Il problema dell`indiduazione del paziente a rischio

A.S.O.N.
( Associazione Specialisti Osteoarticolari Nazionale )
La gestione territoriale del paziente osteoporotico
A.Bernardo S.Gigliotti G.Santè A.Tricarico
L’organizzazione attuale del nostro S.S.N. assegna competenze diverse all’ortopedico che opera in
ambito ospedaliero rispetto allo specialista che agisce nelle strutture territoriali.
In una gestione razionale del paziente affetto da fragilità ossea, ed in modo particolare del paziente
sottoposto ad un trattamento chirurgico delle eventuali complicanze, tali competenze dovrebbero
risultare perfettamente complementari, non antitetiche, e, soprattutto, non dissociate, essendo il
percorso terapeutico di questi pazienti complesso ed articolato.
Nonostante tutto quanto si discuta e si faccia sulla patologia osteoporotica, le stime prevedono, nei
prossimi anni, un aumento vertiginoso delle fratture da fragilità, in particolare di quelle dell’anca.
Occorre anche tener conto, inoltre, che più della metà delle fratture di collo femore avviene ed
avverrà, secondo i dati dello studio EPIDOS, in soggetti non classificabili come ‘osteoporotici’
secondo la metodica DEXA, fino a poco tempo fa unico strumento di valutazione in merito.
Ciò in accordo con quanto l’IOF (International Osteoporosis Foundation) ammonisce da tempo che,
se è vero che aumenteranno nei prossimi decenni i soggetti affetti da osteoporosi, aumenteranno di
più i casi di pazienti affetti da bassa massa ossea, vale a dire osteopenici, determinando, al di sopra
dei 60 anni, un’area di rischio che poco è stata considerata fino ad ora, non ritenendo, erroneamente,
l’osteopenico un soggetto a rischio.
L’osteoporosi, dunque, è un problema; l’osteopenia è un altro problema; la prevenzione di entrambe
è il problema più grande.
In tale ottica le strutture territoriali rivestono un ruolo di estrema importanza anche in rapporto alla
maggiore presa di coscienza, riguardo all’argomento, della popolazione.
In questo elaborato riportiamo i risultati dell’esperienza maturata, a partire dal 2005, anno di
fondazione dell’ASON, dagli specialisti territoriali aderenti.
Due sono i problemi fondamentali della gestione ambulatoriale riguardo al tema :
1. Il problema dell’individuazione del paziente a rischio
2. Il problema terapeutico
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Il problema dell’indiduazione del paziente a rischio
Per molto tempo si è considerata, concettualmente, la necessità di individuare il paziente a rischio di
“frattura”.
La pratica quotidiana spinge, invece, a considerare anche la necessità di individuare il paziente a
rischio di “indebolimento osseo”, influenzando, spesso, quest’ultimo il decorso di molte patologie
associate.
Basti pensare ad un ginocchio varo artrosico laddove l’eventuale diminuita resistenza ossea, di
natura osteopenica o altro, può aumentare l’intensità delle negative conseguenze biomeccaniche del
solo ginocchio varo artrosico.
L’individuazione del paziente “a rischio” può avvalersi di :
a) una valutazione clinica;
b) una valutazione strumentale.
La valutazione clinica è sicuramente eclatante in caso di frattura.E’ molto subdola in assenza di
quest’ultima, soprattutto perché mascherata dalla sintomatologia sovrapposta di altre concomitanti
patologie.
La valutazione strumentale si avvale del ricorso a metodiche quali:
a)
b)
c)
d)
la morfometria vertebrale;
l’ultrasuonometria;
la densitometria ossea computerizzata;
il laboratorio.
E’ necessario considerare, per ognuna di queste metodiche, accanto all’intrinseco valore assoluto,
cosa possano offrire soprattutto nell’ottica di un utilizzo in prevenzione.
La morfometria vertebrale, attraverso l’individuazione dei 6 punti di repere somatico e
l’inquadramento nella classificazione di Genant, fornisce l’indicazione di qualcosa di già avvenuto,
ed è utilizzata, in prevenzione secondaria, per l’inserimento nella Nota 79.In riferimento ad una
prevenzione primaria, questa metodica non permette di prevedere l’evoluzione di una lesione, ad
esempio di grado 0 o di grado 1, non inquadrabili nella Nota 79, in un grado superiore, non potendo
fornire indicazioni sulla velocità dell’eventuale peggioramento.
L’ultrasuonometria garantisce l’enorme vantaggio della praticità di esecuzione e di una indubbia
manegevolezza. Non è una metodica radiologica. D’altro canto riunisce in sé lo svantaggio di un
notevole numero di apparecchi in commercio differenti tra loro e, di conseguenza, di una minore
standardizzazione dei dati, unitamente al numero limitato di siti analizzabili. Non va trascurata,
inoltre, l’incertezza, ancora esistente, sul significato dei valori riscontrati. Tuttavia, aumentano
costantemente le evidenze bibliografiche di una correlazione tra gli indici QUS ed il rischio di
frattura, con un’approssimazione non lontana da quella della DEXA. Non va mai dimenticato, però,
che qualsiasi valutazione strumentale non può prescindere dall’associazione di eventuali fattori di
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rischio, oggi sempre meglio inquadrabili, e, di conseguenza, da una pregressa attenta e precisa
anamnesi del singolo paziente.
La discordanza, spesso riscontrata nella pratica quotidiana, tra i risultati della QUS e quelli della
DEXA in uno stesso paziente non corrisponde sempre ad un errore, quanto piuttosto alla
considerazione che le due metodiche valutano parametri predittori differenti del rischio di frattura e,
probabilmente, non sovrapponibili. Questo è uno dei motivi per i quali la QUS non può essere
utilizzata secondo gli attuali standard OMS (T-score -2,5).
Inoltre, nella complessa valutazione della precisione e dell’accuratezza delle metodiche strumentali,
il tempo necessario per un cambiamento statisticamente significativo del valore ultrasonometrico
non è certamente inferiore a quello della DEXA (circa 2 anni).Come tale non ha senso una
ripetizione dell’esame a breve termine nello stesso paziente, cosa, purtroppo, ancora troppo
osservata.
Essendo, tuttavia, la QUS una metodica che non utilizza radiazioni, il suo impiego di screening
sulla popolazione può trovare una logica come primo inquadramento strumentale di un paziente a
rischio.
La Densitometria Ossea Computerizzata ha rappresentato, fino ad oggi, la metodica di riferimento
per la diagnosi di osteoporosi ma, come è giusto che avvenga in ogni campo del sapere e,
particolarmente in medicina, l’evoluzione delle conoscenze consente la valutazione critica di quanto
ritenuto fino ad oggi dogma, al fine di collocare nel più corretto ambito di utilizzo qualsiasi cosa la
tecnologia ci offra.
La DEXA è metodica radiologica e, come tale, non può trovare utilizzo in uno screening di
popolazione, in generale, e di donne in peri-postmenopausa, in particolare.
Un dato certo è che la sua ripetibilità deve prevedere un tempo minimo di circa due anni per una
variazione statistica convincente, tempo ormai ritenuto troppo lungo per una valutazione
dell’efficacia di una terapia intrapresa.
Tuttavia, anche quando eseguita rispettando, in maniera corretta, i tempi minimi di riesecuzione, la
metodica nasconde insidie che la quotidiana pratica ambulatoriale ha posto sempre più in risalto. E’
estremamente raro il riscontro di due o più esami, eseguiti nello stesso paziente, che misurino, sia a
livello vertebrale che femorale, esattamente le stesse aree, conseguendone dati di valutazione non
comparabili. Si tratta, ovviamente, non di un limite della metodica bensì di una scorretta esecuzione
dell’indagine, molto pericolosa per le decisioni terapeutiche da intraprendere o da modificare.
Si sono riscontrati, però, limiti legati alla stessa metodica.
Alcuni centri diagnostici cominciano a fornire dati sull’esecuzione della DEXA anche in proiezione
laterale per il rachide. E’ sorprendente notare come, in alcuni casi, valori osteopenici del rachide
lombare, ottenuti con esame eseguito in A.P., risultino francamente osteoporotici nello stesso
paziente se l’esame è eseguito nella proiezione L.L.
Ciò spiegherebbe, in parte, i casi di frattura avvenuti in pazienti osteopenici, come sottolineato dallo
studio EPIDOS, ma ritenuti tali, probabilmente, per i limiti della metodica DEXA se utilizzata solo
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secondo i canoni attuali. Le stesse conclusioni dello studio EPIDOS esortavano a cercare altre
strade di indagine diagnostica, sottolineando, particolarmente, l’importanza dei fattori di rischio e,
non ultimo tra questi, del turnover osseo,analizzabile attraverso indici di laboratorio.
Il laboratorio, attraverso un continuo miglioramento delle metodiche, sta superando,
progressivamente, i limiti che gli venivano contestati, soprattutto relativi alla specificità dei markers
indagati e, particolarmente, alla correttezza dell’esecuzione dell’indagine ed al rispetto dei canoni di
ripetibilità, critiche, come visto, rilevate anche per la DEXA.
Allo stato attuale delle conoscenze, confortate da un apporto scientifico bibliografico in costante
aumento, è possibile indagare l’attività dell’osteoblasta o dell’osteoclasta attraverso la rilevazione di
attività enzimatiche peculiari, o cataboliti dell’azione di esse, testabili nel siero e nelle urine.
L’attività osteoblastica è testabile attraverso l’isoenzima osseo della fosfatasi alcalina,
l’osteocalcina, l’N-propeptide ed il C-propeptide del procollagene di tipo 1, tutti a rilevazione
sierica.
L’attività osteoclastica è, invece, testabile attraverso la fosfatasi acida tartrato resistente, a
rilevazione sierica, poco costosa ma molto poco utilizzata, ed attraverso i prodotti di
depolimerizzazione del collagene di tipo 1 (osseo) ad opera di quest’ultima, quali la
desossipiridinolina, la piridinolina, il Ctx e l’Ntx, tutti a rilevazione urinaria.
Nella pratica quotidiana dei nostri Distretti di appartenenza la scelta di un indice di neoformazione
ossea ricade da tempo, per specificità ed emivita sufficientemente lunga, sull’isoenzima osseo della
fosfatasi alcalina, mentre per indice di riassorbimento osseo si utilizza la desossipiridinolina
urinaria, seguendo le indicazioni della letteratura corrente.
Si procede, in ogni caso, al dosaggio della Vitamina D (25-OH), data la frequente ipovitaminosi D
presente nella nostra popolazione e, non infrequentemente, unico dato patologico riscontrato nel
paziente che, se fino ad oggi spesso sottovalutato, necessita di adeguata correzione, rappresentando,
non di rado, il primum movens di un’osteopenia.
L’utilizzo dei markers consente di inquadrare il profilo metabolico del singolo paziente, chiarendo
se l’eventuale bassa massa ossea, evidenziata da una DEXA o da una QUS, sia attribuibile ad un
deficit di attività neoformativa osteoblastica, oppure ad una iperattività osteoclastica o, infine, ad
entrambi i problemi.
Ciò, come esposto di seguito, ha un’enorme importanza in termini di scelta terapeutica.
Il problema della terapia
Il problema terapeutico comporta tre fattori:
a) scelta del farmaco;
b) monitoraggio del trattamento;
c) durata del trattamento.
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Scelta del farmaco
Una volta inquadrato il paziente ‘a rischio’ nasce la necessità di una scelta terapeutica.
E’ nota la disponibilità attuale di tre categorie di farmaci utilizzabili e ritenuti efficaci:
a) inibitori del riassorbimento (bisfosfonati,Serms,HRT,calcitonina);
b) stimolatori della neoapposizione (teriparatide, paratormone);
c) farmaci a ‘doppia azione’ (ranelato di stronzio).
Il problema principale è il riconoscimento del principio in base al quale scegliere, paziente per
paziente, l’uno o l’altro dei farmaci disponibili.
L’individuazione e la comprensione dei meccanismi del sistema Rank-Rankl-Opg ha ratificato il
concetto che un buon osso dipende dal buon equilibrio tra l’attività neoappositiva dell’osteoblasta e
quella riassorbitiva dell’osteoclasta ma, soprattutto, ha reso chiara l’influenza reciproca delle due
attività, regolata da molteplici fattori di comunicazione chimica tra i due tipi cellulari.
Ne deriva che un indebolimento osseo può dipendere da tre principali condizioni:
a) un’osteoblasta ipoattivo in presenza di una buona attività osteoclastica;
b) un’osteoclasta iperattivo in presenza di una buona attività osteoblastica;
c) un’osteoblasta ipoattivo in presenza di un osteoclasta iperattivo.
E’ evidente che solo il profilo metabolico del singolo paziente, inquadrabile attraverso i markers
indicativi delle attività cellulari specifiche, può far capire cosa sta accadendo nel singolo paziente e
decidere, di conseguenza, se:
a) stimolare la neoapposizione;
b) inibire il riassorbimento;
c) stimolare entrambi i processi,
scegliendo il farmaco razionalmente più opportuno tra quelli attualmente disponibili.
Monitoraggio del trattamento
Si è già accennato alla necessità di attendere un tempo minimo per la ripetizione di un esame
strumentale, al fine di poter ottenere un valore di variazione statisticamente accettabile.
Tale tempo è stimato, mediamente ed a seconda della metodica, in 7 anni per la QUS di calcagno ed
in 2 anni per la Qus applicata alle falangi. Ciò rende ragione della inutilità della ripetizione
dell’esame, nello stesso paziente, al di sotto di tali limiti.
Per la DEXA i tempi minimi sono stabiliti in 1,6 anni per quella eseguita al rachide ed in 1,8 anni
per quella eseguita al femore.
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Non trova più , ormai, logica applicazione l’esecuzione di un esame DEXA Total Body, sia per il
carico di radiazioni, sia per la non coerenza dei dati riscontrati e sia, soprattutto, per un eventuale
tempo di ripetibilità stimato intorno ai 4,8 anni.
Come A.S.O.N. si è intrapresa da tempo la strada di monitorare i pazienti, per i quali la scelta
terapeutica si era basata sul profilo metabolico rilevato, attraverso la ripetizione dei markers del
turnover osseo a 3 mesi dall’inizio del trattamento, a 6 mesi ed a 12 mesi, variando, ovviamente, le
scadenze a seconda delle caratteristiche individuali del caso trattato.
Si presta la massima attenzione affinchè gli esami vengano ripetuti con la stessa metodica e nelle
stesse condizioni, limitando, quanto possibile, le insidie della variabilità intra- ed interindividuale,
presenti però, come visto, anche nelle metodiche strumentali ritenute sino ad oggi gold standard.
Tale condotta ha permesso di ridurre, in maniera soddisfacente, uno dei principali rischi legati al
fallimento di una terapia antiosteoporotica, vale a dire la scarsa o, addirittura, non aderenza alla
terapia proposta.
La presa di coscienza da parte del medico e del paziente di verificare, nel breve tempo e non dopo
minimo 2 anni, come la DEXA prevede, l’andamento della funzionalità del farmaco convince,
molto spesso, della utilità del piano terapeutico intrapreso, consentendo il mantenimento o,
eventualmente, anche la sostituzione della molecola inizialmente scelta, qualora gli indici di
turnover non vadano verso la normalizzazione.
Durata del trattamento
L’esperienza accumulata negli ultimi anni conduce alla considerazione che una terapia efficace non
possa durare al di sotto dei 3 anni.
Non esiste, tuttavia, in letteratura alcun dato definitivo su quanto debba proseguire il trattamento.
La stessa Agenzia Italiana del Farmaco, a tale riguardo, ed in risposta a quesiti posti da più colleghi
a tale riguardo, offre indicazioni alquanto elastiche, suggerendo, dapprima, una durata minima di 5
anni ma esortando, successivamente, a considerare, volta per volta, le caratteristiche del singolo
caso trattato.
Mancano, a tutt’oggi, linee guida condivise in tal senso.
Va considerato, inoltre, quanto evidenziato da numerosi lavori scientifici sulla pericolosità di un
trattamento eccessivamente prolungato che indurrebbe, alla distanza, un apparente e paradossale
indebolimento osseo, con aumento ulteriore del rischio fratturativo.
Tale paradosso è, ormai, chiarito dalle acquisizioni maturate riguardo ai meccanismi del sistema
Rank-Rankl-Opg, laddove l’eccessiva soppressione osteoclastica, indotta da una reiterata terapia
antiriassorbitiva, annulla la produzione di fattori osteoclastici di stimolazione osteoblastica,
sopprimendo, in definitiva, un corretto turnover per deficit neoappositivo.
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In relazione a ciò, come condotta condivisa nei nostri ambulatori, continuiamo la terapia
monitorando l’andamento dei markers ed eseguendo, nei tempi e nelle modalità previste, la DEXA,
proseguendo il trattamento fino a 6 mesi dopo la regolarizzazione stabilizzata del turnover se,
ovviamente, in accordo con un miglioramento od una stabilizzazione dei valori forniti dalla DEXA.
L’interruzione della terapia è immediata in presenza del riscontro di un’eccessiva depressione del
turnover stesso.
La scheda A.S.O.N.
A conclusione di un lungo percorso di maturazione conoscitiva sui temi fino ad ora discussi,
intrapreso e proseguito con il contributo di tutti gli aderenti all’Associazione, confortato ed
arricchito, inoltre, dall’esperienza maturata quotidianamente nel lavoro sul territorio, si è giunti alla
formulazione di una scheda, consultabile ed utilizzabile in rete sul sito www.ason.it dagli iscritti.
Nella scheda vengono raccolti tutti i dati relativi al paziente, a partire dall’anamnesi fino
all’inquadramento strumentale e di laboratorio, con la successiva e ragionata programmazione
terapeutica.
La scheda permette aggiornamenti continui ed è richiamabile, volta per volta, per ogni singolo
paziente in modo da tenere continuamente sotto controllo ogni aspetto clinico e terapeutico, nella
loro evoluzione temporale.
La scheda, inoltre, può essere stampata e consegnata al paziente, contribuendo ad un’ulteriore
responsabilizzazione sull’aderenza al piano terapeutico prescelto.
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