Milena Santerini, Il racconto dell’altro. Educazione interculturale e letteratura, Carocci, Roma 2008. Maria Giovanna Fantoli Dottorato in Scienze Pedagogiche Università di Bergamo Oggetto privilegiato del libro “Il racconto dell’altro. Educazione interculturale e letteratura” di Milena Santerini è appunto la letteratura della quale l’autrice vuole mostrare le intrinseche potenzialità di apertura all’altro nello sforzo di applicare la prospettiva interculturale anche alla lettura delle grandi opere narrative. L’argomento, di per sé complesso, è scomposto in una serie di temi affrontati nei sette capitoli del saggio dove, attraverso una colta elencazione di sintesi di pagine di alcuni grandi narratori di ieri e di oggi, sono evidenziate le molteplici interpretazioni del rapporto con l’altro, soprattutto quando quest’ultimo è lo straniero appartenente a una diversa cultura e a un’altra storia. Il primo capitolo fornisce le premesse teoriche entro cui inquadrare la serie di esempi proposti nella riflessione successiva condotta a partire dai punti di vista di filosofia e scienze umane. Psicologia, antropologia, sociologia si rivolgono alle narrazioni autobiografiche o di fantasia come ambiti dai quali ricavare spunti utili alle loro indagini poiché “le frontiere che dividevano la letteratura dall’antropologia e dalla sociologia sono divenute meno nette”. (p. 11) In effetti, il taglio complessivo del libro di Milena Santerini appare mutuato dalla antropologia culturale perché la letteratura è indagata per quanto le varie culture e atteggiamenti mentali di una certa epoca storica e società sono riflessi in essa, in particolare per il modo di considerare l’altro e il diverso. Sul livello che le è proprio, anche la filosofia, con i contributi di alcuni importanti pensatori come Ricoeur, riconosce alla narrazione il fatto di istituire senso laddove domina la frammentazione del disordine, di ricondurre all’unità una molteplicità di casi diversi e incongruenti fra loro, di costruire identità narrative consapevoli di sé e aperte all’altro. Sebbene persista una tradizione di pensiero che contrappone filosofia e letteratura, poiché nell’un caso l’oggetto è l’universale, nell’altro è il particolare e il metodo è per la prima il procedimento razionale, per la seconda l’approccio emotivo e empatico, l’autrice mette in luce la loro stretta complementarità dovuta al fatto che entrambe si interessano della condizione umana. Attraverso la lettura attenta: “Ci si avvicina alle radici della moralità, capendo il significato del bene e del male compiuti.”(p. 22) In tal senso, la letteratura mostrerebbe che la piena moralità di un’azione e quindi della vita dell’uomo nel suo complesso, sta nella capacità della persona di aprirsi all’altro, di accoglierlo e di entrare in dialogo con lui. Il lettore è chiamato a questa responsabilità. “L’apparente disimpegno del testo diventa responsabile, e quindi educa, quando permette una conoscenza personale di sé e dell’altro, (…)”. (p. 22). Per questo la lettura di un libro può costituire, in molte situazioni di povertà e ristrettezza materiale e spirituale, l’unica via di apertura al mondo e alla realtà. Come indica in senso positivo la via della formazione morale dell’uomo, la letteratura è anche chiamata a strappare al silenzio e alla dimenticanza vicende terribili in cui l’altro è umiliato e offeso nella sua dignità e nei suoi diritti fondamentali. Il secondo e il terzo capitolo sono infatti dedicati al Male assoluto di Auschwitz e a esempi dello stesso genere quali sono stati in anni recenti la ferocia dei khmer rossi durante il regime di Pol Pot in Cambogia o il genocidio dei tutsi ad opera degli hutu in Rwanda. Ai racconti dei sopravvissuti o alle opere di autori che affrontano tali argomenti si deve l’atto coraggioso di sollevare il velo e di dare voce a coloro che altrimenti sarebbero persi nell’oblio di tutti. Quindi all’accusa, che talora si rivolge alla letteratura di costituire un’evasione dalla vita, risponde l’autrice mostrando come, al contrario, sia proprio il raccontare a portarci pienamente nella realtà. Ci si può piuttosto interrogare sull’opportunità di spingersi tanto oltre nella narrazione della perversità del male e della distruzione dell’umano da esso provocata. Qual è in questo caso la responsabilità di uno scrittore o di un testimone? Secondo l’autrice la risposta sta sempre nel fondamentale rapporto io/tu, un rapporto che dovrebbe essere di solidarietà, di condivisione, di simpatia immediata con la sofferenza dell’altro. Se questo non accade, si potrebbe dire che il male non è solo davanti a sé “nello spettacolo del dolore”,(p. 53) ma viene acuito dallo sguardo di chi osserva se tale sguardo è animato da sentimenti di rifiuto, morbosità o indifferenza piuttosto che dalla pietà e dall’attenzione verso chi soffre . L’incontro positivo con l’altro diventa ineludibile in una società multietnica come è la nostra. Rispetto a questo tema, la letteratura fornisce un aiuto prezioso per superare i due rischi opposti dell’universalismo di una cultura sulle altre e del relativismo e indifferenza morale delle culture fra di loro. Anche in questo caso: “Un’apertura critica sul proprio modo di pensare, unita alla coscienza della relatività, è il fondamento del dialogo, ma essa non può tuttavia esaurire il fondamento della comprensione interculturale” poiché, come è detto qualche riga più avanti, “il valore assoluto è rappresentato dalla persona umana”. (p. 73) La letteratura ha da sempre affrontato la questione dello straniero raccontato in diversi modi: dalla sacralità dell’ospite nella cultura greco-antica e ebraica fino alla diffidenza e ostilità di tanti atteggiamenti contemporanei verso chi è diverso da noi. A questo proposito Milena Santerini ricostruisce la storia del rapporto con lo straniero nelle diverse epoche attraverso l’occhio di grandi autori. Così da Omero a Montaigne, da Montesquieu a Defoe, passando per il Medioevo e gli esordi dell’età moderna e insistendo particolarmente sui grandi romanzieri dell’età dell’imperialismo inglese. La curiosità per il diverso da sé ha costituito il tratto distintivo di tanti grandi racconti, a partire dall’allargamento del globo, verificatosi in una prima stagione con Marco Polo e poi con i grandi viaggi di esplorazione e di scoperta a partire dalla fine del Quattrocento. Di fatto, però la meraviglia suscitata dagli indigeni di altre terre si traduceva per gli Europei in un modo indiretto di allontanarli confinandoli “nella distanza e nell’esotico”. (p. 82) Nel mondo globalizzato e ravvicinato di oggi non c'è più posto neppure per l'esotismo e la meraviglia, ma solo, nel migliore dei casi, per l'interesse superficiale oppure, nel peggiore, per l'indifferenza, il fastidio, l'emarginazione. D'altra parte, l'incontro con l'altro che dà luogo a un proficuo processo di integrazione interculturale può passare non solo attraverso lodevoli e pur necessarie dichiarazioni di intenti, ma anche a livello delle scelte concrete in cui si traduce il criterio altrimenti astratto dell'agire bene. In questo senso è interessante l'ultimo capitolo che considera la questione dell'integrazione dal punto di vista degli immigrati, alcuni dei quali hanno incominciato a scrivere la loro esperienza in un filone di opere che, ormai, per quantità e qualità, può definirsi "letteratura dell'immigrazione". L'autrice sceglie di sottolineare i libri nei quali sono espresse soprattutto tematiche negative quali il sogno della terra promessa e il disinganno successivo all'arrivo, le difficoltà di una vita dura senza prospettive di miglioramento socio-economico, l'incapacità di riconoscere il proprio posto avendo smarrito la prospettiva dell'origine e non avendo ancora trovato una nuova identità, i brevi imbarazzati ritorni nel Paese di origine, a causa di fallimenti sempre nascosti a coloro che si sono lasciati, l'assunzione, nella maggior parte dei casi, di processi di assimilazione subiti e non voluti veramente. Per tutto questo la narrazione può "mostrare a società impaurite e impoverite la ricchezza dell'incontro, educando alla fiducia e alla pazienza della comprensione, senza facili irenismi né paura del conflitto". Pertanto la strada da percorrere sembra essere quella della "costruzione di una storia comune". (p. 130).