come un esercito di metafore e metonimie in movimento, aperto a una
continua e costante interpretazione reciproca. Il verosimile, il mondo
dell’illusione poetica e artistica o mitica, attesta in questo caso un
momento produttivo dello spirito umano: un momento in cui il senso
comune scopre dall’interno il fondo di verità che lo attraversa, verità
non solipsistica perché capace di cercare la propria identità
nell’alterità, nel confronto storico e critico con la conoscenza del passato
o con le relazioni sociali del presente. un luogo di costruzione di mondi
autonomi di senso, che finiscono per legittimarsi come naturali,
immediati, nascondendo i processi metaforici, retorici, immaginativi
che li hanno generati.
Il compito di una filosofia critica, accompagnata in questo suo
faticoso esercizio anche da alcune forme dell’esperienza artistica
G. Vico, “De nostri temporis studiorum ratione”, in Opere, a cura di A. Battistini, I,
Mondadori, Milano 1990, p. 105.
7 A.M. Iacono, op. cit., p. 148.
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novecentesca, consiste nella volontà di operare uno smascheramento
degli autoinganni inconsapevoli che le finzioni dell’intelletto, del
linguaggio e dell’immaginazione non cessano di produrre nel corso
della storia dell’uomo. I protagonisti filosofici che accompagnano il
tragitto del libro di Iacono verso la sua conclusione sono i ‘maestri del
sospetto’, Nietzsche, Marx e Freud, a cominciare dal giovane Nietzsche
autore di Su verità e menzogna in senso extramorale che lucidamente
interroga l’intelletto e il linguaggio come forze ‘mimetiche’ produttrici
di maschere e finzioni, sostituti delle tecnologie naturali che si
autorappresentano come originali. La sostituzione delle mobili
metafore intuitive che esprimono il fluire della vita con complessi
schemi concettuali si accompagna ad una reificazione del concetto, la
cui verità consiste in realtà semplicemente nell’oblio della metafora che
l’ha resa possibile, e in un processo di autoinganno inconsapevole
dell’antropocentrismo della mente umana. La solidità del concetto, con
cui l’uomo pretende di conoscere il fondamento ultimo della natura,
riposa sulla sua capacità di imitare e ripetere la regolarità di metafore
abituali fino a sostituirsi ad esse: la dialettica di imitazione e
sostituzione viene recuperata qui nel cuore dei processi conoscitivi e
delle pratiche umane, in quanto abita la ragione stessa e la sua
ambizione metafisica di trovare un fondamento ultimo e oggettivo di
verità. La critica nietzschiana alla ‘naturalizzazione’ dei concetti (che
pretendono ormai di valere come modelli e paradigmi cui la natura
deve corrispondere) s’inserisce nel progetto filosofico radicale di quel
rovesciamento
del
platonismo,
che,
denunciando
l’Idea
come
produzione di un originale che nasconde la sua dimensione costruttiva,
artificiale,
fattiva,
ha
conosciuto
nel
Novecento
una
feconda
elaborazione teorica su un piano insieme ontologico ed estetico, ad
esempio nella teorizzazione deleuziana del simulacro.
La naturalizzazione dell’artificiale, di ciò che è prodotto fattizio di
una cultura, come conseguenza di un processo di oblio, di perdita della
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memoria dell’origine, è inoltre al centro della riflessione sul feticismo
della merce di Marx o sul feticismo freudiano, rivelando quindi la sua
centralità nel dibattito filosofico e artistico contemporaneo (dove il
feticismo della merce assume il carattere seduttivo e chimerico del
simulacro warholiano). Proprio nell’arte, tuttavia, è possibile trovare
strategie alternative e inedite di risposta alla proliferazione dei
simulacri e ai processi di ipostatizzazione metafisica e politica della
finzione come verità: sia attraverso la liberazione del simulacro stesso
dalla gerarchia platonica del prototipo e della copia, sia, come
suggerisce criticamente Iacono, in quelle rappresentazioni artistiche
che si servono dell’umorismo e dell’ironia per produrre una critica della
rappresentazione dall’interno della rappresentazione stessa (Magritte)
o uno sdoppiamento, una duplicazione del soggetto rappresentato
nell’opera stessa, come accade nel teatro di Pirandello, teatro
umoristico e serio, abitato dal sentimento del contrario, “che ci fa
vedere, dentro l’illusione artistica, il carattere illusorio della vita”8.
L’arte riveste, come la conoscenza filosofica, storica e filologica, da
questo punto di vista una fondamentale funzione educativa, stimolando
un salutare esercizio dello sguardo: lo stimolo a guardare le stesse cose
“con altri occhi, gli occhi di chi sta a cavalcioni sulla cornice tra i due
mondi”9, a mettere in discussione l’evidenza naturale del mondo
percepito attraverso la percezione delle cornici che separano e
collegano i diversi mondi di senso. Nella fruizione estetica, lo
spettatore come nel gioco realizza quell’unità del credere e del non
credere10, dell’immersione emotiva nella rappresentazione e dell’uscita
dalla caverna che assume spesso nell’arte del Novecento una
connotazione ironica, insieme ludica (l’ironia rivela la sua profonda
Ibid., p. 183.
Ibid., p. 22.
10 Huizinga nel suo celebre libro Homo ludens definisce appunto lo statuto intermedio
del gioco come unità del credere e del non credere (cfr. J. Huizinga, Homo ludens, tr.
it. di C. von Schendel, Einaudi, Torino 1972, p. 31).
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parentela con l’illusione, con l’ingresso nel gioco dell’in-ludere) ed
enigmatica, capace non solo di evitare l’assolutizzazione di ogni
provincia finita di senso ma anche di interrogare la fluidità delle
cornici attraverso le quali passiamo da un mondo di senso a un altro.
Fluidità che viene sottolineata proprio dall’esercizio del dubbio e del
rovesciamento ironico che presuppone al tempo stesso sia l’accordo dei
partecipanti o dei giocatori intorno al gioco sia il dubbio sui limiti della
cornice stessa del gioco: l’affermazione interrogante che accompagna
tante volte i visitatori all’interno di una mostra di arte contemporanea
(“Questa è arte!”, “Questa è arte?”) a cominciare dal ready made
duchampiano s’inscrive probabilmente all’interno di questa strategia
ironica complessa, riannodando in modo inedito i fili invisibili che
legano e insieme separano l’arte dalla filosofia.
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