Servizio sociale e partecipazione comunitaria autentica: un riferimento al contributo teorico di Guliano Giorio di Luigi Gui 1. Il nodo della partecipazione Chi abbia conosciuto Giuliano Giorio, di persona o attraverso la sua copiosa produzione scientifica, non può non aver colto la passione con cui egli sottolinea il valore di un’esperienza comunitaria “autenticamente partecipata”. La sua ricerca pare incessantemente volta a riconoscere nella realtà sociale, l’emergere di ogni forma di responsabile coinvolgimento delle persone nella costruzione condivisa della loro realtà. Appare evidente l’avversione di Giorio ad ogni lettura sociologica che indulga ad un determinismo meccanicistico, incapace di riconoscere nell’uomo la sua piena titolarità di soggetto originale ed autodeterminato1, orientato nel suo agire a fini che trascendono il mero utilitarismo materiale. Vi è in lui la convinzione della “vacuità sostanziale di qualsiasi incremento quantitativo di informazioni, di beni o redditi, di tecnologie o risorse strumentali, se questo non abbia a riallacciarsi a previe crescite qualitative nella capacità di “essere” e di aggregarsi” dell’uomo stesso per “gestire” gli incrementi medesimi, oltre che a realizzarli: in termini di responsabilità, di autonomia e di autogestione, di condivisione comunitaria e di interazione relazionale, del perseguimento di un equilibrio fra “interessi” materiali e “valori” etici.”2 Tale tensione tuttavia, non pare confondersi con l’ingenua presunzione che la partecipazione comunitaria, capace di legare promozionalmente e solidalmente le persone tra loro, si avveri spontaneamente e ad ogni condizione, dando luogo ad equilibri sistemici comunque ottimali, tentazione presente, invece, in certo funzionalismo acritico. Al contrario, quanto è chiara la tensione all’esperienza comunitaria come valore, altrettanto traspare nel lavoro di Giorio l’impegno a ricercare le vie per perseguire autenticamente 1 L’accento è stato costantemente posto da Giorio sulla capacità dell’Uomo di essere “artefice e costruttore di cultura insieme ai suoi simili, nell’adattrsi più o meno attivamente o nel reagire all’ambiente di appartenenza”. G. Giorio “Università e professionalizzazione” in S. Giraldo e E. Riefolo (a cura di), Il servizio sociale esperienza e costruzione del sapere, F. Angeli, Milano 1996, p.131 . 2 G. Giorio, op. cit. pp.131-132 1 tale esito, come realtà già presente, da riconoscere e valorizzare, ed al contempo come esperienza da sostenere e sviluppare a fronte delle pressioni sistemiche più individualistiche e disgreganti3. In questa tensione promozionale, possono comprendersi alcune delle maggiori motivazioni, in più occasioni richiamate da Giorio, allo sviluppo di un servizio sociale sempre più maturo e consapevole delle sue potenzialità. Proprio nel servizio sociale, infatti, questo Nostro sociologo ha intravisto lo spazio disciplinare da sviluppare per abilitare operatori sociali, assistenti sociali, promotori del benessere autentico, materiale e relazionale, delle persone nelle loro comunità: professionisti che sappiano assumere, tra gli altri ruoli, quello di “guida che aiuta la comunità a fissare e a trovare i mezzi di raggiungimento dei propri obiettivi”4. Di questa funzione “guida”, Giorio ha iniziato ad argomentare già dagli anni settanta, precedendo alcune delle sistematizzazioni teoriche più recenti che enfatizzano per il servizio sociale proprio il compito di “guida relazionale”5. Su tale fronte egli ha profuso non poche energie intellettuali ed organizzative, richiamando puntualmente alcuni nodi cruciali del lavoro cui gli assistenti sociali sono chiamati. Si tenta qui di riconsiderarne, pur per brevi cenni, alcuni degli aspetti cruciali. 2. Un cammino culturale Com’è noto il servizio sociale italiano ha mosso i suoi primi timidi passi agli inizi del secolo scorso, in pieno regime fascista, ma è solo nell’immediato secondo dopoguerra che ha assunto l’identità ed i valori su cui tutt’ora si fonda6. 3 Si vedano a questo proposito, le recenti argomentazioni sulla società globalizzata in Z. Bauman, Voglia di comunità, Ed. Laterza, Roma-Bari 2001 4 G. Giorio, Lineamenti per una metodologia dell’organizzazione e della partecipazione sociale, Centro Studi Rezzara, Vicenza 1975, p.86. Argomentazioni riprese ed ampliate nel testo G. Giorio, Strutture e sistemi sociali nell’attuale dinamica valoriale, CEDAM, Padova, II ed. 2000 5 Si vedano le argomentazioni di P. Donati in “Fondamenti di politica sociale”, NIS, Roma 1993, pp.43-44 e F. Folgheraiter, Teoria e Metodologia del servizio sociale, F. Angeli, Milano 1998, pp. 439-456 6 Tappa storica e fondativa per il servizio sociale italiano, viene considerata il “Primo convegno nazionale di assistenza sociale” di Tremezzo (TN), organizzato dal 16 settembre al 6 ottobre 1946, sotto gli auspici del Ministero dell’Assistenza postbellica, della Delegazione Italiana per i rapporti con l’UNRRA (United States Reliefand Rehubilitation Administration) e della missione italiana UNRRA. Si vedano a tal proposito gli Atti del Convegno per studi di assistenza sociale, Tremezzo sett-ott. 1946, Ed. C. Marzorati, Milano 1947 2 Dai primi anni del suo cammino, tale disciplina si è connotata come "l'insieme dei metodi che tendono a creare raccordo fra l'uomo e il suo ambiente e ad elevare il livello di vita collettivo attraverso prestazioni varie rivolte all'individuo"7, fino a definirsi "una disciplina di sintesi tra elementi di conoscenze che provengono anche da scienze diverse, volta all'operatività, che ha per oggetto l'uomo nel suo rapporto con l'ambiente"8. Nel processo di maturazione disciplinare e professionale gli assistenti sociali italiani, a partire dalle politiche di contrasto alla povertà ed al sottosviluppo della società italiana degli anni '50, hanno assunto come proprio il "mandato sociale"9 di "contribuire a creare la nuova coscienza civile dei cittadini, e collaborare così alla ricostruzione del paese” 10, facendo della partecipazione democratica uno dei propri principi fondativi imprescindibili. Da quegli anni, attenuandosi l’enfasi posta precedentemente sullo spirito volontaristico e sulle "speciali" attitudini morali e psicologiche di chi opera nell'assistenza, è cresciuta vieppiù la ricerca di un'adeguata formazione tecnico-scientifica11, sino a giungere all'odierno ingresso del servizio sociale a pieno titolo fra le "scienze" studiate all'università; impresa cui Giuliano Giorio ha contribuito non poco, attivando, tra l’altro, il primo dottorato di ricerca in “Sociologia, teoria e metodologia del servizio sociale”, ed il primo corso di laurea sperimentale in “Servizio Sociale”, anticipatore e facilitatore del successivo avvio di corsi di laurea specialistica in servizio sociale (classe delle lauree specialistiche n.57 in “programmazione e gestione della politiche e dei servizi sociali”), come è stato possibile dopo la riforma universitaria avviata dall’attuazione del Decreto 509/9912. 3. Istanze fondanti 7 Relazione italiana a cura del CISS alla V^ Conferenza Internazionale di Servizio Sociale, Parigi 23-28 luglio 1950, in "Assistenza d'Oggi", AAI, n.3, 1950, pp.1-47 , riportato da A. Campanini, Servizio sociale e sociologia: storia di un dialogo, Ed. LINT, Trieste 1999, p.18. Sulla stessa linea è la dichiarazione dell'ONU del 1959. 8 AA.VV., Il lavoro sociale professionale tra soggetti e istituzioni, Ed. F.Angeli, Milano 1988, p.16 9 R. Bernocchi Nisi, L'origine delle scuole per assistenti sociali nel secondo dopoguerra, in AA.VV. , Le scuole di servizio sociale in Italia, aspetti e momenti della loro storia, Ed. Fondazione E. Zancan, Padova 1984, p.21 10 A. Florea, Relazione, in AA.VV., Materiali per una ricerca storica sulle scuole di Servizio Sociale, Scuola Superiore di Servizio Sociale di Trento e Fondazione Zancan, Padova 1980, p. 85. 11 Pur non essendo mancati momenti d’incertezza o talvolta di diffidenza nei confronti di un rigoroso sapere teorico-scientifico pienamente inserito nell’accademia. 12 Si veda a tal proposito il contributo di G. Giorio, Dottorato in servizio sociale, in E. Sgroi, S. Rizza, L. Gui (a cura di), Rapporto sulla situazione del servizio sociale, EISS, Roma 2001, pp. 327-337. 3 Agli interventi di servizio sociale viene, così, riconosciuta la funzione, per nulla agevole, di “migliorare la società ed aiutare gli individui in difficoltà, a diventare indipendenti”13. L' esercizio professionale degli assistenti sociali si propone come “tramite tra le persone che hanno bisogno di aiuto e le risorse sociali, tra l’individuo e la società”14, per favorirne i collegamenti15 ed aiutare le persone a sviluppare le proprie capacità, nella prospettiva di "rendersi consapevoli dei bisogni" e "prendere in mano le soluzioni"16 più opportune per sé. Dacché il servizio sociale è cresciuto, dunque, l’accento non si è posto tanto sull’aspetto riparativo o curativo di deficit personali o disfunzioni sociali, ma sulla “valorizzazione dell’autonomia e della creatività della persona umana, ed inoltre della sua capacità di svolgere un ruolo attivo nel contesto sociale, e quindi a livello di processi culturali socializzanti”.17 Si coglie già da queste prime annotazioni, quanto il servizio sociale contenga e componga al suo interno istanze operative, valenze politiche (nell’accezione più estesa di “costruzione della polis”), istanze etiche, istanze tecnicoscientifiche, istanze professionali. Esso, di fatto, ha portato gli assistenti sociali ad una continua staffetta cognitiva tra l’esercizio di una professione immediatamente “agita”, la necessità di una professione “pensata” e la caratterizzazione di una professione “sentita”18, integrando costantemente le competenze intellettuali e comunicative con le componenti etiche e valoriali19. Il servizio sociale, dunque, si presenta come una professione (nel suo esprimersi in azioni) e una disciplina (nell’ambito delle definizioni teoriche) 13 F. Ferrario, Le metodologie professionali nella storia delle scuole di servizio sociale, in AA.VV. , Le scuole di servizio sociale in Italia…, op. cit., p. 145. 14 O. Vallin , Relazione, in AA.VV., Materiali per una ricerca storica ., cit. pp. 107-110. 15 E. Bianchi, Alcuni appunti sul metodo - in AA.VV. , Servizio sociale, sociologia, psicologia. Ripresa critica di un dibattito teorico, F. Angeli - Fondazione E. Zancan, Padova 1983, p. 44 16 E. Bianchi , op cit, p.39 17 G. Giorio, Strutture e sistemi sociali nell’attuale dinamica valoriale, op. cit., p. 306 18 Margaret Richards (docente di Servizio Sociale al National Institute for social work di Londra), schematizzando gli elementi essenziali nella formazione degli assistenti sociali pone in parallelo l’acquisizione di ABILITÁ (attinenti al come fare “concretamente” ció che serve) e di CONOSCENZE (che riguardano le informazioni e i metodi necessari per l’intervento) e l’attenzione alle SENSAZIONI e agli atteggiamenti (legati alla percezione di ruolo e di status). M. Richards, La costruzione di programmi per la formazione sul campo, in AA.VV. , Il Tirocinio professionale nel formazione di base, Atti Convegno, Trieste 28/29 ottobre 1985, Scuola Superiore di Servizio Sociale di Trieste, 1986, pp. 86-87. 19 M.A. Macaluso, Etica dell’operatore, soggettività e formazione, in T. Vecchiato, F. Villa, La deontologia professionale nel servizio sociale, Vita e pensiero , Milano 1992, pp.35-39. 4 multifocali20 e mutidimensionali21, che esigono in chi se ne occupa uno sforzo costante di approfondimento e di crescita, pena la semplicistica riduzione del “lavoro sociale” (nella traduzione letterale di “servizio sociale” come social work) a generica “opera di buona volontà” e “pressappochismo paraprofessionale”, come in taluni casi tutt’ora può accadere (sino a pochi anni fa non pochi autori avanzavano ancora attribuzioni di “semiprofessione”22 al lavoro dell’assistente sociale). Per questo, l’impegno culturale e formativo profuso da molti docenti, studiosi ed operatori di servizio sociale nello scorso mezzo secolo si è rivelato cruciale. Durante i primi anni della nostra Repubblica, gli interventi socio-assistenziali mantenevano il carattere residuale assegnato da politiche sociali contenitivoriparative23, mentre andavano introducendosi anche in Italia le "tecniche" di servizio sociale, di importazione statunitense24: social casework (trattamento dei casi individuale), social groupwork (lavoro sociale con i gruppi), community development o community work (lavoro sociale di comunità) 25. L’influsso statunitense sul servizio sociale italiano degli anni 50 aveva portato ad un’adozione talvolta acritica dalle teorie parsonsiane26, e conseguentemente dell’impegno del servizio sociale nella funzione di “adattamento e abilitazione funzionale di ruolo” per i soggetti meno integrati, tuttavia dalla “contaminazione” americana non erano mancate anche alcune ricadute assai fertili per il nostro paese. Giovanni De Menace, rifugiatosi negli Stati Uniti nel ’39 fece esperienza nei servizi sociali delle periferie povere di New York, e poi tornato in Italia dalla fine del ‘4527, fu fondatore e docente nelle nascenti scuole per assistenti sociali (SISS ed ENSISS)28, contribuendo 20 M. Dal Pra Ponticelli, I soggetti in alcune teorie del servizio sociale: attualità di un dibattito, in E. Bianchi e I. De Sandre (a cura di), Solidarietà e soggetti: servizio sociale e teorie di riferimento, E. Zancan, Padova 2000, p.55. 21 F.Ferrario, La dimensione dell’ambiente nel processo d’aiuto, in Coordinamento Nazionale docenti di servizio Sociale, Il servizio sociale come processo d’aiuto, F. Angeli, Milano 4^ ed. 1993, pp. 37- 38. 22 Si vedano le definizioni riportate in A. Campanini, Servizio sociale e sociologia: storia di un dialogo, LINT, Trieste 1999, pp.40-45. 23 Anche se non sono mancate, in particolare nel lavoro con le comunità, originali ed innovative esperienze di promozione; si vedano a tal proposito i lavori di E. Sgroi, Aspetti teorici e pratici dello sviluppo di comunità, in Assistenza oggi, n.4 1961, G. Giorio, Organizzazione di comunità, Ed. Marsilio, Padova 1969, F. Ferrario, G. Gottardi, Territorio e servizio sociale, Ed. Unicopli, Milano 1987 24 F. Biestek, I cinque metodi del servizio sociale, Malipiero, Bologna 1960, pp.73 e segg. 25 A. Campanini, Servizio sociale e sociologia: storia di un dialogo, Ed. LINT, Trieste 1999, pp. 72-76 . 26 V. Ducci, Servizio sociale e servizi sociali tra crisi e riforme, EISS, Roma 1955, p.12 27 E. Fiorentino Busnelli, Giovanni De Menasce. La nascita del servizio sociale in Italia, Ed. STUDIUM, Roma 2000, pp.27-33. 28 R. Bernocchi Nisi, op. cit., pp.24-27 5 non poco ad introdurre nelle pratiche assistenziali italiane un atteggiamento non moralistico, scientificamente fondato, tecnicamente competente, massimamente rispettoso di ogni persona umana da accogliere in modo “non giudicante”, carico di una forte componente di fiducia nell’uomo29. Anche le “borse Fullbright”, erogate dagli Stati Uniti nell’epoca della ricostruzione post-bellica per la formazione dei nuovi docenti italiani impegnati nella formazione al servizio sociale, furono un importante veicolo di esperienze ed idee, da cui lo stesso Giorio trasse proficua esperienza, accompagnate dall’approfondimento di alcuni autori d’oltremare; si pensi tra gli altri, al riferimento, più volte richiamato nei saggi di Giorio, alle trattazioni di Murray G.. Ross sul lavoro di comunità30. Il successivo processo riformatore degli anni '70, con il trasferimento di poteri dallo Stato agli Enti Locali, l'individuazione del Comune come prevalente soggetto titolare degli interventi socio-assistenziali, il discioglimento della galassia di enti assistenziali per categorie di "bisognosi", l'affermarsi delle politiche di sicurezza sociale e l'estendersi delle prestazioni del welfare state, l'avvio del Servizio Sanitario Nazionale, l'articolazione in tutto il territorio delle Unità sanitarie locali, hanno fatto assumere crescente rilievo, tanto nella pratica che nelle teorizzazioni del servizio sociale italiano, alle dimensioni della "prevenzione", della "partecipazione" dei cittadini allo sviluppo della salute, del benessere e della gestione dei servizi, della "programmazione" nelle politiche di welfare. Gli assistenti sociali di quegli anni, per larga parte collocati nei servizi territoriali degli Enti Locali e delle Unità sanitarie locali, hanno assunto nella propria stessa vocazione professionale il mandato del welfare state, si sono fatti "agenti" dell'istituzione pubblica, sempre più omogenei fra loro come collocazione lavorativa, come identità e profilo professionale, con caratteristiche di polivalenza operativa, pur all'interno di una unitarietà metodologica del processo d'aiuto31. Da allora, con crescente consapevolezza il servizio sociale è andato rivolgendosi contemporaneamente a quattro fuochi di attenzione: i soggetti che esprimono una qualche domanda d'aiuto (persone concrete, ma anche famiglie, gruppi, associazioni), il loro ambiente fisico e relazionale, l'organizzazione di servizio di cui l'assistente sociale fa parte, con 29 J.C. De Menasce, Appunti di morale professionale ad uso degli assistenti sociali, ENSISS, Roma 1953. 30 Si ricorda a tal proposito, in particolare l’introduzione in Italia a cura di Giorio del testo M.G. Ross, Organizzazione di comunità: teoria e principi, ONARMO, Roma 1963 o al testo United Nationd Segretary General, Social Progress throuth Community Development, New York, United Nation Bureau of Social Affaire, 1955. 31 M. Dal Pra Ponticelli , Problemi di definizione e riferimenti teorici , in Coordinamento Nazionale docenti di servizio Sociale, Il servizio sociale come processo d’aiuto, op. cit., pp.3637. 6 un atteggiamento di promozione al cambiamento, la comunità sociale entro cui la condizione problematica si esprime e che rappresenta insieme il luogo delle risorse utili al superamento del problema32. 4. Territorio e promozione comunitria L'orizzonte aperto a cui ora gli operatori di servizio sociale si rivolgono, è stato sintetizzato anche come triade, interattiva al suo interno, composta di volta in volta da un individuo/famiglia, inserito in una comunità, che entra in contatto con una istituzione politico/amministrativa , titolare di risorse socio-assistenziali accessibili ad ogni cittadino che cerchi di superare un proprio stato di disagio momentaneo o permanente33. Entro queste coordinate il servizio sociale ha dovuto giocare la sua scommessa di valore: attrezzarsi come mero sistema redistributivo di risorse, limitando l’azione dell’assistente sociale nella funzione di “ponte” tra la domanda di servizi di ogni singolo cittadino-utente e le risorse istituzionali34, mero esecutore di prestazioni erogative più o meno standardizzate, o, invece, potenziare la “vocazione” promozionale, nella direzione di “contribuire ad una organizzazione e gestione efficiente, efficace ed umana di servizi e di risorse istituzionali e comunitarie adeguati alla soddisfazione dei bisogni e delle esigenze di singoli e della comunità, attraverso: a) la messa in atto di attività di studio, analisi e valutazione dei bisogni individuali e collettivi, espressi e latenti in rapporto ad (ogni) comunità territoriale, a fenomeni sociali rilevanti o a situazioni problematiche individuali e delle risorse istituzionali comunitarie, fruibili o da promuovere e la conseguente attività di formulazione dei piani e programmi di intervento sia a livello individuale che comunitario; b) la promozione e lo sviluppo di un rapporto più funzionale fra bisogni individuali e collettivi e risposte istituzionali e comunitarie, da realizzarsi con l’attivazione delle varie forme di partecipazione utenziale e comunitaria e la promozione di processi di cambiamento organizzativogestionale nelle strutture socio-assistenziali”35. 32 Questa caratteristica del servizio sociale, orientato su più fuochi d'attenzione, è ripresa anche da F. Ferrario in Dimensioni dell'intervento sociale, Ed. NIS, Roma 1996 e da F. Folgheraiter in Teoria e metodologia del servizio sociale, la prospettiva di rete, Ed. Angeli, Milano 1998 33 M. Dal Pra Ponticelli, in E. Bianchi, I. De Sandre (a cura di), Solidarietà e soggetti: servizio sociale e teorie di riferimento, Ed. Fondazione E. Zancan, Padova 2000, p.55 34 M. Dal Pra Ponticelli, Problemi urgenti alla luce del recente dibattito culturale sul servizio sociale, op. cit.,in E. Bianchi, M. Dal Pra Ponticelli,I. De Sandre, E. Gius, Servizio sociale, sociologia, psicologia, ripresa critica di un dibattito teorico, E. Zancan, Padova 1983, pp.1419. 35 M. Dal Pra Ponticelli, op. cit., p. 21. 7 In tal senso, il nodo problematico segnalato da Giorio già a fine anni ’70, stava (e tuttora sta) non tanto “nel provocare nuove occasioni associative, pur sulla base di adeguate motivazioni più o meno ideali, quanto piuttosto nell’aggiungervi autentiche esperienze di partecipazione per persone aventi problemi comuni, disposte ad affrontare solidalmente – ossia in una prospettiva globale di socializzazione – le possibili soluzioni”36. Sotto questo profilo le coniugazioni concrete di servizio sociale hanno assunto diversi livelli di spessore in base al contesto sociale, culturale, economico e politico del territorio e delle istituzioni in cui si è espresso. La scommessa su accennata non sempre è stata vinta, ma le basi teoriche e valoriali nella prospettiva di servizi sociali territorializzati come “sistema di interventi unitari partecipati (…) e non solo come decentramento di servizi o sommatoria si servizi”37 appaiono solidamente gettate. “Il cammino apertosi per il servizio sociale territoriale – sostiene Dal Pra – ha indiscutibilmente una dimensione comunitaria”38 che va indirizzandosi su tre diverse direzioni: 1) “promozione, sviluppo e coordinamento di servizi e risorse istituzionali e comunitarie; 2) partecipazione sociale tendente a creare un rapporto ottimale fra bisogni e risorse in relazione ad un determinato territorio; 3) lavoro con i gruppi della comunità al fine di promuovere la partecipazione, il coinvolgimento, l’autogestione dei servizi e delle risorse da parte della stessa popolazione e creare o ricercare legami di solidarietà sociale.”39 Ciascuna di queste direzioni di “promozione comunitaria” trova nelle argomentazioni scientifiche di Giorio ulteriori riferimenti per sostanziarsi autenticamente evitando ogni superficiale formalismo. Per il primo aspetto, relativo alla promozione ed allo sviluppo di un coordinamento fra risorse istituzionali (pubbliche e private), egli afferma “l’esigenza di un necessario coordinamento fra strutture amministrative diverse (…) in grado di giungere a perseguire finalità riconducibili a matrici e motivazioni convergenti, (…) ove sia possibile tener presente il ruolo di valori condivisi per un’auspicabile integrazione sociale”40; in sostanza l’Autore pare 36 G. Giorio, Aspetti e problemi della socializzazione, oggi, Liviana, Padova 1979, p. 192. C. Trevisan, Il distretto di base nell’unità locale, in Prospettive sociali e sanitarie, 21-22, 1978, par. 1.4 . 38 M. Dal Pra Ponticelli, La dimensione unitaria e “comunitaria” del servizio sociale territoriale, in M. Dal Pra Ponticelli, E. Bianchi, A.M. Cavallone, M. Dal Pra ponticelli, I. De Sandre, E. Gius, A. Polmonari, Il lavoro sociale professionale tra soggetti e istituzioni, F. Angeli, Milano 1988, p.51. 39 M. Dal Pra Ponticelli, op. cit., pp.56-57. 40 G. Giorio, Comunità e oltre, in G. Giorio, F. Lazzari, A. Merler (a cura di), Dal micro al macro. Percorsi socio-copmunitari e processi di socializzazione, CEDAM, Padova 1999, p.30. 37 8 richiamare l’attenzione sullo stretto collegamento tra l’intergrazione interna alla comunità e la comunanza di valori a cui neppure le istituzioni possono sottrarsi. Giorio, inoltre, mette in guardia dal rischio che dall’intesa amministrativo-istituzionale si “imposti e si attui un programma in cui ogni cittadino41 (…) sia soltanto una parte, (…) un soggetto anomico o amorfo”42 e non un autentico “partecipante” (soggetto che intenzionalmente propone la sua partecipazione, cioè la sua “parte” di “azione”). Ecco dunque affacciarsi “il risolutivo problema del ‘ruolo’ che ogni singolo cittadino può essere chiamato a svolgere in una qualsiasi programmazione”43 che coinvolga le responsabilità personali. Responsabilità nell’esercizio di ruolo, in interazione con altri44, che si esprime in “spazi comunitari di appartenenza” sentiti come “spazi di vita” 45; “ruolo” e “appartenenza” divengono, quindi, elementi sostanziali senza i quali una vera partecipazione comunitaria non ha luogo, ed ancor meno un servizio sociale disattento a questo due livelli basilari di riconoscimento, potrà ambire a promuovere autentica parecipazione. Qui il contributo del Nostro riconduce al secondo aspetto, relativo al rapporto fra i bisogni percepiti dalle singole persone e le risorse che la comunità esprime. “Si tratta – prendendo a prestito le sue parole – di un’appropriata tensione “partecipata” fra appartenenze individuali e habitat comune, ove ciascuno abbia collocato le proprie scelte”46. Il servizio sociale ben si coniuga con questa lettura, quando assume che l’assistente sociale si ponga “come soggetto privilegiato di mediazione fra mondi vitali quotidiani e istituzioni sistemiche, e, appartenendo sia all’uno che all’altro polo, svolga compiti di continua mediazione fra i due per instaurare forme di cooperazione e comunicazione vitale fra essi”47. Non è superfluo sottolineare che, nella riflessione di Giorio, l’individuazione di uno “spazio comunitario”48, pur ricollegabile a molteplici e diversificate situazioni di appartenenza, implica49 una condivisione di costrutti del senso comune tra persone, entro comunità effettive di spazio e di tempo. Vanno 41 Il corsivo è aggiunto. Ibidem. 43 Ibidem. 44 Cfr. R. H. Turner, Social Roles: Sociological Aspects, International Encyclopaedia of Social Sciences, MacMillan, New York 1968. 45 G. Giorio, op. cit., p.17. 46 Ibidem. 47 M. Dal Pra Ponticelli, Problemi emergenti…, op. cit., p.17. 48 Ibidem. 49 Qui l’Autore richiama il pensiero di Schutz. Vedi A. Schutz, Common-Sense and Scsientific Interpretation of Human Action, in Collected Papers, vol, X, The Hague, Martinus Nijhoff, 1973, p.7 ss, come riportato in A. Izzo (a cura di), Storia del pensiero sociologico, vol. III: I contemporanei, Il Mulino, Bologna 1977, p.311 ss. 42 9 individuati, cioè, luoghi concreti di compresenza e di reciprocità in cui le relazioni intersoggettive vengono interiorizzate, rendendo autenticamente partecipi gli uni della sorte degli altri e generando, così, i presupposti fondamentali per un’effettiva aggregazione comunitaria. Ne è primo emblema la famiglia: “unità di servizi primari (…) collocata in una più ampia rete di relazionalità, quali specificatamente la responsabilizzazione personale, l’autorealizzazione della persona, la generalizzazione delle funzioni”50; ma nella stessa prospettiva possono essere compresi i gruppi e le associazioni, come spazi comunitari “concretamente operativi”51 entro i quali gli individui possono soddisfare i loro bisogni e svolgere le loro funzioni52. Anche il terzo degli aspetti inizialmente citati, allora, quello relativo al lavoro con i gruppi, trova una sua specificazione nella proposta teorica di Giorio. Tale aspetto, presente con chiarezza nel servizio sociale sin dalle sue prime elaborazioni53, non ha mancato di interessare per la sua natura sostanziale (luogo di socialità) e strumentale (risorsa vitale per ogni comunità) nei processi partecipativi di tipo comunitario. I gruppi, segnatamente quelli spontanei (o informali) di piccole dimensioni, rappresentano per Giorio efficaci canali di comunicazione e coinvolgimento delle persone nella più estesa comunità54. Egli riconosce, poi, gruppi gradualmente più vasti entro i quali si esprime la leadership “reale”, strategico perno di cambiamento nella comunità, “determinante nei gruppi promozionali” (motori e promotori dello sviluppo comunitario). A tal proposito, Giorio, delineando la possibilità di attivazione di tali gruppi, è giunto a prefigurare linee operative di promozione comunitaria nella direzione di attivazione di forme di “associazione promozionale” attraverso la quale i leaders della comunità (identificati con i sotto-gruppi di cui si è accennato) rendono effettiva una leadership democratica, che favorisca la comunicazione ed incoraggi la partecipazione di ogni persona ai processi identificativi e risolutivi di problemi comuni. Nella proposta di Giorio, l’operatore sociale maturo si rende consapevole che l’obiettivo di un processo comunitario si concretizza “allorquando una persona si integri con altre, ed agisca con esse in rapporto ad altre persone ancora, o gruppi, dando luogo ad una possibile idea di comunità”; starà a questo operatore, poi, “fornire un indispensabile aiuto per individuare tutti gli 50 G. Giorio, op. cit., p.15. G. Giorio (a cura di), Dall’intersoggettività alla reciprocità nelle risposte ai bisogni umani della società tecnologica, CEDAM, Padova 1990, p. 30 ss. 52 Si veda R. M. MacIver, Community: a sociological Study, MacMilan, London 1935, come riportato in G. Giorio, F. Lazzari, A. Merler (a cura di), op. cit., p.19. 53 M. Dal Pra Ponticelli, Lineamenti di servizio sociale, Astrolabio, Roma 1987, pp. 168-174. 54 G. Giorio, Aspetti e problemi della socializzazione, oggi, op. cit., pp. 244-245. 51 10 elementi che interverranno nella predisposizione di un possibile ‘piano d’azione’ promozionale” 55. 5. Condivisione della debolezza, punto di forza Il tema, pur avanzato da un lustro, è tutt’ora “caldo” nel mondo degli operatori sociali. Il lavoro dell’assistente sociale, ormai diffusamente interpretato in un’ottica sociologica relazionale56, si propone, pur in varie forme, “nella funzione di provocare l’incontro tra soggetti diversi, per una catalizzazione e facilitazione di processi di risoluzione dei problemi personali e comunitari”57 . La “questione” ha assunto, però, una ulteriore sottolineatura se si conviene con quanto sostiene Salvatore Natoli: “la società dei servizi” accompagna in modo proporzionale il dissolversi della comunità58; in altre parole, la standardizzazione delle prestazioni socio-assistenziali, erogate da agenzie ad alta specializzazione funzionale, si sostituisce all’aiuto interpersonale carico di contenuti valoriali ed affettivi proprio dei mondi vitali59. Per converso, proprio in questa realtà va riemergendo sempre più diffusamente la ricerca di esperienze di condivisione della propria debolezza e della propria forza, per fronteggiare le difficoltà del proprio “star male” (inteso come condizione personale più che come “malattia” o “problema istituzionalmente codificato” etichettabile e con ciò stesso stigmatizzante60). Si constata in tal senso l’affermarsi dei gruppi di self-help come “risposta consapevole, intenzionale del prendersi cura di sé e degli altri e di sé attraverso gli altri”61. I gruppi di auto-mutuo-aiuto (talvolta sociologicamente collocati nel cosiddetto “quarto settore”) diventano interlocutori interessanti e stimolanti dei servizi sociali, in quanto incarnano emblematicamente l’identità di soggetti portatori di disagio, potenziali utenti, ed insieme risorse d’aiuto sociale, agenti di welfare, soggetti capaci di promozione comunitaria. In forma paradigmatica rappresentano la 55 Op. cit., pp.245-246. Si vedano P. Donati, Introduzione alla sociologia relazionale, F. Angeli, Milano 1983 e F. Folgheraiter, Teoria e metodologia …, op. cit. 57 L. Gui, Servizio sociale fra teoria e pratica, Lint, Trieste 1999, p.52. 58 S. Natoli, L’arte inattuale della cura de sé, “Animazione sociale”, n.10, 1998 come riportato da P. Di Nicola in D. Secondulfo (a cura di), Trasformazioni sociali e nuove culture del benessere, F. Angeli, Milano, 2000, p.93 ss. 59 Il tema è stato ampiamente affrontato da P. Donati, si veda tra i suoi molteplici contributi sul paradosso delle politiche sociali “lib-lab" P. Donati, Nuove culture del benessere, in D. secondulfo (a cura di), op. cit., pp. 22 e ss. 60 P. Di Nicola, Reti di automutuoaiuto: verso una “società della cura”, in D. Secondulfo (a cura di), Trasformazioni sociali e nuove culture del benessere, op.cit., p. 93. 61 Ibidem. 56 11 prospettiva verso cui il servizio sociale orienta la relazione d’aiuto centrata sull’empowerment dei cittadini utenti, che, offrendo le strutture di servizi come bene strumentale, si sostanzia nelle relazioni d’aiuto “professionale” (riconoscimento, accoglimento, orientamento, accompagnamento, promozione), e nulla sottrae alla piena titolarità, alla competenza ed alla responsabilità dei cittadini nella ricerca delle soluzioni migliori dei loro problemi, in una logica di cooperazione. Sembra utile richiamare, entro questa prospettiva, il pensiero di Giorio, quando giunge a sostenere che non sembra oggi possibile essere “per”, se non autenticamente anche essere “con”62, e dunque, in termini di servizio sociale, non è ipotizzabile un servizio “su” le persone, ma neppure ci si può attardare nella prospettiva di attivazione di servizi “per” le persone, se non nella direzione che porta a servizi “con” le persone ed anche, si potrebbe implicitamente intendere, “grazie” alle persone, solidalmente cooperanti nel loro contesto relazionale63. Si può comprende, in fine, come questo operare concretamente “per” e “con” gli altri possa restituire pienezza di senso al servizio sociale odierno, se si condivide con Giorio la convinzione che “la solidarietà rappresenta forse il modo più efficace ed efficiente per essere autentici attori nel contesto sociale contemporaneo”64. 62 G. Giorio, Intervento, Convegno S.Pe ,“Sociologia per la Persona e politica sociale”, Roma, 21 novembre 2002 63 Secondo la preziosa distinzione già introdotta da M. Bayley tra care “in” the community e care “by” the community. M.J. Bayley, Mental Handicap and Community Care, Routledge and Kegan Paul, London 1973, riportato in M. Bulmer, Le basi della community care, Erickson, Trento 1992. pp. 37-38. 64 G. Giorio, La comunità e oltre, op. cit., p.34. 12