Viareggio 17 Marzo 2010
Etica e politica nell’epoca berlusconiana
Relatore:
Luca Mori. Dipartimento di Filosofia dell’Università di Pisa
I. Dalla cronaca alla visione d’insieme
Si discuterà a lungo, in futuro, di cosa sia l’epoca berlusconiana, di quali ne siano stati presupposti ed esiti, delle
indicazioni che se ne possono ricavare sulle possibili evoluzioni del populismo e della democrazia. La questione
è talmente complessa che occorreranno molto tempo ed una certa distanza storica per riuscire a farsene una
visione d’insieme; tuttavia, è necessario fin da ora, dall’interno di tale epoca, sforzarsi di tracciare un quadro che
aiuti ad interpretarla, andando oltre la cronaca e al susseguirsi di scandali, di polemiche, di decreti, provvedimenti
ad personam, di invettive e di appelli al popolo.
II. Gli “interessi sinistri” di chi governa e l’opinione pubblica
Nel Constitutional Code (1822-1830) Jeremy Bentham osservava che, nonostante il suffragio universale, la
regola di maggioranza, il voto segreto e la costituzionalità dei governi, anche in democrazia tende a formarsi una
polarizzazione tra i pochi (per lo più ricchi) che governano e sono “altrimenti influenti” (ruling, opulent few; ruling
and otherwise influential few) ed i molti “subordinati”, per lo più non ricchi (subject, unopulent few). Senza
interpretare in modo troppo rigido la distinzione tra “ricchi” e “poveri”, occorre concentrarsi sulla tendenza
descritta da Bentham e sulle precauzioni necessarie a contenerla: per evitare che prevalgano «gli interessi sinistri
di chi governa (sinister interests of rulers)», si devono inventare strumenti che consentano all’opinione pubblica di
valutare il modo in cui i pochi esercitano il potere. Bentham si riferisce ad un Tribunale dell’opinione pubblica,
istituzione non ufficiale che pretende la rendicontazione pubblica dell’operato dei governanti ed è in grado di
giudicarlo. Proprio su questo punto, però, si apre un problema cruciale [cfr. L. Mori, Il consenso, ETS, Pisa 2009].
Jürgen Habermas ha evidenziato il fatto che l’opinione pubblica finisce con l’essere il «comune destinatario» di
«due forme di pubblicità […] in concorrenza» [Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza, RomaBari 2005, p. 272]. Da un lato, essa viene menzionata come l’espressione d’insieme di una volontà critica,
attenta e propositiva, di quella parte (s’immagina estesa) di un popolo, capace di farsi una propria idea sulle
principali questioni dell’agenda politica e di esprimerle in modo autonomo, pretendendo pubblicità dai depositari
temporanei del potere rappresentativo (qui “pubblicità” significa che si è tenuti a rendere pubblicamente ragione
dei processi di decisione); dall’altro lato, l’opinione pubblica diventa il destinatario della pubblicità attuata a fini
persuasivi o manipolativi da chi di volta in volta detiene il potere.
III. Lo scenario: la propaganda e le sue tecniche
“Opinione pubblica” è nozione molto controversa. Qui ci interessa la difficoltà sollevata da Habermas quando
evidenzia il doppio significato dell’espressione, la doppia natura della “pubblicità” di cui i governati possono
essere destinatari. Siamo al nucleo del problema del consenso. Già Walter Lippmann nel 1922 [W. Lippmann,
L’opinione pubblica (1922), trad. it., Edizioni di Comunità, Milano 1963; ripubblicato da Donzelli, Roma 1995]
scriveva che «La creazione del consenso non è un’arte nuova». E aggiungeva: «[…] È un’arte vecchissima, che
era stata data per morta quando apparve la democrazia, ma non è morta. In realtà ne è stata migliorata
enormemente la tecnica, perché ora si fonda sull’analisi piuttosto che sulla pratica. E così, per effetto della ricerca
psicologica abbinata ai moderni mezzi di comunicazione, la prassi democratica ha fatto una svolta. Sta
avvenendo una rivoluzione, infinitamente più significativa di qualsiasi spostamento di potere economico. Nel
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corso della vita della generazione che ora controlla il mondo, la persuasione è diventata un’arte deliberata e un
organo regolare del governo popolare» [op. cit., 1995: p. 225].
Lippmann si concentra in particolare sul ruolo della stampa e, a questo proposito, in quel periodo – per
l’esattezza, l’8 maggio 1921 – con un articolo sul Corriere della Sera, Luigi Einaudi aveva segnalato l’attività di
oligarchie che «fondano giornali, ne comprano altri, e vorrebbero far sorgere, accanto a una catena di persone
pronte ai loro disegni, una catena di giornali disposti ad ammaestrare il pubblico».
Tra la prima e la seconda guerra mondiale c’è chi studia la propaganda politica e fa il punto sulle sue tecniche. In
un libro dalla complessa vicenda editoriale, intitolato Tecnica della propaganda politica [1939; 1952, trad. it.,
Sugar, Milano 1964], Serghej Ciacotin elenca strategie e mezzi adottati: disponibilità di quadri e mezzi finanziari;
direzione accentrata dei messaggi e delle strategie; ricorso alla demagogia sociale; accompagnamento delle
parole con gesti o azioni significative ed eclatanti; uso sapiente dell’esagerazione; differenziazione del messaggio
a seconda dell’uditorio; individuazione di un nemico; costruzione dell’identità di gruppo sull’opposizione
al/derisione del nemico; sapiente uso del bluff politico; organizzazione di gruppi e di attività a supporto delle
campagne di comunicazione; semplificazione sistematica dei messaggi. È fin troppo facile trovare esempi
contemporanei per ciascuno di questi punti. Se ne consideri uno soltanto: a proposito della differenziazione del
messaggio a seconda dell’uditorio, è un caso da manuale la strategia di Forza Italia nel 1994, quando formò il
“Polo delle libertà”, con la Lega Nord di Bossi, mentre l’accordo con Alleanza Nazionale, proposto al Sud,
costituiva il “Polo del buon governo”.
Prima della seconda guerra mondiale, Edward A. Filene con l’Institute for Propaganda Analysis individuava altri
elementi: 1. Name Calling: l’utilizzo ricorrente di un epiteto squalificante associato a qualcuno o qualcosa (un
avversario, un programma, un partito) può contribuire a fissare tale associazione in chi lo ascolta; 2. Glittering
Generality: qualificando in termini positivi un’iniziativa, un programma e così via, se ne facilita l’approvazione
senza che ne siano stati esaminati in dettaglio altri aspetti rilevanti; 3. Trasfer: si tenta di legittimare x
associandolo a un’autorità stimata e apprezzata, anche semplicemente appellandosi o facendo riferimento ad
essa; 4. Testimonial: si tenta di promuovere o squalificare x associandolo rispettivamente a persone amate
oppure detestate dal pubblico di riferimento; 5. Plain Folks: chi parla espone le sue idee e il suo punto di vista
come se fossero “della gente”, “di tutti”; 6. Card Stacking: l’oratore attacca un avversario, un programma o
un’idea alternando argomenti logici e illogici, servendosi di narrazioni o interpretazioni parziali di eventi, o di
falsità pensate a bella posta; 7. Band Wagon: si tenta si sfruttare l’effetto per cui ci si convince o si è indotti a
optare per x, poiché si ritiene che “tutti lo fanno” o lo stanno facendo
Gli esempi si potrebbero moltiplicare. Nel secondo dopoguerra, Jacques Driencourt [La propagande nouvelle
force politique, Armand Colin, Paris 1950] presentava la propaganda come “nuova forza politica” e ne individua la
presenza ed il ruolo strategico anche nelle democrazie “occidentali”. Nel 1957, con il suo libro sui Persuasori
occulti, Vance Packard illustrava i modi in cui le tecniche della pubblicità iniziavano ad essere utilizzate anche per
la comunicazione politica.
Di una società dello spettacolo scrive Guy Debord nel 1967 e nei relativi Commentari degli anni Ottanta. Sono gli
anni nei quali O. Kirchheimer [The Transformation of the Western European Party Systems, in J. La Palombara,
M. Weiner (eds.), Political Parties and Political Development, Princeton University Press, Princeton 1966] segnala
la nascita di una nuova tipologia di partito, il partito piglia-tutto (catch-all party), necessariamente generico sulle
linee programmatiche perché non ha più un destinatario o un messaggio definito. Mira a prendere i voti di tutti gli
elettori, differenziando eventualmente il messaggio per target-obiettivo, mentre i partiti tradizionali costruivano le
loro narrazioni su aspirazioni definite (ispirazione cristiana, emancipazione ed eguaglianza in senso comunista,
socialismo eccetera), davano al tempo stesso chiavi di lettura per interpretare la storia e comunicavano il senso
di una missione o di un impegno comune, e dunque una visione del futuro.
Negli anni Settanta, R. G. Schwartzenberg [Lo Stato spettacolo (1977), trad. it., Editori Riuniti, Roma 1980]
riprende il tema dello spettacolo: mentre Debord aveva scritto di “spettacolarizzazione” della politica,
Schwartzenberg sostiene che lo Stato si sta trasformando o si è trasformato in “impresa dello spettacolo”.
Continuano i tentativi di interpretare le tecniche della propaganda. Negli anni Sessanta, Brown [J. A. C. Brown,
Techniques of Persuasion. From Propaganda to Brainwashing, Penguin Books, London-Harmondsworth 1963]
ripropone alcuni elementi delle analisi sopra citate e ne introduce altri. Delle “tecniche di persuasione” fanno parte
l’uso deliberato (e il conseguente, inquietante “rinforzo”) degli stereotipi (si pensi a quelli della Lega sugli
immigrati, non solo irregolari, e sul nesso immigrato-delinquente-invasore); la sostituzione di nomi (inventando
appellativi per sé e per l’avversario); la selezione delle notizie, privilegiando la circolazione di quelle favorevoli; il
ricorso strategico alla menzogna; l’uso di toni assertivi; la ripetizione; l’appello ad autorità ritenute indiscutibili; il
mostrare di impegnarsi non solo “per qualcosa”, ma anche “contro qualcuno”.
Brown tenta di definire anche il «meccanismo fondamentale» impiegato da «tutte le forme di propaganda»: è la
suggestione, di cui aveva già scritto Gustave Le Bon, «il tentativo di indurre in altri l’accettazione di una
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particolare credenza senza dare alcun fondamento evidente e logico per tale accettazione, che esso esista o no»
[op. cit. p. 25].
Gli anni Ottanta si caratterizzano per un altro passaggio. Mentre nel 1981 il primo manuale di comunicazione
politica negli Stati Uniti non ha un solo capitolo dedicato al marketing politico o al marketing elettorale, a partire
dalla metà degli Ottanta si iniziano a scrivere articoli su tale argomento e compare l’idea di spin doctoring (di una
consulenza professionale su come “fare girare” i messaggi, ma anche, secondo alcuni, su come “raggirare”).
Oggi si pubblicano voluminosi tomi dedicati al marketing elettorale e politico, si scrive e si teorizza di partiti
“orientati al mercato”, di trattare simboli e partiti come i “brand”, di successo politico legato all’essere “telegenico”
di un candidato, di bacini elettorali come “mercati obiettivo”, e così via.
IV. Il collo di bottiglia nell’Italia del 1994
Il significato di quanto si è detto per una riflessione sull’etica nella politica è chiaro: ciò che è in gioco, anzitutto,
è lo spazio residuo per un’etica della comunicazione. Limitandosi a due esempi, se l’uso della menzogna e il
ricorso strategico agli “stereotipi” possono pagare in termini elettorali decidere di farvi ricorso in modo costante,
godendo altresì di una eccezionale copertura mediatica, significa sottrarsi ai vincoli etici basilari in una
democrazia [sull’etica della comunicazione, cfr. A. Fabris (a cura di), Guida alle etiche della comunicazione, ETS,
Pisa 2004; A. Fabris, Etica della comunicazione, Carocci, Roma 2006].
Considerando gli elementi della propaganda, del modello “spettacolare” e del marketing elettorale elencati in
precedenza, si può ritenere che in Italia tutti confluiscano, come nel collo di un imbuto, nel passaggio epocale del
1992/1994. Nelle elezioni del 1994 scompaiono simboli e partiti storici: non c’è la DC, sostituita dal Partito
Popolare; non ci sono PSDI, PRI, MSI e PLI, mentre il PCI aveva già lasciato spazio nel 1992 a PDS e
Rifondazione Comunista; il PSI uscirà di scena nel 1996. Con simboli, slogan e visioni ideali di quei partiti,
svaniscono o trascolorano le relative narrazioni. Alcune parole chiave vengono riciclate: “Forza Italia” era stato
uno slogan della DC e la libertas dello scudo crociato viene sostituita dalla “passione per la libertà” da cui
Berlusconi si dice animato in apertura del messaggio con cui annuncia la sua “discesa in campo”. Nel gennaio
1994, con un tono alternatamente pacato, grave e suadente, chiamando all’alleanza contro «gli orfani e i
nostalgici del comunismo» [Oppositori/Nemici] «tutte le forze liberali e democratiche che sentono il dovere civile
di offrire al paese un’alternativa credibile al governo delle sinistre e dei comunisti» [Amici/Alleati], prospettando il
«passaggio a una nuova repubblica» e il rinnovamento della società italiana [Promessa/Impegno], con un
«programma di governo fatto solo di impegni concreti e comprensibili», dichiarandosi «costretto» a contrapporsi a
chi vuole trasformare il Paese «in una piazza urlante» e rinunciando perciò al proprio ruolo di editore e
imprenditore, Berlusconi [Eroe] si rivolge direttamente al popolo, alla «gente comune» sulle cui esigenze
proclama di volersi orientare, per invitare tutti a «scendere in campo con lui», annunciando la possibilità e il
dovere di un nuovo «miracolo italiano» [Annuncio/Profezia].
Dal 1994 al novembre 2007 molto è cambiato: a Piazza San Babila, in una piazza urlante, dall’equilibrio instabile
del predellino, Berlusconi annuncia la nascita di un nuovo partito, spiazzando gli alleati. C’è poi la piazza del
comizio del 20 marzo 2010, a una settimana dalle elezioni regionali. Una piazza che dice “sì” alle domande
retoriche incalzanti del suo leader. Forse l’unico uomo politico al mondo che ha voluto un inno come “Meno male
che Silvio c’è!”: anche su questa circostanza inaudita, un giorno, forse compiangendoci, discuteranno i posteri.
Il miglior commento alla piazza del 20 marzo 2010 è probabilmente quello di Stefano Rodotà su Repubblica [22
marzo, p. 22]: «[…] ho assistito attonito al consumarsi di un rito totalitario, per quanto sgangherato. […] quel
pomeriggio evoca pure i tre slogan del Partito che George Orwell indica nel suo 1984. Li ricordate? “La guerra è
pace”. Sul palco campeggiava la parola “amore”, contraddetta, però, dal disprezzo per l’altro, per qualsiasi altro,
al quale non si può concedere quartiere, come appunto accade nella guerra. Il bene contro il male. “La libertà è
schiavitù”. Che immagine mortificante, per un partito che si è voluto chiamare Popolo della libertà, quei candidati
alla presidenza di regioni obbligati a fare promesse insensate e a cimentarsi in un coretto recitando un pubblico
giuramento! […] E soprattutto, “l’ignoranza è forza”. Ho ascoltato parole insensate. Ho appreso che Berlusconi ci
ha salvati da un’Europa che voleva imporci la pedofilia e la “famiglia trasversale”. Ho sentito affermazioni e
promesse alle quali nessuna persona sensata può dare in minimo credito. Si sono materializzate ossessioni, non
programmi di governo, con l’annuncio dell’assalto finale al vertice della Repubblica».
Come sostiene Iacono, oggi la questione del totalitarismo non si pone più come in passato: occorre chiedersi
cosa può esserci di totalitario in democrazia, e come si possa essere sudditi anche mentre la retorica
massmediale esalta democrazia e libertà [cfr. A. M. Iacono, Storia, verità e finzione, Manifestolibri, Roma 2006;
L’illusione e il sostituto, Bruno Mondadori, Milano 2010].
V. Le quattro piaghe dell’Italia
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Una prima piaga dell’Italia attuale è quella politica. La divisione tra legislativo, esecutivo e giudiziario è sostituita
dalla concentrazione in una sola persona di potere politico, mediatico ed economico. Ciò è stato possibile per un
intricato susseguirsi di complicità e, nel migliore dei casi, di omissioni e di ritardi nel dare sostanza a misure di
garanzia democratica che pure la Costituzione suggeriva. Si tratta allora di interrogarsi non solo sull’alternativa a
Berlusconi, ma anche sull’alternativa all’ambiente che ha consentito l’emergere dell’epoca berlusconiana.
L’esecutivo fagocita il legislativo con il costante ricorso al “voto di fiducia”, presentato come prova e garanzia
della solidità di governo; il connubio tra potere esecutivo e mediatico legittima se stesso delegittimando,
ogniqualvolta è necessario, il potere giudiziario, presentando l’operato di quest’ultimo come in contrasto con la
volontà del popolo.
Una seconda piaga è quella sociale. Mentre la piramide generazionale si rovescia, con un costante incremento
della percentuale dei vecchi rispetto ai giovani, questi ultimi hanno tutele sempre minori ed incontrano difficoltà
sempre maggiori nel far corrispondere incarichi di lavoro dignitosi ai loro percorsi di studio. Su un altro livello,
sfruttamento e privazione di dignità sono il destino di tanti immigrati, non solo di quelli “irregolari”, in contesti nei
quali per lo più si continuano a proporre le misure di polizia come strumento politico privilegiato per l’integrazione
e la sicurezza.
Una terza piaga è quella culturale. Si disinveste dalla scuola e dalla ricerca e si susseguono riforme incerte
dell’Università, in assenza di una visione sistemica. Nella realtà plasmata sulle grammatiche dello spettacolo, c’è
sempre meno spazio per ciò che non è spettacolo, per ciò che non è appetibile al gusto plebeo (come direbbe
Iacono), per ciò che richiede fatica, per ciò che è difficile. Sarebbe il caso di aprire discussioni pubbliche
sull’educazione e sulla povertà, sull’ambiente, sulla necessità di inventare nuove pratiche democratiche,
partecipative e inclusive, sull’elaborazione generativa dei conflitti; tuttavia, fatta eccezione per i servizi giornalistici
dedicati alle situazioni di emergenza, la televisione preferisce mettere in scena quotidianamente lo show di una
pseudo-povertà (le varie isole dei famosi), di una pseudo-opportunità di ricchezza (i giochi, i quiz, le lotterie), lo
show della partecipazione (i televoti), lo show di pseudo-conflitti (i dibattiti politici spettacolarizzati) e così via.
Così la memoria del cittadino spettatore con inclinazione alla passività diventa sempre più, lentamente, cultura e
memoria dello show (infatti, alcuni telegiornali dedicano ampi servizi a ciò che accade nei vari “reality show”
oppure al “gossip”).
Una quarta piaga è quella etica. C’è un clima di “vacanza morale”, per usare un’espressione con cui Primo Levi
si riferiva al clima del fascismo. La piaga etica attraversa ed alimenta tutte le altre. Lo si nota, da ultimo, nelle
prese di posizione incerte e nei tentennamenti dell’iniziativa politica su fenomeni di corruzione diffusi. C’è chi ha
potuto “ridere” del verificarsi di un devastante terremoto, pregustando di lucrare sulla tragedia. C’è una rete di
contatti e prassi che ha consentito a qualcuno di ridere in quel modo. L’immoralità e l’illegalità sono diffuse in tutti
i livelli della vita sociale, ma è grave che non ci preoccupi anzitutto, quotidianamente, con scrupolo incalzante,
della moralità di chi temporaneamente ha la responsabilità di governare, al di sopra di ogni sospetto. Ci si è
preoccupati invece per mesi, introducendo una formula inaudita nella storia mondiale delle democrazie, della
«serenità di chi governa».
VI. Vie di uscita
Quando, dopo le elezioni europee del giugno 2009, il PDL non ha raggiunto la quota del 40%, indicata come
soglia superabile da Berlusconi, questi ha dichiarato che la battuta d’arresto era colpa dei fatti siciliani (l’idea di
un “partito del Sud”), di sua moglie (che avrebbe chiesto il divorzio “suggestionata” dalla stampa comunista) e di
Kakà (alle sue dichiarazioni sull’abbandono del Milan). Come stanno assieme queste cose?
Berlusconi sta dicendo che, sull’esito di una competizione politica, contano allo stesso modo fatti politici (dissidi
interni al partito), fatti del mondo dello sport/spettacolo e fatti di tipo familiare/scandalistico. Inoltre, è come se il
successo del partito fosse legato alle narrazioni che circolano sul suo leader: questi deve apparire come grande e
pragmatico mediatore politico, come imprenditore capace di soddisfare i suoi stakeholders (in questo caso i tifosi
del Milan) e come marito modello, all’altezza dell’idea stereotipata della famiglia felice secondo tradizione.
George Lakoff [Pensiero politico e scienza della mente (2008), trad. it. di G. Barile, Bruno Mondadori, Milano
2009] e Drew Westen [La mente politica. Il ruolo delle emozioni nel destino di una nazione, trad. it. di M. Ceschi,
Il Saggiatore, Milano 2008 (ed. orig. The Political Brain, 2007)], concentrandosi sulla comunicazione politica di
democratici e repubblicani negli Stati Uniti, sostengono che la persuasione è questione di “attivazione di reti” (tra
persone, ma anche neuronali) e narrazioni. È questione di frame, cioè di cornici, di come si usano espressioni
che incorniciano il mondo e fanno vedere le cose in un certo modo: “missili intelligenti”, “esportazione della
democrazia”, “immigrati illegali” anziché “datori di lavoro illegali” sono esempi di framing, di “incorniciamento”.
Secondo i due autori, nessuno (nemmeno l’elettore) sceglie solo razionalmente e la mente non è solo
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spassionata. Uno dei limiti dei democratici sarebbe quello di non aver capito di avere bisogno non soltanto di idee
e ragionamenti (necessari come “mappe”), ma anche di comunicare in modo adeguato ed emotivamente
coinvolgente tali idee e tali ragionamenti (le emozioni sono la “benzina”). Certo, per emozionare occorre avere il
coraggio di non essere “conservatori” (il successo elettorale di Obama si comprende anche alla luce della
radicalità di alcune sue proposte alternative all’esistente, oltre che per numerose altre ragioni).
Occorre lavorare su un nuovo lessico e su nuovi modi di “incorniciare” gli eventi, sottraendosi ad associazioni e
stereotipi berlusconiani. Può essere difficile: come nota Lakoff, negli Stati Uniti il democratico che contesta la
scelta di fare una guerra difficilmente deciderà di definire “occupazione” anziché “guerra” o “missione di pace”
l’iniziativa che pure contesta; parlare esplicitamente di “occupazione” (ad esempio dell’Iraq), infatti,
significherebbe trattare anche i “propri soldati”, i militari professionisti che rischiano la vita in missione, come
“forze di occupazione” anziché come “giovani fedeli alla Patria” o persino “eroi”. Il che finirebbe per esporre, nel
migliore dei casi, a facili accuse di ingratitudine.
Con riferimento al caso italiano, tra le vie di uscita dalla situazione descritta sopra, occorre mettere il coraggio di
elaborare cornici alternative. Certo, stando all’interno di un atteggiamento alternativo anche sul piano dell’etica
della comunicazione, evitando, ad esempio, di usare strategicamente la menzogna e lo stereotipo, anche se
questi pagano in termini di consenso.
Occorre evitare la semplificazione, ma essere chiari. A volte, per esserlo, occorre prima aver attraversato i
conflitti determinandone un esito generativo. Il tema della laicità è uno dei terreni più rilevanti per provare il lavoro
sull’incorniciamento: anche perché c’è da tempo la tendenza a trattare come laicismo (operazione di framing)
ogni forma di laicità che non sia “devota”. Non è poi chiaro, come si è visto in recenti volantini elettorali, sostenere
che il proprio partito deve saper guardare “a sinistra e contemporaneamente al centro”: o meglio, lo si può fare
dopo aver chiaro (se è possibile) cosa ciò significhi; altrimenti è un caso di strabismo, derivato da una mancata
elaborazione del conflitto vitale tra le differenze, destinato poi a sfociare in ulteriori scissioni (si pensi all’uscita di
Rutelli dal PD dopo l’elezione di Bersani a segretario).
Altro versante su cui lavorare: quello delle reti sociali, sia nel senso del social networking tramite il Web sia nel
senso dell’apertura di spazi pubblici sul territorio, con l’investimento in percorsi formativi alla democrazia e al
conflitto [sulla costruzione di reti sociali sul territorio, cfr. L. Mori, Dai bambini agli adulti. Alla ricerca di reti
sociali…, http://rivista.edaforum.it/numero16/buonepratiche_mori.html, e per il recente progetto “Utopia” la
segnalazione sul portale http://www.minori.it/?q=node/1630].
Il tema del Web 2.0 dovrà essere approfondito nel quadro di più ampie iniziative di formazione dei politici:
formazione ai temi della storia e della filosofia politica, della scienza del conflitto e della partecipazione, della
comunicazione, dell’evoluzione delle piattaforme mediali e dell’evoluzione delle forme della democrazia.
In base all’Economist Intelligence Unit’s index of democracy [cfr. http://www.eiu.com/], una democrazia elettiva è
definita come un «sistema politico competitivo e multipartitico», caratterizzato dal suffragio universale degli adulti,
da elezioni regolari condotte con votazioni segrete e scrutinio ragionevolmente sicuro, e dalla possibilità di
contatto dei diversi partiti coi cittadini tramite i media, con libertà di condurre la campagna elettorale. Presentati
questi tratti di definizione formale, l’indice si concentra su un ventaglio di cinque categorie, sviluppate a loro volta
in dieci direzioni: processo elettorale e pluralismo, libertà civili, funzionamento del governo, partecipazione
politica e cultura politica. Aumentando il dettaglio sulla categoria della partecipazione, ad esempio, troviamo che
essa include i seguenti aspetti: partecipazione dei votanti alle elezioni e turnover elettorale; spazi d’autonomia per
le minoranze etniche, religiose o di altro genere; presenza di donne in parlamento; quantità di cittadini iscritti a
partiti o ad altre organizzazioni politiche non governative (ovviamente, in assenza di costrizione); impegno dei
cittadini in politica; prontezza dei cittadini a fare dimostrazioni civili per questioni di diritto; seguito della politica nei
notiziari, nei media stampa tv e radio; impegno delle autorità nel promuovere la partecipazione politica dei
cittadini.
Utilizzando questi parametri, l’Italia del 2007 veniva classificata come democrazia imperfetta (flawed democracy).
Nel 2008 è passata al penultimo posto delle democrazie “piene”, ma dove siamo nel 2010 e quanto scenderemo
ancora in futuro?
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