DOPO LE PRIME DUE GUERRE PUNICHE
La Gallia Cisalpina
A seguito della sconfitta di Annibale, Roma doveva riprendere il controllo dei territori che erano stati
sconvolti dalla campagna di Annibale, primi fra tutti quelli di Italia settentrionale, dove erano insorte le
tribù galliche in sostegno del condottiero punico.
La riconquista di questi territori fu difficile e faticosa e si concluse nel primo decennio del II secolo a.C.
(entro il 190 a.C.).
Per assicurarsi il controllo di quelle terre, Roma fondò una serie di colonie (Bologna, Modena, Parma,
Aquileia) dove affluirono moltissimi coloni romani e italici, attirati dalla fertili terre padane. Nel corso del II
a.C. circa centomila, tra romani e italici, raggiunsero il nord Italia.
L’afflusso di queste genti e la capillare opera di costruzione di città e reti viarie (vedi quanto detto
precedentemente, via Emilia, 189-187 a.C., via Cassia, via Postumia,…) favorirono il processo di
romanizzazione che fece in breve tempo della Cisalpina una delle regioni culturalmente ed
economicamente più progredite al mondo.
L’Oriente
Dopo la seconda guerra punica, Roma puntò decisamente a estendere il proprio dominio nel Mediterraneo
Orientale, che era costituito da una congerie di stati, in competizione tra loro e tra loro ostili, derivati dalle
antiche monarchie ellenistiche. Erano stati molto ricchi e culturalmente avanzatissimi, ma piccoli e
disgregati. Un’occasione unica per Roma, che mirava anche al dominio incontrastato dei mari. Avendo
assunto il controllo del Mediterraneo occidentale con la seconda guerra punica, ora non le restava che
assumerlo nel Mediterraneo orientale.
- la prima guerra macedonica (215-205 a.C.)
Come sappiamo, i Romani, dopo la disfatta di Canne, grazie alla loro tenacia e al loro orgoglio, avviarono la
riscossa.
Poiché Filippo V di Macedonia si era alleato con i Cartaginesi, i Romani a loro volta si allearono con i nemici
giurati di Filippo V, ovvero la Lega Etolica (in Grecia) e il Regno di Pergamo (in Asia Minore) e condussero
una rapidissima guerra preventiva, la prima guerra macedonica (215-205 a.C.), che si concluse con un nulla
di fatto: fu solo un intervento marginale romano, in sostegno delle comunità greche contro Filippo V, che si
chiuse con un trattato di pace. Rimase confinata nel quadro della seconda guerra punica.
Ricordiamo che le città greche erano formalmente libere, ma impoverite e soggette al controllo della
Macedonia. Come si è visto furono e saranno i Greci stessi a coinvolgere Roma nei loro conflitti.
- la seconda guerra macedonica (200-196 a.C.)
Alcuni anni dopo però, Filippo V avviò un’imponente politica di espansione in Asia Minore: si alleò con
Antioco III, re di Siria, e aggredì il regno di Pergamo e la Repubblica di Rodi, già alleati di Roma. Entrò quindi
in Grecia, tentando la conquista di Atene (200 a.C.).
Roma si vide costretta ad intervenire, insieme alla Lega Etolica, non senza accese discussioni, tuttavia.
A Roma si formarono due partiti: i ceti imprenditoriali (con a capo Scipione l’Africano) miravano
all’egemonia sul Mediterraneo e all’intervento militare in sostegno della Grecia. Ammiratori della cultura
greca, erano favorevoli ad un più stretto contatto con quella. C’era il partito dei tradizionalisti e
dell’aristocrazia terriera, che considerava la cultura greca decadente e corrotta e voleva evitare questo
contatto (Marco Porcio Catone in primis).
Ad ogni modo non si poteva ammettere che un’altra potenza, minacciosamente, si facesse largo in Oriente.
E così si intervenne ed ebbe inizio la seconda guerra macedonica (200-196 a.C.), pur dichiarando guerra
unicamente a Filippo V. La campagna militare fu rapida e facile: nel 197 a.C. i Romani sconfissero l’armata
macedone a Cinocefale (Tessaglia).
1
I Macedoni rientrarono nei loro confini, rinunciarono ad ogni pretesa fuori dalla Macedonia e pagarono una
forte indennità di guerra ai Romani.
Nel 196 a.C. il console Tito Quinzio Flaminino, che aveva condotto le operazioni militari contro Filippo V,
davanti ai Greci convenuti ai Giochi Istmici proclamò, sensazionalmente, la libertà di tutta la Grecia.
L’entusiasmo fu enorme e i Greci credettero davvero che i romani avrebbero tutelato (da nemici esterni,
ma anche dai Romani stessi) la libertà della Grecia.
Nel 194 i presidi militari romani effettivamente abbandonarono il territorio, ai Greci non vennero imposti
tributi e fu loro concessa l’applicazione delle leggi tradizionali. Tuttavia, a partire da questo momento, i
Romani iniziarono ad interferire nelle questioni politiche tra pòleis, a sostenere le famiglie aristocratiche
locali e ad avanzare pretese commerciali (è l’inizio dell’imperialismo romano). Inoltre la Lega Etolica, che
pure aveva contribuito alla sconfitta di Filippo V, non ottenne alcun tipo di riconoscimento da parte di
Roma.
I Greci iniziarono a guardare con sospetto la potenza prima considerata liberatrice.
FINO A QUI PER IL COMPITO
- la guerra siriaca (192-189 a.C.)
Nel 192 a.C. tuttavia, Antioco III di Siria, che controllava il regno seleucide, che si estendeva dal
Mediterraneo ai confini dell’India, decise di invadere il regno di Pergamo.
Antioco III aveva altresì dato ospitalità ad Annibale e insieme avevano in progetto di organizzare una vasta
coalizione contro Roma e riprendere le ostilità. La Lega Etolica, che covava ostilità nei confronti dei Romani
(aveva sperato in un trattamento di favore poiché li aveva sostenuti nella seconda guerra macedonica)
sostenne questa coalizione.
I Romani, sostenuti da molte città greche, si videro costretti da intervenire nuovamente (192 a.C.) ed ebbe
inizio la guerra siriaca.
Antioco venne sconfitto prima alle Termopili (191 a.C.) e poi a Magnesia (190 a.C.).
Antioco fu costretto a pagare un’enorme indennità di guerra e ad abbandonare i possedimenti in Asia
Minore (e concederli agli alleati romani: Rodi e Pergamo > il che significa che Roma controlla i commerci in
oriente), nonché gli venne intimato di consegnare Annibale.
Annibale tentò allora di salvarsi recandosi presso il re Prusia, in Bitinia, ma poiché i Romani insistevano
anche con Prusia che Annibale venisse loro consegnato, nel 183 a.C. questi si avvelenò, preferendo la morte
alla prigionia presso il nemico.
- la terza guerra macedonica (171-168 a.C.)
Alla morte di Filippo V, il figlio Perseo gli succedette1. La politica di Perseo fu cauta e moderata, ma i
Romani lo accusarono falsamente di ordire piani di vendetta contro di loro e aprirono nuovamente le
ostilità contro la Macedonia. Le accuse che i Romani rivolsero a Perseo erano del tutto pretestuose, perché
Perseo non aveva voluto né saputo raccogliere i movimenti antiromani che pure serpeggiavano tra i Greci,
consapevoli ormai dell’errore commesso nel coinvolgere la potenza romana in Oriente.
La terza guerra macedonica, intrapresa nel 171 a.C. si concluse nel 168 a.C. con la battaglia di Pidna, vinta
dal generale romano Lucio Emilio Paolo (figlio del Lucio Emilio Paolo rimasto ucciso a Canne).
La Macedonia venne smembrata in quattro repubbliche assoggettate a Roma, le sue miniere d’oro e
d’argento divennero proprietà romana2, la Lega Achea, che era rimasta neutrale, dovette consegnare mille
ostaggi provenienti dalla più illustri famiglie greche (tra cui lo storico greco Polibio, che sarà accolto dalla
famiglia degli Scipioni e racconterà la storia della grandezza di Roma in una raccolta di 40 libri, le Storie, in
cui giustificherà l’imperialismo romano come necessario strumento della missione politica di Roma).
1
Il legittimo successore di Filippo sarebbe dovuto essere Demetrio, il primo dei due figli di Filippo. Questi tuttavia era
stato tenuto in ostaggio a Roma e durante il soggiorno in questa città aveva iniziato ad apprezzarla fino a diventare
filoromano. Il padre, Filippo, non potendolo tollerare, fece assassinare il figlio, Demetrio. Quando poi Filippo morì la
corona passò quindi a Perseo.
2
Le ricchezze delle miniere e dei bottini di guerra che affluirono a Roma furono tali e tante che risollevarono le finanze
dello Stato e resero possibili eliminare per quasi un secolo i tributi sui cittadini romani.
2
Di lì a qualche anno tuttavia, Macedonia e Grecia, che aveva tentato qualche insurrezione, sedate dal
console Quinto Cecilio Metello (146 a.C. a Pidna di nuovo) divennero province romane. Corinto fu
saccheggiata e distrutta nel 146 a.C., in corrispondenza con la caduta di Cartagine.
Nella provincia di Acaia (cioè Grecia) solo Atene, che era stata sempre fedele a Roma, ricevette il
riconoscimento della libertà, peraltro puramente formale.
L’isola di Delo divenne un porto franco e (le merci che vi transitano non pagano tasse doganali) nonché il
più grande mercato di schiavi del Mediterraneo. Rodi rimase distrutta economicamente a seguito di queste
misure, punizione giusta secondo i Romani per l’ambigua condotta che aveva tenuto nel corso della guerra.
La terza guerra punica (149-146 a.C.)
Dopo la fine della seconda guerra punica, Cartagine aveva cessato di essere un pericolo per Roma e aveva
accettato il suo ruolo di Stato-satellite.
Tuttavia la città si riprese tanto rapidamente da suscitare sospetto e inquietudine a Roma. Gran parte
dell’opinione pubblica, vedendo con quanta sveltezza Cartagine fu in grado di riprendersi dai danni del
conflitto, iniziò a sostenere l’urgenza della distruzione di Cartagine.
A favore della distruzione della città troviamo, in particolare:
1) i tradizionalisti: quanti cioè, come Marco Porcio Catone (detto il Censore), volevano distrarre
dall’Oriente le forze espansionistiche dello stato romano. In parte perché, in quanto esponenti
dell’aristocrazia terriera non sentivano la necessità di accrescere gli orizzonti commerciali di Roma e, in
parte perché, in quanto autentici cittadini romani, erano contrari alla cultura e alla mentalità greca, che
consideravano lasciva, dissoluta e incompatibile con i valori del mos maiorum e, pertanto, pericolosa:
avrebbe potuto corrompere i cittadini romani3. Inoltre erano preoccupati dell’eccessivo afflusso di
ricchezze che rimpinguava le casse romane e, come tale, corrompeva le coscienze delle classi dirigenti.
Si narra che Catone concludesse ogni discorso in senato con la celeberrima frase “Carthago delenda est”
“Ritengo inoltre che Cartagine debba essere distrutta”4.
2) il ceto affaristico dei cavalieri e dei pubblicani: di cui si parlerà meglio in futuro. Qui basti sapere che,
con l’espansione romana e la nascita di nuove province (Sicilia, Macedonia, Grecia e poi vedremo Africa e
Spagna), affluirono a Roma grandi ricchezze: i nuovi territori non solo venivano derubati delle loro sostanze,
ma erano oggetto di pesanti tributi e di nuove avventure commerciali e finanziarie. Queste possibilità
ingolosivano la classe imprenditoriale romana, che di conseguenza premeva per un intervento in Africa.
Il pretesto dell’aggressione fu offerto da una contesa tra Massinissa, re dei Numidi e Cartagine. Massinissa,
che aveva ormai novant’anni suonati, aveva invaso e occupato i confini di Cartagine.
Cartagine rispose alle aggressioni dei Numidi dichiarando guerra. Così facendo però contravvenne al
trattato di pace stipulato alla fine della Seconda Guerra Punica.
Fu così che Roma dichiarò guerra a Cartagine (149 a.C.).
I Cartaginesi si dissero pronti a qualsiasi riparazione e deposero le armi.
Ma i Romani, dopo essersi fatti consegnare la flotta e tutte le armi, dichiararono di voler comunque
distruggere la città pur avendo deciso di risparmiare gli abitanti, che avrebbero dovuto quindi evacuarla e
riedificarla in altro luogo.
Queste degradanti condizioni di pace, la disperazione che colse il popolo e il loro amor proprio li portarono
a rovesciare il governo oligarchico di Cartagine, arrendevole davanti ai Romani, e a predisporsi alla difesa a
oltranza della città.
3
Di opinione totalmente opposta erano molti intellettuali romani, che guardavano con ammirazione alla cultura greca
e che sentivano l’urgenza, per Roma, di elevarsi culturalmente. A capo di questa fazione filo-orientale c’era la famiglia
degli Scipioni.
4
Catone morirà nel 149 a.C., non avrà quindi modo di assistere alla tanto agognata distruzione di Cartagine. Di lui
Plutarco riporta questo breve epigramma di autore anonimo, a proposito di Catone: “Rosso, mordace, occhiazzurro, /
Persefone neanche morto accoglie Porcio in Ade”.
3
L’eroismo cartaginese non valse loro la salvezza, per quanto l’assedio romano si dovette protrarre per ben
tre anni. Alla fine la città cadde (146 a.C.) e tutti gli abitanti vennero venduti come schiavi. A concludere le
operazioni militari fu Publio Cornelio Scipione l’Emiliano, figlio di Lucio Emilio Paolo, vincitore di Pidna e
figlio adottivo di Scipione l’Africano.
Sulle rovine di Cartagine fu sparso il sale, a segnalare che quel luogo era da considerarsi maledetto e che
pertanto non doveva più essere abitato e la sua terra non doveva essere coltivata.
Il territorio di Cartagine passò sotto il dominio di Roma come provincia d’Africa.
La conquista della Spagna
Lo stesso Scipione l’Emiliano fu inviato in Spagna a sottomettere la popolazione dei Celtiberi, che si era
ribellata a Roma.
Dopo un terribile assedio Scipione espugnò Numanzia, la capitale nemica (133 a.C.).
I Celtiberi, piuttosto di dichiararsi sconfitti e arrendersi al nemico, preferirono suicidarsi in massa (secondo
la leggenda la città fu data alle fiamme con gli abitanti).
Anche la Spagna divenne provincia romana, divisa in Spagna citeriore e ulteriore.
In pochi anni (264, inizio prima guerra punica-133 assedio di Numanzia) Roma unificò sotto il proprio
dominio gran parte delle popolazioni affacciate sul bacino mediterraneo. La civiltà romana opererà come
livellatrice all’interno del nuovo “mondo comune” e sarà il perno di questa nascente società.
Le province e la nascita dell’ordine equestre
Come già precedentemente menzionato, a seguito delle Guerre Puniche Roma si trovò a controllare vasti
territori extra-italici che costituirono il primo nucleo della sua compagine imperiale.
Questi territori divennero province (vi ricordo che la prima provincia in assoluto fu la Sicilia, acquisita a
seguito della Prima Guerra Punica, seguita immediatamente poi da Sardegna e Corsica).
Cos’è una provincia?
La provincia è un distretto amministrativo fuori dall’Italia governato direttamente da un proconsole o da un
propretore (cioè da un console o da un pretore uscito di carica). Il proconsole o propretore che amministra
4
la provincia resta in carica un anno. La carica può essere prorogata fino ad un massimo di tre anni5 (il
magistrato non rimaneva in carica a lungo perché si voleva evitare la nascita di poteri locali troppo forti e
corrotti e di tendenze separatiste).
Nota bene: il proconsole o propretore al governo della provincia è una figura di magistrato non collegiale e
che detiene sia poteri civili che militari (controlla infatti delle legioni assegnategli per il governo della
provincia).
Gli abitanti della provincia (quindi i popoli sottomessi dai romani) erano a tutti gli effetti dei sudditi stranieri
(in latino peregrini). Essi non avevano alcuna autonomia amministrativa ed erano obbligati a pagare forti
tributi.
Una parte del suolo provinciale poteva essere confiscato dal Senato e destinato ad agro pubblico. Ciò vuol
dire che era terra che poteva essere affittata a cittadini romani sotto pagamento di un canone (vegtìgal).
Quali e quante sono le province romane alla fine delle guerre puniche?
1. Sicilia, Sardegna e Corsica
2. Macedonia e Grecia (Provincia di Acaia)
3. Cartagine (Provincia d’Africa)
4. Spagna (Provincia di Spagna Citeriore e provincia di Spagna Ulteriore).
I pubblicani e i cavalieri
I pubblicani:
Lo Stato romano appaltava la riscossione dei tributi e la gestione delle forniture dell’esercito6 (armi,
vettovaglie, servizio postale, …) a dei privati. Questi privati erano appunto chiamati pubblicani.
I pubblicani avevano quindi il compito di incassare i tributi dai vari territori sottomessi a Roma e dovevano
poi versare allo stato solo una quota fissa e precedentemente pattuita di ciò che incassavano, trattenendo
quindi per sé tutto quello che riuscivano ad estorcere dai provinciali (in pratica facevano la cresta).
Si arricchivano poi coi soldi dello stato, che li pagava per rifornire gli eserciti del necessario (ricordiamoci
che il II a.C. fu un secolo di persistente mobilitazione militare > anche quando le guerre si concludevano
presidi militari rimanevano nelle zone calde per monitorare la situazione).
I cavalieri (o equites o ordine equestre):
Con la nascita di questo embrionale impero, a Roma affluirono enormi ricchezze (bottini di guerra 7, tributi,
nuovi commerci e nuove terre, costruzioni di infrastrutture e strade, appalti, e così via).
Molte di queste ricchezze vennero impiegate per abbellire la città con monumenti ed opere d’arte o per
edificare acquedotti, strade, porti, ma gran parte finì con l’arricchire un nuovo potente ceto, quello dei
cavalieri (o ceto equestre).
Con “cavalieri” si intendeva, originariamente, quella prima classe di censo dell’ordinamento centuriato che
poteva permettersi l’armatura e il cavallo e militava quindi nella cavalleria romana.
Questi cavalieri, che già disponevano di ricchezze personali, grazie ai bottini di guerra e alla loro posizione
privilegiata, riuscirono a investire i capitali che avevano ricavato dalle nuove conquiste proprio nei territori
conquistati, arricchendosi sempre più. Come facevano? Investivano nei commerci, acquistavano nuove
botteghe, partecipavano, come pubblicani, agli appalti dello stato, le speculazioni finanziarie (i prestiti di
denaro ad altissimi interessi) e così via.
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Storicamente queste limitazioni verranno poi disattese. Lo vedremo in particolare con Cesare.
Dal momento che è emersa in classe la questione, si sappia che i soldati che componevano l’esercito romano, in
origine, pagavano interamente di tasca propria le ingenti somme necessarie all’acquisto dell’armamento. La crescita
degli impegni militari e del numero dei soldati, chiamò alle armi cittadini che non erano in grado di armarsi con i propri
mezzi. Lo stato romano decise allora di introdurre (III a.C. ?) il soldo, un’indennità modesta ma sufficiente a garantire
la sussistenza e l’armamento dei soldati.
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Guerra vuol dire saccheggio e saccheggio vuol dire bottino. In linea di principio le prede di guerra spettavano al
Tesoro del popolo romano. Col passare del tempo però la distribuzione del bottino ai soldati diventerà pratica diffusa.
Per questo stuoli di affaristi e commercianti seguivano regolarmente gli eserciti: compravano dai soldati e vendevano
merci ai soldati.
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5
Ben presto diventarono ricchissimi (come vedremo, la forbice sociale si allargherà molto, da una parte
avremo questi ricchissimi cavalieri-pubblicani, dall’altra il popolino).
L’enorme afflusso di ricchezze che era piovuto su Roma era finito nelle tasche della classe dirigente.
Una parte della stessa si allarmò per questo (primo fra tutti, guarda caso, quel frignone di Catone il
Censore). Si diffondeva il lusso, il collezionismo artistico: la tradizionale frugalità e rusticità romana
lasciavano posto a nuovi stili di vita.
Per evitare che i senatori si trasformassero in un ceto di affaristi, nel 218 a.C. il tribuno della plebe Quinto
Claudio fece approvare per plebiscito una legge con la quale si vietava ai senatori qualsiasi attività
economica al di fuori dell’agricoltura.
La legge rappresenta uno dei primi casi di tentativo di separare la classe dirigente dalla classe commerciale
nella Repubblica romana. Chi si occupa della cosa pubblica non può e non deve, secondo i principi romani,
avere personali interessi economici (sarebbe ben più soggetto a corruzione).
Un cittadino ricco poteva quindi decidere se svolgere una carriera politica, che lo avrebbe portato a sedere
in senato e appartenere quindi all’ordine senatorio, oppure se dedicarsi ad attività lucrative ed entrare così
a far parte dell’ordine equestre.
La separazione fra questi due ordini porterà a forti rivalità tra equites e ceto senatorio.
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