1 di Luigi Gui 1. Il nodo della partecipazione Chi

Servizio sociale e partecipazione comunitaria autentica: un riferimento al
contributo teorico di Guliano Giorio
di Luigi Gui
1. Il nodo della partecipazione
Chi abbia conosciuto Giuliano Giorio, di persona o attraverso la
sua copiosa produzione scientifica, non può non aver colto la passione
con cui egli sottolinea il valore di un’esperienza comunitaria
“autenticamente partecipata”. La sua ricerca pare incessantemente volta
a riconoscere nella realtà sociale, l’emergere di ogni forma di
responsabile coinvolgimento delle persone nella costruzione condivisa
della loro realtà. Appare evidente l’avversione di Giorio ad ogni lettura
sociologica che indulga ad un determinismo meccanicistico, incapace
di riconoscere nell’uomo la sua piena titolarità di soggetto originale ed
autodeterminato1, orientato nel suo agire a fini che trascendono il mero
utilitarismo materiale. Vi è in lui la convinzione della “vacuità
sostanziale di qualsiasi incremento quantitativo di informazioni, di beni
o redditi, di tecnologie o risorse strumentali, se questo non abbia a
riallacciarsi a previe crescite qualitative nella capacità di “essere” e di
aggregarsi” dell’uomo stesso per “gestire” gli incrementi medesimi,
oltre che a realizzarli: in termini di responsabilità, di autonomia e di
autogestione, di condivisione comunitaria e di interazione relazionale,
del perseguimento di un equilibrio fra “interessi” materiali e “valori”
etici.”2 Tale tensione tuttavia, non pare confondersi con l’ingenua
presunzione che la partecipazione comunitaria, capace di legare
promozionalmente e solidalmente le persone tra loro, si avveri
spontaneamente e ad ogni condizione, dando luogo ad equilibri
sistemici comunque ottimali, tentazione presente, invece, in certo
funzionalismo acritico. Al contrario, quanto è chiara la tensione
all’esperienza comunitaria come valore, altrettanto traspare nel lavoro
di Giorio l’impegno a ricercare le vie per perseguire autenticamente
1
L’accento è stato costantemente posto da Giorio sulla capacità dell’Uomo di essere “artefice e
costruttore di cultura insieme ai suoi simili, nell’adattrsi più o meno attivamente o nel reagire
all’ambiente di appartenenza”. G. Giorio “Università e professionalizzazione” in S. Giraldo e
E. Riefolo (a cura di), Il servizio sociale esperienza e costruzione del sapere, F. Angeli, Milano
1996, p.131 .
2
G. Giorio, op. cit. pp.131-132
1
tale esito, come realtà già presente, da riconoscere e valorizzare, ed al
contempo come esperienza da sostenere e sviluppare a fronte delle
pressioni sistemiche più individualistiche e disgreganti3.
In questa tensione promozionale, possono comprendersi alcune delle
maggiori motivazioni, in più occasioni richiamate da Giorio, allo
sviluppo di un servizio sociale sempre più maturo e consapevole delle
sue potenzialità.
Proprio nel servizio sociale, infatti, questo Nostro sociologo ha intravisto lo
spazio disciplinare da sviluppare per abilitare operatori sociali, assistenti
sociali, promotori del benessere autentico, materiale e relazionale, delle
persone nelle loro comunità: professionisti che sappiano assumere, tra gli altri
ruoli, quello di “guida che aiuta la comunità a fissare e a trovare i mezzi di
raggiungimento dei propri obiettivi”4. Di questa funzione “guida”, Giorio ha
iniziato ad argomentare già dagli anni settanta, precedendo alcune delle
sistematizzazioni teoriche più recenti che enfatizzano per il servizio sociale
proprio il compito di “guida relazionale”5.
Su tale fronte egli ha profuso non poche energie intellettuali ed organizzative,
richiamando puntualmente alcuni nodi cruciali del lavoro cui gli assistenti
sociali sono chiamati. Si tenta qui di riconsiderarne, pur per brevi cenni,
alcuni degli aspetti cruciali.
2. Un cammino culturale
Com’è noto il servizio sociale italiano ha mosso i suoi primi timidi
passi agli inizi del secolo scorso, in pieno regime fascista, ma è solo
nell’immediato secondo dopoguerra che ha assunto l’identità ed i valori su cui
tutt’ora si fonda6.
3
Si vedano a questo proposito, le recenti argomentazioni sulla società globalizzata in Z.
Bauman, Voglia di comunità, Ed. Laterza, Roma-Bari 2001
4
G. Giorio, Lineamenti per una metodologia dell’organizzazione e della partecipazione
sociale, Centro Studi Rezzara, Vicenza 1975, p.86. Argomentazioni riprese ed ampliate nel
testo G. Giorio, Strutture e sistemi sociali nell’attuale dinamica valoriale, CEDAM, Padova, II
ed. 2000
5
Si vedano le argomentazioni di P. Donati in “Fondamenti di politica sociale”, NIS, Roma
1993, pp.43-44 e F. Folgheraiter, Teoria e Metodologia del servizio sociale, F. Angeli, Milano
1998, pp. 439-456
6
Tappa storica e fondativa per il servizio sociale italiano, viene considerata il “Primo convegno
nazionale di assistenza sociale” di Tremezzo (TN), organizzato dal 16 settembre al 6 ottobre
1946, sotto gli auspici del Ministero dell’Assistenza postbellica, della Delegazione Italiana per i
rapporti con l’UNRRA (United States Reliefand Rehubilitation Administration) e della
missione italiana UNRRA. Si vedano a tal proposito gli Atti del Convegno per studi di
assistenza sociale, Tremezzo sett-ott. 1946, Ed. C. Marzorati, Milano 1947
2
Dai primi anni del suo cammino, tale disciplina si è connotata come "l'insieme
dei metodi che tendono a creare raccordo fra l'uomo e il suo ambiente e ad
elevare il livello di vita collettivo attraverso prestazioni varie rivolte
all'individuo"7, fino a definirsi "una disciplina di sintesi tra elementi di
conoscenze che provengono anche da scienze diverse, volta all'operatività,
che ha per oggetto l'uomo nel suo rapporto con l'ambiente"8. Nel processo di
maturazione disciplinare e professionale gli assistenti sociali italiani, a partire
dalle politiche di contrasto alla povertà ed al sottosviluppo della società
italiana degli anni '50, hanno assunto come proprio il "mandato sociale"9 di
"contribuire a creare la nuova coscienza civile dei cittadini, e collaborare così
alla ricostruzione del paese” 10, facendo della partecipazione democratica uno
dei propri principi fondativi imprescindibili. Da quegli anni, attenuandosi
l’enfasi posta precedentemente sullo spirito volontaristico e sulle "speciali"
attitudini morali e psicologiche di chi opera nell'assistenza, è cresciuta vieppiù
la ricerca di un'adeguata formazione tecnico-scientifica11, sino a giungere
all'odierno ingresso del servizio sociale a pieno titolo fra le "scienze" studiate
all'università; impresa cui Giuliano Giorio ha contribuito non poco, attivando,
tra l’altro, il primo dottorato di ricerca in “Sociologia, teoria e metodologia
del servizio sociale”, ed il primo corso di laurea sperimentale in “Servizio
Sociale”, anticipatore e facilitatore del successivo avvio di corsi di laurea
specialistica in servizio sociale (classe delle lauree specialistiche n.57 in
“programmazione e gestione della politiche e dei servizi sociali”), come è
stato possibile dopo la riforma universitaria avviata dall’attuazione del
Decreto 509/9912.
3. Istanze fondanti
7
Relazione italiana a cura del CISS alla V^ Conferenza Internazionale di Servizio Sociale,
Parigi 23-28 luglio 1950, in "Assistenza d'Oggi", AAI, n.3, 1950, pp.1-47 , riportato da A.
Campanini, Servizio sociale e sociologia: storia di un dialogo, Ed. LINT, Trieste 1999, p.18.
Sulla stessa linea è la dichiarazione dell'ONU del 1959.
8
AA.VV., Il lavoro sociale professionale tra soggetti e istituzioni, Ed. F.Angeli, Milano 1988,
p.16
9
R. Bernocchi Nisi, L'origine delle scuole per assistenti sociali nel secondo dopoguerra, in
AA.VV. , Le scuole di servizio sociale in Italia, aspetti e momenti della loro storia, Ed.
Fondazione E. Zancan, Padova 1984, p.21
10
A. Florea, Relazione, in AA.VV., Materiali per una ricerca storica sulle scuole di Servizio
Sociale, Scuola Superiore di Servizio Sociale di Trento e Fondazione Zancan, Padova 1980, p.
85.
11
Pur non essendo mancati momenti d’incertezza o talvolta di diffidenza nei confronti di un
rigoroso sapere teorico-scientifico pienamente inserito nell’accademia.
12
Si veda a tal proposito il contributo di G. Giorio, Dottorato in servizio sociale, in E. Sgroi, S.
Rizza, L. Gui (a cura di), Rapporto sulla situazione del servizio sociale, EISS, Roma 2001, pp.
327-337.
3
Agli interventi di servizio sociale viene, così, riconosciuta la
funzione, per nulla agevole, di “migliorare la società ed aiutare gli individui in
difficoltà, a diventare indipendenti”13. L' esercizio professionale degli
assistenti sociali si propone come “tramite tra le persone che hanno bisogno di
aiuto e le risorse sociali, tra l’individuo e la società”14, per favorirne i
collegamenti15 ed aiutare le persone a sviluppare le proprie capacità, nella
prospettiva di "rendersi consapevoli dei bisogni" e "prendere in mano le
soluzioni"16 più opportune per sé.
Dacché il servizio sociale è cresciuto, dunque, l’accento non si è posto tanto
sull’aspetto riparativo o curativo di deficit personali o disfunzioni sociali, ma
sulla “valorizzazione dell’autonomia e della creatività della persona umana,
ed inoltre della sua capacità di svolgere un ruolo attivo nel contesto sociale, e
quindi a livello di processi culturali socializzanti”.17
Si coglie già da queste prime annotazioni, quanto il servizio sociale contenga
e componga al suo interno istanze operative, valenze politiche (nell’accezione
più estesa di “costruzione della polis”), istanze etiche, istanze tecnicoscientifiche, istanze professionali. Esso, di fatto, ha portato gli assistenti
sociali ad una continua staffetta cognitiva tra l’esercizio di una professione
immediatamente “agita”, la necessità di una professione “pensata” e la
caratterizzazione di una professione “sentita”18, integrando costantemente le
competenze intellettuali e comunicative con le componenti etiche e valoriali19.
Il servizio sociale, dunque, si presenta come una professione (nel suo
esprimersi in azioni) e una disciplina (nell’ambito delle definizioni teoriche)
13
F. Ferrario, Le metodologie professionali nella storia delle scuole di servizio sociale, in
AA.VV. , Le scuole di servizio sociale in Italia…, op. cit., p. 145.
14
O. Vallin , Relazione, in AA.VV., Materiali per una ricerca storica ., cit. pp. 107-110.
15
E. Bianchi, Alcuni appunti sul metodo - in AA.VV. , Servizio sociale, sociologia, psicologia.
Ripresa critica di un dibattito teorico, F. Angeli - Fondazione E. Zancan, Padova 1983, p. 44
16
E. Bianchi , op cit, p.39
17
G. Giorio, Strutture e sistemi sociali nell’attuale dinamica valoriale, op. cit., p. 306
18
Margaret Richards (docente di Servizio Sociale al National Institute for social work di
Londra), schematizzando gli elementi essenziali nella formazione degli assistenti sociali pone
in parallelo l’acquisizione di ABILITÁ (attinenti al come fare “concretamente” ció che serve) e
di CONOSCENZE (che riguardano le informazioni e i metodi necessari per l’intervento) e
l’attenzione alle SENSAZIONI e agli atteggiamenti (legati alla percezione di ruolo e di status).
M. Richards, La costruzione di programmi per la formazione sul campo, in AA.VV. , Il
Tirocinio professionale nel formazione di base, Atti Convegno, Trieste 28/29 ottobre 1985,
Scuola Superiore di Servizio Sociale di Trieste, 1986, pp. 86-87.
19
M.A. Macaluso, Etica dell’operatore, soggettività e formazione, in T. Vecchiato, F. Villa, La
deontologia professionale nel servizio sociale, Vita e pensiero , Milano 1992, pp.35-39.
4
multifocali20 e mutidimensionali21, che esigono in chi se ne occupa uno sforzo
costante di approfondimento e di crescita, pena la semplicistica riduzione del
“lavoro sociale” (nella traduzione letterale di “servizio sociale” come social
work) a generica “opera di buona volontà” e “pressappochismo
paraprofessionale”, come in taluni casi tutt’ora può accadere (sino a pochi
anni fa non pochi autori avanzavano ancora attribuzioni di
“semiprofessione”22 al lavoro dell’assistente sociale). Per questo, l’impegno
culturale e formativo profuso da molti docenti, studiosi ed operatori di
servizio sociale nello scorso mezzo secolo si è rivelato cruciale.
Durante i primi anni della nostra Repubblica, gli interventi socio-assistenziali
mantenevano il carattere residuale assegnato da politiche sociali contenitivoriparative23, mentre andavano introducendosi anche in Italia le "tecniche" di
servizio sociale, di importazione statunitense24: social casework (trattamento
dei casi individuale), social groupwork (lavoro sociale con i gruppi),
community development o community work (lavoro sociale di comunità) 25.
L’influsso statunitense sul servizio sociale italiano degli anni 50 aveva portato
ad un’adozione talvolta acritica dalle teorie parsonsiane26, e
conseguentemente dell’impegno del servizio sociale nella funzione di
“adattamento e abilitazione funzionale di ruolo” per i soggetti meno integrati,
tuttavia dalla “contaminazione” americana non erano mancate anche alcune
ricadute assai fertili per il nostro paese. Giovanni De Menace, rifugiatosi negli
Stati Uniti nel ’39 fece esperienza nei servizi sociali delle periferie povere di
New York, e poi tornato in Italia dalla fine del ‘4527, fu fondatore e docente
nelle nascenti scuole per assistenti sociali (SISS ed ENSISS)28, contribuendo
20
M. Dal Pra Ponticelli, I soggetti in alcune teorie del servizio sociale: attualità di un dibattito,
in E. Bianchi e I. De Sandre (a cura di), Solidarietà e soggetti: servizio sociale e teorie di
riferimento, E. Zancan, Padova 2000, p.55.
21
F.Ferrario, La dimensione dell’ambiente nel processo d’aiuto, in Coordinamento Nazionale
docenti di servizio Sociale, Il servizio sociale come processo d’aiuto, F. Angeli, Milano 4^ ed.
1993, pp. 37- 38.
22
Si vedano le definizioni riportate in A. Campanini, Servizio sociale e sociologia: storia di un
dialogo, LINT, Trieste 1999, pp.40-45.
23
Anche se non sono mancate, in particolare nel lavoro con le comunità, originali ed innovative
esperienze di promozione; si vedano a tal proposito i lavori di E. Sgroi, Aspetti teorici e pratici
dello sviluppo di comunità, in Assistenza oggi, n.4 1961, G. Giorio, Organizzazione di
comunità, Ed. Marsilio, Padova 1969, F. Ferrario, G. Gottardi, Territorio e servizio sociale, Ed.
Unicopli, Milano 1987
24
F. Biestek, I cinque metodi del servizio sociale, Malipiero, Bologna 1960, pp.73 e segg.
25
A. Campanini, Servizio sociale e sociologia: storia di un dialogo, Ed. LINT, Trieste 1999,
pp. 72-76 .
26
V. Ducci, Servizio sociale e servizi sociali tra crisi e riforme, EISS, Roma 1955, p.12
27
E. Fiorentino Busnelli, Giovanni De Menasce. La nascita del servizio sociale in Italia, Ed.
STUDIUM, Roma 2000, pp.27-33.
28
R. Bernocchi Nisi, op. cit., pp.24-27
5
non poco ad introdurre nelle pratiche assistenziali italiane un atteggiamento
non moralistico, scientificamente fondato, tecnicamente competente,
massimamente rispettoso di ogni persona umana da accogliere in modo “non
giudicante”, carico di una forte componente di fiducia nell’uomo29. Anche le
“borse Fullbright”, erogate dagli Stati Uniti nell’epoca della ricostruzione
post-bellica per la formazione dei nuovi docenti italiani impegnati nella
formazione al servizio sociale, furono un importante veicolo di esperienze ed
idee, da cui lo stesso Giorio trasse proficua esperienza, accompagnate
dall’approfondimento di alcuni autori d’oltremare; si pensi tra gli altri, al
riferimento, più volte richiamato nei saggi di Giorio, alle trattazioni di Murray
G.. Ross sul lavoro di comunità30.
Il successivo processo riformatore degli anni '70, con il trasferimento di poteri
dallo Stato agli Enti Locali, l'individuazione del Comune come prevalente
soggetto titolare degli interventi socio-assistenziali, il discioglimento della
galassia di enti assistenziali per categorie di "bisognosi", l'affermarsi delle
politiche di sicurezza sociale e l'estendersi delle prestazioni del welfare state,
l'avvio del Servizio Sanitario Nazionale, l'articolazione in tutto il territorio
delle Unità sanitarie locali, hanno fatto assumere crescente rilievo, tanto nella
pratica che nelle teorizzazioni del servizio sociale italiano, alle dimensioni
della "prevenzione", della "partecipazione" dei cittadini allo sviluppo della
salute, del benessere e della gestione dei servizi, della "programmazione"
nelle politiche di welfare.
Gli assistenti sociali di quegli anni, per larga parte collocati nei servizi
territoriali degli Enti Locali e delle Unità sanitarie locali, hanno assunto nella
propria stessa vocazione professionale il mandato del welfare state, si sono
fatti "agenti" dell'istituzione pubblica, sempre più omogenei fra loro come
collocazione lavorativa, come identità e profilo professionale, con
caratteristiche di polivalenza operativa, pur all'interno di una unitarietà
metodologica del processo d'aiuto31. Da allora, con crescente consapevolezza
il servizio sociale è andato rivolgendosi contemporaneamente a quattro fuochi
di attenzione: i soggetti che esprimono una qualche domanda d'aiuto (persone
concrete, ma anche famiglie, gruppi, associazioni), il loro ambiente fisico e
relazionale, l'organizzazione di servizio di cui l'assistente sociale fa parte, con
29
J.C. De Menasce, Appunti di morale professionale ad uso degli assistenti sociali, ENSISS,
Roma 1953.
30
Si ricorda a tal proposito, in particolare l’introduzione in Italia a cura di Giorio del testo M.G.
Ross, Organizzazione di comunità: teoria e principi, ONARMO, Roma 1963 o al testo United
Nationd Segretary General, Social Progress throuth Community Development, New York,
United Nation Bureau of Social Affaire, 1955.
31
M. Dal Pra Ponticelli , Problemi di definizione e riferimenti teorici , in Coordinamento
Nazionale docenti di servizio Sociale, Il servizio sociale come processo d’aiuto, op. cit., pp.3637.
6
un atteggiamento di promozione al cambiamento, la comunità sociale entro
cui la condizione problematica si esprime e che rappresenta insieme il luogo
delle risorse utili al superamento del problema32.
4. Territorio e promozione comunitria
L'orizzonte aperto a cui ora gli operatori di servizio sociale si
rivolgono, è stato sintetizzato anche come triade, interattiva al suo interno,
composta di volta in volta da un individuo/famiglia, inserito in una comunità,
che entra in contatto con una istituzione politico/amministrativa , titolare di
risorse socio-assistenziali accessibili ad ogni cittadino che cerchi di superare
un proprio stato di disagio momentaneo o permanente33.
Entro queste coordinate il servizio sociale ha dovuto giocare la sua
scommessa di valore: attrezzarsi come mero sistema redistributivo di risorse,
limitando l’azione dell’assistente sociale nella funzione di “ponte” tra la
domanda di servizi di ogni singolo cittadino-utente e le risorse istituzionali34,
mero esecutore di prestazioni erogative più o meno standardizzate, o, invece,
potenziare la “vocazione” promozionale, nella direzione di “contribuire ad
una organizzazione e gestione efficiente, efficace ed umana di servizi e di
risorse istituzionali e comunitarie adeguati alla soddisfazione dei bisogni e
delle esigenze di singoli e della comunità, attraverso:
a) la messa in atto di attività di studio, analisi e valutazione dei bisogni
individuali e collettivi, espressi e latenti in rapporto ad (ogni) comunità
territoriale, a fenomeni sociali rilevanti o a situazioni problematiche
individuali e delle risorse istituzionali comunitarie, fruibili o da
promuovere e la conseguente attività di formulazione dei piani e
programmi di intervento sia a livello individuale che comunitario;
b) la promozione e lo sviluppo di un rapporto più funzionale fra bisogni
individuali e collettivi e risposte istituzionali e comunitarie, da realizzarsi
con l’attivazione delle varie forme di partecipazione utenziale e
comunitaria e la promozione di processi di cambiamento organizzativogestionale nelle strutture socio-assistenziali”35.
32
Questa caratteristica del servizio sociale, orientato su più fuochi d'attenzione, è ripresa anche
da F. Ferrario in Dimensioni dell'intervento sociale, Ed. NIS, Roma 1996 e da F. Folgheraiter
in Teoria e metodologia del servizio sociale, la prospettiva di rete, Ed. Angeli, Milano 1998
33
M. Dal Pra Ponticelli, in E. Bianchi, I. De Sandre (a cura di), Solidarietà e soggetti: servizio
sociale e teorie di riferimento, Ed. Fondazione E. Zancan, Padova 2000, p.55
34
M. Dal Pra Ponticelli, Problemi urgenti alla luce del recente dibattito culturale sul servizio
sociale, op. cit.,in E. Bianchi, M. Dal Pra Ponticelli,I. De Sandre, E. Gius, Servizio sociale,
sociologia, psicologia, ripresa critica di un dibattito teorico, E. Zancan, Padova 1983, pp.1419.
35
M. Dal Pra Ponticelli, op. cit., p. 21.
7
In tal senso, il nodo problematico segnalato da Giorio già a fine anni ’70,
stava (e tuttora sta) non tanto “nel provocare nuove occasioni associative, pur
sulla base di adeguate motivazioni più o meno ideali, quanto piuttosto
nell’aggiungervi autentiche esperienze di partecipazione per persone aventi
problemi comuni, disposte ad affrontare solidalmente – ossia in una
prospettiva globale di socializzazione – le possibili soluzioni”36. Sotto questo
profilo le coniugazioni concrete di servizio sociale hanno assunto diversi
livelli di spessore in base al contesto sociale, culturale, economico e politico
del territorio e delle istituzioni in cui si è espresso. La scommessa su
accennata non sempre è stata vinta, ma le basi teoriche e valoriali nella
prospettiva di servizi sociali territorializzati come “sistema di interventi
unitari partecipati (…) e non solo come decentramento di servizi o
sommatoria si servizi”37 appaiono solidamente gettate. “Il cammino apertosi
per il servizio sociale territoriale – sostiene Dal Pra – ha indiscutibilmente una
dimensione comunitaria”38 che va indirizzandosi su tre diverse direzioni:
1) “promozione, sviluppo e coordinamento di servizi e risorse istituzionali
e comunitarie;
2) partecipazione sociale tendente a creare un rapporto ottimale fra
bisogni e risorse in relazione ad un determinato territorio;
3) lavoro con i gruppi della comunità al fine di promuovere la
partecipazione, il coinvolgimento, l’autogestione dei servizi e delle
risorse da parte della stessa popolazione e creare o ricercare legami di
solidarietà sociale.”39
Ciascuna di queste direzioni di “promozione comunitaria” trova nelle
argomentazioni scientifiche di Giorio ulteriori riferimenti per sostanziarsi
autenticamente evitando ogni superficiale formalismo.
Per il primo aspetto, relativo alla promozione ed allo sviluppo di un
coordinamento fra risorse istituzionali (pubbliche e private), egli afferma
“l’esigenza di un necessario coordinamento fra strutture amministrative
diverse (…) in grado di giungere a perseguire finalità riconducibili a matrici e
motivazioni convergenti, (…) ove sia possibile tener presente il ruolo di valori
condivisi per un’auspicabile integrazione sociale”40; in sostanza l’Autore pare
36
G. Giorio, Aspetti e problemi della socializzazione, oggi, Liviana, Padova 1979, p. 192.
C. Trevisan, Il distretto di base nell’unità locale, in Prospettive sociali e sanitarie, 21-22,
1978, par. 1.4 .
38
M. Dal Pra Ponticelli, La dimensione unitaria e “comunitaria” del servizio sociale
territoriale, in M. Dal Pra Ponticelli, E. Bianchi, A.M. Cavallone, M. Dal Pra ponticelli, I. De
Sandre, E. Gius, A. Polmonari, Il lavoro sociale professionale tra soggetti e istituzioni, F.
Angeli, Milano 1988, p.51.
39
M. Dal Pra Ponticelli, op. cit., pp.56-57.
40
G. Giorio, Comunità e oltre, in G. Giorio, F. Lazzari, A. Merler (a cura di), Dal micro al
macro. Percorsi socio-copmunitari e processi di socializzazione, CEDAM, Padova 1999, p.30.
37
8
richiamare l’attenzione sullo stretto collegamento tra l’intergrazione interna
alla comunità e la comunanza di valori a cui neppure le istituzioni possono
sottrarsi. Giorio, inoltre, mette in guardia dal rischio che dall’intesa
amministrativo-istituzionale si “imposti e si attui un programma in cui ogni
cittadino41 (…) sia soltanto una parte, (…) un soggetto anomico o amorfo”42 e
non un autentico “partecipante” (soggetto che intenzionalmente propone la
sua partecipazione, cioè la sua “parte” di “azione”). Ecco dunque affacciarsi
“il risolutivo problema del ‘ruolo’ che ogni singolo cittadino può essere
chiamato a svolgere in una qualsiasi programmazione”43 che coinvolga le
responsabilità personali. Responsabilità nell’esercizio di ruolo, in interazione
con altri44, che si esprime in “spazi comunitari di appartenenza” sentiti come
“spazi di vita” 45; “ruolo” e “appartenenza” divengono, quindi, elementi
sostanziali senza i quali una vera partecipazione comunitaria non ha luogo, ed
ancor meno un servizio sociale disattento a questo due livelli basilari di
riconoscimento, potrà ambire a promuovere autentica parecipazione.
Qui il contributo del Nostro riconduce al secondo aspetto, relativo al rapporto
fra i bisogni percepiti dalle singole persone e le risorse che la comunità
esprime. “Si tratta – prendendo a prestito le sue parole – di un’appropriata
tensione “partecipata” fra appartenenze individuali e habitat comune, ove
ciascuno abbia collocato le proprie scelte”46. Il servizio sociale ben si coniuga
con questa lettura, quando assume che l’assistente sociale si ponga “come
soggetto privilegiato di mediazione fra mondi vitali quotidiani e istituzioni
sistemiche, e, appartenendo sia all’uno che all’altro polo, svolga compiti di
continua mediazione fra i due per instaurare forme di cooperazione e
comunicazione vitale fra essi”47.
Non è superfluo sottolineare che, nella riflessione di Giorio, l’individuazione
di uno “spazio comunitario”48, pur ricollegabile a molteplici e diversificate
situazioni di appartenenza, implica49 una condivisione di costrutti del senso
comune tra persone, entro comunità effettive di spazio e di tempo. Vanno
41
Il corsivo è aggiunto.
Ibidem.
43
Ibidem.
44
Cfr. R. H. Turner, Social Roles: Sociological Aspects, International Encyclopaedia of Social
Sciences, MacMillan, New York 1968.
45
G. Giorio, op. cit., p.17.
46
Ibidem.
47
M. Dal Pra Ponticelli, Problemi emergenti…, op. cit., p.17.
48
Ibidem.
49
Qui l’Autore richiama il pensiero di Schutz. Vedi A. Schutz, Common-Sense and Scsientific
Interpretation of Human Action, in Collected Papers, vol, X, The Hague, Martinus Nijhoff,
1973, p.7 ss, come riportato in A. Izzo (a cura di), Storia del pensiero sociologico, vol. III: I
contemporanei, Il Mulino, Bologna 1977, p.311 ss.
42
9
individuati, cioè, luoghi concreti di compresenza e di reciprocità in cui le
relazioni intersoggettive vengono interiorizzate, rendendo autenticamente
partecipi gli uni della sorte degli altri e generando, così, i presupposti
fondamentali per un’effettiva aggregazione comunitaria. Ne è primo emblema
la famiglia: “unità di servizi primari (…) collocata in una più ampia rete di
relazionalità, quali specificatamente la responsabilizzazione personale,
l’autorealizzazione della persona, la generalizzazione delle funzioni”50; ma
nella stessa prospettiva possono essere compresi i gruppi e le associazioni,
come spazi comunitari “concretamente operativi”51 entro i quali gli individui
possono soddisfare i loro bisogni e svolgere le loro funzioni52.
Anche il terzo degli aspetti inizialmente citati, allora, quello relativo al lavoro
con i gruppi, trova una sua specificazione nella proposta teorica di Giorio.
Tale aspetto, presente con chiarezza nel servizio sociale sin dalle sue prime
elaborazioni53, non ha mancato di interessare per la sua natura sostanziale
(luogo di socialità) e strumentale (risorsa vitale per ogni comunità) nei
processi partecipativi di tipo comunitario. I gruppi, segnatamente quelli
spontanei (o informali) di piccole dimensioni, rappresentano per Giorio
efficaci canali di comunicazione e coinvolgimento delle persone nella più
estesa comunità54. Egli riconosce, poi, gruppi gradualmente più vasti entro i
quali si esprime la leadership “reale”, strategico perno di cambiamento nella
comunità, “determinante nei gruppi promozionali” (motori e promotori dello
sviluppo comunitario). A tal proposito, Giorio, delineando la possibilità di
attivazione di tali gruppi, è giunto a prefigurare linee operative di promozione
comunitaria nella direzione di attivazione di forme di “associazione
promozionale” attraverso la quale i leaders della comunità (identificati con i
sotto-gruppi di cui si è accennato) rendono effettiva una leadership
democratica, che favorisca la comunicazione ed incoraggi la partecipazione di
ogni persona ai processi identificativi e risolutivi di problemi comuni.
Nella proposta di Giorio, l’operatore sociale maturo si rende consapevole che
l’obiettivo di un processo comunitario si concretizza “allorquando una
persona si integri con altre, ed agisca con esse in rapporto ad altre persone
ancora, o gruppi, dando luogo ad una possibile idea di comunità”; starà a
questo operatore, poi, “fornire un indispensabile aiuto per individuare tutti gli
50
G. Giorio, op. cit., p.15.
G. Giorio (a cura di), Dall’intersoggettività alla reciprocità nelle risposte ai bisogni umani
della società tecnologica, CEDAM, Padova 1990, p. 30 ss.
52
Si veda R. M. MacIver, Community: a sociological Study, MacMilan, London 1935, come
riportato in G. Giorio, F. Lazzari, A. Merler (a cura di), op. cit., p.19.
53
M. Dal Pra Ponticelli, Lineamenti di servizio sociale, Astrolabio, Roma 1987, pp. 168-174.
54
G. Giorio, Aspetti e problemi della socializzazione, oggi, op. cit., pp. 244-245.
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elementi che interverranno nella predisposizione di un possibile ‘piano
d’azione’ promozionale” 55.
5. Condivisione della debolezza, punto di forza
Il tema, pur avanzato da un lustro, è tutt’ora “caldo” nel mondo degli
operatori sociali. Il lavoro dell’assistente sociale, ormai diffusamente
interpretato in un’ottica sociologica relazionale56, si propone, pur in varie
forme, “nella funzione di provocare l’incontro tra soggetti diversi, per una
catalizzazione e facilitazione di processi di risoluzione dei problemi personali
e comunitari”57 .
La “questione” ha assunto, però, una ulteriore sottolineatura se si conviene
con quanto sostiene Salvatore Natoli: “la società dei servizi” accompagna in
modo proporzionale il dissolversi della comunità58; in altre parole, la
standardizzazione delle prestazioni socio-assistenziali, erogate da agenzie ad
alta specializzazione funzionale, si sostituisce all’aiuto interpersonale carico
di contenuti valoriali ed affettivi proprio dei mondi vitali59. Per converso,
proprio in questa realtà va riemergendo sempre più diffusamente la ricerca di
esperienze di condivisione della propria debolezza e della propria forza, per
fronteggiare le difficoltà del proprio “star male” (inteso come condizione
personale più che come “malattia” o “problema istituzionalmente codificato”
etichettabile e con ciò stesso stigmatizzante60). Si constata in tal senso
l’affermarsi dei gruppi di self-help come “risposta consapevole, intenzionale
del prendersi cura di sé e degli altri e di sé attraverso gli altri”61. I gruppi di
auto-mutuo-aiuto (talvolta sociologicamente collocati nel cosiddetto “quarto
settore”) diventano interlocutori interessanti e stimolanti dei servizi sociali, in
quanto incarnano emblematicamente l’identità di soggetti portatori di disagio,
potenziali utenti, ed insieme risorse d’aiuto sociale, agenti di welfare, soggetti
capaci di promozione comunitaria. In forma paradigmatica rappresentano la
55
Op. cit., pp.245-246.
Si vedano P. Donati, Introduzione alla sociologia relazionale, F. Angeli, Milano 1983 e F.
Folgheraiter, Teoria e metodologia …, op. cit.
57
L. Gui, Servizio sociale fra teoria e pratica, Lint, Trieste 1999, p.52.
58
S. Natoli, L’arte inattuale della cura de sé, “Animazione sociale”, n.10, 1998 come riportato
da P. Di Nicola in D. Secondulfo (a cura di), Trasformazioni sociali e nuove culture del
benessere, F. Angeli, Milano, 2000, p.93 ss.
59
Il tema è stato ampiamente affrontato da P. Donati, si veda tra i suoi molteplici contributi sul
paradosso delle politiche sociali “lib-lab" P. Donati, Nuove culture del benessere, in D.
secondulfo (a cura di), op. cit., pp. 22 e ss.
60
P. Di Nicola, Reti di automutuoaiuto: verso una “società della cura”, in D. Secondulfo (a
cura di), Trasformazioni sociali e nuove culture del benessere, op.cit., p. 93.
61
Ibidem.
56
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prospettiva verso cui il servizio sociale orienta la relazione d’aiuto centrata
sull’empowerment dei cittadini utenti, che, offrendo le strutture di servizi
come bene strumentale, si sostanzia nelle relazioni d’aiuto “professionale”
(riconoscimento,
accoglimento,
orientamento,
accompagnamento,
promozione), e nulla sottrae alla piena titolarità, alla competenza ed alla
responsabilità dei cittadini nella ricerca delle soluzioni migliori dei loro
problemi, in una logica di cooperazione.
Sembra utile richiamare, entro questa prospettiva, il pensiero di Giorio,
quando giunge a sostenere che non sembra oggi possibile essere “per”, se
non autenticamente anche essere “con”62, e dunque, in termini di servizio
sociale, non è ipotizzabile un servizio “su” le persone, ma neppure ci si può
attardare nella prospettiva di attivazione di servizi “per” le persone, se non
nella direzione che porta a servizi “con” le persone ed anche, si potrebbe
implicitamente intendere, “grazie” alle persone, solidalmente cooperanti nel
loro contesto relazionale63.
Si può comprende, in fine, come questo operare concretamente “per” e “con”
gli altri possa restituire pienezza di senso al servizio sociale odierno, se si
condivide con Giorio la convinzione che “la solidarietà rappresenta forse il
modo più efficace ed efficiente per essere autentici attori nel contesto sociale
contemporaneo”64.
62
G. Giorio, Intervento, Convegno S.Pe ,“Sociologia per la Persona e politica sociale”, Roma,
21 novembre 2002
63
Secondo la preziosa distinzione già introdotta da M. Bayley tra care “in” the community e
care “by” the community. M.J. Bayley, Mental Handicap and Community Care, Routledge and
Kegan Paul, London 1973, riportato in M. Bulmer, Le basi della community care, Erickson,
Trento 1992. pp. 37-38.
64
G. Giorio, La comunità e oltre, op. cit., p.34.
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