Mimesis come rappresentazione: stare a cavalcioni sulla cornice dei mondi di Michele Bertolini Recensione: Alfonso M. Iacono, L’illusione e il sostituto. Riprodurre, imitare, rappresentare, Bruno Mondadori, Milano 2010 “Noi viviamo di sostituti. Li creiamo. Costruiamo sostituti che non sostituiscono perché spesso il loro stare al posto di non è opera di supplenza, ma produzione di un mondo nuovo”1. Quando i bambini giocano con un cavallo di legno, l’hobby horse richiamato da un famoso saggio di Ernst Gombrich2 diventa un sostituto del cavallo di cui assume le funzioni; ma al tempo stesso, si offre come un non-cavallo, in quanto costituisce l’oggetto di un gioco nel mondo di finzione dell’hobby horse, un mondo ben distinto dal mondo di senso in cui gli adulti vanno a cavallo. Un universo di finzione istituisce una struttura di differenza sullo sfondo di un tessuto di somiglianze, apre un mondo di senso autonomo che non cessa tuttavia di mantenere un riferimento a un altro mondo, dal quale è distinto e al quale è nello stesso tempo collegato da una cornice o da un contesto di senso. Da questa premessa, relativa alla pervasiva implicazione dell’atto di operare delle sostituzioni nella maggior parte dei processi cognitivi e nelle azioni dell’uomo, si sviluppa il percorso teorico e storico-critico del testo di Iacono L’illusione e il sostituto che coinvolge innanzitutto uno dei concetti fondativi dell’estetica e della filosofia occidentale, il concetto di mimesis, da intendersi nel suo senso originario, pre-platonico, di rappresentazione che richiede una soA.M. Iacono, L’illusione e il sostituto. Riprodurre, imitare, rappresentare, Bruno Mondadori, Milano 2011, p. 4. 2 Cfr. E. Gombrich, “Il cavallo a manico di scopa ovvero le radici della forma artistica”, in A cavallo di un manico di scopa. Saggi di teoria dell’arte, tr. it. di C. Roatta, Einaudi, Torino 1971, pp. 3-19. 1 Itinera, N. 3, 2012. Pagina 336 stituzione, con particolare riferimento all’azione teatrale e al gesto di identificazione drammatica dell’attore, e non nel suo significato derivato di riproduzione o imitazione copiativa di un modello sussistente. Un percorso che si dipana essenzialmente all’interno della filosofia continentale nella consapevolezza tuttavia della centralità del dibattito teorico sulla mimesis come rappresentazione e sostituzione nel contesto della filosofia analitica americana, testimoniato anche dalla recente traduzione italiana del volume di Kendall Walton Mimesis as MakeBelieve3. Il nodo concettuale dei processi di sostituzione e di formazione dell’illusione viene affrontato in una prospettiva ad ampio raggio che raccoglie i contributi della filosofia, dell’antropologia, della psicologia dell’infanzia (Winnicott), della teoria del gioco (Bateson), delle scienze sociali ed umane, della storia dell’arte (Gombrich, Alpers). La logica della sostituzione, sottesa anche ai processi che presiedono al gioco infantile, impone quindi un ripensamento dell’idea di imitazione e di ogni politica di difesa del valore dell’immagine di fronte al rischio, sempre paventato fin dalla condanna iconoclasta del culto delle immagini, di una confusione fra immagine e prototipo, fra copia e originale, quale esito ultimo del processo di sostituzione. Nel concetto e nella storia dei processi umani di sostituzione è presente dunque un rischio, che una lucida teoria della rappresentazione deve scongiurare: il pericolo di uno slittamento della nozione di illusione e di mimesis verso il concetto di inganno e di simulazione, laddove il sostituto (oggetto, immagine, idolo del Dio) tende a nascondersi e a sovrapporsi completamente a ciò che sostituisce, annullando le differenze che lo separano dal suo modello di riferimento. Come è testimoniato già dalla definizione aristotelica di mimesis, l’uso greco del concetto di imitazione oscilla fra l’idea di simulazione, che si spinge fino al piacere Cfr. K.L. Walton, Mimesis come far finta. Sui fondamenti rappresentazionali, a cura di M. Nani, Mimesis, Milano 2011. 3 Itinera, N. 3, 2012. Pagina 337 delle arti dell’inganno, e quella di rappresentazione, costruzione artificiale che sembra quasi produrre qualcosa di cui nella realtà non esiste un vero modello, tenendo unite insieme le sue polarità nell’unità duplice di un’ambivalenza costitutiva. Condizione imprescindibile della sostituzione simbolica è quindi il costante riferimento e rimando relazionale di un universo di senso ad un altro universo che resta presente sullo sfondo: contro l’ipotesi sostenuta da Gombrich di una creazione artistica innocente, un fare che precede l’imitare e che opera in assenza di riferimento, Iacono afferma l’insuperabile storicità di ogni produzione umana, che definisce la sua originalità e autonomia nel confronto e nella dipendenza con altri prodotti, con altri artefatti umani. Questa posizione teorica è confortata dalla tematizzazione del concetto di ‘mondo intermedio’, (la cui formulazione è testimoniata non a caso – già in Paul Klee) e di ‘realtà multiple’ che Iacono ricava da William James e Alfred Schutz: i mondi di senso in cui costantemente abitiamo e viviamo sono quelle strutture di significato che istituiscono la loro autonomia e specificità, il loro coerente stile cognitivo, sullo sfondo di una relazione, di un riferimento ad altri mondi di senso e che possiamo attraversare compiendo un passaggio di soglia. Il mondo dei sogni, dell’arte, dell’esperienza religiosa e della contemplazione scientifica, del lavoro e della vita quotidiana, del gioco infantile sono altrettante province di senso che non devono tuttavia essere assolutizzate e naturalizzate, ma riconosciute nella loro genesi storicoculturale, nella loro costitutiva artificialità. Una precisa delimitazione del concetto di illusione nei confronti di quello di inganno, appare quindi come un’operazione teorica imprescindibile per definire il giusto valore dei processi di sostituzione, contro le pregiudiziali condanne platoniche del III e del X libro della Repubblica. L’illusione infatti comporta sempre “la consapevolezza del Itinera, N. 3, 2012. Pagina 338 soggetto di entrare in un mondo intermedio”4, una “sospensione temporanea e volontaria dell’incredulità”5 per citare le celebri parole di Coleridge, che permette allo spettatore di percepire il sostituto come sostituto, senza confonderlo con il sostituito. Un compito che Iacono si assume sulla scorta di autori come Diderot e Kant (ma senza dimenticare Du Bos, Lessing, Mendelssohn) che, nel secolo della fondazione dell’estetica moderna, hanno perseguito in modo diverso un’indagine sulle strutture costitutive dell’illusione estetica, mettendone in luce la portata veritativa e la specifica natura semantica. Il primo, Diderot, attraverso una riflessione sull’arte dell’attore e sulla rappresentazione teatrale che ha nuovamente ricollegato la teoria della mimesis alle sue radici rappresentazionali, ha sottolineato la dimensione artificiale e costruttiva della mimesis attoriale come dell’opera teatrale, portatrice di un verità poetica altra e parallela rispetto alla verità filosofica e ha colto lucidamente come l’esito dell’operazione di imitazione sia uno sdoppiamento creativo che coinvolge al tempo stesso l’attore e lo spettatore dello spettacolo estetico, capaci di diventare l’altro pur rimanendo se stessi. In Diderot è possibile individuare una delle conseguenze dell’assunzione della struttura dell’illusione come mondo intermedio posto in costante riferimento con il mondo reale: se il mondo intermedio del gioco o dell’arte presuppone la percezione, implicita ed esplicita, del contesto, della cornice all’interno della quale si produce il mondo di senso in cui siamo temporaneamente immersi (la consapevolezza per lo spettatore dell’orizzonte di finzione in cui si realizza il coinvolgimento emotivo prodotto dall’opera), e quindi dello sfondo costituito dagli altri mondi intermedi, il gioco di avvicinamento e presa di distanza, di immersione A.M. Iacono, op. cit., p. 95. “Willing suspension of disbelief for the moment” (S.T. Coleridge, Biographia Literaria, capitolo 14, in Samuel Taylor Coleridge, a cura di H.J, Jackson, The Oxfords Authors, Oxford 1985, p. 314). 4 5 Itinera, N. 3, 2012. Pagina 339 e allontanamento dello spettatore suggerisce l’ipotesi di una costitutiva e strutturale duplicità dell’uomo, che si esprime al suo massimo livello nell’abito mimetico dell’attore il cui io diventa altro per imitazione, ma pure nell’interesse disinteressato che il fruitore rivolge nei confronti della rappresentazione artistica, seguendo una continua oscillazione fra immersione empatica nell’opera e presa di distanza critica. Il secondo, Kant, che si sofferma sul rapporto fra illusione e inganno già nel confronto con Johann Kreutzfeld nel 1777 per ritornare sul problema nella tarda Antropologia pragmatica, vede nell’illusione una struttura estetica, basata sull’apparenza dei sensi, dotata di permanenza (a differenza della labile fugacità dell’inganno, che svanisce nel momento in cui si diventa consapevoli dell’errore) in cui la mente umana s’introduce volontariamente e che si affianca, come un mondo parallelo, al mondo della realtà stessa. La capacità della mente di giocare all’interno di un mondo di finzione che non perde di vista, con la coda dell’occhio, i margini e i confini su cui si costruisce, attesta la libertà critica di un soggetto consapevole e maturo, che si lascia ingannare dai sensi senza cadere negli errori della ragione. Le conseguenze etiche e politiche della capacità dell’uomo di giocare consapevolmente sulla soglia di più mondi di senso sono rilevanti: Iacono sottolinea, sulla traccia luminosa del paragrafo 40 della Critica del giudizio (dove la definizione del gusto come sensus communis incontra lo sforzo di liberazione dalla superstizione del pensare da sé, della ragione priva di pregiudizi), la convergenza fra il progetto di conquista di autonomia di pensiero e di azione del cittadino propria dell’Illuminismo, e lo sviluppo di una riflessione estetica che nel corso del Settecento s’incarica di approfondire e interrogare quel mondo intermedio di senso rappresentato dalla finzione estetica, liberandosi dai pregiudizi morali e metafisici che persistono in Platone o in Cartesio quando si rivolgono verso l’universo poetico del verosimile, della fabula. Itinera, N. 3, 2012. Pagina 340 In questo percorso di riabilitazione delle differenze e distinzioni, anche sfumate, fra inganno e illusione, fra verosimile e falso, svolge un ruolo fondamentale la nuova considerazione dell’esperienza sensibile, comune e condivisa intersoggettivamente, cui contribuisce naturalmente anche l’opera di Vico, che contesta l’assimilazione cartesiana fra verosimile e falso, in quanto il verosimile, da cui si genera il senso comune, “è come intermedio fra il vero e il falso, giacché essendo per lo più vero, assai di rado è falso”6. L’operazione vichiana risulta decisiva per il suo tentativo di liberare la verità del verosimile, lo sforzo di “interpretare il ruolo epistemologico della verità di ciò che è creduto vero”7 da una comunità, da un popolo, da una nazione, superando l’opposizione manichea fra verità della ragione e falsità del sapere popolare. La costruzione di un sapere umano e storico consapevole dei limiti a partire dai quali sono state edificate le utili finzioni delle parole e dei simboli matematici, rivela la dimensione sociale, intersoggettiva, prospettica della conoscenza, che si mostra come un esercito di metafore e metonimie in movimento, aperto a una continua e costante interpretazione reciproca. Il verosimile, il mondo dell’illusione poetica e artistica o mitica, attesta in questo caso un momento produttivo dello spirito umano: un momento in cui il senso comune scopre dall’interno il fondo di verità che lo attraversa, verità non solipsistica perché capace di cercare la propria identità nell’alterità, nel confronto storico e critico con la conoscenza del passato o con le relazioni sociali del presente. un luogo di costruzione di mondi autonomi di senso, che finiscono per legittimarsi come naturali, immediati, nascondendo i processi metaforici, retorici, immaginativi che li hanno generati. Il compito di una filosofia critica, accompagnata in questo suo faticoso esercizio anche da alcune forme dell’esperienza artistica G. Vico, “De nostri temporis studiorum ratione”, in Opere, a cura di A. Battistini, I, Mondadori, Milano 1990, p. 105. 7 A.M. Iacono, op. cit., p. 148. 6 Itinera, N. 3, 2012. Pagina 341 novecentesca, consiste nella volontà di operare uno smascheramento degli autoinganni inconsapevoli che le finzioni dell’intelletto, del linguaggio e dell’immaginazione non cessano di produrre nel corso della storia dell’uomo. I protagonisti filosofici che accompagnano il tragitto del libro di Iacono verso la sua conclusione sono i ‘maestri del sospetto’, Nietzsche, Marx e Freud, a cominciare dal giovane Nietzsche autore di Su verità e menzogna in senso extramorale che lucidamente interroga l’intelletto e il linguaggio come forze ‘mimetiche’ produttrici di maschere e finzioni, sostituti delle tecnologie naturali che si autorappresentano come originali. La sostituzione delle mobili metafore intuitive che esprimono il fluire della vita con complessi schemi concettuali si accompagna ad una reificazione del concetto, la cui verità consiste in realtà semplicemente nell’oblio della metafora che l’ha resa possibile, e in un processo di autoinganno inconsapevole dell’antropocentrismo della mente umana. La solidità del concetto, con cui l’uomo pretende di conoscere il fondamento ultimo della natura, riposa sulla sua capacità di imitare e ripetere la regolarità di metafore abituali fino a sostituirsi ad esse: la dialettica di imitazione e sostituzione viene recuperata qui nel cuore dei processi conoscitivi e delle pratiche umane, in quanto abita la ragione stessa e la sua ambizione metafisica di trovare un fondamento ultimo e oggettivo di verità. La critica nietzschiana alla ‘naturalizzazione’ dei concetti (che pretendono ormai di valere come modelli e paradigmi cui la natura deve corrispondere) s’inserisce nel progetto filosofico radicale di quel rovesciamento del platonismo, che, denunciando l’Idea come produzione di un originale che nasconde la sua dimensione costruttiva, artificiale, fattiva, ha conosciuto nel Novecento una feconda elaborazione teorica su un piano insieme ontologico ed estetico, ad esempio nella teorizzazione deleuziana del simulacro. La naturalizzazione dell’artificiale, di ciò che è prodotto fattizio di una cultura, come conseguenza di un processo di oblio, di perdita della Itinera, N. 3, 2012. Pagina 342 memoria dell’origine, è inoltre al centro della riflessione sul feticismo della merce di Marx o sul feticismo freudiano, rivelando quindi la sua centralità nel dibattito filosofico e artistico contemporaneo (dove il feticismo della merce assume il carattere seduttivo e chimerico del simulacro warholiano). Proprio nell’arte, tuttavia, è possibile trovare strategie alternative e inedite di risposta alla proliferazione dei simulacri e ai processi di ipostatizzazione metafisica e politica della finzione come verità: sia attraverso la liberazione del simulacro stesso dalla gerarchia platonica del prototipo e della copia, sia, come suggerisce criticamente Iacono, in quelle rappresentazioni artistiche che si servono dell’umorismo e dell’ironia per produrre una critica della rappresentazione dall’interno della rappresentazione stessa (Magritte) o uno sdoppiamento, una duplicazione del soggetto rappresentato nell’opera stessa, come accade nel teatro di Pirandello, teatro umoristico e serio, abitato dal sentimento del contrario, “che ci fa vedere, dentro l’illusione artistica, il carattere illusorio della vita”8. L’arte riveste, come la conoscenza filosofica, storica e filologica, da questo punto di vista una fondamentale funzione educativa, stimolando un salutare esercizio dello sguardo: lo stimolo a guardare le stesse cose “con altri occhi, gli occhi di chi sta a cavalcioni sulla cornice tra i due mondi”9, a mettere in discussione l’evidenza naturale del mondo percepito attraverso la percezione delle cornici che separano e collegano i diversi mondi di senso. Nella fruizione estetica, lo spettatore come nel gioco realizza quell’unità del credere e del non credere10, dell’immersione emotiva nella rappresentazione e dell’uscita dalla caverna che assume spesso nell’arte del Novecento una connotazione ironica, insieme ludica (l’ironia rivela la sua profonda Ibid., p. 183. Ibid., p. 22. 10 Huizinga nel suo celebre libro Homo ludens definisce appunto lo statuto intermedio del gioco come unità del credere e del non credere (cfr. J. Huizinga, Homo ludens, tr. it. di C. von Schendel, Einaudi, Torino 1972, p. 31). 8 9 Itinera, N. 3, 2012. Pagina 343 parentela con l’illusione, con l’ingresso nel gioco dell’in-ludere) ed enigmatica, capace non solo di evitare l’assolutizzazione di ogni provincia finita di senso ma anche di interrogare la fluidità delle cornici attraverso le quali passiamo da un mondo di senso a un altro. Fluidità che viene sottolineata proprio dall’esercizio del dubbio e del rovesciamento ironico che presuppone al tempo stesso sia l’accordo dei partecipanti o dei giocatori intorno al gioco sia il dubbio sui limiti della cornice stessa del gioco: l’affermazione interrogante che accompagna tante volte i visitatori all’interno di una mostra di arte contemporanea (“Questa è arte!”, “Questa è arte?”) a cominciare dal ready made duchampiano s’inscrive probabilmente all’interno di questa strategia ironica complessa, riannodando in modo inedito i fili invisibili che legano e insieme separano l’arte dalla filosofia. Itinera, N. 3, 2012. Pagina 344