Alcune considerazioni su “law and economics” in tema di mercato del lavoro Floro Ernesto Caroleo Nel dibattito di politica economica e tra i policy maker in Europa vi è un grande consenso intorno alla posizione assunta dall’OECD, alla metà degli anni ’90, sul ruolo delle istituzioni e delle politiche nella creazione di una così elevata disoccupazione in Europa (Caroleo, 2000). Essa è infatti riconducibile alla eccessiva rigidità nelle norme e regole che intervengono nel processo di incontro tra domanda e offerta di lavoro e che impediscono al salario di svolgere il corretto ruolo di regolatore del mercato del lavoro. In sostanza si afferma che i benefici che vengono dati ai disoccupati sono troppo generosi e la loro durata è troppo lunga, i sindacati sono troppo forti, la protezione degli occupati è tale da scoraggiare le imprese dall’assumere lavoratori, la pressione fiscale è troppo elevata. Le implicazioni di policy sono, sempre secondo questa visione, univoche e senza alternative: è necessario attuare una riforma strutturale radicale e onnicomprensiva che proceda il più velocemente possibile ad eliminare tutte le rigidità del mercato del lavoro per permettere quindi a livello macroeconomico l’incontro tra domanda e prodotto potenziale senza ricorrere ad impossibili, dati i vincoli di Maastricht, politiche della domanda per riequilibrare il mercato (OECD, 1999). Le implicazioni teoriche sono altrettanto chiare: vi è una incondizionata adesione alla “legge dell’unico prezzo” così come alla legge dell’”unica istituzione”, il mercato, come allocatore efficiente delle risorse. Questa posizione rappresenta una grande attrattiva anche da parte dei politici i quali hanno bisogno di slogan semplici e chiari per i propri programmi politici. Addirittura di recente si è assistito ad una improbabile quanto conclamata inversione di ruoli per cui i conservatori e fautori del liberismo economico diventano i campioni del riformismo e del progressismo dal momento che sono portatori dell’unica ricetta possibile per governare il periodo di grandi trasformazioni tecnologiche ed economiche che stiamo vivendo, quella del mercato. Altrettanto vasta è la letteratura che prende delle posizioni opposte all’OECD consensus, anche se minoritaria tra i policy makers. In sintesi, dal punto di vista teorico si sostiene che il mercato del lavoro per sua natura è regolato da norme e regole implicite o esplicite, frutto di accordi tra le parti o imposte per legge, le quali producono incentivi e disincentivi e ciò per garantire, oltre che le mere condizioni economiche, anche un adeguato grado di protezione ed equità sociale. Il livello istituzionale che regolamenta il mercato è molteplice così come 1 molteplici sono gli equilibri che si determinano. In questo, il tasso di disoccupazione concorrenziale non è il livello più basso ottenibile né ottimale. La diversità istituzionale che regolamenta il mercato del lavoro risulta evidente allorquando si effettuano i confronti tra i paesi europei e non. Tutti i paesi infatti hanno nel tempo costruito propri assetti regolamentativi e diverse risposte ai cambiamenti tecnologici ed organizzativi delle aziende. Rispetto alla semplicistica contrapposizione tra flessibilità e rigidità descritta dall’OECD consensus, infatti si possono riscontrare diversi modelli del mercato del lavoro che a loro volta sono regolamentati da diversi “welfare regime”. I sociologi distinguono, infatti, tra assetti di welfare universalistici, liberali/minimali, sub-protettivi (Gallie e Paugam, 2000); inoltre, alcuni paesi hanno prodotto cambiamenti istituzionali con la ricerca del consenso tra le parti sociali altri invece in contrasto con i sindacati altri hanno ridotto la pressione salariale, altri ancora hanno spostato la protezione dei sindacati da sussidi passivi a sussidi associati a politiche attive. Ma la cosa più importante è che i risultati in termini di riduzione della disoccupazione sono anch’essi i più disparati senza seguire una relazione monotona tra quest’ultima e gli assetti istituzionali, dando ancora una volta conferma al detto che “il capitalismo ammette la varietà” (Freeman, 1998). Ma anche l’evidenza empirica sugli effetti delle rigidità sul mercato del lavoro non è assolutamente univoca. La durata dei sussidi alla disoccupazione e la densità sindacale hanno effetti sulla disoccupazione consistentemente insignificanti. Il livello di coordinamento della contrattazione salariale e il grado di copertura della contrattazione potrebbero non avere conseguenze perverse se associati con altre politiche. Infine le norme a protezione degli occupati, i salari minimi, la tassazione non hanno effetti univoci e dal punto di vista econometrico non danno risultati robusti rispetto ai cambiamenti delle specificazioni (Nickell, 1997) (Blanchard e Wolfers, 1999). Thomas Palley (2001) cerca di combinare le variabili micro che indicano i livelli di rigidità istituzionale del mercato del lavoro, così come misurati dall’OEDC, con variabili macro che misurano gli effetti della politiche economiche di stabilizzazione dei vari paesi per verificare quanta parte della variazione del tasso di disoccupazione, avvenuta tra la prima e la seconda metà degli anni novanta, sia dovuta ai cambiamenti nei livelli di rigidità istituzionale e quanta alle politiche macroeconomiche. I risultati sono molto interessanti dal momento che mostrano come un generalizzato miglioramento nella flessibilità ha avuto effetti benefici sul tasso di disoccupazione in quasi tutti i paesi europei, eccetto che per la Finlandia, la Svezia e la Svizzera ma questi sono stati più che compensati dalle politiche restrittive adottate, eccetto che per la Danimarca e l’Olanda dove le politiche macroeconomiche hanno contribuito a migliorare il tasso di disoccupazione. La conclusione è che ci sono molti elementi per dare ragione anche alla tesi 2 che l’alta disoccupazione europea è il frutto di una conduzione delle politiche di stabilizzazione eccessivamente restrittiva e punitiva nei confronti dell’occupazione. Bisogna dire, tuttavia, che la posizione dell’Unione Europea rispetto all’OECD consensus è, soprattutto negli ultimi tempi, molto più problematica. Infatti, mentre la strategia per l’occupazione definita nel cosiddetto processo di Lussemburgo si era focalizzata su alcune frammentate linee di “minima resistenza”, lasciando inalterata un’impostazione tipicamente liberista della soluzione del problema della alta disoccupazione, in occasione del Consiglio Europeo di Lisbona del 2000, e ancor più con il Consiglio di Nizza dell’anno dopo con l’approvazione dell’Agenda Sociale Europea, si procede ad un profondo cambiamento della strategia per l’occupazione allorquando si afferma che l’Europa deve diventare “l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale”. In altri termini viene affermato il principio che il raggiungimento della piena occupazione non può essere solamente raggiunto attraverso obiettivi quantitativi ma anche e soprattutto attraverso la promozione della “qualità” in tutte le aree della politica sociale: formazione, lavoro, relazioni industriali e politica sociale. Solo combinando la flessibilità con la sicurezza è pensabile, quindi, che un nuovo modello sociale possa svilupparsi e adattarsi ai rapidi cambiamenti indotti dal nuovo modello di sviluppo economico. Come si vede c’è spazio affinché ogni singolo paese sviluppi un sistema istituzionale che adatti le proprie relazioni industriali ai cambiamenti economici e nel contempo fornisca adeguate garanzie di reddito e di sicurezza ai lavoratori. In Italia questa impostazione tarda ad affermarsi. Certamente ciò può essere giustificato dall’affermazione di un governo liberista e di destra, ma bisogna tuttavia dire che anche l’impostazione di politica del lavoro dei governi di centro-sinistra non è stata molto dissimile (Rossi, 2002). Durante tutti gli anni novanta, infatti, i vari governi hanno teso, giustamente, a smantellare il modello di relazioni industriali che aveva guidato lo sviluppo economico degli anni ‘60 e ’70 non più idoneo a gestire i nuovi processi tecnologici. Tuttavia questo processo è stato portato avanti attraverso una sistematica deregolamentazione e flessibilizzazione del mercato del lavoro senza minimamente preoccuparsi di fornire garanzie sociali e di reddito a coloro che acquisiscono un’occupazione con forme precarie e temporanee. Per finire un’ultima considerazione: con l’assidua partecipazione in qualità di esperti ai più alti livelli (ministri, sottosegretari, e commissioni varie), il contributo degli economisti, ed ancor più dei giuristi, è stato importante nel definire questa impostazione di policy. Tuttavia mentre per i primi è logico pensare quello del lavoro possa essere trattato come un qualsiasi altro mercato dal momento che in genere essi limitano le proprie analisi alle mere condizioni di equilibrio 3 competitivo. Diverso e più preoccupante è il caso in cui a pensarla allo stesso modo siano i giuristi i quali, per loro natura, hanno invece il compito di “regolamentare” i mercati al fine di garantire non solo equità sociale ma anche di salvaguardare i principi ispiratori della norma costitutiva della società italiana la quale, come è noto, si basa sulla dignità del lavoro. 4 Bibliografia Blanchard O. e Wolfers J. (1999), “The Role of Shocks and Institutions in the Rise of European Unemployment: The Aggregate Evidence“, NBER Working Paper, No 7282. Caroleo F. E. (2000) “La politiche per l’occupazione in Europa: una tassonomia istituzionale”, Studi Economici, n.71/2, pagg 119-158. Freeman R. B. (1998) “War of the Models: Which Labour Market Institutions for the 21st Century?”, Labour Economics, 5, pagg. 1-24. Gallie D. e Paugam S. (eds) (2000), Welfare regimes and the experience of unemployment in Europe, Oxford University Press, Oxford. Nickell S. (1997), “Unemployment and Labor Market Rigidities: Europe versus North America”, Journal of Economic Perspectives, vol. 11, n.3, pagg 55-74. OEDC (1999) EMU: Facts, Challanges and Policies, Parigi Palley T.I. (2001) “The Role of Institutions and Policies in Creating High European Unemployment: The Evidence”, AFL-CIO Working Paper, No. 336, Washington. Rossi N. (2002), Riformisti per forza, Il Mulino, Bologna. 5 F.Caroleo Some comments on Law and Economics in the labour market Abstract In the 90s there has been a large consensus on the responsibility of the institutions and policies in creating so high levels of unemployment in Europe. OECD and other international economic organizations, suggested that the phenomenon is owed to the rigidities of norms and rules operating in the labour market. This entails that European employment strategy should implement a radical reform of the institutions aimed to restore flexibility in the labour market. This statement means that there is an unconditional adhesion to the “law of the one price” as well as to the “law of the one institution”: the market capable of allocating efficiently the resources. The paper states that there is no empirical evidence nor theoretical foundation to the labour market flexibility option. A large institutional variability, on the other hand, should allow each single country to combine the best mix of structural reforms and social equity. JEL Classification: E24, E42, J31, J60 6