Viareggio 17 Marzo 2010 Etica e politica nell’epoca berlusconiana Relatore: Luca Mori. Dipartimento di Filosofia dell’Università di Pisa I. Dalla cronaca alla visione d’insieme Si discuterà a lungo, in futuro, di cosa sia l’epoca berlusconiana, di quali ne siano stati presupposti ed esiti, delle indicazioni che se ne possono ricavare sulle possibili evoluzioni del populismo e della democrazia. La questione è talmente complessa che occorreranno molto tempo ed una certa distanza storica per riuscire a farsene una visione d’insieme; tuttavia, è necessario fin da ora, dall’interno di tale epoca, sforzarsi di tracciare un quadro che aiuti ad interpretarla, andando oltre la cronaca e al susseguirsi di scandali, di polemiche, di decreti, provvedimenti ad personam, di invettive e di appelli al popolo. II. Gli “interessi sinistri” di chi governa e l’opinione pubblica Nel Constitutional Code (1822-1830) Jeremy Bentham osservava che, nonostante il suffragio universale, la regola di maggioranza, il voto segreto e la costituzionalità dei governi, anche in democrazia tende a formarsi una polarizzazione tra i pochi (per lo più ricchi) che governano e sono “altrimenti influenti” (ruling, opulent few; ruling and otherwise influential few) ed i molti “subordinati”, per lo più non ricchi (subject, unopulent few). Senza interpretare in modo troppo rigido la distinzione tra “ricchi” e “poveri”, occorre concentrarsi sulla tendenza descritta da Bentham e sulle precauzioni necessarie a contenerla: per evitare che prevalgano «gli interessi sinistri di chi governa (sinister interests of rulers)», si devono inventare strumenti che consentano all’opinione pubblica di valutare il modo in cui i pochi esercitano il potere. Bentham si riferisce ad un Tribunale dell’opinione pubblica, istituzione non ufficiale che pretende la rendicontazione pubblica dell’operato dei governanti ed è in grado di giudicarlo. Proprio su questo punto, però, si apre un problema cruciale [cfr. L. Mori, Il consenso, ETS, Pisa 2009]. Jürgen Habermas ha evidenziato il fatto che l’opinione pubblica finisce con l’essere il «comune destinatario» di «due forme di pubblicità […] in concorrenza» [Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza, RomaBari 2005, p. 272]. Da un lato, essa viene menzionata come l’espressione d’insieme di una volontà critica, attenta e propositiva, di quella parte (s’immagina estesa) di un popolo, capace di farsi una propria idea sulle principali questioni dell’agenda politica e di esprimerle in modo autonomo, pretendendo pubblicità dai depositari temporanei del potere rappresentativo (qui “pubblicità” significa che si è tenuti a rendere pubblicamente ragione dei processi di decisione); dall’altro lato, l’opinione pubblica diventa il destinatario della pubblicità attuata a fini persuasivi o manipolativi da chi di volta in volta detiene il potere. III. Lo scenario: la propaganda e le sue tecniche “Opinione pubblica” è nozione molto controversa. Qui ci interessa la difficoltà sollevata da Habermas quando evidenzia il doppio significato dell’espressione, la doppia natura della “pubblicità” di cui i governati possono essere destinatari. Siamo al nucleo del problema del consenso. Già Walter Lippmann nel 1922 [W. Lippmann, L’opinione pubblica (1922), trad. it., Edizioni di Comunità, Milano 1963; ripubblicato da Donzelli, Roma 1995] scriveva che «La creazione del consenso non è un’arte nuova». E aggiungeva: «[…] È un’arte vecchissima, che era stata data per morta quando apparve la democrazia, ma non è morta. In realtà ne è stata migliorata enormemente la tecnica, perché ora si fonda sull’analisi piuttosto che sulla pratica. E così, per effetto della ricerca psicologica abbinata ai moderni mezzi di comunicazione, la prassi democratica ha fatto una svolta. Sta avvenendo una rivoluzione, infinitamente più significativa di qualsiasi spostamento di potere economico. Nel 1 corso della vita della generazione che ora controlla il mondo, la persuasione è diventata un’arte deliberata e un organo regolare del governo popolare» [op. cit., 1995: p. 225]. Lippmann si concentra in particolare sul ruolo della stampa e, a questo proposito, in quel periodo – per l’esattezza, l’8 maggio 1921 – con un articolo sul Corriere della Sera, Luigi Einaudi aveva segnalato l’attività di oligarchie che «fondano giornali, ne comprano altri, e vorrebbero far sorgere, accanto a una catena di persone pronte ai loro disegni, una catena di giornali disposti ad ammaestrare il pubblico». Tra la prima e la seconda guerra mondiale c’è chi studia la propaganda politica e fa il punto sulle sue tecniche. In un libro dalla complessa vicenda editoriale, intitolato Tecnica della propaganda politica [1939; 1952, trad. it., Sugar, Milano 1964], Serghej Ciacotin elenca strategie e mezzi adottati: disponibilità di quadri e mezzi finanziari; direzione accentrata dei messaggi e delle strategie; ricorso alla demagogia sociale; accompagnamento delle parole con gesti o azioni significative ed eclatanti; uso sapiente dell’esagerazione; differenziazione del messaggio a seconda dell’uditorio; individuazione di un nemico; costruzione dell’identità di gruppo sull’opposizione al/derisione del nemico; sapiente uso del bluff politico; organizzazione di gruppi e di attività a supporto delle campagne di comunicazione; semplificazione sistematica dei messaggi. È fin troppo facile trovare esempi contemporanei per ciascuno di questi punti. Se ne consideri uno soltanto: a proposito della differenziazione del messaggio a seconda dell’uditorio, è un caso da manuale la strategia di Forza Italia nel 1994, quando formò il “Polo delle libertà”, con la Lega Nord di Bossi, mentre l’accordo con Alleanza Nazionale, proposto al Sud, costituiva il “Polo del buon governo”. Prima della seconda guerra mondiale, Edward A. Filene con l’Institute for Propaganda Analysis individuava altri elementi: 1. Name Calling: l’utilizzo ricorrente di un epiteto squalificante associato a qualcuno o qualcosa (un avversario, un programma, un partito) può contribuire a fissare tale associazione in chi lo ascolta; 2. Glittering Generality: qualificando in termini positivi un’iniziativa, un programma e così via, se ne facilita l’approvazione senza che ne siano stati esaminati in dettaglio altri aspetti rilevanti; 3. Trasfer: si tenta di legittimare x associandolo a un’autorità stimata e apprezzata, anche semplicemente appellandosi o facendo riferimento ad essa; 4. Testimonial: si tenta di promuovere o squalificare x associandolo rispettivamente a persone amate oppure detestate dal pubblico di riferimento; 5. Plain Folks: chi parla espone le sue idee e il suo punto di vista come se fossero “della gente”, “di tutti”; 6. Card Stacking: l’oratore attacca un avversario, un programma o un’idea alternando argomenti logici e illogici, servendosi di narrazioni o interpretazioni parziali di eventi, o di falsità pensate a bella posta; 7. Band Wagon: si tenta si sfruttare l’effetto per cui ci si convince o si è indotti a optare per x, poiché si ritiene che “tutti lo fanno” o lo stanno facendo Gli esempi si potrebbero moltiplicare. Nel secondo dopoguerra, Jacques Driencourt [La propagande nouvelle force politique, Armand Colin, Paris 1950] presentava la propaganda come “nuova forza politica” e ne individua la presenza ed il ruolo strategico anche nelle democrazie “occidentali”. Nel 1957, con il suo libro sui Persuasori occulti, Vance Packard illustrava i modi in cui le tecniche della pubblicità iniziavano ad essere utilizzate anche per la comunicazione politica. Di una società dello spettacolo scrive Guy Debord nel 1967 e nei relativi Commentari degli anni Ottanta. Sono gli anni nei quali O. Kirchheimer [The Transformation of the Western European Party Systems, in J. La Palombara, M. Weiner (eds.), Political Parties and Political Development, Princeton University Press, Princeton 1966] segnala la nascita di una nuova tipologia di partito, il partito piglia-tutto (catch-all party), necessariamente generico sulle linee programmatiche perché non ha più un destinatario o un messaggio definito. Mira a prendere i voti di tutti gli elettori, differenziando eventualmente il messaggio per target-obiettivo, mentre i partiti tradizionali costruivano le loro narrazioni su aspirazioni definite (ispirazione cristiana, emancipazione ed eguaglianza in senso comunista, socialismo eccetera), davano al tempo stesso chiavi di lettura per interpretare la storia e comunicavano il senso di una missione o di un impegno comune, e dunque una visione del futuro. Negli anni Settanta, R. G. Schwartzenberg [Lo Stato spettacolo (1977), trad. it., Editori Riuniti, Roma 1980] riprende il tema dello spettacolo: mentre Debord aveva scritto di “spettacolarizzazione” della politica, Schwartzenberg sostiene che lo Stato si sta trasformando o si è trasformato in “impresa dello spettacolo”. Continuano i tentativi di interpretare le tecniche della propaganda. Negli anni Sessanta, Brown [J. A. C. Brown, Techniques of Persuasion. From Propaganda to Brainwashing, Penguin Books, London-Harmondsworth 1963] ripropone alcuni elementi delle analisi sopra citate e ne introduce altri. Delle “tecniche di persuasione” fanno parte l’uso deliberato (e il conseguente, inquietante “rinforzo”) degli stereotipi (si pensi a quelli della Lega sugli immigrati, non solo irregolari, e sul nesso immigrato-delinquente-invasore); la sostituzione di nomi (inventando appellativi per sé e per l’avversario); la selezione delle notizie, privilegiando la circolazione di quelle favorevoli; il ricorso strategico alla menzogna; l’uso di toni assertivi; la ripetizione; l’appello ad autorità ritenute indiscutibili; il mostrare di impegnarsi non solo “per qualcosa”, ma anche “contro qualcuno”. Brown tenta di definire anche il «meccanismo fondamentale» impiegato da «tutte le forme di propaganda»: è la suggestione, di cui aveva già scritto Gustave Le Bon, «il tentativo di indurre in altri l’accettazione di una 2 particolare credenza senza dare alcun fondamento evidente e logico per tale accettazione, che esso esista o no» [op. cit. p. 25]. Gli anni Ottanta si caratterizzano per un altro passaggio. Mentre nel 1981 il primo manuale di comunicazione politica negli Stati Uniti non ha un solo capitolo dedicato al marketing politico o al marketing elettorale, a partire dalla metà degli Ottanta si iniziano a scrivere articoli su tale argomento e compare l’idea di spin doctoring (di una consulenza professionale su come “fare girare” i messaggi, ma anche, secondo alcuni, su come “raggirare”). Oggi si pubblicano voluminosi tomi dedicati al marketing elettorale e politico, si scrive e si teorizza di partiti “orientati al mercato”, di trattare simboli e partiti come i “brand”, di successo politico legato all’essere “telegenico” di un candidato, di bacini elettorali come “mercati obiettivo”, e così via. IV. Il collo di bottiglia nell’Italia del 1994 Il significato di quanto si è detto per una riflessione sull’etica nella politica è chiaro: ciò che è in gioco, anzitutto, è lo spazio residuo per un’etica della comunicazione. Limitandosi a due esempi, se l’uso della menzogna e il ricorso strategico agli “stereotipi” possono pagare in termini elettorali decidere di farvi ricorso in modo costante, godendo altresì di una eccezionale copertura mediatica, significa sottrarsi ai vincoli etici basilari in una democrazia [sull’etica della comunicazione, cfr. A. Fabris (a cura di), Guida alle etiche della comunicazione, ETS, Pisa 2004; A. Fabris, Etica della comunicazione, Carocci, Roma 2006]. Considerando gli elementi della propaganda, del modello “spettacolare” e del marketing elettorale elencati in precedenza, si può ritenere che in Italia tutti confluiscano, come nel collo di un imbuto, nel passaggio epocale del 1992/1994. Nelle elezioni del 1994 scompaiono simboli e partiti storici: non c’è la DC, sostituita dal Partito Popolare; non ci sono PSDI, PRI, MSI e PLI, mentre il PCI aveva già lasciato spazio nel 1992 a PDS e Rifondazione Comunista; il PSI uscirà di scena nel 1996. Con simboli, slogan e visioni ideali di quei partiti, svaniscono o trascolorano le relative narrazioni. Alcune parole chiave vengono riciclate: “Forza Italia” era stato uno slogan della DC e la libertas dello scudo crociato viene sostituita dalla “passione per la libertà” da cui Berlusconi si dice animato in apertura del messaggio con cui annuncia la sua “discesa in campo”. Nel gennaio 1994, con un tono alternatamente pacato, grave e suadente, chiamando all’alleanza contro «gli orfani e i nostalgici del comunismo» [Oppositori/Nemici] «tutte le forze liberali e democratiche che sentono il dovere civile di offrire al paese un’alternativa credibile al governo delle sinistre e dei comunisti» [Amici/Alleati], prospettando il «passaggio a una nuova repubblica» e il rinnovamento della società italiana [Promessa/Impegno], con un «programma di governo fatto solo di impegni concreti e comprensibili», dichiarandosi «costretto» a contrapporsi a chi vuole trasformare il Paese «in una piazza urlante» e rinunciando perciò al proprio ruolo di editore e imprenditore, Berlusconi [Eroe] si rivolge direttamente al popolo, alla «gente comune» sulle cui esigenze proclama di volersi orientare, per invitare tutti a «scendere in campo con lui», annunciando la possibilità e il dovere di un nuovo «miracolo italiano» [Annuncio/Profezia]. Dal 1994 al novembre 2007 molto è cambiato: a Piazza San Babila, in una piazza urlante, dall’equilibrio instabile del predellino, Berlusconi annuncia la nascita di un nuovo partito, spiazzando gli alleati. C’è poi la piazza del comizio del 20 marzo 2010, a una settimana dalle elezioni regionali. Una piazza che dice “sì” alle domande retoriche incalzanti del suo leader. Forse l’unico uomo politico al mondo che ha voluto un inno come “Meno male che Silvio c’è!”: anche su questa circostanza inaudita, un giorno, forse compiangendoci, discuteranno i posteri. Il miglior commento alla piazza del 20 marzo 2010 è probabilmente quello di Stefano Rodotà su Repubblica [22 marzo, p. 22]: «[…] ho assistito attonito al consumarsi di un rito totalitario, per quanto sgangherato. […] quel pomeriggio evoca pure i tre slogan del Partito che George Orwell indica nel suo 1984. Li ricordate? “La guerra è pace”. Sul palco campeggiava la parola “amore”, contraddetta, però, dal disprezzo per l’altro, per qualsiasi altro, al quale non si può concedere quartiere, come appunto accade nella guerra. Il bene contro il male. “La libertà è schiavitù”. Che immagine mortificante, per un partito che si è voluto chiamare Popolo della libertà, quei candidati alla presidenza di regioni obbligati a fare promesse insensate e a cimentarsi in un coretto recitando un pubblico giuramento! […] E soprattutto, “l’ignoranza è forza”. Ho ascoltato parole insensate. Ho appreso che Berlusconi ci ha salvati da un’Europa che voleva imporci la pedofilia e la “famiglia trasversale”. Ho sentito affermazioni e promesse alle quali nessuna persona sensata può dare in minimo credito. Si sono materializzate ossessioni, non programmi di governo, con l’annuncio dell’assalto finale al vertice della Repubblica». Come sostiene Iacono, oggi la questione del totalitarismo non si pone più come in passato: occorre chiedersi cosa può esserci di totalitario in democrazia, e come si possa essere sudditi anche mentre la retorica massmediale esalta democrazia e libertà [cfr. A. M. Iacono, Storia, verità e finzione, Manifestolibri, Roma 2006; L’illusione e il sostituto, Bruno Mondadori, Milano 2010]. V. Le quattro piaghe dell’Italia 3 Una prima piaga dell’Italia attuale è quella politica. La divisione tra legislativo, esecutivo e giudiziario è sostituita dalla concentrazione in una sola persona di potere politico, mediatico ed economico. Ciò è stato possibile per un intricato susseguirsi di complicità e, nel migliore dei casi, di omissioni e di ritardi nel dare sostanza a misure di garanzia democratica che pure la Costituzione suggeriva. Si tratta allora di interrogarsi non solo sull’alternativa a Berlusconi, ma anche sull’alternativa all’ambiente che ha consentito l’emergere dell’epoca berlusconiana. L’esecutivo fagocita il legislativo con il costante ricorso al “voto di fiducia”, presentato come prova e garanzia della solidità di governo; il connubio tra potere esecutivo e mediatico legittima se stesso delegittimando, ogniqualvolta è necessario, il potere giudiziario, presentando l’operato di quest’ultimo come in contrasto con la volontà del popolo. Una seconda piaga è quella sociale. Mentre la piramide generazionale si rovescia, con un costante incremento della percentuale dei vecchi rispetto ai giovani, questi ultimi hanno tutele sempre minori ed incontrano difficoltà sempre maggiori nel far corrispondere incarichi di lavoro dignitosi ai loro percorsi di studio. Su un altro livello, sfruttamento e privazione di dignità sono il destino di tanti immigrati, non solo di quelli “irregolari”, in contesti nei quali per lo più si continuano a proporre le misure di polizia come strumento politico privilegiato per l’integrazione e la sicurezza. Una terza piaga è quella culturale. Si disinveste dalla scuola e dalla ricerca e si susseguono riforme incerte dell’Università, in assenza di una visione sistemica. Nella realtà plasmata sulle grammatiche dello spettacolo, c’è sempre meno spazio per ciò che non è spettacolo, per ciò che non è appetibile al gusto plebeo (come direbbe Iacono), per ciò che richiede fatica, per ciò che è difficile. Sarebbe il caso di aprire discussioni pubbliche sull’educazione e sulla povertà, sull’ambiente, sulla necessità di inventare nuove pratiche democratiche, partecipative e inclusive, sull’elaborazione generativa dei conflitti; tuttavia, fatta eccezione per i servizi giornalistici dedicati alle situazioni di emergenza, la televisione preferisce mettere in scena quotidianamente lo show di una pseudo-povertà (le varie isole dei famosi), di una pseudo-opportunità di ricchezza (i giochi, i quiz, le lotterie), lo show della partecipazione (i televoti), lo show di pseudo-conflitti (i dibattiti politici spettacolarizzati) e così via. Così la memoria del cittadino spettatore con inclinazione alla passività diventa sempre più, lentamente, cultura e memoria dello show (infatti, alcuni telegiornali dedicano ampi servizi a ciò che accade nei vari “reality show” oppure al “gossip”). Una quarta piaga è quella etica. C’è un clima di “vacanza morale”, per usare un’espressione con cui Primo Levi si riferiva al clima del fascismo. La piaga etica attraversa ed alimenta tutte le altre. Lo si nota, da ultimo, nelle prese di posizione incerte e nei tentennamenti dell’iniziativa politica su fenomeni di corruzione diffusi. C’è chi ha potuto “ridere” del verificarsi di un devastante terremoto, pregustando di lucrare sulla tragedia. C’è una rete di contatti e prassi che ha consentito a qualcuno di ridere in quel modo. L’immoralità e l’illegalità sono diffuse in tutti i livelli della vita sociale, ma è grave che non ci preoccupi anzitutto, quotidianamente, con scrupolo incalzante, della moralità di chi temporaneamente ha la responsabilità di governare, al di sopra di ogni sospetto. Ci si è preoccupati invece per mesi, introducendo una formula inaudita nella storia mondiale delle democrazie, della «serenità di chi governa». VI. Vie di uscita Quando, dopo le elezioni europee del giugno 2009, il PDL non ha raggiunto la quota del 40%, indicata come soglia superabile da Berlusconi, questi ha dichiarato che la battuta d’arresto era colpa dei fatti siciliani (l’idea di un “partito del Sud”), di sua moglie (che avrebbe chiesto il divorzio “suggestionata” dalla stampa comunista) e di Kakà (alle sue dichiarazioni sull’abbandono del Milan). Come stanno assieme queste cose? Berlusconi sta dicendo che, sull’esito di una competizione politica, contano allo stesso modo fatti politici (dissidi interni al partito), fatti del mondo dello sport/spettacolo e fatti di tipo familiare/scandalistico. Inoltre, è come se il successo del partito fosse legato alle narrazioni che circolano sul suo leader: questi deve apparire come grande e pragmatico mediatore politico, come imprenditore capace di soddisfare i suoi stakeholders (in questo caso i tifosi del Milan) e come marito modello, all’altezza dell’idea stereotipata della famiglia felice secondo tradizione. George Lakoff [Pensiero politico e scienza della mente (2008), trad. it. di G. Barile, Bruno Mondadori, Milano 2009] e Drew Westen [La mente politica. Il ruolo delle emozioni nel destino di una nazione, trad. it. di M. Ceschi, Il Saggiatore, Milano 2008 (ed. orig. The Political Brain, 2007)], concentrandosi sulla comunicazione politica di democratici e repubblicani negli Stati Uniti, sostengono che la persuasione è questione di “attivazione di reti” (tra persone, ma anche neuronali) e narrazioni. È questione di frame, cioè di cornici, di come si usano espressioni che incorniciano il mondo e fanno vedere le cose in un certo modo: “missili intelligenti”, “esportazione della democrazia”, “immigrati illegali” anziché “datori di lavoro illegali” sono esempi di framing, di “incorniciamento”. Secondo i due autori, nessuno (nemmeno l’elettore) sceglie solo razionalmente e la mente non è solo 4 spassionata. Uno dei limiti dei democratici sarebbe quello di non aver capito di avere bisogno non soltanto di idee e ragionamenti (necessari come “mappe”), ma anche di comunicare in modo adeguato ed emotivamente coinvolgente tali idee e tali ragionamenti (le emozioni sono la “benzina”). Certo, per emozionare occorre avere il coraggio di non essere “conservatori” (il successo elettorale di Obama si comprende anche alla luce della radicalità di alcune sue proposte alternative all’esistente, oltre che per numerose altre ragioni). Occorre lavorare su un nuovo lessico e su nuovi modi di “incorniciare” gli eventi, sottraendosi ad associazioni e stereotipi berlusconiani. Può essere difficile: come nota Lakoff, negli Stati Uniti il democratico che contesta la scelta di fare una guerra difficilmente deciderà di definire “occupazione” anziché “guerra” o “missione di pace” l’iniziativa che pure contesta; parlare esplicitamente di “occupazione” (ad esempio dell’Iraq), infatti, significherebbe trattare anche i “propri soldati”, i militari professionisti che rischiano la vita in missione, come “forze di occupazione” anziché come “giovani fedeli alla Patria” o persino “eroi”. Il che finirebbe per esporre, nel migliore dei casi, a facili accuse di ingratitudine. Con riferimento al caso italiano, tra le vie di uscita dalla situazione descritta sopra, occorre mettere il coraggio di elaborare cornici alternative. Certo, stando all’interno di un atteggiamento alternativo anche sul piano dell’etica della comunicazione, evitando, ad esempio, di usare strategicamente la menzogna e lo stereotipo, anche se questi pagano in termini di consenso. Occorre evitare la semplificazione, ma essere chiari. A volte, per esserlo, occorre prima aver attraversato i conflitti determinandone un esito generativo. Il tema della laicità è uno dei terreni più rilevanti per provare il lavoro sull’incorniciamento: anche perché c’è da tempo la tendenza a trattare come laicismo (operazione di framing) ogni forma di laicità che non sia “devota”. Non è poi chiaro, come si è visto in recenti volantini elettorali, sostenere che il proprio partito deve saper guardare “a sinistra e contemporaneamente al centro”: o meglio, lo si può fare dopo aver chiaro (se è possibile) cosa ciò significhi; altrimenti è un caso di strabismo, derivato da una mancata elaborazione del conflitto vitale tra le differenze, destinato poi a sfociare in ulteriori scissioni (si pensi all’uscita di Rutelli dal PD dopo l’elezione di Bersani a segretario). Altro versante su cui lavorare: quello delle reti sociali, sia nel senso del social networking tramite il Web sia nel senso dell’apertura di spazi pubblici sul territorio, con l’investimento in percorsi formativi alla democrazia e al conflitto [sulla costruzione di reti sociali sul territorio, cfr. L. Mori, Dai bambini agli adulti. Alla ricerca di reti sociali…, http://rivista.edaforum.it/numero16/buonepratiche_mori.html, e per il recente progetto “Utopia” la segnalazione sul portale http://www.minori.it/?q=node/1630]. Il tema del Web 2.0 dovrà essere approfondito nel quadro di più ampie iniziative di formazione dei politici: formazione ai temi della storia e della filosofia politica, della scienza del conflitto e della partecipazione, della comunicazione, dell’evoluzione delle piattaforme mediali e dell’evoluzione delle forme della democrazia. In base all’Economist Intelligence Unit’s index of democracy [cfr. http://www.eiu.com/], una democrazia elettiva è definita come un «sistema politico competitivo e multipartitico», caratterizzato dal suffragio universale degli adulti, da elezioni regolari condotte con votazioni segrete e scrutinio ragionevolmente sicuro, e dalla possibilità di contatto dei diversi partiti coi cittadini tramite i media, con libertà di condurre la campagna elettorale. Presentati questi tratti di definizione formale, l’indice si concentra su un ventaglio di cinque categorie, sviluppate a loro volta in dieci direzioni: processo elettorale e pluralismo, libertà civili, funzionamento del governo, partecipazione politica e cultura politica. Aumentando il dettaglio sulla categoria della partecipazione, ad esempio, troviamo che essa include i seguenti aspetti: partecipazione dei votanti alle elezioni e turnover elettorale; spazi d’autonomia per le minoranze etniche, religiose o di altro genere; presenza di donne in parlamento; quantità di cittadini iscritti a partiti o ad altre organizzazioni politiche non governative (ovviamente, in assenza di costrizione); impegno dei cittadini in politica; prontezza dei cittadini a fare dimostrazioni civili per questioni di diritto; seguito della politica nei notiziari, nei media stampa tv e radio; impegno delle autorità nel promuovere la partecipazione politica dei cittadini. Utilizzando questi parametri, l’Italia del 2007 veniva classificata come democrazia imperfetta (flawed democracy). Nel 2008 è passata al penultimo posto delle democrazie “piene”, ma dove siamo nel 2010 e quanto scenderemo ancora in futuro? 5