Osservazioni psichiatrico forensi di buona pratica clinica in tema di comportamento violento sulla persona agito dal paziente G.C. Nivoli, L. Lorettu, P. Milia, A.M.A. Nivoli. 1 INDICE Premessa Pag 4 Il CVP è un evento multideterminato Pag 6 Il rischio del CVP può variare rapidamente nel tempo per quantità e qualità Pag 14 Non esistono metodologie obiettive per una sicura previsione del CVP nel singolo caso clinico. Pag 16 Esistono fattori di rischio e fattori protettivi del CVP Pag 19 Non esistono farmaci con l’indicazione di guarire il CVP Pag 27 Non esistono provvedimenti psicoterapeutici che guariscano sempre, rapidamente e senza recidive tutti i CVP Pag 37 Esistono situazioni di crisi che possono precedere il CVP Pag 38 Esistono ipotesi cliniche di ricerca per valutare il CVP in assenza di disturbo psichico Pag 57 Esistono principi di vittimologia utili per la valutazione ed il trattamento del CVP Pag 72 Esistono reazioni emotive che possono influire sulla valutazione e gestione clinica e forense del CVP Pag 74 La responsabilità dello psichiatra é da valutare al momento dei fatti. Pag 79 La responsabilità dello psichiatra è da contestualizzare nel singolo caso clinico. Pag 84 Necessità di precisare le singole responsabilità professionali degli psichiatri che hanno curato un paziente Pag 86 Necessità di precisare i criteri di assunzione, dismissione e contenuto della posizione di garanzia. Pag 87 2 Osservazioni conclusive Pag 89 Difficoltà ad assumere una atteggiamento neutrale di fronte alla responsabilità dello psichiatra Pag 89 Varietà della tipologia ed incertezza dei dati scientifici sul CVP Pag 89 Necessità di chiarire le aspettative nei confronti della medicina e della psichiatria Pag 90 L’atteggiamento personale dello psichiatra e di chi lo giudica nei confronti del CVP Pag 90 La confusione tra ipotesi cliniche di ricerca ed evidenze cliniche condivise Pag 90 La confusione tra diagnosi psichiatrica categoriale statistica e diagnosi psichiatrica forense peritale Pag 91 Necessità di una criteriologia per la valutazione dei requisiti di causalità e del nesso di causalità tra azione ed omissioni dello psichiatra e CVP del paziente Pag 93 Necessità di ribilanciare l’importanza del disturbo psichico in relazione al CVP Pag 95 Necessità di riesaminare i giudizi, in termini di responsabilità professionale, sulla pericolosità sociale penale e sulla pericolosità sociale psichiatrica Pag 96 La qualificazione dei periti e dei consulenti Pag 96 La responsabilità di periti e consulenti Pag 97 I mutamenti giurisprudenziali e le variazioni normative in tema di responsabilità per la prestazione sanitaria Pag 99 La difficoltà a proporre criteri in tema di responsabilità forense dello psichiatra Pag 100 Conclusioni Pag 100 Bibliografia Pag 101 3 Premessa Il comportamento violento sulla persona (CVP) inteso nella sua specifica definizione giuridica (percosse, lesioni personali, omicidio tentato ed attuato) compiuto da un paziente psichiatrico a danno di terzi è uno degli eventi più drammatici e dolorosi sul piano umano che possono occorrere nella pratica clinica e permane una delle cause più frequenti di incriminazione penale e di responsabilità civile dello psichiatra. La responsabilità professionale dello psichiatra nei confronti di un paziente a rischio di CVP è tema ricco di criticità con interpretazioni contrastanti della buona pratica clinica, delle leggi e della giurisprudenza. In ragione di ciò è parsa utile la formulazione di osservazioni psichiatrico forensi di buona pratica clinica in tema di CVP messo in atto dal paziente che possano fruire di consenso clinico e scientifico. Il fine è aumentare la beneficialità del paziente nel rispetto dei suoi diritti e doveri, migliorare la formazione professionale dello psichiatra e facilitare, al contempo, la comprensione dell’evento di violenza a tutti i protagonisti (magistrati, avvocati, periti, consulenti, familiari del paziente, etc.) che in differenti ruoli accusano, difendono e giudicano lo psichiatra in relazione al CVP del paziente. Il tutto al fine di costruire le basi per una discussione approfondita e critica su principi psichiatrico forensi di buona pratica clinica che possano essere validati come criteri di giudizio, con ulteriori osservazioni cliniche e giuridiche, nei contenziosi giudiziari. Nelle presenti osservazioni non si è ritenuto dovere approfondire le definizioni, le varie forme, le differenze tra normalità e patologia di interesse psichiatrico della violenza (1); l’evoluzione storica e clinica del concetto psichiatrico, criminologico e giuridico di pericolosità (2); la responsabilità medica e psichiatrica in tema di specifiche sentenze civili o penali (3-5). Per ognuna delle osservazioni psichiatrico forensi descritte vi sarà una componente di evidenza clinica sulla gestione del rischio di CVP accompagnata da specifiche osservazioni forensi formulate sulla base delle imputazioni e condanne penali e civili in cui incorrono più frequentemente i medici psichiatri. Nella parte forense, attraverso una specifica terminologia sottolineata anche graficamente (corsivo), saranno utilizzate esemplificazioni e chiarificazioni che risultino più aderenti possibile a concetti peculiarmente forensi ed allo specifico linguaggio delle aule giudiziarie in tema di responsabilità professionale dello psichiatra piuttosto che mirate alla qualità e profondità clinica specialistica dell’assistenza 4 psichiatrica al paziente con rischio di CVP (1,5-9). Alcuni principi forensi saranno trattati più volte per una loro più approfondita e specifica chiarificazione legata al contesto. E’ stato volontariamente assegnato molto spazio di attenzione alla riduzione del rischio di CVP nelle situazioni di crisi per mettere in luce l’importanza di interventi preventivi; alla valutazione di ipotesi cliniche di eziologia del CVP indipendentemente dalla presenza di un disturbo psichico per agevolare il clinico a trovare i fattori di rischio del CVP senza la necessità di formulare diagnosi categoriali di malattia mentale. Alcuni concetti di psicopatologia, oltre la traduzione in italiano, saranno riportati, per maggior fedeltà al pensiero degli autori, in lingua originale. In particolare sarà spesso fatto uso di terminologia in lingua inglese per favorire, con l’offerta di opportune parole-chiave, la possibilità di ricercare una abbondante bibliografia internazionale su temi specifici, settoriali e controversi. Sarà fatto un ampio uso di esempi clinici allo scopo di rendere più chiari concetti psichiatrici a persone non specialiste del settore, ma protagonisti in tema di gestione del rischio di CVP e di valutazione della responsabilità professionale dello psichiatra. Considerando inoltre il presupposto che una osservazione psichiatrico forense può essere banale e scontata per uno specialista del settore ma non per un profano, volontariamente saranno messi in luce principi elementari di clinica e di pratica forense, compresi gli stessi pregiudizi e modalità comunicative così come hanno luogo nelle aule giudiziarie. Saranno inoltre offerte, ad una attenzione critica per ulteriori approfondimenti e nel rispetto della varietà delle differenti scuole di pensiero in psichiatria, ipotesi cliniche interpretative in tema di CVP allo scopo primario di aumentare la beneficialità del paziente in merito alle possibilità di migliorare la prevenzione del rischio e sottolineare, sotto il profilo clinico, la varietà e la complessità degli approcci interpretativi in psichiatria e, sotto il profilo forense, la molteplicità delle variabili da valutare nel giudizio sulla responsabilità professionale del medico psichiatra. 5 1 Il CVP è un evento multideterminato. Le cause del CVP sono molteplici: biologiche, psicologiche, sociali, culturali, circostanziali (2,7). Si tratta quindi di un evento: 1. ad eziologia multideterminata e cioè dalla causalità complessa legata a numerose variabili (costellazioni di variabili) che si estendono, integrandosi ed interagendo tra loro, da quelle più squisitamente biologiche a quelle più squisitamente sociali e circostanziali. 2. a diagnosi multiassiale e cioè una metodologia di formulazione della diagnosi, anche mirata alla comprensione dell’atto, che tiene conto non solo degli aspetti biologici, psichiatrici, psicologici, sociali e culturali, ma anche della specifica contestualizzazione del caso clinico, al momento della valutazione, nelle irrepetibili circostanze psico-socio-culturali di tempo, luogo e persone. 3. ad intervento di prevenzione e trattamento multistrategico e cioè la messa in atto di provvedimenti, per evitare la recidiva, che spaziano, con differenti priorità a seconda del caso clinico, nel campo medico, psichiatrico, psicologico, sociologico, culturale, legislativo, etc focalizzato sulla eziologia multideterminata e sulla diagnosi multiassiale del CVP. La relazione tra CVP e disturbo psichico (come inteso nei manuali D.S.M.5; I.C.D.10) sono complesse, oggetto di diatribe scientifiche e di continue ricerche cliniche di approfondimento e specificazione. Allo stato attuale delle conoscenze, con i limiti precedentemente descritti, è possibile formulare alcune osservazioni sotto il profilo prevalentemente psichiatrico forense e clinico criminologico. Con un prevalente approccio psichiatrico forense è possibile affermare quanto segue. 1. il disturbo psichico non è causa unica e diretta del CVP. (10) Non tutti i soggetti con disturbo psichico mettono in atto un comportamento violento e non tutti gli atti di violenza sulla persona sono messi in atto da soggetti con disturbo psichico (7). In termini più generali gli esseri umani non hanno necessità di un disturbo 6 psichico per agire con percosse, lesioni personali all’integrità fisica, tentare o compiere un omicidio od una violenza sessuale su di un altro essere umano. 2. il disturbo psichico può essere uno tra i molteplici fattori di rischio del CVP. In presenza di CVP non deve essere ricercata una sola e univoca causa diretta, ma occorre ricercare le numerose variabili (costellazione di variabili tra cui vi può essere il disturbo psichico) che interagiscono tra loro e si integrano in una stessa persona con modalità dinamiche nel tempo. 3. Il disturbo psichico come fattore di rischio del CVP ha valore scientifico modesto rispetto ad altri fattori (ad esempio l’abuso di sostanze; precedenti antisociali) (modest predictive factor for violence (7). 4. Il disturbo psichico quando presente può non essere in nesso causale col CVP. Motivazioni al CVP non di competenza psichiatrica possono essere presenti (e lo sono spesso) (11) in soggetti con disturbo psichico. Un soggetto con disturbo psichico può mettere in atto un CVP per le stesse motivazioni forensi di un soggetto senza disturbo psichico. 5. Il disturbo psichico, quando presente ed in nesso causale con il CVP, deve essere valutato nel singolo caso clinico come uno tra i vari fattori di rischio in relazione ai fattori protettivi ed alla multideterminatezza dell’evento. Concretamente non è corretto, sotto l’aspetto scientifico e forense affermare: quel paziente ha ucciso la moglie perché affetto da schizofrenia delirante con contenuto persecutorio. Non tutti i pazienti con questo disturbo psichico uccidono la moglie e poi, per uccidere la moglie non vi è bisogno di avere un disturbo psichico. Nella pratica la valutazione scientifica e forense in presenza di disturbo psichico e CVP è complessa, e si può svolgere attraverso quattro tappe progressive: a) l’esame del disturbo psichico; b) l’esame del comportamento violento; c) l’esame delle reazioni emotive; d) la formulazione di una valutazione e piano di trattamento Si tratta di operazioni che implicano conoscenze scientifiche e cliniche molto differenziate (5). Ad esempio per valutare un soggetto con diagnosi di schizofrenia che compie un omicidio non è sufficiente possedere nozioni scientifiche sul disturbo psichico (schizofrenia) ma è necessario possedere anche nozioni scientifiche sulla eziologia e sulle 7 dinamiche dei comportamenti violenti (omicidio: in particolare uxoricidio). Per quanto concerne l’esemplificazione sopra riferita la valutazione, più esaustiva, potrebbe svolgersi secondo la seguente sequenza: a) L’esame del disturbo psichico comprende la formulazione della diagnosi categoriale arricchita con adeguati approfondimenti al caso clinico. Nell’esempio sono riportati tre possibili e specifici approfondimenti, utili ai fini diagnostici e terapeutici, non escludendo altre tipologie di indagine (ad esempio prototipica, fenomenologica, narrativa, etc.). 1. diagnosi categoriale (schizofrenia con disturbo delirante a contenuto persecutorio); 2. diagnosi dimensionale (impulsività ed aggressività); 3. diagnosi dinamica (la propria aggressività è attribuita, per il meccanismo psicologico di difesa della proiezione, ad altre persone ed alla moglie). b) L’esame del comportamento violento può comprendere almeno altre tre tappe di approfondimento: 1. diagnosi eziologica del comportamento violento (il nonno e il padre erano stati condannati per maltrattamento familiare: apprendimento sociale pluri generazionale del comportamento violento specifico sulla compagna di vita, etc.); 2. diagnosi dinamica alla base del comportamento violento (sentimento d’inferiorità nei confronti del sesso femminile legata ad un’impotenza sessuale con formazione reattiva di controllo sadico e distruttivo: prima che tu mi umili, mi domini e mi distruggi, io ti umilio, ti domino e ti distruggo); 3. diagnosi vittimologica e cioè il legame tra aggressore e vittima (la moglie prima di essere uccisa lo ha insultato con un grave atto di provocazione sulle reali debolezze e fragilità : sei un fallito nella vita ed un impotente sessuale). c) L’esame delle reazioni emotive dei protagonisti dell’evento di violenza (transfert e controtransfert in senso allargato) è giustificato da almeno tre motivazioni. 1. Approfondimento clinico del caso secondo il principio diagnostico che una persona non è solo quello che dice, quello che fa, quello che pensa, le sue fantasie, ma è anche tutte le emozioni che esperimenta. Non esaminare le 8 reazioni emotive che prova (e suscita) un soggetto che uccide non è indice di buona pratica clinica cosi come non è buona pratica clinica non esaminare le fantasie sessuali di un soggetto che compie una violenza sessuale. 2. Riduzione degli errori diagnostici e trattamentali. Ad esempio l’operatore sanitario o il valutatore devono essere consapevoli dei sentimenti che provano nei confronti dell’assassino. Sentimenti primari di pietà e giustificazione (non è colpa sua: è malato di mente) o di giudizio e condanna (è un delinquente che deve essere chiuso in carcere). Queste ed altre emozioni, nelle loro variegate tipologie, complesse sfumature e differenti livelli di accesso alla consapevolezza, sostengono pregiudizi e comportamenti e possono influire sulla valutazione e sul trattamento. 3. Conoscenza di schemi di comportamento utili alla valutazione e trattamento. Ad esempio il soggetto che ha ucciso la moglie ha presentato nei confronti del terapeuta una reazione emotiva impostata sulla dipendenza esplosiva: succube e passivo sino a quando non sono state soddisfatte le sue esigenze. Dopo il rifiuto di assecondare le sue richieste, improvvisamente è divenuto violento su oggetti ed ha minacciato fisicamente il terapeuta. Il paziente ha cioè messo in atto col terapeuta l’analogo comportamento utilizzato con la moglie fornendo importanti informazioni, per il suo trattamento, sui fattori (trigger) che scatenano il suo CVP. d) La formulazione di un piano di valutazione e trattamento (di cui la diagnosi e la terapia psichiatrica sono solamente la parte che riguarda il disturbo psichico se è presente) che sia fattibile nel caso specifico e monitorabile con facilità ed obiettività. In ragione della ricerca di obiettività, riproducibilità tra operatori, facilità di somministrazione, etc., è auspicabile, nel rispetto di una sempre maggior validità e sensibilità degli strumenti di misura, una adeguata integrazione tra metodologia clinica e metodologia attuariale non solo in questa fase, ma anche nelle precedenti. In conclusione la prima tappa e cioè l’esame psichiatrico può essere facilmente rispettata dagli operatori della salute mentale che dovrebbero essere competenti sul disturbo psichico; la seconda tappa e cioè l’esame del comportamento violento richiede nozioni specifiche e diverse dalle informazioni sulla salute di mente; la terza tappa necessita di una preparazione tecnica specifica sull’esame delle emozioni proprie e degli altri ed un 9 atteggiamento personale emotivo (che può concretizzarsi in ideologie razionalizzate di accettazione o di rifiuto) di disponibilità a praticarla; la quarta tappa implica una attiva collaborazione fra molte istituzioni tra cui l’amministrazione della giustizia, l’assistenza sociale, l’assistenza psichiatrica, etc. Nascono quindi problemi legati: a) alla formazione del personale, b) alla specializzazione in ambito di CVP, c) ed alla collaborazione tra diverse istituzioni. 1a. Inadeguatezza clinica e forense dei ragionamenti semplicistici ed errati in tema di relazione tra disturbo psichico e CVP. La concausalizzazione pregiudiziale della malattia mentale Se è lo psichiatra stesso a stabilire che esiste un rapporto di causa unica e diretta tra disturbo psichico e CVP non v’è da stupirsi che chi giudica la sua responsabilità professionale accetti questa interpretazione che può determinare una serie di gravi errori scientifici, clinici e forensi. Allo psichiatra infatti può essere richiesto di guarire il disturbo psichico (deriva giuridica dall’obbligo di cura all’obbligo di guarigione: attribuzione allo psichiatra del ruolo di santo che fa i miracoli e non di medico che cura con i limiti propri della scienza). In questa visione qualsiasi imprecisione o errore (indipendentemente dal nesso causale) può essere pretestato (attraverso la razionalizzazione che segue il principio del senno del dopo) come causa del CVP (se lo psichiatra avesse curato bene il paziente… il paziente non sarebbe stato violento). La psichiatrizzazione ottimistica di tutti i CVP (tutte le persone che mettono in atto un CVP hanno un disturbo psichico che dovrebbe essere curato e potrebbe essere guarito) porta in primo luogo ad una gestione insufficiente e dannosa della beneficialità del paziente (si cura il disturbo psichico e nulla è fatto per trattare il CVP) ed in secondo luogo, sotto l’aspetto forense, implica assunzioni eccessive ed inadeguate di responsabilità professionali per lo psichiatra. Nell’ambito di una inadeguatezza clinica e forense nello stabilire un nesso causale semplicistico ed errato tra disturbo psichico e CVP possiamo mettere in luce la concausalizzazione pregiudiziale della malattia mentale. Molta parte degli eventi di rilevanza forense in Medicina ed in Psichiatria riconoscono una pluralità di fattori causali e cioè sono multideterminati e non monodeterminati. Questo elenco di fattori che contribuiscono a produrre un evento può sovrapporsi a quello reperibile nei testi di medicina nei paragrafi che in ciascuna malattia , medica e psichiatrica, sono compresi nei 10 fattori eziologici. Tutti questi fattori causali (cause concorrenti dette comunemente concause) pur possedendo, ciascuna, una propria dignità qualitativa, non hanno la stessa importanza quantitativa per cui differiscono tra loro, ed in secondo luogo non possono essere tutte indistintamente considerate a livello forense fattori causali: vi è differenza tra fattori eziologici di natura medica e fattori causali di interesse giuridico. Premesso che le concause possono essere preesistenti, simultanee e sopravvenute nel codice penale (art. 41) è sancito che le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento. Concretamente è così delimitata la responsabilità delle persone da una troppo rigida interpretazione ed applicazione della teoria condizionalistica attraverso anche la teoria della causalità adeguata, teoria dell’imputazione obiettiva dell’evento ed anche della teoria dell’aumento del rischio. Senza inoltrarsi oltre nella complessa causalità nella responsabilità medica la concausalizzazione pregiudiziale della malattia mentale, sotto il profilo clinico e forense, consiste nell’attribuzione errata del ruolo di causa, attraverso la specificazione di concausa, alla malattia mentale nel determinare il CVP. Ciò deriva dal pregiudizio che il CVP messo in atto da un soggetto con disturbo psichico sia sempre legato al disturbo di cui soffre. Questo processo di concausalizzazione pregiudiziale della malattia mentale può avvenire in ambito peritale attraverso tre distinti passaggi: 1) la selezione mirata ed esclusiva della concausa, 2) l’ ingrandimento del disturbo psichico 3) il travisamento causale del disturbo psichico Ad esempio: nella valutazione forense di un paziente psicotico che ha ucciso un altro paziente il perito seleziona come oggetto di valutazione esclusivamente la psicosi del soggetto che ha ucciso e non il comportamento della persona uccisa che il giorno prima del fatto aveva minacciato fisicamente e sfidato in modo provocatorio, alla presenza di numerose persone, ridicolizzando ed umiliando chi diventerà il suo assassino. Segue poi l’ingrandimento della psicosi dell’autore dell’omicidio raccogliendo non solo dalla sua anamnesi ma anche dalla letteratura le psicopatologie più gravi allo scopo di rendere sempre più grave e devastante, soprattutto nel profano che legge, l’azione della malattia mentale sulla capacità di intendere e di volere del soggetto che ha ucciso. Selezionato ed ingrandito un quadro di un omicida gravemente malato di mente ed incapace di intendere e di volere e di una vittima del tutto innocente non è certo difficile trovare, soprattutto col senno del dopo e cioè a fatti avvenuti, qualcuno che ha sbagliato qualcosa. Trovare un 11 errore nella farmacoterapia, psicoterapia, assunzione e circolazione delle informazioni, applicazioni di misure cautelari, non applicazioni di regolamenti (che, ripetiamo, a posteriori appaiono chiarissime), etc. è compito non difficile soprattutto quando l’errore è presente anche se non è rilevante a livello forense. Il travisamento del quadro clinico e forense attraverso la causalizzazione dell’errore irrilevante (erronea trasformazione di un errore irrilevante in errore rilevante a livello forense) completa l’intero processo di concausalizzazione pregiudiziale della malattia mentale. L’errore più grave sotto il profilo metodologico clinico e forense del perito o del consulente (non si entra in merito ai pareri motivati personali in tema di giudizio sulle concause) nel caso che precede è che attraverso il suo processo di selezione mirata ed esclusiva, ingrandimento e travisamento della psicopatologia, non ha considerato e discusso il fatto che il comportamento della vittima (come è descritto nella numerosa letteratura scientifica in tema di vittime che provocano il loro omicidio: victim precipitaded homicide) poteva, di per sé, essere considerato come causa sopravvenuta capace da sola di determinare il fatto a prescindere dalla malattia mentale dell’assassino o dagli errori di terze persone. In altri termini ed in linea generale (nel rispetto della contestualizzzazione nel singolo caso clinico) minacciare fisicamente, sfidare provocatoriamente, ridicolizzare ed umiliare pubblicamente un soggetto con precedenti di violenza sulla persona, potrebbe rappresentare un fattore giuridico causale adeguato a causare una reattività omicidiaria senza dover invocare, sempre e di necessità, l’intervento del disturbo psichico. Se nell’elaborato peritale non compaiono precise e dettagliate osservazioni cliniche su questa criticità debbono essere posti non pochi interrogativi non solo sulla competenza tecnica metodologica forense ma anche sui possibili pregiudizi personali, non scientifici, del perito, nonché su eventuali interessi personali del perito o consulente come verrà specificato nel proseguo di questo scritto in tema di qualificazione e responsabilità del perito e del consulente. Ignorare le discriminanti in ambito di concause, la presenza di dinamiche criminali o tossicofiliche in tema di CVP , il pregiudizio che il CVP sia sempre legato al disturbo psichico, la non accettazione pregiudiziale della possibile imprevedibilità ed inevitabilità del CVP, etc. possono rappresentare alcune tra le motivazioni più frequenti alla base della concausalizzazione pregiudiziale della malattia mentale. 12 1.b. Necessità di valutare, nei giudizi di responsabilità, l’impossibilità per lo psichiatra di controllare tutte le variabili della causalità clinica del CVP. Nella ricerca causale clinica (causalità materiale) del CVP non può essere ignorata la molteplicità della cause più stabili (biologiche, psichiatriche, etc.) e più aleatorie circostanziali (come l’annuncio della separazione del coniuge, etc.). In particolare deve essere accettato che in ogni CVP, soprattutto quando crudele ed efferato, vi è sempre qualcosa di poco comprensibile e misterioso, talvolta difficile, spesso impossibile da comprendere anche per lo psichiatra più esperto. Il terapeuta che ritenesse di saper controllare tutte le variabili (biologiche, psichiatriche, psicologiche, sociali, circostanziali, etc.) che determinano il CVP potrebbe essere fuorviato nel suo giudizio da un irrealistico eccesso di fiducia nelle proprie capacità e non rivelare, per ciò stesso, le migliori qualità professionali a garanzia di un comportamento terapeutico beneficiale per il paziente. Analogamente chi è deputato a valutare la responsabilità professionale dello psichiatra non può, sempre e comunque, riconoscergli caratteristiche di onnipotenza e di controllo su ognuna delle variabili delle causalità cliniche che governano il rischio di CVP, né attribuirgli sconfinate capacità taumaturgiche di potere e sapere guarire sempre, rapidamente e completamente ogni tipo di disturbo psichico. Soprattutto tenendo presenti gli eventi multideterminati nei quali il ruolo della professione medica e psichiatrica non può che essere, in molti casi, pressoché irrilevante. Anche chi valuta la responsabilità professionale dello psichiatra deve sapere accettare la realtà dei fatti, e non cadere vittima delle umanamente comprensibili paure e pregiudizi sul CVP, confondendo un lodevole e generoso desiderio di guarire tutte le persone (anche se stessi) quando lo si desidera o quando necessita, dalla malattia del CVP, con le evidenze cliniche sulla causalità multideterminata del CVP e le concrete possibilità di intervento che ha il singolo operatore sanitario nella realtà. Nasce quindi, in ambito forense, la necessità di considerare le difficoltà reali dello psichiatra nella gestione del singolo caso clinico, a prescindere dai casi più manifesti di imprevedibilità ed inevitabilità dell’evento o di grossolane colpe generiche in tema di prudenza, diligenza e perizia o colpe specifiche per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini, discipline. 13 2 Il rischio del CVP può variare rapidamente nel tempo per quantità e qualità. Il rischio di CVP non rimane costante nel tempo ma può variare anche rapidamente come qualità e quantità per numerose motivazioni (7,11). Le circostanze psico-sociali possono stimolare il soggetto, attraverso la realtà o la percezione soggettiva, a sperimentare sentimenti di gravi ingiustizie subite, frustrazioni dolorose al proprio ruolo e visibilità sociale, minacce alla propria identità ideale. L’incontro con la vittima può avvenire nell’ambito di una circostanzialità scatenante: vi sono vittime che scatenano il loro omicidio (victim precipitated homicide) come quei mariti violenti che provocano in cucina la moglie armata di coltello dicendole minacciosi: prova ad uccidermi se hai il coraggio. Il CVP può anche essere legato od utilizzato al fine suicidiario come ad esempio negli omicidi di massa (Mass murder) ove si manifesta con platealità la triade omicidiariasuicidiaria (desiderio di uccidere, di essere ucciso e di uccidersi) o nei suicidi a mezzo delle forze dell’ordine (suicide by cops) in cui il soggetto ricerca il proprio suicidio provocando la reazione omicidiaria delle persone che minaccia concretamente di uccidere. Le rapide variazioni del rischio di eventi multideterminati (come il suicidio od il CVP che possono essere tra loro associati come nella descrizione che precede) in soggetti con disturbo psichico sono anche recentemente sottolineate dalla sentenza della Suprema Corte di Cassazione IV sez. pen. (n.14766/16) al proposito di un evento suicidario in soggetto con disturbo psichico: Va esclusa pertanto ogni rimproverabilità per colpa, mancando la prevedibilità ed evitabilità dell’evento suicidiario, legato piuttosto al fisiologico fattore di imprevedibilità delle condotte imprudenti e/o inconsulte di pazienti psichiatrici. 2a. Necessità di monitorare, quando è presente una giustificazione clinica, il rischio di CVP Lo psichiatra dopo, una prima valutazione sulla eventuale presenza di motivazione clinica (ad esempio il paziente ha nuovamente proferito gravi minacce strutturate di morte ed ha acquisito un’arma letale) deve monitorare ancora il rischio di CVP. 14 2b. Necessita di accettare sotto il profilo clinico, forense ed emotivo personale che il CVP può essere imprevedibile ed inevitabile. Allo psichiatra non può essere richiesto sotto l’aspetto clinico e forense di: 1) disporre di tutte le informazioni sul paziente (il paziente può mentire volontariamente, sottovalutare o interpretare in modo soggettivo una informazione richiesta dal terapeuta, i familiari possono non sapere o volontariamente tacere o nascondere dati che non ritengono opportuno comunicare, etc.) 2) predire il futuro (la previsione deve essere fatta al momento dei fatti per cui si procede. Col senno del dopo è facile per tutti fare previsioni). Da sottolineare che differenti denominazioni e specificazioni della prevedibilità, quali rappresentabilità o riconoscibilità, implicano sempre una previsione del comportamento nel futuro 3) neutralizzare sempre ogni tipo di CVP (lo psichiatra è tenuto alla prestazioni dei mezzi e non dei risultati) Non può essere attribuito allo psichiatra il ruolo di poliziotto perfetto (per la raccolta delle informazioni), di indovino infallibile (per la prevedibilità) o di santo protettore onnipotente ed onnipresente (per la evitabilità). Queste attribuzioni inadeguate di poteri allo psichiatra possono provocare, nei suoi confronti, le accuse non giustificate di aver ignorato informazioni, di non avere saputo predire il comportamento del suo paziente e non saperne modificare il destino futuro neutralizzando il CVP. Queste accuse sono favorite dall’uso inadeguato del senno del dopo che spesso regala la percezione di individuare, a fatti avvenuti, soprattutto per i profani ed in modo erroneo sotto il profilo clinico e forense, le cause che hanno determinato il CVP. 15 3 Non esistono metodologie obiettive per una sicura previsione del CVP nel singolo caso clinico. La valutazione del rischio di CVP può essere effettuata, in generale, attraverso due metodologie: clinica ed attuariale (2,5,7). 1. La metodologia clinica è basata sul colloquio clinico col paziente nel corso del quale lo psichiatra raccoglie informazioni anamnestiche personali e familiari, pratica un esame psichiatrico, raccoglie informazioni per la formulazione di una diagnosi e terapia (disturbo psichico) e di una valutazione e trattamento (comportamento violento) Nel corso di questa metodologia clinica lo psichiatra può utilizzare l’esame del linguaggio non verbale del paziente, le resistenze (definibili, in senso allargato, come quei meccanismi psichici che si sovrappongono alla presa di coscienza di desideri, paure, impulsi, etc. inaccettabili per il paziente) e le reazioni emotive che il paziente stimola in lui e le reazioni emotive che lui come valutatore e terapeuta stimola nel paziente. 2. La metodologia attuariale consiste nell’esaminare il paziente con interviste strutturate, questionari auto od etero-somministrati con domande già compilate, reattivi mentali di livello e di proiezione, etc. che hanno lo scopo specifico di valutare i dati obiettivi (età, sesso, razza, qualità e quantità dei reati precedenti, uso di droghe, etc.) e di stabilire su queste basi, a livello statistico, un giudizio sul rischio di CVP nel soggetto esaminato. Questi due metodi di valutazione del rischio del CVP, clinica ed attuariale, possono essere praticati in modo singolo o integrati l’un l’altro con differenti modalità. In qualsiasi caso questi due metodi non sono in grado di permettere una sicura previsione del CVP nel singolo caso clinico. 3.a. Necessità di valutare il rischio di CVP con metodologia clinica documentata. Nella valutazione del rischio di CVP di un soggetto è indispensabile, sotto il profilo clinico e forense, operare una valutazione eseguita con metodologia clinica documentata nella cartella clinica per la beneficialità del paziente e per la tutela giuridica dello psichiatra. 16 1. In primo luogo nella valutazione del soggetto con rischio di CVP debbono essere considerati i fattori di rischio ed i fattori di protezione in tema di CVP. Sotto il profilo clinico è importante, per la beneficialità del paziente, che siano valutati con profondità tanto i fattori di rischio (per poter ridurre la loro influenza quando possibile) quanto i fattori di protezione (per poter implementare la loro azione, quando possibile, e proteggere con modalità preventive il soggetto). Sotto il profilo forense l’esame valutativo dei fattori di rischio e di protezione permette una base di discussione forense su criteri scientifici a partire dalla complessità della valutazione del soggetto a rischio di CVP. La sola valutazione (o peggio la mancanza di valutazione) dei fattori di rischio può innescare, come spesso capita nelle aule giudiziarie, una base di discussione forense accusatoria nella quale lo psichiatra, almeno inizialmente, è imputato di aver dimenticato, sottovalutato, non capito, etc. la moltitudine di fattori di rischio che il soggetto presentava (spesso trovati col senno del dopo). 2. In secondo luogo la valutazione con metodologia clinica deve anche essere rivolta alla attualità e concretezza del rischio di CVP. Deve cioè poter evidenziare il pericolo attuale (al momento dei fatti per cui si procede e non prima o dopo) e concreto (non possibilità teoriche ma probabilità reali: in campo forense non tutto è possibile ma solo qualcosa è probabile) che il paziente metta in atto un CVP. E’ necessario che il risultato delle valutazioni venga riportato nel diario clinico come documentazione di buona pratica clinica e per la tutela forense dello psichiatra. La metodologia attuariale è importante per la ricerca clinica e scientifica e per il perfezionamento della formazione psichiatrica. Tuttavia allo stato attuale delle conoscenze, in ragione del valore statistico generale e non individuale, delle difficoltà di soddisfare ai numerosi criteri di validazione dei reattivi mentali, dei questionari, delle schede di rilevazione, etc. detta metodologia non presenta carattere forense di indispensabilità nella valutazione della responsabilità professionale particolarmente in presenza di ipotesi cliniche di ricerca da convalidare con ulteriori studi e con evidenze cliniche condivise comprovate da pubblicazioni scientifiche nazionali ed internazionali e dall'avvallo di accreditate Società Scientifiche. Quanto precede non esclude (soprattutto a livello di ulteriore garanzia del buon operato clinico ed in specifici contesti istituzionali forensi) un uso complementare della metodologia attuariale. Si tratta in questi casi, di utilizzare una 17 metodologia clinica semistrutturata: méthode clinique semi-structurèe (2) nella quale il metodo clinico è accompagnato dal metodo attuariale con funzione di integrazione e di particolare attenzione a numerose e specifiche variabili. L’esame clinico del soggetto a rischio di CVP può essere corredato con vari mezzi attuariali che aiutano a valutare specifici aspetti del CVP. Ad esempio HCR-20 (Historical Clinical Risk Management 20 Item Scale); VRAG (Violence Risk Appraisal Guide); SORAG (Sex Offenders Risk Appraisal Guide); SAVRY (Structured Assesment of Violent Risk in Youth); etc. Con il progredire della affidabilità scientifica della metodologia attuariale la valutazione ed il trattamento del CVP saranno sempre più approfonditi ed adeguati al singolo caso clinico, alla richiesta di obiettività in campo forense e ad iniziative di screening su specifici campioni di soggetti. Tuttavia, nonostante il desiderio profondamente umano e comprensibile di poter disporre di uno strumento obiettivo per valutare e discriminare, con precisione, obiettività e senza errore, il soggetto che metterà in atto un CVP da quello che non metterà in atto un CVP, è da considerare il fatto scientifico e forense che, purtroppo, questo strumento (scale cliniche, questionari auto od etero somministrati, reattivi mentali, esami di laboratorio, diagnostica per immagini, etc.) non esiste allo stato attuale. Quanto precede non autorizza lo psichiatra a comportamenti puramente ed esclusivamente omissivi o ad una totale inerzia nei confronti del CVP che è pur sempre da valutare alla luce della prevedibilità, evitabilità, e del potere/dovere di intervento. 3b Necessità di adottare misure cautelative per ridurre il rischio del CVP se è presente. Le misure preventive di cautela non possono essere applicate sempre ed indiscriminatamente a tutti i pazienti con il massimo grado di intensità e frequenza, ma vi si deve ricorrere: 1) se il rischio è presente, attuale e concreto 2) in relazione alla gravità del rischio del singolo soggetto al momento dell’esame clinico 3) in conformità al contesto di risorse disponibili al momento dei fatti. 18 4 Esistono fattori di rischio e fattori protettivi del CVP Gli studiosi hanno messo in luce, su estesi campioni di soggetti, fattori che, a livello statistico e con maggiore frequenza di altri, appaiono legati al rischio di mettere in atto un CVP od alla protezione di mettere in atto un CVP, sia nella popolazione generale che in popolazioni più specifiche (2,7). Questi fattori sono oggetto di differenti classificazioni a seconda degli autori. In relazione agli obiettivi del presente scritto possono essere classificati in tipologie che, pur non essendo mutualmente esclusive, presentano una facilitazione al loro utilizzo forense. In considerazione dei limiti di questo approccio i fattori di rischio di CVP possono essere suddivisi nelle seguenti tipologie (2): a) Tra i fattori socio demografici sono da considerare il sesso (i maschi sono circa il 90%: nettamente prevalenti sulle femmine: (13,14); l’età (meno di trenta o quaranta anni (15); il celibato (i celibi sono più a rischio degli sposati, di quelli che vivono in coppia od in famiglia. (16,17); lo stato economico (basso livello economico) (14,18,19) ed in particolare l’isolamento sociale, la scarsa fruibilità di aiuti sociali, l’esposizione a sottoculture di violenza (20,21). b) tra i fattori personali è da segnalare il tipo di famiglia (più a rischio famiglie permissive e valorizzanti il comportamento violento (22); famiglie maltrattanti fisicamente e psicologicamente (23-25) e gli antecedenti comportamenti violenti (precedenti atti criminali di violenza e delinquenza minorile precoce (16,25,26). c) tra i fattori legati all’abuso di sostanze voluttuarie è da segnalare che l’abuso di alcool e di droghe (17,27-31), aumenta il rischio di commettere comportamenti violenti. Da sottolineare che la comorbidità (contemporanea presenza) di abuso di alcool e di droghe e disturbo mentale grave aumenta di circa il doppio (da 3,4 ad 8 nel caso di schizofrenia o disturbo dell’umore) il rischio di un comportamento violento legato solo al disturbo mentale grave (32,33). d) I fattori legati al disturbo mentale sono continuo oggetto di ricerca e diatribe scientifiche attraverso approfondimenti e specificazioni sempre più sofisticati con 19 metodologie attuariali, integrazioni tra sociologia e psicologia del profondo, e con nuovi mezzi di diagnosi. Con i limiti che precedono è possibile ipotizzare , per ulteriori ricerche di verifica, quanto segue. a) non tutti i disturbi mentali aumentano il rischio di CVP (2) b) nei disturbi mentali gravi il rischio di CVP è moderatamente più elevato in rapporto alla popolazione generale (7,13,31,34,35) c) i disturbi mentali gravi non permettono, da soli, di prevedere il CVP ma devono essere accompagnati da altri fattori di rischio. Ad esempio (36) da: 1) fattori predittivi storici (pregressa violenza, detenzione minorile, abuso fisico, etc.); 2) fattori clinici (abuso di sostanze, minacce percepite, etc.); 3) fattori disposizionali (età, sesso, reddito, etc.); d) fattori contestuali (recente divorzio, disoccupazione, etc.). d) i disturbi mentali presentano, tra loro, un rischio differenziato di CVP (2,37,38). Ad esempio un disturbo di personalità psicopatico o borderline aumentano il rischio di CVP in misura maggiore di altri disturbi di personalità (39-41). e) la contemporanea presenza di gravità e quantità di sintomi psichiatrici (deliri a contenuto persecutorio, mistico di influenzamento vissuti con persistenza e passionalità; allucinazioni uditive a comando vissute acriticamente e con impulsività; forti componenti depressive vissute con fantasmi di violenza e disorganizzazione del pensiero in soggetti violenti; etc.) con la presenza di fattori di rischio di CVP presenti in soggetti senza disturbo psichico (precedenti criminali, abuso di alcool o droghe, etc.) aumenta il rischio di CVP (42). f) i soggetti con psicosi, anche nei sottogruppi considerati più a rischio, esaminati nelle migliori condizioni, non permettono di isolare fattori di rischio di CVP (un numero significativo di veri positivi: true positive) validi per il trattamento o ai fini della protezione di terzi (43). e) i fattori legati al trattamento mettono in luce l’aumento del rischio per la non aderenza alle cure (44); la brusca interruzione della terapia (45-47); la mancanza di alleanza terapeutica o la presenza della pseudo-alleanza terapeutica e cioè una 20 alleanza terapeutica non autentica ma fondata sul timore dei curanti di non contrariare il paziente per timore di perderlo; la incapacità del paziente di chiedere aiuto in modo facilmente comprensibile per gestire la sua situazione di crisi (22); la mancanza di comprensione del paziente dell’esistenza di problemi psichici alla base delle sue sofferenze (48); la presenza di conflittualità o di violenza con l’ambiente sociale o con i curanti (48). f)I fattori circostanziali possono aumentare il rischio di comportamento violento (rotture reali od immaginarie di legami affettivi, situazioni di conflitto acuto o cronico con familiari, reali o percepiti tracolli finanziari, problemi o licenziamenti dal lavoro, etc.) (49) soprattutto se si accompagnano a sentimenti di essere chiusi in trappola senza soluzioni alternative (sentiment d’impasse situazionel) (4,48-50). g) I fattori legati alla recidiva possono essere valutati con diverse metodologie. L’esame per sottogruppi mette in luce gruppi di soggetti con specifiche caratteristiche ad esempio pazienti con tripla diagnosi e cioè schizofrenia, abuso di alcool e disturbo antisociale di personalità (51) Un’altra metodologia è mettere in luce i fattori più frequenti nella recidiva criminale ad esempio i grandi otto (the big eight): 1) precedenti criminali; 2) personalità antisociale; 3) cultura criminale; 4) frequentazione di criminali; 5) problemi familiari o di coppia; 6) problemi a scuola o sul lavoro; 7) mancanza di interessi ricreativi rispettosi della salute fisica e psichica ; 8) abuso di alcool o droghe. I fattori protettivi del CVP sono trattati in vario modo dalla letteratura. a) In primo luogo sono deducibili dai fattori di rischio: fattori socio-demografici; fattori personali; fattori legati all’abuso di alcol e di droghe; fattori legati al disturbo mentale; fattori in relazione al trattamento; fattori circostanziali; fattori legati alla recidiva. b) A livello più generale di prevenzione possono essere considerati fattori protettivi del CVP tutti gli interventi psicosociali per meglio gestire le situazioni di crisi che possono sfociare in comportamenti violenti sulla persona (disponibilità di servizi di ascolto e di aiuto per situazioni di crisi; fruibilità di servizi sociali e di salute mentale; collaborazione stretta e specifica tra sistema della giustizia e psichiatria (ad esempio magistrati esperti in criminalità e malattia 21 mentale - Mental Health Court- o in grado di disporre misure trattamentali quali la obbligatorietà della cura dei soggetti a rischio - Legal Levelage -, etc.). c) A livello più settoriale, per la prevenzione della recidiva in soggetti con disturbo mentale, sono spesso utilizzati fattori sia legati alla terapia del disturbo psichico (aderenza alla farmaco e psicoterapia, introspezione sulle proprie difficoltà e fragilità psichiche, capacità di richiedere aiuto, disponibilità alla alleanza terapeutica, capacità di mediare col sociale, etc.) che alla capacità di gestione della violenza (capacità di riconoscere la propria violenza ed i fattori scatenanti; empatia, pensieri ed atti di riparazione nei confronti della vittima; sentimenti di colpa personale e di responsabilizzazione personale per l’evento di violenza; capacità di ventilare e di gestire emotivamente sentimenti di rabbia, frustrazione, vendetta, odio, senza impulsivi passaggi all’atto violento; capacità di mentalizzare penosi stati d’animo senza passaggi all’atto impulsivi; di padroneggiare tecniche di problem solving (saper risolvere i problemi della vita di relazione), know how (conoscenza tecnica del come fare per ottenere un risultato ricercato), talk down (saper ridurre gli stati emozionali che turbano la tranquillità psichica e comportamentale), etc. nell’ambito della mediazione con problemi sociali od interpersonali; etc.). d) è stata inoltre sottolineata la ricerca di fattori di protezione più specifici al campo forense. Ad esempio (52,53): supporto sociale presente ed adeguato, legami affettivi forti e stabili, investimenti emotivi positivi in figure di autorità, tratti di personalità con buona capacità di resilienza, esistenza di un legame terapeutico, buona aderenza al trattamento, contesto familiare o di terapia accettante ed accettato. e) i fattori di protezione sono stati anche oggetto di scale di valutazione. Ad esempio nel Coding sheet SAPROF : protective factors for violent risk, sono stati considerati : a. fattori interni (buon livello di intelligenza, stile di attaccamento sicuro nella infanzia, capacità di empatia, capacità di gestire i problemi, capacità di autocontrollo) b. fattori motivazionali (presenza di attività lavorativa, uso creativo del tempo libero, capacità di gestirsi economicamente, motivazioni al 22 trattamento, buon atteggiamento verso le figure di autorità, presenza di obiettivi di vita, assunzione dei farmaci) c. fattori esterni (presenza di soddisfacenti relazioni sociali, relazioni affettive privilegiate valide, attenzione e cura di una propria professionalità, circostanze di vita favorevoli, presenza di controlli esterni) Questa scala di valutazione, che deve essere usata in complemento con altre scale e con l’esame clinico, permette, secondo il suo razionale, un giudizio graduato della valutazione del rischio di violenza da: basso, basso-moderato, moderato, moderato-alto, alto. Tutti i fattori di rischio e di protezione dal CVP presentano le caratteristiche che seguono. 1. Hanno valore statistico su grandi numeri, ma non hanno validità forense (di obiettività, di contestualità, etc.) applicati da soli od associati, sul singolo caso clinico. 2. Non hanno valore causale diretto, da soli od associati, nel singolo caso clinico. Possono cioè essere presenti uno o più fattori di rischio ed il soggetto non mette in atto alcun CVP o possono essere presenti uno o più fattori di protezione ed il soggetto può mettere in atto un CVP. 3. Sono oggetto di continue revisioni ed approfondimenti clinici e appartengono alle ipotesi cliniche di ricerca e non alle evidenze cliniche condivise. 4. Non sono validi per tutti i soggetti in tutte le circostanze. Ad esempio debbono essere considerati in relazione all’età del soggetto (ragazzi, giovani, adulti, etc.); all’ambiente (carcere, struttura di pronto soccorso, comunità terapeutica, assistenza sul territorio); etc. 5. Hanno significato ed utilizzo diverso in rapporto ad un approccio terapeutico (mirato alla beneficialità del paziente, miglioramento della qualità di vita, etc.) o forense (mirato alla documentazione di resposabilità, etc.). 6. Debbono sempre essere contestualizzati nella irripetibile unicità di variabili biopsico –sociali del caso clinico in esame. 7. Debbono sempre essere valutati nel loro aspetto dinamico e cioè variabile nel tempo per quanto concerne gravità, persistenza, intrusività, interattività e comorbilità nel singolo caso clinico. 23 8. Debbono sempre essere valutati nel complesso rapporto tra fattori che aumentano il rischio e fattori che proteggono dal rischio di mettere in atto un CVP contestualizzati nel loro aspetto dinamico nel singolo caso clinico. 4a. Utilizzo clinico e forense dei fattori di rischio e di protezione in tema di CVP. La buona pratica clinica dello psichiatra con il paziente a rischio di CVP impone la valutazione dei fattori di rischio e dei fattori protettivi e la loro reciproca interazione. Questa valutazione (risk formulation) (7) deve essere puntualmente registrata, con chiarezza ed obiettività, in cartella clinica. Con questa modalità di approccio, di buona pratica clinica documentata, sono raggiunti importanti obiettivi: 1. la beneficialità del paziente la cui situazione clinica è valutata con attenzione sia nei fattori di rischio che di protezione. Su entrambi può essere indirizzato l’intervento terapeutico; 2. la documentazione obiettiva di buona pratica clinica adottata dallo psichiatra che ha agito con perizia, diligenza e prudenza illustrando la complessità dei fattori presenti nella valutazione del rischio di mettere in atto un CVP. In questo senso, sottolineiamo, l’impianto accusatorio formulato contro lo psichiatra per non aver valutato in modo corretto la presenza dei fattori di rischio di CVP, quando fatto senza opportune basi scientifiche di discussione e senza la contestualizzazione del caso clinico per cui si procede, trova precise risposte nei seguenti punti: 1. I fattori di rischio sono stati valutati in relazione ai fattori protettivi: a volte i fattori protettivi possono essere equivalenti o più importanti dei fattori di rischio; 2. Lo psichiatra non può intervenire con risultati immediati sui fattori di rischio stabili permanenti come il sesso, l’età, i precedenti atti di CVP, etc. 3. Lo psichiatra non può prevedere nel singolo caso clinico gli eventi circostanziali del rischio di CVP. Ad esempio l’improvviso abbandono o tradimento del paziente da parte del coniuge, etc. 4. Lo psichiatra non è in grado di controllare in modo minuzioso e costante nel tempo caratteristiche psichiatriche del soggetto a rischio di CVP come ad esempio la impulsività, l’aderenza al trattamento farmaco terapico o psicoterapico, il tipo di alleanza terapeutica, etc. 24 Come i fattori di rischio debbono essere valutati in modo corretto sotto l’aspetto scientifico e forense anche i fattori protettivi debbono essere valutati con criteri scientifici e forensi. A prescindere da questa corretta metodologia di valutazione e dalla doverosa speranza nella ricerca attraverso un approfondimento scientifico sempre più beneficiale per il soggetto a rischio di CVP, rimane la constatazione, sottolineata da una delle linee guida più usate dagli psichiatri (7) che i fattori legati al rischio di violenza sono ancora incerti e non esiste allo stato attuale una metodologia di valutazione del rischio che sia la più affidabile (it remains uncertain which factors are associated with violence and how to best asses risk ). 4b. Non validità clinica e forense del ragionamento basato sul accattonaggio dei sintomi e dei fattori di rischio e sulla causalizzazione del fattore di rischio. Il giudizio in tema di responsabilità professionale dello psichiatra in merito al CVP messo in atto dal paziente si basa sul presupposto clinico e forense che i fattori di rischio e di protezione, intesi in senso lato, debbano essere valutati tenendo conto delle loro criticità e della loro contestualizzazione nel caso specifico e, sottolineiamo ancora, della loro attualità e concretezza. A) Attualità significa che la valutazione del rischio deve essere in relazione all’esame psichiatrico al momento delle decisioni per cui si procede. Se un paziente ha messo in atto un CVP (ad esempio una grave lesione personale) all’età di 16 anni ed al momento dei fatti per cui si procede ne ha 40, pur senza cancellare dalla sua anamnesi il passato, l’esame valutativo deve essere condotto, in quanto a significatività clinica e forense, sulle variabili attuali e cioè da quanto risulta dall’esame psichiatrico al momento delle decisioni per cui si procede (che può accordare un valore non sempre eguale al CVP messo in atto a 16 anni). Il fatto che un paziente abbia messo in atto un CVP a 16 anni non può etichettarlo o marchiarlo per tutto il resto della sua vita come paziente a rischio di CVP e, soprattutto, non deve giustificare misure cautelari mediche, psichiatriche o giuridiche nei suoi confronti continuate per tutta la sua vita. E’ necessario tenere conto della variabilità nel tempo del rischio di CVP, della sua ambivalenza, del suo interagire dinamico con altri fattori anch’essi mutevoli nel tempo, del variare delle condizioni che lo hanno determinato sia personali che sociali. 25 B) Concretezza sta a significare che il rischio non deve essere teorico o semplicemente possibile, ma debbono essere presenti variabili che depongano per una reale probabilità e prevedibilità. C) Contestualizzazione significa, in pratica, che lo psichiatra deve prendere in esame i fattori di rischio e protezione specifici per quello specifico paziente in quella specifica circostanza psicosociale. Questa contestualizzazione assicura la miglior beneficialità al paziente ed assicura, se adeguatamente documentata in cartella clinica anche con la condivisione di altri operatori della salute mentale, l’adozione, anche sotto l’aspetto forense, di una buona pratica clinica. Sulla base di queste premesse l’accattonaggio dei sintomi e dei fattori di rischio (in analogia a quanto fanno gli accattoni quando raccolgono tutto ciò che trovano prescindere dalla utilità) e cioè la raccolta anamnestica indifferenziata, relativa a tutta la vita del soggetto, di sintomi psichiatrici e/o di fattori di rischio di CVP sulla cui base si costruisce, indipendentemente dall’esame psichiatrico al momento dei fatti per cui si procede, l’affermazione che nell’attualità e concretezza il soggetto presentava al momento dei fatti un grave rischio di CVP, è errata ed inaccettabile sotto il profilo clinico e forense. La causalizzazione del fattore di rischio consiste nell’attribuzione, erronea sotto il profilo clinico e forense, dei requisiti di causalità ad uno o più fattori di rischio. In altre parole si confonde il concetto di rischio del CVP con il concetto di causa del CVP. I requisiti di causalità (come sarà ulteriormente sottolineato nella causalizzazione dell’errore irrilevante descritta in seguito) debbono essere valutati alla luce di adeguatezza della causa, di rischio consentito, di evoluzione naturale, etc. oltre l’applicazione dei criteri di base ad esempio di prevedibilità e di probabilità. I fattori di rischio debbono sempre essere valutati in rapporto ai limiti clinici e forensi di ognuno, delle loro interazioni ed in rapporto ai fattori protettivi sempre contestualizzati in uno specifico caso clinico. Per meglio comprendere le conseguenze cliniche e forensi dell’errore della causalizzazione dei fattori di rischio è utile considerare alcune importanti evidenze cliniche condivise. La prima è che le linee guida NICE (7), punto di repere internazionale per la buona pratica clinica, illustrano 44 fattori di rischio di violenza rispettivamente suddivisi in: a) demografici e di premorbidità (10 fattori); b) criminologici (6 fattori); c) psicopatologici (19 fattori); d) in relazione al trattamento (7 fattori); e) abuso di sostanze (1 fattore); suicidarietà (1 fattore). A corollario di questa osservazione è da segnalare che in un colloquio psichiatrico standard e cioè 26 normale nella pratica clinica (con utilizzo di una metodologia clinica) possono essere prese in considerazione almeno 89 fattori di rischio di comportamento violento (52) cosi suddivisi: infanzia del soggetto (14 fattori); precedenti criminali (5 fattori); stato mentale (28 fattori), stile di vita e socialità (13 fattori); situazione precriminale (9 fattori); caratteristiche della vittima virtuale (12 fattori); trattamento (8 fattori). Con l’utilizzo di una metodologia attuariale è stato costruito uno strumento di misura del rischio di comportamento violento (ICT: Iterative Classification Tree (54), formato da 134 fattori di rischio. Infine è da segnalare che una tra le più accreditate meta-analisi che ha esaminato la letteratura scientifica in tema di rischio di comportamento violento ha messo in luce, in 110 studi su 45.000 soggetti, 146 fattori di rischio di violenza (55). Questa stessa metaanalisi ha messo ulteriormente in luce che il fattore statico più significativo per il rischio di CVP e’ stata la storia criminale ridimensionando quindi, come è possibile rilevare anche dagli studi precedentemente citati, l’importanza, relativa e modesta, del disturbo psichico come fattore di rischio. Attribuire quindi, in modo errato, valore di causa ai fattori di rischio, equivarrebbe a stabilire i presupposti sul piano forense, per incriminare e condannare tutti gli operatori della salute mentale che sono stati implicati nella assistenza ad un soggetto che ha messo in atto un CVP: sarebbe quasi impossibile non trovare per ogni evento di CVP uno o più fattori di rischio che non siano contemplati tra i 44, gli 89, i 134 od i 146 descritti dalla letteratura. 5 Non esistono farmaci con l’indicazione di guarire il CVP La terapia farmacologica del CVP è ricca di criticità. 1. In primo luogo non esistono in medicina, e quindi in psichiatria, farmaci che guariscano comportamenti multideterminati. I farmaci agiscono sul singolo sintomo o su un insieme di sintomi e non su eventi multideterminati nei quali la componente biologica o psichiatrica è assente o trascurabile come qualità o 27 quantità. Non esistono farmaci che nella scheda tecnica o nel foglietto illustrativo indichino specificamente di guarire il CVP. 2. Per il comportamento aggressivo e violento non si individua un trattamento farmacologico elettivo, non essendo un sintomo di specifiche entità nosografiche (ad esempio schizofrenia, disturbi dell’umore, etc.), ma essendo un aspetto del comportamento umano presente in ciascun individuo e quindi, trasversalmente, anche in ogni disturbo psichiatrico (56) 3. In ambito psichiatrico il farmaco agisce sul sintomo (non sempre eliminandolo totalmente) e tra il sintomo e il CVP vi è la complessa valutazione dei requisiti della causalità e del nesso causale che deve essere esaminata alla luce della multideterminatezza dell’evento. Ad esempio l’agitazione psicomotoria è un sintomo che può essere aggredibile farmacologicamente, ma la maggior parte dei casi di CVP non avviene in corso di agitazione psicomotoria di competenza psichiatrica. E’ inoltre da sottolineare, sempre in tema di rilevanza forense dello stato di agitazione psicomotoria, che gli stati emotivi e passionali che la possono stimolare o condizionare, non influiscono, in senso forense, sulla capacità di intendere e di volere ai sensi degli art. 88 ed 89 c.p. In particolare, sempre in tema della complessità eziologica e clinica della agitazione psicomotoria, non può essere sempre ed indiscriminatamente usato, in modo acritico, un trattamento massivo farmacoterapico (ad esempio neurolettizazione rapida, tranquillizzazione rapida, etc.) per evitare un CVP. 4. Il farmaco agisce esclusivamente sui sintomi e spesso su sintomi specifici quali irritabilità, agitazione, ansia, rabbia, impulsività, insonnia che nel singolo caso clinico non sono necessariamente in nesso causale con la complessa dinamica biopsicosociale e situazionale del CVP. Inoltre questi sintomi rappresentano fattori di rischio addizionali (additional risk factors) in quanto largamente diffusi tra la popolazione generale e psichiatrica e, se non contestualizzati in modo adeguato, perdono il loro valore predittivo di fattori di rischio in tema di CVP. La discussione con il senno del dopo non è valida per la valutazione delle variabili al momento dei fatti per cui si procede. 5. I sintomi su cui agisce il farmaco non sono, spesso, entità semplici, indivisibili e non approfondibili a livello scientifico: possono infatti essere sottoposti a dissezione (l’aggressività può essere scorporata in autodiretta od eterodiretta), a 28 riunione (più sintomi possono essere riuniti nel concetto di nevroticismo), a strutturazioni in reti (net-work con sintomi nucleari e periferici), ecc. I sintomi non sono nello stesso soggetto o nello stesso disturbo psichico sempre stabili ed esclusivi: possono variare col variare della malattia, raggrupparsi in dimensioni psicopatologiche variabili nel tempo, essere transdiagnostici e cioè presenti in differenti disturbi mentali, ecc. Possono presentare, secondo le attuali conoscenze scientifiche, una eziologia non univoca e legata ad una specifica psicopatologia: l’attività delirante non è esclusivamente legata alla psicopatologia della schizofrenia e non riconosce, a livello di ipotesi cliniche, una sola eziologia (ipotesi della salienza aberrante; della verbalizzazione metaforica o simbolica di una vita interiore; del meccanismo psicologico di difesa da un percepito sociale frustrante, incontrollabile ed inaccettabile; della proiezione gratificatoria o giustificatoria di bisogni e paure primarie; etc). In altri termini le conoscenze attuali non permettono ancora di realizzare il desiderio di molti studiosi di poter considerare i sintomi psichiatrici come specifiche alterazioni biochimiche cui potrebbero corrispondere specifici farmaci che le normalizzerebbero. Allo stato attuale questa complessità del sintomo, diagnostica ed eziologica, è un elemento che complica ulteriormente l’azione del farmaco nel singolo caso clinico. 6. Ai fini di una sempre maggior beneficialità del paziente nell’ambito di una buona pratica clinica nella gestione del farmaco (e di una comprensione scientifica più approfondita in campo forense in tema di rischio-beneficio nella prescrizione del farmaco) è utile conoscere i disturbi indotti dai farmaci. Si tratta di reattività avverse al farmaco (DSM5) che possono interessare la medicina internistica, il sistema nervoso autonomo, l’esecuzione dei movimenti, la sensorialità e gli aspetti psichiatrici con la creazione di sintomi psichici nuovi e disturbanti la qualità di vita del paziente (oltre i sintomi già presenti per i quali è stata instaurata la terapia). Questi disturbi indotti da farmaci (Adverse drug reactions) sono molteplici, ancora oggetto di approfondimenti scientifici, possono essere specifici per un singolo farmaco ed essere modulati da una specifica reattività, non sempre o facilmente prevedibile a livello clinico e forense, del singolo soggetto. Ad esempio la somministrazione di farmaci antidepressivi può, in certe condizioni, indurre le seguenti reazioni avverse: Sindrome apatico-amotivazionale da antidepressivi (Antidepressant Apathy Syndrome; Apathy Syndrome; Amotivational Syndrome, SSRI-Induced Indifference,SSRI-induced apathy 29 syndrome, Antidepressant–Induced Apathy Syndrome, ecc); Sindrome da discontinuità da antidepressivi (Antidepressant Discontinuation Syndrome); Sindrome Serotoninergica (Serotonergic Syndrome, Serotonin Syndrom, Serotonergic Disorders); Sindrome Anticolinergica (Anticholinergic Syndrome); Tremore posturale indotto da antidepressivi (Medication-Induced Postural Tremor); Sintomi extrapiramidali da Sindrome serotoninergica da antidepressivi (Extrapiramidal Reactions Associated with Serotoninergic Antidepressant); Disfunzioni della sessualità: desiderio sessuale, orgasmo, eiaculazione, erezione (Antidepressant-induced sexual dysfuction); Viraggio del sintomo (swicht); Induzione di sintomi extrapiramidali (SSRI-Induced EPS, Akathisia and Dyskinesia); Alterazioni cardiovascolari (Cardiovascular Effects of Serotonin); Aumento del rischio suicidario (Antidepressant and Suicidality) ecc. Per citare un altro esempio la somministrazione di antipsicotici può provocare: Sindrome Maligna da neurolettici (Neuroleptic Malignant Syndrome); Sindrome Maligna da neurolettici Atipica (Atypical Neuroleptic Malignant Syndrome), Catatonia e Catatonia Maligna (Catatonia, Malignant Catatonia); Parkinsonismo indotto da neurolettici (Neuroleptic-Induced Parkinsonism), Psicosi da supersensitività da antipsicotici (Supersensitivity psychosis, Antipsychotic induced dopamine supersensitivity Psychosis), discinesie tardive (Tardive Dyskinesia), distonie acute e tardive (Acute Tardive Dystonia), Acatisia acuta e tardiva (Acute, Tardive Akathisia); Accentuazione dei sintomi negativi; Incidenti cardio-vascolari ( torsade de pointes : transient or sustained); Alterazioni metaboliche (Methabolic side effects. Diabetes mellitus. Metabolic Syndrome); Disfunzioni sessuali da Antipsicotici (Sexual Dysfunction Induced by Antipsychotics); ecc 7. La constatazione clinica e forense che un farmaco non agisce su tutte le persone con le stesse modalità e che non sia sempre noto, a livello scientifico, perché in certi gruppi di persone il farmaco abbia gli effetti desiderati ed in altri gruppi di persone no e, addirittura, presenti effetti indesiderati, ha messo in moto varie strategie terapeutiche per affrontare queste criticità. Tra le varie strategie che mirano a personalizzare l’azione del farmaco su di uno specifico soggetto o su uno specifico sintomo con un preciso correlato biologico sono da considerare aspetti della Medicina di genere (Gender Medicine) che mette in luce le differenze, a livello di farmacoterapia, tra sesso maschile e femminile; aspetti 30 della Medicina di precisione o Medicina Personalizzata (Precision Medecine, Personalizaled Medicine) che ricerca la disponibilità di farmaci mirati verso forme di malattia di cui è nota una precisa componente genetica; aspetti della Medicina Traslazionale (Translactional Medicine) in cui una parte della ricerca traslazionale in medicina (RTM) è dedicata alle basi biologiche del disturbo che possono fornire il fondamento scientifico per lo sviluppo ed il miglioramento di nuove terapie farmacologiche con un rapido passaggio applicativo dalla scienza di base alla clinica. Si tratta di strategie, attualmente in studio, che, nelle aspettative, dovrebbero fornire, attraverso una sempre più stretta aderenza tra basi biologiche del disturbo da curare e farmaco che cura una sempre maggiore funzionalità del farmaco. 8. Tra le strategie terapeutiche che mirano ad ottenere, in modo primario, un generico beneficio alla salute fisica e psichica del soggetto sono attualmente in corso ricerche attraverso la Medicina che studia i Nutraceutici (Pharma-food) e cioè quei principi nutrizionali (probiotici, vitamine, integratori, etc.) che influiscono favorevolmente sui processi biologici degli individui. Anche in questo caso si tratta di ricerche in fase di approfondimento scientifico. 9. Non esiste in medicina, ed a maggior ragione in psichiatria, il farmaco perfetto che agisce su ogni individuo, sul sintomo nella sua totalità, che guarisce subito e completamente, che protegge per sempre da ricadute o da evoluzioni sfavorevoli del disturbo e, soprattutto, che non presenta rischi unitamente a benefici 10. Per quanto concerne la farmacoterapia, sulla base delle evidenze cliniche, è possibile mettere in luce quanto segue sulle criticità legate non al farmaco perfetto quanto al farmaco nella sua utilizzazione assistenziale quotidiana e nel suo funzionamento reale. Sul problema della relazione tra diagnosi e terapia farmacologica è da segnalare che in psichiatria è possibile formulare diagnosi, su di uno stesso individuo, che partono da differenti presupposti dottrinali (diagnosi categoriali, prototipiche, dimensionali, dinamiche, fenomenologiche, psicoanalitiche, narrative, etc.) che non implicano, anche nello stesso caso clinico, l’adozione della stessa terapia farmacologica. E’ inoltre da sottolineare che in psichiatria esistono numerosi manuali di classificazione dei disturbi psichici : DSM5 (Diagnostic and Statisical Manual of Mental Disorder) e ICD-10 (International Classification of Diseases) che privilegiano una descrizione categoriale statistica del disturbo mentale; PDM (Psychodynamic Diagnostic 31 Manual) che privilegia un aspetto diagnostico psicodinamico e psicoanalitico; RDoC (Research Domain Criteria) che privilegia l’aspetto della ricerca neuroscientifica legata al disturbo mentale; etc. Si tratta di manuali che, pur non eguali nella impostazione metodologica, ma passibili di integrazione reciproca, rappresentano un valido aiuto alla ricerca scientifica nell’approfondire l’eziologia, la diagnosi e la terapia del disturbo psichico. 11. Nello stesso individuo possono poi coesistere differenti disturbi psichici (comorbilità anche con disturbi medici organici, abuso di sostanze, etc.) che rendono ulteriormente più complessa l’adozione di una terapia farmacologica univoca e specificamente mirata. La mutevolezza dei sintomi nel tempo, la loro comunanza con disturbi psichici diversi, la presenza di sintomi di durata estremamente breve che scompaiono senza lasciare traccia, la ridotta visibilità dei sintomi di esordio dei disturbi psichici, l'aderenza al trattamento del paziente nell'effettuare con regolarità le cure prescritte complicano ulteriormente la farmacoterapia. 12. Inoltre un trattamento farmacologico anche corretto in rapporto alla diagnosi, scelta del farmaco, dose, via di somministrazione ed aderenza del paziente al trattamento non assicura, come afferma unanime la letteratura, una risoluzione del sintomo psichiatrico. Questo concetto clinico e forense è stato recentemente ribadito e chiarito dalla Suprema Corte di Cassazione IV sez. pen. (n. 14766/16) al proposito di un suicido, evento ad eziologia multi determinata come il CVP, di un soggetto con disturbo psichico: In concreto, secondo i canoni della moderna psichiatria, si è fatto ricorso ai farmaci, la cui efficacia terapeutica è notoriamente variabile e non sicuramente prevedibile, non essendo in grado di garantire né la guarigione dei pazienti né l’arresto di progressione della malattia e neppure la prevenzione da gesti auto o etero aggressivi… Il paziente può infatti reagire al farmaco in modo imprevedibile e drammatico rendendo impossibile la somministrazione (intolleranza) non reagire al farmaco (resistenza) e alle varie strategie per vincere la resistenza (ottimizzazione, combinazione, sostituzione, potenziamento, etc.), reagire solo parzialmente (risposta parziale), può presentare complicazioni non prevedibili nel singolo caso clinico (effetti collaterali), il farmaco può provocare reazioni differenti rispetto a quelle che, a livello statistico sono le aspettative terapeutiche (effetti paradossi), può modificare il corso della malattia senza offrire la guarigione (disease-modifying drugs), il farmaco, per 32 motivazioni biologiche legate al singolo individuo, può non funzionare o presentare complicazioni non prevedibili (specificità farmacogenomica), il farmaco, per motivazioni psicologiche legate al singolo individuo, può nella percezione del soggetto, non agire o produrre effetti dannosi (effetto nocebo); il decorso del disturbo psichico può essere caratterizzato da guarigioni incomplete, aggravamenti e ritorno dei sintomi, non prevedibili nel singolo caso clinico ed in modo indipendente dalla correttezza della terapia farmacologica (remissioni parziali, ricadute e ricorrenze), il farmaco può interagire con altri farmaci della cui assunzione lo psichiatra non è stato avvertito o con imprevedibili mutamenti dell’organismo che alterano la farmacocinetica o la farmacodinamica (interazione con altri farmaci o con il substrato biologico). 13. Infine, a livello generale di comprensione della farmacoterapia, è da sottolineare che, sotto il profilo clinico, non esiste il farmaco perfetto che agisce sul sintomo immediatamente, guarisce tutto, per sempre, senza rischi, solo con benefici su tutte le persone indistintamente. Per avere una visione scientifica e clinica corretta dell’azione dei farmaci sui sintomi della schizofrenia (e cioè uno tra i disturbi psichici con maggiori rischi di CVP) è da considerare la evidenza clinica condivisa che gli antipsicotici non danno risposte terapeutiche in questo tipo di psicosi dal 10 al 30 per cento dei casi e che un altro 30 per cento di pazienti presenta solo una risposta parziale (57). E’ da sottolineare che stiamo sempre valutando l’azione del farmaco sul sintomo e non sul CVP. E’ quindi da aggiungere, per una approfondita e realistica valutazione del farmaco, il complesso rapporto, spesso non documentabile od inesistente a livello forense, tra sintomo e CVP. Una recente revisione sistematica della letteratura sulla farmacoterapia del comportamento aggressivo ha evidenziato la debole evidenza clinica della efficacia della varie classi di farmaci (weak evidence of efficacy of various classes was found) (58) confermando le criticità della farmacoterapia in tema di CVP. 14. Sotto il profilo forense, ricordiamo ancora che il disturbo psichico può essere presente od assente nel CVP e quando è presente è sempre necessario dimostrare il suo nesso causale con il CVP. Inoltre il CVP è un evento multideterminato e che, in qualsiasi caso, il disturbo psichico è solo uno tra i tanti fattori che possono aumentare il rischio di CVP che deve essere valutato in relazione ai fattori 33 protettivi. In questo complesso contesto sono da valutare le ulteriori criticità legate alla farmacoterapia del CVP. 15. La disciplina psichiatrica a differenza di altre discipline mediche necessita, a livello forense, per quanto riguarda la farmacoterapia del CVP di una particolare e specifica attenzione alle sue criticità in ragione di una sua maggiore complessità. Ad esempio il CVP non può essere paragonato all’affezione internistica del diabete. Per quest’ultima esistono, a differenza di quanto avviene nel CVP, precisi esami obiettivi condivisi per la diagnosi (ad esempio il livello ematico della glicemia) e specifici farmaci efficaci per la terapia (ad esempio l’insulina). Questo concetto clinico e forense è stato recentemente sottolineato in modo chiaro dalla Corte Suprema di Cassazione, IV sez.pen. (n.14766/16) : E’ fuori discussione che le regole cautelari dell’attività medica presentino, in generale, un tasso elevato di peculiarità e difficoltà, non solo nella fase di verifica e della valutazione, ma anche in quella, più strettamente modale ed operativa, della scelta del percorso terapeutico. Il discorso si pone in termini ancor più problematici con riferimento alla scienza psichiatrica, a fronte della imprevedibilità della condotta che caratterizza talune sindromi e taluni singoli casi, giacché le manifestazioni morbose a carico della psiche sono tendenzialmente meno evidenti e afferrabili delle malattie fisiche, per cui il confine tra trattamento giusto e trattamento sbagliato può almeno in certi casi diventare ancora più incerto che non nell’ambito della generica attività medica. 5a. Necessità di introdurre un fattore di correzione nella valutazione della farmacoterapia per il CVP rispetto ad altre farmacoterapie mediche. La complessità dell’evento multideterminato, la difficoltà di trattare sintomatologie non facilmente obiettivabili con un unico tipo di diagnosi, la complessità e vriabilità del sintomo, i mezzi farmacoterapici non sempre efficaci e non indenni da rischi, il complesso legame clinico e forense di causalità tra sintomo e CVP, etc. implicano l’introduzione di un fattore di correzione (inteso come una particolare attenzione in tema di approfondimento clinico, scientifico e forense) allo scopo di valutare con criticità la reale responsabilità farmacoterapica dello psichiatra. Quanto precede non esclude la doverosa riconoscenza 34 dei meriti della farmacoterapia in tema di cura del disturbo psichico e di miglioramento della qualità di vita del paziente, dell’auspicio di sempre più approfondimenti scientifici della neuro psico farmacologia per la beneficialità del paziente, della necessità di applicare e perfezionare interventi farmaco terapici validi ed adeguati in situazioni psichiatriche croniche ed acute di crisi. Inoltre è da considerare il rispetto che, nella cura del singolo paziente, deve essere accordato alla psicoeducazione al farmaco ove evidenze scientifiche sono gestite alla luce della comunicazione, nella gestione della alleanza terapeutica, della speranza di miglioramento o di guarigione mirata alle caratteristiche personologiche in uno specifico contesto di realtà psicosociale e di vissuti emotivi personali. 5b. Non validità clinica e forense della pubblicità ingannevole del farmaco miracoloso e della causalizzazione dell’errore non rilevante . Non raramente la centralità della discussione sulla responsabilità professionale dello psichiatra ha come oggetto la prescrizione farmacologica impostata sulla percezione del farmaco perfetto ed indispensabile per evitare il CVP. Questa concezione di farmaco perfetto in grado di guarire un evento multifattoriale come il comportamento violento sulla persona non è solo presente nelle fantasie popolari, ma anche in operatori della salute mentale e, seppure in modo più sofisticato meno palese e più razionalizzato, anche in periti e consulenti senza valida esperienza clinica nell’assistenza farmacologica a specifiche tipologie di pazienti. Accanto alla semplicistica affermazione: è violento perché è malato di mente, esiste la altrettanto errata affermazione: era sufficiente somministrare un farmaco adeguato e non avrebbe messo in atto un CVP. Si tratta di una sorta di pubblicità ingannevole sul farmaco che deve sempre essere valutata tenendo conto della sue criticità. Un’altra osservazione psichiatrico forense che si può fare derivare da quanto precede, è attribuire ad un eventuale errore nell’operato dello psichiatra (che può essere presente ma ininfluente ed irrilevante ai fini dei requisiti della causalità e dell’aumento del rischio suicidario: ad esempio in termini di adeguatezza della causa, di rischio consentito, di evoluzione naturale, ecc), un requisito di causalità (causa o concausa) o un rapporto di causalità (nesso di causalità) col CVP (causalizzazione dell’errore irrilevante). In tema di responsabilità dello psichiatra per presunto errore farmacologico non è, quindi, accettabile, sotto l’aspetto clinico, scientifico e forense, l’accusa superficiale che si limita ad affermare, senza copertura scientifica specifica sul caso, senza evidenze cliniche 35 scientifiche e senza disamina critica contestualizzata, che lo psichiatra: non ha dato il farmaco che avrebbe evitato il CVP. Ovvero: ha dato il farmaco che ha scatenato il CVP. Ovvero: ha sbagliato a somministrare, a scalare o sospendere il farmaco e quindi il paziente ha messo in atto un CVP. Chi formula l’accusa è tenuto ad essere chiaro, circostanziato e documentato. Affinché l’accusa possa essere presa in considerazione deve precisare, secondo parere motivato (giustificato da adeguata copertura scientifica e non una semplice opinione personale) ed in rapporto alla causalità omissiva o commissiva, quale avrebbe dovuto essere la scelta farmacologica corretta e motivare l’esistenza o meno del nesso di causalità (ad esempio attraverso il ragionamento contro fattuale: se il paziente avesse fatto la terapia corretta che io suggerisco sulla base di una copertura scientifica il CVP si sarebbe verificato?) In particolare sulla base dei loro doveri il perito e il consulente devono precisare il tipo di farmacoterapia da loro ritenuta corretta: 1. il tipo specifico di farmaco; 2. la dose; 3. la via di somministrazione; 4. la durata della somministrazione; 5. le percentuali di intolleranza e di resistenza al farmaco in quel tipo di disturbo psichico; 6. le percentuali di successo e fallimento nell'uso delle varie strategie alternative per vincere la resistenza in quello specifico disturbo; 7. le percentuali di effetti collaterali e la rispettiva gravità clinica; 8. la percentuale di effetti paradossi; 9. la percentuale di remissioni non complete dei sintomi, delle ricadute e delle ricorrenze in quello specifico disturbo psichico; 10. la possibilità di interazioni farmacologiche o variazioni farmacocinetiche o farmacodinamiche imprevedibili o inevitabili da parte del curante; 11. La percentuale di non aderenza terapeutica a quel farmaco in quel determinato disturbo psichico; 12. La tipologia di alleanza terapeutica che quello specifico paziente era solito stabilire con i curanti. 13. L’eventuale esistenza di particolari condizioni soggettive del paziente che potevano rendere problematica la riuscita del trattamento farmacologico. 36 Il perito ed il consulente non possono presentare un farmaco perfetto, ideale e miracoloso su un paziente ideale senza fornire i necessari chiarimenti sopra esposti, ma debbono presentare un farmaco nel suo funzionamento reale, contestualizzato nello specifico caso clinico con la copertura scientifica della più accreditata letteratura. Tale letteratura, in campo forense, deve essere estranea ad interessi economici delle case farmaceutiche e ad interessi di clinici che presentano conflitti con case farmaceutiche, qualora non siano rispettati i principi : a) di appropriatezza della cura, b) delle possibilità di gestione non farmacologica del caso, c) delle possibilità farmaco terapiche alternative. Inoltre la letteratura, per avere valore forense, deve essere mirata a risultati concreti nella pratica clinica quotidiana e rispondere ai criteri internazionali di alta qualità scientifica e metodologica. Questo è il modo di presentare, a chi deve comprendere e giudicare l'operato dello psichiatra, evidenze cliniche condivise, in tema di farmacoterapia, ed agire in modo corretto sotto il profilo clinico e forense. 6 Non esistono provvedimenti psicoterapeutici che guariscano sempre, rapidamente e senza recidive tutti i CVP Nessun provvedimento psicoterapeutico è in grado di neutralizzare il CVP in tutti i casi clinici, con rapidità e senza possibilità di recidive, anche a brevissimo termine o nella immediatezza, ed azzerare il rischio di imprevedibilità e inevitabilità. Provvedimenti terapeutici anche contro la volontà del soggetto, come i vari tipi di isolamento e di contenzione fisica (in stanza di sicurezza, al letto, parziale sulle mani od incrociata mani e gambe, etc.) non possono che essere applicati secondo specifiche indicazioni e per un tempo molto limitato e rappresentano un provvedimento di urgenza. Interventi terapeutici di breve durata come le tecniche per tranquillizzare (talk down), per fare verbalizzare la sofferenza (talk up), per gestire la rabbia senza abolirla, per la pacificazione, per il negoziato emotivo, per la mediazione, per la gestione psicologica delle situazioni di crisi, per il trattamento delle personalità difficili, etc. (59-64), non sempre sono applicabili e 37 quando applicate non sempre offrono, anche nell’immediatezza, risultati terapeutici concreti, hanno indicazioni cliniche per essere applicate a tutti i soggetti, ed hanno effetto sulla totalità dei pazienti. 6a. Applicabilità dei provvedimenti psicoterapici Utile che i provvedimenti psicoterapici, nel caso debbano o possano essere fatti, siano documentati, proporzionali alla gravità del rischio, fattibili e monitorabili. 6b.Necessità che lo psichiatra, quando è il caso e dopo valutazione del rischiobeneficio, avverta e suggerisca misure di protezione per la probabile vittima L’avvertimento e la protezione della vittima sono un tema complesso oggetto di diatribe giuridiche, forensi e cliniche. Tra le numerose criticità ricordiamo la possibile violazione del segreto professionale, la differenza tra il possibile (tutti possono essere vittime) ed il probabile (solo qualcuno sarà vittima in realtà), la ritrattazione e negazione di minacce e verbalizzati di morte da parte del protagonista (con conseguenti rivendicazioni e denunce contro lo psichiatra), il limite non sempre chiaro tra il dovere di avvertire (duty to warn) e dovere di proteggere (duty to protect). E’ comunque sempre doveroso per lo psichiatra valutare con attenzione e monitorare nel tempo le minacce significative e strutturate di CVP formulate da un paziente all’indirizzo preciso di una specifica vittima ed approfondirne il significato. 7 Esistono situazioni di crisi che possono precedere il CVP Sono presenti in psichiatria situazioni di crisi (pazienti non disponibili o non in grado di comunicare; pazienti che formulano richieste inadeguate, dissociali, inconciliabili col ruolo di terapeuta o con i principi di funzionamento e sicurezza della istituzione; etc.), spesso con pazienti a difficile gestione (pazienti agitati, confusi; deliranti; allucinati; minacciosi; 38 auto ed etero aggressivi; intrusivi; autori o vittime di danni fisici a persone; etc.), in contesti socioambientali a rischio (istituzioni penitenziarie, stati di affollamento in pronto soccorso o servizi di diagnosi e cura, etc.) che, se non adeguatamente gestite, possono esitare in CVP. Pur nel rispetto della specificità di ogni singolo caso clinico è possibile tracciare alcuni principi generali che possono essere utili per gestire con buona pratica clinica queste situazioni di crisi e ridurre il rischio di CVP. • Assicurare la sicurezza fisica delle persone Obiettivo prioritario è preservare l’integrità fisica delle persone in particolare del soggetto in crisi (aggressività autodiretta) o degli operatori presenti, di eventuali altre persone (aggressività eterodiretta) che possono essere implicate in un evento di violenza. Il terapeuta deve conoscere i fattori di rischio e le misure precauzionali da adottare in caso di pazienti autolesivi, suicidiari e violenti. Per rispettare questo obiettivo primario è indispensabile provvedere: 1. alla sicurezza dell’ambiente fisico (assenza di oggetti pericolosi da usare come armi di offesa quali porta abiti mobili, porta cenere massicci, tagliacarte rigidi ed affilati; poter disporre della presenza di vie di fuga per l’aggressore e per l’aggredito; etc.) 2. alla sicurezza delle persone (ridurre il numero delle persone a rischio, mantenere la distanza di sicurezza dal soggetto in esame, non voltare le spalle, non abbandonare il controllo visivo, mantenere la posizione del corpo esponendo la parte meno aggredibile e più difendibile e cioè il fianco protetto dagli arti superiori, etc.) 3. alla disponibilità di interventi di urgenza rapidi (controllo visivo da parte di altri operatori, pulsanti di allarme, etc.) 4. a collaudate tecniche di neutralizzazione del soggetto violento (immobilizzazione fisica con personale esercitato e saper evitare danni collaterali, intervento farmacoterapico, etc.) 5. a collaudati protocolli di prevenzione e gestione di specifiche situazioni di violenza (prevenzione e gestione dello stalking; del paziente armato col coltello, con arma da fuoco; del paziente che cerca di strangolare, sferra calci e pugni, etc.) 6. al ricupero della situazione terapeutica dopo l’evento di violenza (ventilazione dei sentimenti, partecipazioni manifeste di empatia alla vittima, auditing e debriefing non colpevolizzanti per i protagonisti, etc.) 39 7. all’esame dell’evento di violenza come evento sentinella (per aumentare la sicurezza, la beneficialità del paziente, migliorare le tecniche di intervento, ridurre possibili recidive, assumere provvedimenti adeguati anche a livello giudiziario, etc.) Esempio Infermiera percossa da un paziente dopo un diverbio. Il primario ignora l’accaduto colpevolizzando la vittima con linguaggio non verbale. Dopo una settimana il primario è aggredito dallo stesso paziente e gli infermieri tardano a prestare aiuto. In questo caso non è stato esaminato il fatto (domanda aggressiva del paziente e risposta speculare aggressiva della infermiera), non si è parlato in equipe del malessere e della simpatia verso l’infermiera aggredita (non è stata fatta ventilazione dei sentimenti e partecipazione empatica alla vittima), non si è tenuto conto che il paziente avrebbe messo in atto una violenza vendicativa stimolata da un altro infermiere (agito di violenza vendicativa per procura) e del comportamento aggressivo di tutta l’equipe nei confronti del primario (omissione con ritardo volontario e condiviso nel soccorso). • Raccogliere informazioni sul paziente prima della visita È utile che, sopratutto la prima visita, avvenga con tutte le informazioni utili sul paziente e sulle sue abitudini comportamentali (potrebbe essere solito circolare armato, fare proposte sessuali violente, richiedere insistentemente denaro od alloggiamento, utilizzare un approccio cronico provocatorio, etc.) Esempio Un paziente è inviato presso specialisti psichiatri per valutare il rischio di comportamento violento. I consulenti non sono stati avvertiti da chi ha inviato il paziente che poche ore prima aveva aggredito un sanitario: Non lo abbiamo detto per non influenzare il vostro parere.... • Utilizzo terapeutico delle emozioni Il terapeuta non può ignorare che le emozioni esistono in ogni relazione personale. In particolare deve saper riconoscere ed utilizzare a fini terapeutici le emozioni che prova verso il paziente e quelle che il paziente prova verso di lui. La doppia apertura alle 40 emozioni proprie ed a quelle del paziente permette un colloquio ed un rapporto terapeutico gestito secondo i principi fondamentali di buona pratica clinica. Esempio. Terapeuta con emozioni di paura nei confronti del paziente violento afferma: non ho indagato sul suo desiderio di violenza per evitare di stimolarlo a diventare violento. Terapeuta ansioso afferma: non lascio mai dei silenzi tra me ed il paziente, non voglio che diventi ansioso. Terapeuta che non è in grado di gestire le emozioni afferma: non permetto ai pazienti di esternare troppo le loro emozioni, soprattutto il pianto e la disperazione: questi pazienti non sono in grado di gestire le loro emozioni... • Osservazione e controllo della comunicazione non verbale E’ importante che il terapeuta sia consapevole della comunicazione non verbale del paziente (per coglierne gli stati emotivi, la autenticità, il grado di ansia e sofferenza, etc.) e che sappia tenere sotto controllo la propria comunicazione non verbale (per non comunicare emozioni non utili ai fini terapeutici come noia, fastidio, irritazione, disperazione e sappia comunicare le emozioni utili al processo terapeutico come empatia, attenzione, rispetto). Empatia non significa, in questo caso, che il terapeuta debba identificarsi al paziente pensando e agendo come lui, o provare, esaurendosi emotivamente, gli stessi sentimenti del paziente (non deve accettare le identiche sofferenze e conflittualità del paziente). La comunicazione non verbale è costituita da: il linguaggio orale (volume, tonalità, velocità, ritmo, inflessione della voce, pause, sospiri, sbuffi, ritmo del respiro, etc.); la mimica facciale (direzione dello sguardo, apertura della rima palpebrale, forma della rima buccale, espressività della muscolatura facciale, etc.); la posizione del corpo (spalle e viso protesi in avanti con aria minacciosa, naso in linea con la punta dei piedi, verbalizzati rivendicativi espressi ad alta voce, etc.); la gestualità degli arti (indice puntato sull’interlocutore, apertura/chiusura delle mani tremanti e sudate, etc.). La comunicazione non verbale può essere differente come intensità e riconoscibilità e variare da grossolane manifestazioni facilmente visibili (parlare con un soggetto paranoide ad alta voce ponendosi alle sue spalle in posizione sopraelevata in piedi mentre lui è seduto e toccandogli una spalla improvvisamente senza avvertirlo, etc.) sino a manifestazioni meno plateali non consapevoli e meno riconoscibili (invisibili ad occhi non esperti: enactement) ma sempre ben decodificate dal paziente (rapidi movimenti quasi 41 impercettibili della apertura/chiusura della rima palpebrale o della direzione delle sguardo, blocco o variazione dei movimenti di una mano o di un dito, etc.). In questo contesto è utile saper cogliere anche i segnali non verbali che il soggetto può comunicare come possibile violenza imminente: espressione facciale tesa ed arrabbiata, aumento di movimenti afinalizzati che si prolungano nel tempo, aumento del ritmo respiratorio e cardiaco, dilatazione delle pupille, tremolio dei muscoli, prolungato contatto visivo diretto negli occhi, movimenti impulsivi reattivi aggressivi, gestualità di minaccia, tentativi di impedire l’accesso a vie di uscita, sguardi prolungati ad oggetti che possono essere utilizzati come arma di offesa, rifiuto di comunicare, agitazione psicomotoria, etc. Questi segnali non verbali possono integrarsi con altri segnali di allarme di violenza imminente come verbalizzazioni di sentimenti di rabbia e di violenza; processi di pensiero all’insegna della confusione, irritabilità, rivendicazione; presenza di allucinazioni o aspetti deliranti a contenuto di violenza; etc. Esempio. Terapeuta percosso da un paziente confessa: avrei dovuto accorgermene e porre una distanza di sicurezza perché il paziente aveva un posizione del corpo da pugile (corpo con una gamba arretrata e le anche ruotate di circa 45 gradi), i pugni chiusi, lo sguardo fisso nei miei occhi e le mascelle con tutti i muscoli contratti… • Prestare ascolto Tra le modalità di condurre un colloquio sono da segnalare il colloquio direttivo (il terapeuta pone al paziente domande numerose, specifiche e dirette), il colloquio non direttivo (il terapeuta invita il paziente a esporre quanto ritiene più opportuno in relazione ai suoi disagi), il colloquio semidirettivo (il terapeuta formula domande a carattere generale poco numerose e lascia molto spazio libero alle verbalizzazioni spontanee del paziente). Queste tre modalità possono essere integrate nel colloquio ad imbuto. 1. La prima parte o fase del campo libero è costituita da domande generali cui il paziente può rispondere a 360° (mi parli della sua famiglia). In questa fase il paziente può descrivere quello che più desidera. 2. Nella seconda fase, fase di chiarificazione, il terapeuta richiede spiegazione ed approfondimenti su singoli temi (lei mi ha detto che ama sua moglie mi può 42 spiegare meglio…) In questa fase il terapeuta può approfondire il comportamento, i pensieri, le emozioni, le fantasie del soggetto. 3. Nella terza fase, del confronto con la realtà, il paziente è messo di fronte a fatti reali della sua vita sui quali è stimolato a dare una spiegazione. Questa fase, molto delicata, può non essere tollerata dal paziente e sollevare atteggiamenti rivendicativi con manifestazioni comportamentali violente sino a vere e proprie crisi pantoclastiche (ad esempio nel caso di maltrattamenti in famiglia affermare: lei mi ha detto che ama sua moglie come spiega che è stata più volte ricoverata al pronto soccorso perché lei l’ha picchiata?). È quindi importante per il terapeuta considerare l’eventualità che non tutte le domande possono sempre essere fatte in ogni momento e che non tutte le parole del paziente devono sempre essere nell’immediatezza approfondite con la più accanita e metodica diligenza (capacità del terapeuta di essere momentaneamente muto e sordo). Esempio. Il paziente appena giunto al colloquio deposita un’arma sulla scrivania del terapeuta. Quest’ultimo si alza spaventato, senza ascoltare altro ed esce dalla stanza richiedendo l’aiuto degli agenti di sicurezza. La situazione verrà poi chiarita. Il paziente dirà: avevo portato la pistola per consegnarla al mio terapeuta perché non ritenevo utile per me rimanere in possesso di un’arma così pericolosa… ma il terapeuta non mi ha lasciato il tempo di parlare… • Facilitare la comunicazione verbale Il terapeuta può utilizzare tecniche che rendano più fluido e ricco di informazioni il colloquio e migliorare la relazione terapeutica. L’invito generico consiste nella gestualità (cenno di approvazione con il capo, cenno di continuare con il palmo della mano, etc.); nell’uso di fonemi e cioè suoni privi di senso (“hum”), di singole parole (si, bene, e dopo), di frasi più complesse (potrebbe precisare meglio). Nella ripetizione semplice viene ripetuta l’ultima parola del paziente. Nella ripetizione elaborata viene ripetuta un’intera frase. La riformulazione, che è un riassunto dopo il discorso del paziente, si cerca di sintetizzare quanto detto. La riformulazione può contenere imprecisioni nel riportare il pensiero del paziente e può prestarsi ad una manipolazione a fini terapeutici. La riformulazione43 centraggio consiste nel centrare l’attenzione, tra le tante cose dette dal paziente, su uno specifico tema (se ho capito esiste anche il fatto che…). La riformulazione positiva mette in luce gli aspetti positivi di quanto descritto dal paziente. Una frase tipo: nessuno ha fiducia in me, con la riformulazione positiva può divenire: Lei desidera che le persone le accordino fiducia). Nella diversione lo scopo è distogliere transitoriamente l’attenzione da temi in quel momento difficili da affrontare tanto per il paziente quanto per il terapeuta. Può essere una diversione di rottura (sospendiamo per un caffè); una diversione di sospensione (possiamo parlarne il prossimo colloquio); una diversione di ri orientamento (interrompere la descrizione di un profondo dolore da lutto e l’invito a parlare degli aspetti positivi della persona scomparsa). La sostituzione consiste nell’utilizzare, invece di frasi che bloccano il colloquio, locuzioni che lo facilitino (non: voi non capite quello che dico, ma: forse non mi sono espresso con chiarezza). La mediazione è utile in quelle situazioni di impasse terapeutico. Per esempio un paziente con grosse difficoltà ad esprimere in parole la propria sofferenza, non accetta una relazione terapeutica, etc. e contemporaneamente un terapeuta che si percepisce impotente, confuso senza appigli da cui ripartire: in questi casi una mediazione attraverso un approccio medico, una attività ludica od una occupazione lavorativa ed espressiva elementare possono permettere al paziente ed al terapeuta di uscire da una situazione di ristagno terapeutico mortifero. Tutte queste tecniche di facilitazione del colloquio debbono essere usate con molta adeguatezza al caso e con molta accortezza e buona esperienza clinica al fine di evitare che il paziente possa farsi l’idea di un terapeuta distratto, che utilizza suoni gutturali incomprensibili, che ripete le parole come un pappagallo, non capisce i concetti che gli vengono esposti, impreciso nel ripetere le cose che lui ha detto, e che cerca di distogliere la sua attenzione dai veri problemi che lo fanno soffrire. Esempio. Vi sono operatori della salute mentale che sono noti come terapeuti che fanno saltare i pazienti (scompensano l’equilibrio psichico del paziente e lo possono stimolare ad agiti di violenza) attraverso il loro linguaggio verbale (allora non mi capisci…quante volte debbo dire che ci sono delle regole da rispettare…non sono problemi miei...mi vuoi dire o non mi vuoi dire qual’ è il tuo problema…stai calmo e non ti agitare inutilmente…ed io in tutto questo che ci 44 posso fare?, etc.) e non verbale (gestualità che esprime dominazione, provocazione, autoritarismo, disprezzo, ironia, etc.) inadeguate al contesto terapeutico. Far comprendere che si è compreso • Dimostrare al paziente di averlo compreso e di avere una empatica simpatia nei suoi confronti permette, insieme all’ascolto, di instaurare un valido rapporto terapeutico. Per approfondire e meglio comprendere i verbalizzati del paziente, oltre alla riformulazione fedele, è utile stimolarlo a fornire ulteriori informazioni esplicitando con prudenza dubbi su quanto si è creduto di comprendere con l’uso di precauzioni psicologiche oratorie: se ho capito bene…forse ho dimenticato qualcosa… non ho capito…mi può spiegare meglio… In questa fase è utile usare il più possibile le stesse parole e frasi utilizzate dal paziente. Esempio Terapeuta: lei ha detto che odia sua madre. Paziente: non è vero che odio mia madre. Per evitare l’utilizzo delle resistenze psicologiche, di cadere in un clima di contradditorio ed evitare al paziente un intollerabile confronto con la realtà può essere più utile dire: non ho capito bene il rapporto con sua madre… mi può aiutare a capire meglio… Fornire informazioni al paziente • Utile che il terapeuta fornisca al paziente informazioni semplici (il contratto terapeutico, le regole presenti in una istituzione, etc.) ed anche, quando è il caso, anche più complesse (leggi, tradizioni, usanze, etc.) Queste informazioni non debbono essere somministrate come regole autoritarie o limitazioni alla libertà personale, ma come utilità al paziente per affermare i suoi diritti e tutelare le sue aspettative. La loro funzione può essere così riassunta: a. spersonalizzare il rapporto quando se ne presenta la necessità, b. fornire un quadro della realtà quando questo è confuso, c. stimolare a livello terapeutico un comportamento sociale adeguato. 45 Obiettivo che deve essere raggiunto con particolare attenzione ed esperienza in quanto rappresenta un confronto del paziente con le limitazioni imposte dalle regole di vita sociale. In certi casi è possibile dividere l’intervento terapeutico in tre fasi: 1. in primo luogo favorire la comprensione di ciò che desidera, 2. in secondo luogo favorire le modalità di realizzazione tenendo conto dei vincoli delle regole sociali 3. solo nella terza parte approfondire le motivazioni e la loro adeguatezza alla base dei suoi desideri. E’ possibile affermare che fornire informazioni al paziente con le modalità sopra descritte appartiene alla complessa e difficile seconda fase di questo tipo di trattamento nell’ambito di questa specifica definizione di intervento terapeutico. Esempio. Nell’ambito della cultura dell’accoglienza e della chiarificazione del contratto terapeutico il paziente deve essere informato, con particolare attenzione e sensibilità ai suoi specifici bisogni, delle regole sociali presenti nello specifico contesto di terapia e di ambiente in cui è situato. E’ da evitare che il paziente possa recriminare: nessuno mi ha spiegato, nessuno mi ha avvertito, nessuno mi ha aiutato, nessuno si è occupato dei miei problemi,etc. • Comunicare disponibilità all’aiuto Nel rapporto terapeutico è necessaria la comunicazione comprensibile e concreta al paziente di una empatica disponibilità ad aiutarlo. Questa disponibilità all’aiuto e la sua comunicazione possono essere assai varie a seconda del tipo e delle problematiche del paziente: dagli interventi concreti sulla vita quotidiana (soluzione di semplici problemi legati al cibo, la igiene, la comunicazione) sino ai più complessi contenimenti emotivi (ad esempio l’accettazione, la modulazione, la sublimazione della sua aggressività). Esempio Il paziente in stato di agitazione domanda imperiosamente di poter fare una telefonata urgente. Invece di rispondere, in modo autoritario ed immediato, che non è possibile perché il regolamento lo vieta, si può chiedere al paziente di chiarire verbalmente le motivazioni alla sua richiesta e cercare, con il suo aiuto, di trovare soluzioni, anche alternative (se possibile) al problema. 46 • Essere il garante della realtà Tra i compiti del terapeuta vi è anche quello di richiamare, con le dovute modalità, il proprio paziente alla realtà. Anche nella crisi più acuta, infatti, può essere individuato un brandello di realtà che possa essere terapeuticamente utile (terapeuta come ricercatore di realtà utili). Il richiamo alla realtà deve tenere conto delle difficoltà al colloquio che il paziente può presentare in qualsiasi momento della terapia. Adattarsi, quindi, alle capacità di comprensione sia cognitiva che emotiva che il paziente presenta in ogni specifico momento del percorso terapeutico. Il terapeuta deve diventare un dispensatore di realtà personalizzate e mirate alle esigenze del momento e, come un sarto, cucire addosso al paziente la realtà che è più accettabile e utile in quello specifico momento di difficoltà al colloquio. Le realtà cliniche che possono essere illustrate ai pazienti variano dalle più semplici ed accettabili (modalità di comportamento e regole sociali di vita in istituzione) alle più complesse e difficili da accettare (descrizione dei guadagni secondari legati ai sintomi lamentati, le contraddizioni tra quello che dice e quello che fa, etc.) Esempio. Il terapeuta può anche essere garante della realtà (ricercatore e dispensatore) in casi clinici che possono apparire refrattari alla comprensione della realtà e nei quali il colloquio può apparire difficile od impossibile (teatralismo isterico, delirio, etc.) Il paziente, pur con le dovute eccezioni, può essere stimolato a descrivere le reali difficoltà nel suo vivere sociale che gli procurano i sintomi che lamenta (ad esempio: ritenere di essere perseguitato dai servizi segreti le crea problemi nella vita di tutti i giorni?). • Responsabilizzare il paziente Quando il processo terapeutico lo permette e le condizioni del paziente lo rendono fattibile è necessario responsabilizzare, con la dovuta gradualità, il paziente nei confronti delle sue azioni e delle conseguenze che queste ultime hanno sulla sua vita quotidiana e futura. Questo rendere il paziente, in modo adeguato alla sua situazione, artefice del proprio destino permette di evitare e neutralizzare, gradualmente, le molteplici e tenaci difese che mette in atto proprio rispetto al processo di responsabilizzazione e di mettere da parte i 47 guadagni secondari della sintomatologia esibita (vera o pretesa) e del comportamento violento minacciato od esibito. Esempio il paziente ricoverato in istituzione senza diritto all’uscita chiede in apparente stato di agitazione, di voler uscire subito. Con la necessaria serenità e pacatezza il terapeuta deve essere in grado (dopo adeguata preparazione: è tuo diritto uscire, troviamo il metodo perché tu esca al più presto possibile, etc.) di far comprendere al paziente che l’uscita dall’istituzione (dopo aver discusso le difficoltà trattate empaticamente con lui) dipende dal suo comportamento. Infine l’operatore prospetta in modo semplice, concreto, fattibile, quale può essere il comportamento del paziente per uscire dall’istituzione il più presto possibile. • Conservare il dialogo e la negoziazione È indispensabile con qualsiasi paziente in crisi mantenere aperto un dialogo basato sulla empatia, sulla accettazione e sulla possibile e concreta discussione e risoluzione dei problemi che prospetta. Nell’ambito di questi interventi possono essere considerate varie eventualità. 1. La pacificazione degli stati acuti di crisi (sentimenti di ingiustizia; fattori stressanti; problemi di salute fisica; riattivazioni di traumi psichici passati; cumulo di frustrazioni; etc.) si basa sul principio di tranquillizzare l’interessato (privilegiando la propria protezione personale) aiutandolo ad esprimere le sue sofferenze. Si tratta di accompagnare il paziente nelle quattro fasi della sua crisi. Il passaggio all’atto iniziale (urla, violenza, etc.) è gestito dal terapeuta cercando di comunicare senza divenire il capro espiatorio. Nella seconda fase vi è un ciclo di altri passaggi all’atto del paziente nel corso dei quali il terapeuta cerca di farlo esprimere non con le azioni, ma con le parole. Infine nella terza fase (meta comunicazione) e quarta fase (risoluzione) il paziente è portato a prendere coscienza della presenza e dell’azione del terapeuta e del suo ruolo di aiuto (non intrusivo, non giudicante, non controllante, ma solo di accudimento). La crisi può essere risolta, ma non è risolto con questo metodo la situazione che ha portato alla crisi. 2. Il metodo END (Empatia, Normalizzazione, Descalation) (65) privilegia l’uso corretto della comunicazione con soggetti che si trovano in situazioni di crisi 48 (impauriti, disperati, arrabbiati, aggressivi, deliranti, allucinati, eccitati, etc.) allo scopo di tranquillizzarli e di conseguenza anche di evitare il passaggio a comportamenti violenti. Si tratta di una tecnica di intervento basata su dimensioni psicopatologiche dominanti (attivazione psicomotoria, paura, terrore, distorsione della realtà, rabbia, aggressività, impulsività, etc.), sulla presenza in ogni persona di un punto di entrata (entry point) per iniziare una comunicazione (anche nel delirante, allucinato, etc.), e sulla teoria della mente (essere capace di attribuire stati mentali a sé e agli altri e di prevedere , sulla base di tali inferenze, il proprio e l’altrui comportamento). La prima tappa è l’empatia e cioè comprendere come sta il soggetto e fargli capire che si è compreso (è una situazione insopportabile…si sente arrabbiato…etc.). La seconda tappa è la normalizzazione e cioè si forniscono spiegazioni semplici e si riduce il senso di emergenza, di terrore e si facilita l’autocontrollo (può succedere che… è naturale sia preoccupato…etc.). La terza tappa è la descalation nella quale si cerca di ridurre le emozioni, di individuare i bisogni, si cerca una soluzione e si favorisce l’autocontrollo (cosa è successo ?..., posso essere di aiuto…etc.). Caratteristica del metodo END è che si articola in precise sequenze che possono essere facilmente apprese e perfezionate con adeguato atteggiamento mentale, esercizio e pratica clinica. 3. La comunicazione non violenta si basa (soprattutto nelle crisi legate a rabbia e collera) su quattro tappe per portare alla luce la causa della crisi e non le variabili che la scatenano. La prima tappa è dedicata a far verbalizzare il paziente esclusivamente sugli eventi che scatenano la sua crisi. La seconda tappa si focalizza l’attenzione sull’importanza di pregiudizi e aspettative personali che lo hanno portato alla crisi mettendo in luce (terza tappa) i bisogni del paziente che non sono stati soddisfatti (bisogno di essere ascoltato, rispettato, amato, etc.) per terminare (quarta tappa) con lo stimolo a realizzare i vari bisogni in modo socialmente adeguato (comunicare in modo socialmente accettabile ed affermativo le proprie esigenze a chi di dovere). Si tratta di un processo di comunicazione che richiede tempo e capacità introspettive da parte del paziente. 4. Il negoziato emotivo (61) si basa sulla capacità di gestire in modo positivo le emozioni delle persone e non lasciarsi confondere dalle emozioni negative (rabbia, disgusto, ansia, umiliazione, noia, invidia, etc.) che possono turbare un colloquio o una trattativa col paziente in situazioni di crisi. Alla base del negoziato emotivo nel terapeuta (inteso anche come negoziatore delle richieste del paziente) vi è la ricerca 49 di soddisfare cinque esigenze primarie del paziente: apprezzamento (i miei pensieri sono presi in considerazione), affiliazione (sono trattato come una persona amica), autonomia (gli altri rispettano le mie decisioni), status (la mia posizione sociale è riconosciuta), ruolo (il ruolo che ho nella negoziazione è appagante). Questa modalità di intervento (peraltro applicabile ad ogni forma di negoziato (politico, sociale, economico) implica la possibilità, nel corso della crisi del paziente, di affrontare e talvolta risolvere le sue richieste. Quando le richieste del paziente sono formulate in un clima di possibile violenza sulle persone, in modo urgente, con un rapporto di forza tra le parti, si parla di negoziato emotivo in situazioni di crisi che non può prescindere dalla delicatezza e rapidità nel tempo di negoziare e dalla fattibilità dei risultati in quella specifica circostanza con la miglior soluzione alternativa. 5. Nella gestione psichiatrica della vittima in situazione di crisi (vittime di gravi danni fisici e psichici in seguito ad eventi naturali o delitti con CVP: tentato omicidio, violenza sessuale, maltrattamenti, abusi, etc.) sono illustrati i vari interventi nel colloquio (ristrutturare il sentimento di controllo della situazione, il ricupero dell’autostima, ridurre il sentimento di assenza di speranza, gestire gli evocatori del trauma, modulare e stabilizzare l’affettività, intervenire sul dubbio di alienazione mentale, ridurre il sentimento di isolamento, di ingiustizia subita, di colpa, favorire le affinità, l’empatia, la comunicazione ed il principio di sincronia, valutare i meccanismi psicologici di difesa, rispettare i percorsi mentali nel riferire il ricordo, stimolare il passaggio da vittima a sopravvissuto, etc.) e sono sottolineati i vari errori emotivi e comportamentali che può fare il terapeuta (colpevolizzare la vittima, negare i fatti e le emozioni, sviluppare ruoli di salvatori e di nemici, sopravalutare il ruolo della volontà e delle terapie, non aiutare la vittima ad aiutarsi, trascurare la terapia per il terapeuta, etc.) Tutti questi interventi vittimologici possono essere utilizzati nel primo colloquio con la vittima in situazione di crisi. 6. La psicoterapia della crisi emozionale motivata da eventi esterni (catastrofe, disastri naturali, specifiche violenze fisiche subite, malattie gravi incurabili, separazioni, divorzi, perdite, etc.) o interni (traumi psichici in narcisismi fragili, in tratti megalomani, in strutture psichiche basate sul controllo, etc.) si manifesta con ansia, disforia, agitazione, insonnia, somatizzazioni, ed anche con una sintomatologia manifesta di dolorosa impotenza (crabbia, paura, tristezza, disperazione) e sofferenza intollerabile (sentimento di mancanza di speranza e di 50 via di uscita dalla situazione con possibili condotte alternative di disadattamento, di tossicomania, di comportamento violento auto ed etero diretto). La crisi emozionale è da distinguere dalla crisi esistenziale (riequilibrio continuo nel corso dei vari momenti evolutivi e fondamentali della vita) e dalla crisi psicotica (deliri, allucinazioni, confusione, etc.) Gli obiettivi di questa psicoterapia si raggiungono con interventi che facilitano la reazione e la catarsi, sfruttano principi di tipo pedagogico e cognitivo, usano terapeuticamente la relazione tra paziente e terapeuta, mirano a conservare i limiti fra il mondo interno e il mondo esterno, favoriscono il reinvestimento oggettuale, storicizzano l’evento di crisi nella sua dimensione fantasmatica attraverso la utilizzazione del transfert, facilitano l’emergere del preconscio, cercano di contenere il sentimento di impotenza e di favorire l’esperienza controllata del dolore e della depressione. La psicoterapia della crisi emozionale richiede tempo e setting stabile (da 2 a 3 mesi con 10 sedute ognuna di 40- 45 minuti), una competenza psichiatrica specialistica ed è applicabile a pazienti che non necessitano di ricovero psichiatrico o medico, accettano la terapia e non presentano un esame di realtà gravemente compromesso. Esempio. Vi sono terapeuti che tendono a chiudere la negoziazione e la comunicazione col paziente quando il colloquio diventa difficile utilizzando in modo inadeguato il ciclo della domanda-rifiuto-frustrazione; le risposte riflesse: domanda aggressiva-risposta aggressiva; il ricorso apodittico a leggi e regolamenti; le contese personalizzate con braccio di ferro; le personalizzazioni direttive sulla base acritica del ruolo o delle competenze. • Non invalidare il colloquio Il terapeuta non deve compiere errori nella gestione del colloquio con paziente per non invalidare e rendere nullo l’intervento terapeutico. Tra gli errori più frequenti che bloccano ed invalidano il colloquio possiamo ricordare quanto segue. Un grande numero di domande inquisitorie (raffiche di perché) può far sì che il paziente si percepisca vittima di una inquisizione poliziesca oppure si percepisca impotente e disperato di fronte qualcuno intento a sezionare il suo cervello, i suoi pensieri e i suoi sentimenti come si fa con un cadavere in una autopsia. 51 Interventi autoritari allorquando il terapeuta assume il ruolo di comandante che impartisce ordini perentori, di esperto che non sbaglia, di indovino infallibile del futuro, privano il paziente della capacità di decidere e sollevano tutti i suoi problemi nei confronti dell’autorità. Interpretazioni selvagge che cercano di spiegare al paziente il suo comportamento non effettuate nel contesto terapeutico e nel tempo adeguato non possono che sollevare le resistenze dei meccanismi psicologici di difesa del paziente che ignora e che soprattutto spesso non vuole o non è in grado di conoscere e di accettare le motivazioni profonde del suo agire. Un atteggiamento giudicante (è bene-è male, è giusto-non è giusto) blocca il fluire del colloquio per il timore di essere giudicato o lo può indirizzare verso la manipolazione o la ricerca di una buona visibilità sociale da parte del terapeuta. Il seguire le false piste dei pregiudizi che si hanno sul paziente legati ai primi minuti del colloquio (modalità di presentarsi, abbigliamento, tono e volume della voce, contenuti di pensiero espressi) o che derivano da una raccolta di informazioni dai parenti accompagnatori, possono creare una riduzione già indirizzata verso la comprensione di quanto dirà al paziente e possono esplicitarsi attraverso la comunicazione non verbale e verbale. Esempio. La collusione tra psicopatologia del paziente e psicopatologia del terapeuta può invalidare l’aspetto diagnostico e terapeutico del colloquio. Nel caso di un paziente narcisista in cura da un terapeuta narcisista, dopo un primo periodo di luna di miele in cui tutti e due si percepiranno meravigliosi, subentrerà il divorzio, cioè una brusca interruzione della comunicazione, non essendo in grado di soddisfare le reciproche aspettative inadeguate alla realtà. • Non dimenticare i comportamenti precauzionali Nel corso della quotidianità l’operatore può non tenere conto, per abitudine, fretta, distrazione, affaticamento, etc., di comportamenti utili ad una preventiva gestione beneficiale del paziente riducendo il rischio delle sue possibilità di andare incontro ad eventi di crisi. Ad esempio essere distratto e voltare le spalle a un paziente confuso od agitato, non rispondere alle domande, formulare divieti, imporre consigli, emettere giudizi con tono autoritario, fare battute ironiche non adeguate, dimenticare di mantenere una 52 distanza di sicurezza nel colloquio con un paziente violento, non rilevare il rapido variare dell’atteggiamento del viso o della postura del paziente, etc., possono aumentare il rischio di CVP. Esempio. Un operatore della salute mentale aggredito fisicamente da un paziente commenta: avrei dovuto capire che mi avrebbe aggredito… tutti gli altri pazienti lo evitavano e si mantenevano a distanza di sicurezza. • Non reagire alle provocazioni È indispensabile saper cogliere le parole e i comportamenti provocatori del paziente ed essere coscienti delle proprie reazioni emotive che possono portare a verbalizzare o a mettere in atto comportamenti non utili alla beneficialità del paziente e provocare un aumento del rischio di CVP. È da evitare la risposta alla provocazione con un’altra provocazione. Esempio il paziente afferma: voi ve ne fregate della mia sofferenza… Io posso morire… A voi interessa solo il vostro stipendio… Il terapeuta non deve rispondere alla provocazione, ma far verbalizzare il paziente, ad esempio, sul problema per lui più importante ed implicarlo nella possibile risoluzione. • Non creare provocazioni Il terapeuta non deve fornire stimoli personali (anche apparentemente invisibili come non verbali di noia, fastidio, condanna, etc.) od ambientali (lunghe attese del paziente per un colloquio, la sua promiscuità con altre persone, la vicinanza con altri pazienti in crisi, etc.) per il rischio che questo comporta di scatenare nel paziente situazione di crisi. Esempio. Nel corso del colloquio il paziente rifiuta di sedersi. L’operatore può risolvere il problema se prova ad esprimersi, per esempio: se preferisci parlare in piedi camminando …se ti senti meglio, va bene così... Parlami allora….. 53 • Non personalizzare In ogni situazione di crisi il terapeuta non deve personalizzare eventuali divergenze o contrasti con il paziente evitando di divenire il persecutore od il capro espiatorio di tutte le sue sofferenze interne o di tutte le frustrazioni e le umiliazioni sociali esterne. Esempio Nei confronti di un paziente che simula una sintomatologia inesistente non è il caso di affermare: io non sono così stupido da credere a quello che mi dici… sappi che io ho esperienza di tanti anni e quindi non sono facilmente preso in giro… credi di essere più bravo di me e farmi credere una cosa per un’altra, stai simulando e tutti lo sanno... In questi casi il terapeuta dovrà evitare di accusare di simulazione e cercare di comprendere le motivazioni. Analogo comportamento con un paziente che manipola, formula richieste contro la legge, usa il turpiloquio, propone un rapporto sessuale: non personalizzare, far parlare per mantenere la comunicazione e cercare di chiarire, con adeguate tecniche, le motivazioni. • Comprendere e non fare minacce Il terapeuta deve essere in grado di comprendere il senso delle minacce che possono essere formulate contro di lui ed evitare, a sua volta, di minacciare il paziente. Le minacce formulate da un paziente nei confronti del terapeuta, oltre un significato basale di aggressività che deve essere sempre decodificato, possono avere diverse motivazioni. E’ importante che il terapeuta comprenda quali sono le modalità più adeguate per ridurre il rischio di una minaccia. L’avvertenza che il terapeuta non minacci il paziente non significa che il paziente non debba essere confrontato con la realtà, con le sue contraddizioni, con la sua inosservanza delle regole sociali, e soprattutto con le conseguenze delle sue azioni. L’azione di confronto deve essere fatta attraverso modalità gestionali terapeutiche responsabilizzanti. Esempio Paziente in stato di ebbrezza alcolica minaccia, con modalità recidivanti, gli avventori di un locale pubblico. Il comportamento adottato da tre differenti tutori dell’ordine intervenuti per porre fine alla rissa è stato rappresentato da tre differenti tipologie. In una occasione il tutore dell’ordine, dopo aver ascoltato i suoi insulti e minacce, lo ha portato fuori dal locale, lo ha redarguito e lo ha 54 obbligato a raggiungere il proprio domicilio con l’aiuto di suo fratello. Nella seconda occasione chi interviene, dopo aver ascoltato i suoi insulti e minacce, non riesce ad evitare una colluttazione: il paziente è colpito con violenza al basso ventre, è arrestato con l’imputazione di resistenza a pubblico ufficiale e turbamento della quiete pubblica e privato della libertà. Nel terzo caso chi è intervenuto, ignorando insulti e minacce, ha stimolato il paziente a parlare, tranquillamente assiso ad un tavolo dello stesso locale pubblico, in merito all’accaduto ed alle circostanze che avevano determinato la rissa. Il paziente ebbe il modo di raccontare di essere stato abbandonato dalla moglie. Chi è intervenuto è riuscito a riaccompagnarlo dal fratello, a fargli chiedere scusa agli avventori del locale per il disturbo arrecato, senza percuoterlo, denunciarlo e privarlo della libertà personale. 7a. Utilità di chiarificare i livelli di violenza e la tollerabilità della istituzione alla violenza Nella immediatezza del ricovero del paziente in una istituzione può essere utile illustrare i comportamenti graditi e quelli non tollerati. In particolare possono essere chiarificati i comportamenti violenti ed il loro grado di tollerabilità con le relative sanzioni in vigore nella istituzione. Può anche essere adottata la regola di nessuna tolleranza (tolleranza zero) nei confronti della violenza fisica su altre persone. Queste regole di vita sociale possono essere completate da un documento scritto, in cartella clinica, che contenga anche le richieste di spiegazioni del paziente, i suoi commenti ed il contenuto della discussione che eventualmente ne segue. Questa documentazione e il contenuto della discussione saranno poi, se è il caso, oggetto di un utilizzo terapeutico, con il massimo rispetto del tempo e delle modalità di intervento, se il paziente metterà in atto un CVP. Da sottolineare sempre a scopo terapeutico la necessità di affiancare alle sanzioni per i comportamenti violenti anche le gratificazioni per i comportamenti sociali che valorizzano il reciproco rispetto. 55 7b. La valutazione clinica e forense delle situazioni di crisi I principi enunciati presentano numerose criticità: necessità di adeguamento ad una specifica situazione (il silenzio prolungato e fuori da un adeguato contesto può bloccare il colloquio; interruzioni ripetute del silenzio da parte del terapeuta possono bloccare il fluire della relazione terapeutica); impossibilità tecnica, a volte, di una loro applicazione (paziente violento con passaggio all’atto improvviso ed imprevedibile); possibilità di integrazione tra i vari principi (precauzioni psicologiche oratorie e diversione); ambiguità a seconda dell’uso (la riformulazione può essere chiarificatrice o manipolatoria del pensiero del paziente); rischio paradosso che siano controproducenti alla relazione terapeutica (la ripetizione delle parole del paziente cronica e monotona può essere percepita come espressione di noia e di disinteresse); complementarietà con una buona relazione terapeutica (ascolto, empatia); dipendenza dalle caratteristiche personologiche dei protagonisti (autenticità, umanità, capacità di comunicare e di empatia, etc.); necessità di programmi di esercitazioni e di strategie di intervento prima, durante e dopo i fatti di violenza (allo scopo di mettere in luce ed agire sui fattori che predispongono, scatenano e contribuiscono alla cronicità del CVP); opportunità di applicare questi principi associati tra loro in un contesto generale di riduzione degli stimoli che aumentano il rischio di CVP (sistemazione alberghiera idonea, spazi fisici di libertà, riduzioni di intrusivisità disturbanti, conoscenza di tecniche di talk dawn, etc.); opportunità di associare questi principi con l’applicazione dei principi aspecifici (o comuni) nel processo di cura delle psicoterapie in relazione al paziente, al terapeuta, al setting, etc. (ad esempio da parte del paziente: consapevolezza del soggetto di avere problemi di comportamento, desiderio attivo di richiedere aiuto, capacità di stabilire un rapporto empatico con l’operatore della salute mentale, capacità di narrare la propria storia, etc). In ragione di queste criticità non è esigibile sotto il profilo forense una valutazione di questi principi di intervento (de-escalation in senso generale) esclusivamente centrata sui risultati. Sotto il profilo clinico ulteriori studi potranno approfondire la validità clinica dei principi trattati nelle varie e numerose situazioni di crisi per la beneficialità del paziente e per ridurre il rischio di CVP. 56 8 Esistono ipotesi cliniche di ricerca per valutare il CVP in assenza di disturbo psichico. Sono presenti in letteratura numerose ipotesi di ricerca sul CVP che, sotto il profilo clinico, mettono in luce la multideterminazione dell’evento di violenza interpersonale senza la necessità di coinvolgere psicopatologie di interesse psichiatrico: in particolare come sono descritte nei manuali statistici e diagnostici più diffusi (DSM 5 e ICD 10). Tra queste ipotesi cliniche di ricerca possiamo segnalare le seguenti. • L’apprendimento sociale e psicologico del CVP Come una persona apprende, senza alcuna partecipazione di psicopatologia di interesse psichiatrico, il comportamento sociale rispettoso della integrità altrui così può apprendere, al variare delle circostanze psicosociali, il CVP non rispettoso della integrità fisica altrui. Le numerose teorie sociologiche (teoria delle aree criminali, della disorganizzazione sociale, dei conflitti culturali, delle associazioni differenziali, della identificazione differenziale, della devianza, del strutturale, etc.) e teorie psicologiche (dei contenitori, non direzionale, dell’identità personale, dei ruoli, dell’interpretazione psicoambientale, etc.) sul comportamento criminale possono essere applicabili, in non pochi casi, al CVP. Teorie dell’apprendimento mettono in luce (66) nell’ambito del determinismo triadico reciproco (persona, ambiente e condotta) come gli individui, privi di qualsiasi psicopatologia di interesse psichiatrico, possano adottare comportamenti criminali violenti attraverso strategie di disimpegno morale: etichettamento eufemistico, dislocamento o diffusione della responsabilità, negazione o distorsione delle conseguenze, giustificazione morale, attribuzione proiettiva di colpa, disumanizzazione della vittima. Per quanto concerne in modo specifico il CVP sono stati descritti vari stadi attraverso i quali può avvenire la violentizzazione del comportamento (invece della socializzazione) in cui non è solo normalizzato, ma valorizzato l’uso del CVP come modalità prioritaria di gestione di conflitti personali. La letteratura ha inoltre messo in luce l’apprendimento sociale del CVP più grave e cioè l’omicidio in specifiche sottoculture di violenza di organizzazioni criminali, di gestione sociale della vendetta e dei conflitti personali. Ricordiamo omicidi sottoculturali con alto indice di depravazione (atroci, efferati e crudeli) compiuti da organizzazioni criminali (67). La sottocultura omicidiaria nel continente americano 57 (Bolivia) che contempla ad esempio il corpo dell’ucciso inciso profondamente come si usa preparare il pesce da arrostire sul fuoco (67). La sottocultura omicidiaria nel corso della vendetta nel bacino mediterraneo (Sardegna) (68) in cui è scritta sul cadavere la motivazione dell’uccisione: allargamento col coltello della rima buccale sino alle orecchie (la vittima colpevole di aver fatto una delazione alla polizia), apertura del corpo in due parti longitudinalmente come si prepara il maialetto per essere cucinato sul fuoco (la vittima colpevole di violenza sessuale su minore di età); etc. • Guadagno secondario del CVP Come esistono i guadagni secondari del disturbo psichico e del ruolo di paziente (maggiore accudimento e protezione, riduzione od assenza di responsabilità, evitamento di attività faticose come il lavoro, etc.) così esistono i guadagni secondari del CVP (ottenere e fare quello che si desidera, allontanare od evitare stimoli e compiti indesiderati, manifestare liberamente il narcisismo distruttivo, godere di un irresponsabile controllo sadico sulle persone, etc.). Nella valutazione e trattamento del CVP è importante l’approfondimento della presenza e della consapevolezza nel soggetto di specifici guadagni secondari che l’aggressore con o senza disturbo mentale acquisisce nella immediatezza o nella sua percezione finalistica del suo agire. Esempio. Paziente adulto con diagnosi di schizofrenia è solito, minacciando un CVP, mettere in atto i seguenti agiti: utilizza taxi per farsi portare al mare, a trovare gli amici, alle partite di calcio della squadra preferita senza pagare; frequenta i locali pubblici facendosi servire pasti, caffè e liquori senza pagare; percuote la madre e la sorella se non preparano la tipologia e la qualità dei cibi che lui ordina. Tutti comportamenti accompagnati dalle sue verbalizzazioni: tanto io sono schizofrenico… Nessuno può farmi qualcosa… Mio fratello deve pagare per me… Mia madre e mia sorella debbono ubbidirmi… Questo esempio per illustrare che anche in presenza di malattia mentale vi possono essere i guadagni secondari all’uso della violenza. • I cicli di violenza tra aggressore e vittima 58 Il comportamento violento dell’aggressore e la reattività della vittima possono tra loro interagire con modalità tali da ripetersi regolarmente e circolarmente nel tempo. In questo senso si formano cicli di violenza tra aggressore e vittima che presentano una facile prevedibilità, ma spesso una difficile trattabilità Nel trattamento dei cicli di violenza oltre all’attenzione all’aggressore deve essere posta attenzione alla vittima e allo specifico legame tra aggressore e vittima (69-73). Da rilevare che l’intervento sulla vittima oltre all’esame della fattibilità dei provvedimenti (cosa realmente si può fare a livello terapeutico e preventivo nel caso specifico) deve altresì contemplare un approccio differenziato per competenze (non solo psichiatrico, ma anche sociale e giuridico.). Esempio: Nel maltrattamento familiare ripetuto è possibile osservare, non raramente, due distinti aspetti del ciclo della violenza. 1. Nella prima parte prevale l’obiettività del CVP dell’aggressore (ad esempio il marito) e la vittima (ad esempio la moglie) esprime la chiara volontà di separarsi e di denunciarlo ed in concreto spesso denuncia il marito alle autorità. 2. Nella seconda parte del ciclo l’aggressore si mostra pentito di quanto ha fatto, depresso, bisognoso di aiuto, perdutamente innamorato e dipendente dalla compagna che aveva maltrattato sino a pochi minuti o poche ore prima. In questa seconda parte del ciclo l’aggressore provoca nella vittima sentimenti di accudimento, di protezione e di identificazione al debole, all’impotente, allo sfortunato. Inoltre stimola attraverso la giustificazione del proprio comportamento sentimenti di colpa presso la vittima che arrivano al punto in cui quest’ultima si attribuisce le colpe del fatto violento e minimizza o banalizza la violenza subita sino a negarla e nasconderla alle autorità. In conclusione quindi alla fine del ciclo la vittima (la moglie) ritira la denuncia e continua a vivere con l’aggressore sino a quando il ciclo di violenza si ripeterà. • Gli schemi ripetitivi del CVP Il protagonista del CVP può ripetere il suo agire attraverso varie modalità. La firma o personalizzazione (signature) dell’autore del CVP tende ad essere ripetitiva nella sua essenza (l’omicida a tutte le vittime che uccide amputa gli organi sessuali, etc.) Nello staging il soggetto altera di proposito la scena del crimine e può riprodurre scene ripetitive 59 di alto valore simbolico (le vittime dopo essere uccise possono essere messe in posizioni sessuali sconvenienti assai varie e fantasiose, etc.). Nel overkilling l’aggressore può, in modo volontario e ripetitivo mettere in atto un eccesso di quantità e qualità della violenza omicidiaria (ad esempio le vittime sono uccise con oltre 60 coltellate di cui decine con carattere di letalità, etc.) Nella modalità di operare (modus operandi) l’autore del comportamento violento apprende, attraverso gli errori che ha compiuto, modalità sempre più perfezionate per l’esecuzione della violenza (migliorare le sue abituali tecniche di controllo sulla vittima e la ricerca della propria impunità). Alcuni omicidi seriali uccidono ad intervalli di tempo vittime che presentano specifiche caratteristiche obiettive (ad esempio donne giovani, di razza bianca, bionde, procaci). Alcuni omicidi recidivano in rapporto a specifici eventi (abbandono, tradimento, specifiche offese, etc.) Esempio. Giovane paziente con diagnosi di schizofrenia uccide una prostituta che lo aveva dileggiato perché si era rivelato impotente sessualmente. Dopo numerosi anni di permanenza in ospedale psichiatrico giudiziario ( per infermità sopravvenuta) il paziente esce in libertà, si reca presso un’altra prostituta. Anche in questo caso è sessualmente impotente e la prostituta anche questa volta lo dileggia. Il giovane cerca di strozzare la prostituta e convinto di averla uccisa (la prostituta si salverà) da solo e spontaneamente si reca in ospedale psichiatrico giudiziario dov’era stato curato e afferma: ricoveratemi… ho ucciso un’altra volta per gli stessi motivi... L’esempio mostra la presenza di schemi ripetitivi a motivazione indipendente dal disturbo mentale. • I percorsi strutturati del CVP Il protagonista del CVP può non mettere in atto il suo agire in modo improvviso ed inaspettato come un fulmine a ciel sereno, ma attraverso una serie di tappe che sono progressive e identificabili. Esempio: Nella trasformazione dell’immagine della vittima da buona in cattiva ricordiamo le seguenti tappe progressive. 1. La prima tappa di questa trasformazione è l’accusa di comportamento ingiusto nei confronti del soggetto che diventerà poi vittima della violenza. Questa accusa può essere formulata in modo indipendente dalla realtà (con la drammatizzazione dei fatti, con la proiezione sulla vittima dell’aggressività dell’accusatore, etc.). 60 2. La seconda è il danno esistenziale intollerabile nella percezione di chi sarà l’aggressore. Questo danno anche di tipo esistenziale ha carattere soggettivo a prescindere dalla sua realtà. 3. La terza tappa è la legittima difesa e cioè chi sarà l’aggressore si sente giustificato ad aggredire e anche ad uccidere chi, in modo ingiusto (contro la legge, l’etica, la morale, l’amicizia, etc.) e doloso (con espressa volontà di nuocere) gli ha provocato un grave danno dal quale non ha potuto difendersi (danno intollerabile, imprevedibile ed inevitabile.) • I viraggi del CVP Il comportamento violento può spostare il bersaglio del suo agire di violenza: a) da una persona a un’altra persona b) dalla propria persona ad un’altra persona c) da un’altra persona alla propria persona. Questo viraggio può avvenire in modo rapido nel tempo ed essere difficilmente prevedibile ed evitabile oppure può avvenire in modo più lento e più facilmente prevedibile ed evitabile. Non conoscere questi spostamenti rapidi o lenti del bersaglio dell’aggressività può porre anche lo psichiatra a causa della sua ignoranza nella incapacità colposa di non essere in grado di mettere in atto adeguati provvedimenti di prevenzione del CVP. Esempio: L’omicidio passionale nella sua descrizione classica è costituito da un viraggio dal rischio suicidiario a quello omicidiario. 1. Nel rischio suicidiario l’individuo abbandonato dal partner disperato e depresso cerca di uccidersi in modo più o meno manifesto o plateale. 2. Nel rischio omicidiario l’individuo abbandonato, dopo la richiesta di un ultimo colloquio per ottenere delle spiegazioni, pur avendo sino allora mostrato a livello manifesto esclusivamente un rischio suicidiario in concreto uccide la persona che l’ha abbandonato. Se si ignora questo viraggio dell’omicidio passionale lo psichiatra può essere fuorviato e cioè concentrare le sue attenzioni sul rischio suicidiario e non mettere in atto alcun 61 provvedimento per evitare il rischio omicidiario (evitare che la vittima si trovi con l’aggressore per fornire spiegazioni, allontanare spazialmente i due protagonisti e cioè aggressore e vittima) • Gli aloni progressivi del CVP Il CVP può aver luogo allorquando un’emozione (ad esempio rabbia, odio, disprezzo,) aumenta sempre più di intensità sino a determinare un passaggio all’atto violento. È importante che la persona che commette o può mettere in atto un CVP sia anche valutata in modo approfondito sul tipo e l’intensità delle sue emozioni per formulare in modo più giustificato la diagnosi e suggerire i provvedimenti più idonee per la prevenzione. seppur limitata e specifica ad un fattore prevalente del CVP. Esempio. Un’emozione come la rabbia può: 1. divenire sempre più intensa (attraverso la proiezione della propria aggressività sull’altro); 2. spostarsi da una situazione o da una persona ad un’altra situazione o ad un’altra persona (mutando così rapidamente del tempo l’obiettivo dell’aggressività mediante il meccanismo psicologico di difesa dello spostamento); 3. allargarsi a macchia d’olio e cioè estendersi in modo automatico, diffuso ed intrusivo a tutti i rapporti interpersonali. 4. autoalimentarsi con la provocazione, la sfida, le minacce (per suscitare la reattività altrui e agire la propria violenza attraverso il meccanismo psicologico di difesa della razionalizzazione). Sono il fenomeno degli aloni progressivi di una rabbia sempre più intensa, diffusa e sempre meno controllata che possono essere riconosciuti e possono essere oggetto di interventi preventivi attraverso i numerosi provvedimenti terapeutici che possono essere adottati per gestire, senza negarla, la rabbia in modo socialmente accettabile. • La multifattorialità limitata e specifica a fattore prevalente 62 Alla base del CVP vi può essere un numero di fattori limitato (ad esempio quattro); specifici campi di applicazione (ad esempio aggressori sessuali); ed il presupposto che un fattore giochi un ruolo più importante degli altri nel determinare il CVP. Esempio. Nell’ambito delle aggressioni sessuali sulle donne il modello a quattro fattori (precursori motivazionali) contempla alla base del CVP: attivazione sessuale; distorsioni cognitive; discontrollo emotivo; disordini dello sviluppo. Tra questi fattori nel singolo caso clinico ve n’è uno che gioca un ruolo di fattore preponderante e senza il quale non vi sarebbe il comportamento violento. L’assenza di uno o più precursori motivazionali riduce il rischio di aggressioni sessuali. Emerge in questo caso un modello eziologico di CVP (74) con predominanza delle caratteristiche psichiche dell’aggressore ed è messo in luce il concetto di soglia della importanza dell’intensità dei precursori al di sotto della quale non vi sarebbe un CVP. • La multifattorialità limitata e specifica a confluenza di fattori Alla base del CVP vi può essere un numero di fattori limitato (ad esempio due fattori), applicazione a specifici campi dell’ agito violento (ad esempio aggressioni sessuali), la genesi del CVP non presuppone un fattore più importante degli altri, ma una confluenza (interazione) di pochi fattori (ad esempio due). Esempio. Nell’aggressione sessuale verso le donne, pur essendo molti i fattori che la determinano, possono essere, secondo alcuni autori (74), isolati due principi: la mascolinità ostile (atteggiamento sospettoso, gratificazione nel dominare, controllare, umiliare la donna); attività sessuale impersonale e promiscua (senza coinvolgimento emotivo, non rivolta allo scambio, comunicazione non condivisa, assenza di riconoscimento dell’altro) Questi fattori sono le due vie principali che conducono attraverso una loro integrazione (confluenza) a causare nella singola persona un comportamento violento in ambito sessuale. • La riattuazione del CVP. 63 Il modello della riattuazione si basa sul presupposto che l’aggressore rappresenti sulla vittima, in modo simbolico attraverso il suo atto di violenza, abusi, umiliazioni, traumi psichici o fisici disturbanti da lui subiti nell’infanzia. Questa riproduzione (riattuazione) simbolica attraverso la violenza permette all’aggressore di avere la sensazione di dominare gli eventi e di vendicarsi di un torto subito e di innalzare, seppur in modo inadeguato, il suo livello di autostima e di valore personale (74). Queste gratificazioni possono spiegare perché l’aggressore tende a recidivare nella sua aggressione. Sono un limite a questo modello la grande varietà dei traumi psichici che una persona può subire e la differente reattività di ogni persona al trauma subito. Esempio. In un giovane soggetto che aggrediva sessualmente e fisicamente i bimbi è stato possibile mettere in luce che lui stesso da bimbo era stato aggredito sessualmente e fisicamente in più occasioni da un familiare. Il meccanismo psicologico della identificazione all’aggressore (la sua trasformazione in aggressore attivo per placare l’ansia di potere essere o di essere stato vittima passiva di violenza) è emersa chiaramente dai vari colloqui ed ha permesso interventi mirati di prevenzione e di terapia. • Le dinamiche criminali e il CVP Il CVP può aver luogo su una base di dinamiche legate al comportamento criminale (genericamente contro legge e quindi non solo contro l’integrità fisica della persona) Saranno illustrati alcuni esempi clinici. a) Il comportamento predatorio del criminale può complicarsi con un CVP: un ladro entrato di notte in casa per rubare trova nel letto una giovane donna, cerca di violentarla e la uccide perché lei si difende e minaccia di denunciarlo. b) Nel sentimento di ingiustizia subita la rivendicazione del criminale (reale o nelle sue fantasie compensatorie) può complicarsi con sentimenti di onnipotenza distruttiva di controllo sadico e portare alla distruzione di una vita umana. c) L’atteggiamento controfobico di molti criminali che non riescono a stabilire un equilibrio tra la proiezione della loro aggressività sugli altri e la capacità di identificarsi alle sofferenze dell’altro può portare per un eccesso di aggressività e per una mancanza di identificazione ad una disumanizzazione dell’altro che 64 facilita una reattività omicidiaria su base controfobica (dopo aver trasferito su di te i miei desideri di uccidere e pensare che tu vuoi uccidere, ho così tanta paura che tu mi uccida che ti uccido io prima che tu lo faccia). In linea generale le dinamiche criminali che fungono da base al CVP sono da considerare a livello diagnostico e preventivo, ma non esimono dall’approfondimento della eziologia e della dinamica del CVP nel singolo caso nel suo specifico contesto. Esempio. Una tipica dinamica che può essere alla base della comportamento criminale è la triade: disprezzo trionfo, controllo. L’invidia che hanno molti criminali (a causa dei loro fallimenti esistenziali e della loro miserevole qualità di vita) per altre persone con una vita migliore sotto l’aspetto economico, sociale, affettivo, può condurre al disprezzo (non sono io che valgo nulla… è lui che vale nulla); al trionfo (non è lui che è importante ed ha successo… ma sono io che sono importante ed ho successo) ed al controllo (non sono io che dipendo dagli altri… ma sono gli altri che dipendono da me … io posso controllare e fare degli altri ciò che desidero). In questi casi (oltre i meccanismi psicologici di difesa della negazione, proiezione, identificazione proiettiva, formazione reattiva, etc.) un eccesso di sentimenti di onnipotenza di controllo sadico, di fantasie di volontà distruttive , di reattività di violenza agita a fantasmi di perdita e umiliazione, etc. possono portare a trattare la vittima con un CVP anche omicidario dopo averla disprezzata perché invidiata, trionfato su di essa umiliandola e cercato di controllarla con la violenza psicologica e fisica. Questa triade a causa della sua reattività, anche su base affettiva, a condizioni di sofferenza psichica è stata chiamata la triade delle difese maniacali del criminale (75). • Il livello di interpretazione dei fattori di rischio del CVP Esistono fattori che, in alcuni casi clinici, possono influire sulla qualità e quantità del rischio di CVP, pur non rappresentando la causa unica e diretta: abuso di sostanze stupefacenti e di alcol; precedenti criminali; disturbo mentale; impulsività; sottocultura della violenza; posizione economica precaria in povertà in contesti culturali anomici; etc. Questi fattori di rischio del CVP possono essere esaminati ed interpretati: 1) a livelli più profondi in campo diagnostico 65 2) a livelli differenti in rapporto alle finalità della valutazione. Esempio di interpretazione più profonda dei fattori di rischio in campo diagnostico. Considerando un possibile fattore di rischio del CVP, il disturbo psichico, è possibile una sua più approfondita comprensione scientifica. Ad esempio specifiche psicopatologie facilmente visibili e diagnosticabili possono nascondere (diagnosi categoriali statistiche di facciata, di maschera, etc.) più complesse eziologie del CVP. Ad esempio la diagnosi superficiale e manifesta di depressione o di delirio di rovina nei casi di omicidio-suicidio (omicidio altruista del figlio con suicidio della madre; omicidio familiare con suicidio del familicida; patto suicidario condiviso (pactes suicidaires) in cui un contraente uccide l’altro consenziente e poi si suicida; etc.) in realtà possono nascondere una eziologia più complessa della violenza che risulta legata, ad esempio, a vissuti narcisistici di frustrazione, vergogna ed umiliazione (2). In altri termini più si approfondisce il caso clinico di un soggetto con disturbo psichico che ha messo in atto un CVP più è possibile mettere in luce dinamiche psichiche comprensibili legate al comportamento violento e non alla malattia mentale (2,76,77). Analogo risultato si può ottenere con l’approfondimento diagnostico di altri fattori quali povertà economica in contesti di isolamento sociale, impulsività, abuso di droghe, etc. Esempio di differente interpretazione dei fattori di rischio in rapporto alla finalità della valutazione. E’ un dato di fatto che un delirio di nocumento in un soggetto schizofrenico che ha compiuto un omicidio è valutato sotto angoli visuali di finalità diverse nell’ambito di una perizia psichiatrica o nell’ambito di un trattamento del soggetto. Nel primo caso, in concreto a prescindere dalle motivazioni e dalle criticità, il delirio può assumere importanza primaria in merito alla valutazione giudiziaria della capacità di intendere e volere al momento dei fatti. Nel secondo caso il delirio perde la sua primaria importanza (a prescindere dalle più giustificate e sofisticate obiezioni che in teoria il delirio dovrebbe essere interpretato da tutti gli psichiatri ed in tutti contesti con gli stessi criteri) per lasciare il posto a fattori più profondi e specifici legati alla eziologia e dinamica del comportamento violento esaminati e valutati ai fini della riduzione della recidiva del CVP (come spesso è sottolineato, con linguaggio non scientifico ma emotivamente colorito, in ambito trattamentale: il delirio non è in grado di trasformare in diavolo un santo, tutt’al più fa diventare più diavolo un diavolo e 66 più santo un santo…). A prescindere da quanto precede, sotto il profilo scientifico e pratico operativo il terapeuta non può ritenere in modo semplicistico che: elimino il delirio col farmaco e così elimino il CVP dal soggetto che diviene, immediatamente, capace di intendere e di volere, responsabile del proprio comportamento ed ossequiente delle leggi. La realtà clinica e forense è molto più complessa di questi ragionamenti e pregiudizi semplicistici (anche se presentati con sofisticate razionalizzazioni ed intellettualizzazioni). Questa attuale e concreta diversità interpretativa in rapporto alle finalità della valutazione (ad esempio dell’importanza del delirio in merito alla capacità di intendere e di volere, e quindi di responsabilità personale in scelte di comportamento, in ambito di perizia e di trattamento) potrebbe essere oggetto (indipendentemente dalla soggettività interpretativa del perito e dalle differenti modalità operative del terapeuta, dal difficile connubio tra psichiatria e diritto, etc.) di una revisione critica ai fini di una maggior beneficialità del paziente e di prevenzione più accurata del CVP. • I segni premonitori del CVP I comportamenti violenti possono, in alcuni casi, essere preceduti da segni premonitori generici. Questi segni premonitori possono essere obiettivi ed associarsi tra loro (ad esempio minacce di morte seguite da acquisto di arma letale) od essere meno obiettivabili ed isolati (insonnia, agitazione psichica e motoria, sentimento di ingiustizia subita, etc) Esempio. Il comportamento omicidiario (anche il suicidiario ed anche l’omicidiario seguito dal suicidiario) può in alcuni casi essere preceduto da uno stato di disimplicazione (desangagement) dalla vita quotidiana. Il soggetto prima del CVP trascorre molto tempo in solitudine, appartato, non si prende cura dei suoi bisogni più elementari di igiene, di nutrizione, può apparire calmo e distaccato dai problemi della vita reale, può anche verbalizzare, se richiesto, che : non ci sono problemi…tutto va bene… • La comunicazione simbolica del CVP 67 L’aggressore può comunicare alla vittima il suo prossimo comportamento violento attraverso un linguaggio simbolico in cui cioè una cosa significa anche e soprattutto un’altra cosa, un’altra classe di cose od un attributo di una cosa diversa. Queste comunicazioni simboliche possono contemplare aspetti più elettivamente culturali (come la comunicazione di un CVP mediante la testa mozzata di un animale da compagnia come cane e gatto inchiodata alla porta dell’abitazione) o più personali legati alla situazione specifica (un soggetto psicotico di fronte al sacerdote, suo tutore, affonda il pugnale in un’ostia dicendo: tu sei come questa ostia… Dopo qualche giorno il soggetto pugnala alle spalle il sacerdote La lama del pugnale si conficca nella colonna dorsale e si spezza salvando così la vita al religioso). Questa comunicazione del comportamento violento a volte può essere non facilmente comprensibile a livello manifesto e la sua interpretazione, pur suggestiva, può essere carente di dati obiettivi ed in qualsiasi caso non può essere generalizzata. Esempio. Un giovane delinquente recidiva nel rubare e distruggere col fuoco un particolare modello di auto sportiva. Successivamente cerca di uccidere col fuoco, l’incendio della casa, il suo patrigno col quale era in aperto contrasto e che possedeva lo stesso modello di auto sportiva. Dirà il giovane alla polizia: ho capito che non volevo bruciare quella bella auto sportiva… volevo bruciare e uccidere il mio patrigno che mi aveva tolto l’affetto di mia madre… • Le minacce del CVP Le minacce verbali e gestuali di un CVP, che non sempre sono seguite dalla realtà della violenza, rivestono un significato basale di un’aggressività del soggetto che necessita di essere approfondita e compresa. A livello più superficiale tra le possibili interpretazione delle minacce ricordiamo: la richiesta di aiuto (chiedo attraverso le minacce di aiutarmi a risolvere il mio problema), il rafforzamento della intenzione (minaccio davanti a tutti così mi obbligo a metterle in atto), il fine strumentale (ho imparato che con le minacce da sole, ottengo quello che voglio), il momento che precede l’atto (ho già preso la decisione di mettere in atto un comportamento violento e le minacce sono la fase che precede), etc. Sotto il profilo diagnostico e terapeutico è utile quindi approfondire l’interpretazione delle minacce soprattutto quando queste ultime possono essere mascherate nelle loro motivazioni dalle verbalizzazioni dei pazienti. 68 Esempio Soggetto adulto con diagnosi di schizofrenia e delirio a contenuto persecutorio uccide lo zio (mi perseguitava) dopo averlo minacciato di morte in varie occasioni. Ad un esame più approfondito il soggetto sin da piccolo aveva sempre adottato le minacce e un CVP per gestire in senso narcisistico e sadico di controllo le persone vicino a lui (vi obbligo, spaventandovi con le minacce, a fare quello che voglio). Nel caso specifico il soggetto era in contrasto con lo zio perché quest’ultimo lo aveva avvertito che se avesse continuato a percuotere madre e padre lo avrebbe fatto ricoverare in ospedale psichiatrico. La motivazione legata al delirio è giunta a scopo difensivo dopo la confessione della motivazione legata ai contrasti con lo zio (ho dovuto ucciderlo ..mi avrebbe fatto ricoverare in ospedale…) • Le interpretazioni simboliche del CVP La rappresentazione mentale che l’aggressore si costruisce del suo atto di violenza può essere interpretata perché può avere un significato diverso dalla motivazione verbalizzata a livello manifesto. Questo significato diverso da quello proposto dall’aggressore è spesso da quest’ultimo ignorato a livello di coscienza. Questa interpretazione simbolica, correttamente costruita sotto l’aspetto procedurale è valida per soggetti con o senza disturbo psichico ed è utile ai fini diagnostici, terapeutici e preventivi di una recidiva. Esempio. Giovane soggetto affetto da schizofrenia uccide la nonna descritta come persona sadica e cattiva con numerose coltellate. Inoltre il soggetto verbalizza un grande amore verso la madre descritta come la persona più brava e buona del mondo con la quale desidera continuare la sua vita dopo il doloroso episodio della morte della nonna. Al colloquio clinico il giovane soggetto omicida, senza esserne cosciente, invece di descrivere la nonna descrive il sadismo e la cattiveria della madre (che lo ha abbandonato, ha preferito affettivamente il fratello, ha impedito una sua realizzazione lavorativa, etc. ). L’interpretazione simbolica mette in luce che il soggetto voleva uccidere la madre (descritta con tanto affetto attraverso il meccanismo psicologico di difesa della formazione reattiva (invece di: madre io ti odio tantissimo… il soggetto dice madre io ti amo tantissimo) Il soggetto poi per il meccanismo psicologico dello spostamento ha ucciso al posto della madre la nonna con il guadagno emotivo secondario di conservare la madre e cioè 69 l’oggetto amato e odiato. In questo caso specifico il magistrato ha accettato in ambito peritale questa interpretazione simbolica dell’omicidio ed ha impedito al giovane, al momento della fine della pena detentiva, di convivere con la madre 8a. Osservazioni sulle ipotesi cliniche di ricerca. Le varie ipotesi di ricerca clinica descritte mettono in luce che allo stato attuale delle conoscenze scientifiche non è ancora stata isolata una eziologia obiettiva e condivisa da tutti i ricercatori che spieghi la nascita e l’evolvere nel singolo individuo ed in una specifica circostanza sociale il CVP. Inoltre le ipotesi cliniche di ricerca descritte, come le molte altre non citate a priorità sociale o biologica od integrate (teoria dell’attaccamento disorganizzato, il modello dei multipli percorsi fisiologici, il modello evoluzionistico, strategie genetiche di sopravvivenza, ruolo della epigenetica, modulazione ormonale, biologia dell’impulsività, etc.) presentano le seguenti criticità che non permettono, soprattutto se contestualizzate, una corretto utilizzo forense per le ragioni che seguono. 1. Presentano diversità anche contraddittorie tra loro. Ad esempio nelle eziologia nella diagnosi e terapia del CVP in tema di sessualità sono contemplate circa una ventina di modelli (78) che presentano grandi diversità tra loro in tema di fattori bioevoluzionistici e fattori socio appresi. 2. Sono spesso legate a campioni di popolazioni limitati e non facilmente identificabili rispetto ad altri Ad esempio CVP in un contesto sessuale, di coppia, familiare. 3. Presuppongono spesso un particolare legame tra aggressore e vittima molto individualizzato e variabile nel tempo Ad esempio il viraggio dell’aggressività da auto a eterodiretta nell’omicidio passionale, i cicli di violenza in famiglia, etc.) 4. Hanno un valore statistico che non è, allo stato delle conoscenze attuali, ancora approfondito e condiviso e non possono essere applicate in uno specifico contesto individuale Ad esempio le minacce di violenza hanno molteplici significati ancora non statisticamente approfonditi e condivisi ed inoltre raramente sono poste in pratica 5. Necessitano di una validazione con una metodologia corretta soprattutto con strumenti di rilevamento qualitativo e quantitativo. Ad esempio molte schede di 70 rilevazione, questionari auto od etero somministrati, reattivi mentali, non sono validati scientificamente (non si sa esattamente cosa misurano, se hanno potere discriminante , quale è la loro sensibilità ai falsi positivi e falsi negativi, etc.) 6. Le loro conclusioni devono essere condivise dalle comunità scientifiche (quindi necessitano di ulteriori studi di approfondimento e di controllo critico da parte delle organizzazioni scientifiche nazionali e internazionali) 7. Spesso fanno appello ad interpretazioni della realtà che non sono facilmente obiettivabili od accettabili in un contesto giudiziario. Ad esempio l’omicidio reale di una persona attraverso un processo di interpretazione simbolica può rappresentare l’omicidio di un’altra persona. Nonostante i limiti esposti le ipotesi cliniche di ricerca in tema di CVP sono utili alla formazione della teoria e della clinica nella disciplina psichiatrica e sono utili, sempre come ipotesi operative criticamente contestualizzate, nella quotidianità della pratica clinica. Sono inoltre la tappa necessaria perché la disciplina psichiatrica migliori le sue conoscenze potendo divenire alcune ipotesi cliniche di ricerca dopo un’adeguata metodologia di validazione scientifica, delle realtà cliniche condivise più utilizzabili sotto il profilo clinico e forense. Questo passaggio avviene progressivamente e non è certo possibile dividere sempre secondo criteri categorici mutualmente esclusivi, come bianco e nero, le ipotesi cliniche di ricerca dalle realtà cliniche condivise. 8b. Non adeguatezza forense delle ipotesi cliniche di ricerca ad essere utilizzate come le evidenze cliniche condivise quali criteri per la valutazione della responsabilità professionale dello psichiatra. Secondo la giurisprudenza lo psichiatra non è giustificato, nell’ambito di una buona pratica clinica, di adottare diagnosi e terapie che si fondino su ipotesi cliniche di ricerca non validate scientificamente. Sarebbe un fatto non facilmente comprensibile che lo psichiatra, imputato e condannato perché ha usato delle ipotesi cliniche di ricerca come fondamento per la sua buona pratica clinica, venisse poi, a parità di condizioni, automaticamente imputato e condannato perché non le ha utilizzate. 71 9 Esistono principi di vittimologia utili per la valutazione ed il trattamento del CVP Il CVP per essere compreso con maggiore profondità clinica implica informazioni sia sull’aggressore che sulla vittima (69,70,76-80). E’ utile che lo psichiatra disponga di informazioni scientifiche sulle vittime preferenziali (facilmente vittimizzabili su base statistica), sulle vittime che mentono (consapevoli e non consapevoli di mentire), sulle vittime per vocazione (facilmente vittimizzabili su base personologica), sui legami patologici tra aggressore e vittima (collusioni di psicopatologie), sul viraggio da vittima ad aggressore (la vittima diventa aggressore), sulla coesistenza di vittima ed aggressore (stesso soggetto è aggressore e vittima), sulla assistenza della vittima in emergenza (cosa fare e non fare in situazione di crisi), sulla gestione della recidiva vittimologia (tecniche per ridurre il comportamento recidivante vittimologico), sull’uso terapeutico dei meccanismi psicologici di difesa dell’aggressore e della vittima (per formulare interventi terapeutici sulla psicopatologia specifica di aggressore e vittima) E’ inoltre utile per lo psichiatra e gli operatori della salute mentale conoscere la specifica semeiotica psichiatrica e psicologica della clinica vittimologica (dissociazione, rabbia, iperattivazione, evitamento, metaemozioni, sentimento di colpa, ottundimento psichico, memoria dell’evento traumatico, distorsioni cognitive, adesioni a guadagni secondari, rivittimizzaione, vittimizzazione secondaria, vittimizzazione allargata, vittimizzazione diretta ed indiretta del terapeuta, fattori di protezione, fattori di flessibilità, fattori di rischio, fattori di mantenimento, sindrome da ripetizione, crescita maturativa da vittimizzazione, etc.) allo scopo di saper condurre con buona pratica clinica il colloquio diagnostico con la vittima anche e soprattutto in termini di prevenzione di complicazioni psichiche e di comportamenti recidivanti nel ruolo attivo o passivo di vittima. Altrettanto utile per la formazione dello psichiatra e degli operatori della salute mentale è conoscere le indicazioni ed i contenuti clinici e, quando possibile saper applicare i principi fondamentali della psicoterapia alle vittime (cognitivo comportamentale, desensibilizzazione e rielaborazione, Gestalt, terapia ipnotica, psicoterapie dinamiche, debriefing psicologico, 72 terapia di rete, terapia creativa, terapie di gruppo, riabilitazione psicosociale, gruppi di auto e mutuo soccorso, etc). In particolare è utile per l’intervento terapeutico sulla vittima (ed evitare la riconversione del ruolo di vittima in ruolo di aggressore) la conoscenza di specifiche tecniche di trattamento di sintomi specifici (terapia della rabbia; della dissociazione; dell’evitamento; della iperattivazione; della coscienza, della appropriazione ed accettazione emozionale; della esposizione e del ricordo al trauma; della ristrutturazione dei pensieri irrazionali; etc.) 9a.Utilità clinica per lo psichiatra e gli operatori della salute mentale possedere informazioni scientifiche sulla vittimologia. Lo psichiatra può integrare le informazioni specifiche di vittimologia con informazioni di tipo psichiatrico, psicologico, sociologico e giuridico. Queste informazioni sono utili per meglio comprendere l’evento di violenza tra aggressore e vittima e per impostare e mettere in atto trattamenti e strategie di prevenzione nei confronti di ambedue i protagonisti e per evitare la trasformazione della vittima in aggressore. 9b. Utilità clinica e forense dei centri di vittimologia Questi centri dovrebbero disporre di competenze diversificate relative a: 1. assistenza medica e legale alle vittime nell’urgenza e nel trattamento a medio e lungo termine (attraverso una equipe nella quale sono reperibili: psichiatra, psicologo, assistente sociale, medicolegale, avvocato); 2. applicazione di procedure standardizzate per la valutazione del danno fisico e psichico della vittima (e non lasciare questa valutazione alla discrezionalità di valutatori non qualificati o faziosi); 3. accesso a strutture di preparazione della vittima al processo (esplicitare e rendere operativi alla vittima i suoi diritti e difficoltà, anche emotive, al processo). 73 10 Esistono reazioni emotive che possono influire sulla valutazione e gestione clinica e forense del CVP Molte persone di fronte ad un aggressore, una vittima od un disturbo psichico, possono provare reazioni emotive (che stimolano pensieri e comportamenti) non sempre adeguate che alterano la corretta valutazione e gestione del CVP. Queste reazioni emotive possono trovare numerose motivazioni anche di interesse psichiatrico, non sempre facilmente separabili le une dalle altre (81,82,83): 1) Reazioni emotive legate ad una risposta umana di carattere generale. Ad esempio reazioni emotive di odio, rabbia, nei confronti di autori di delitti crudeli ed efferati o reazioni emotive di disperazione e di colpa stimolate dalle vittime di violenza. 2) Reazioni emotive più specifiche legate alle caratteristiche psichiche dell’aggressore, della vittima e della persona che valuta, gestisce e giudica il CVP. Ricordiamo la psichiatrizzazione dell’aggressore, la colpevolizzazzione della vittima, la criminalizzazione del malato di mente, la deresponsabilizzazione del malato di mente: intesi come processi di etichettamento ingiustificato non rispettoso di evidenze cliniche condivise, ma legati alle emozioni soggettive, non necessariamente vissute con consapevolezza, di chi valuta. In altri termini psichiatrizzare, colpevolizzare, criminalizzare, deresponsabilizzare quando non sono presenti motivazioni scientifiche e cliniche che possano giustificarlo. a) La psichiatrizzazione dell’aggressore consiste, nei suoi aspetti generali ed emotivi acritici, nell’attribuire ai comportamenti e pensieri dell’aggressore un valore di disturbo psichico che in realtà non possiedono (ad esempio: tutte le persone che uccidono sono malate di mente, se fossero sane di mente non avrebbero ucciso). Questo automatico, generalizzato ed acritico giudizio di malato di mente, soprattutto a chi commette omicidi può essere spiegato attraverso varie ipotesi. E’ senz’altro suggestiva l’ipotesi che questo meccanismo può permettere a molte persone che assistono o valutano il CVP di difendersi dal pericoloso, dal non accettabile, dal non dicibile per il loro equilibrio psichico (accettare di essere 74 aggressivi e di voler e poter uccidere) e di mantenere importanti aree psicologiche di sicurezza e di prevedibilità personale comportamentale (solamente una persona con disturbo psichico può uccidere… Io non ho disturbo psichico… Quindi io non sarò mai, soprattutto per caso e senza la mia volontà, un assassino… io, sano di mente, che sono così diverso da chi uccide, malato di mente, posso continuare a vivere tranquillo e prevedere sempre per me un comportamento socialmente approvato e rimanere tranquillo…) Questa ipotesi può coesistere o integrarsi con molte altre ipotesi per spiegare la psichiatrizzazione. Inoltre questa ipotesa è rispettosa della constatazione quotidiana che la gravità ed efferatezza di alcuni crimini di violenza sulla persona in rapporto alla comune sensibilità morale (depravity) provochino una reattività emotiva nelle persone che è molto più ampia e personale di quanto ad esempio non siano le circostanze aggravanti od attenuanti come contemplate dalla legge. b) La colpevolizzazione della vittima consiste, nei suoi aspetti generali ed emotivi acritici, sostanzialmente in una attribuzione ingiustificata di colpa alla vittima per essersi messa in situazione di pericolo, non aver saputo trovare una adeguata e vantaggiosa via di uscita per non riportare danni fisici o psichici, non voler praticare con correttezza e speranza le cure per guarire. Anche in questo caso possono essere presenti ipotesi esplicative analoghe al meccanismo della psichiatrizzazione. Ritenere infatti per una qualsiasi persona che il mondo è pericoloso, imprevedibile e che si può essere facilmente senza volerlo e per caso vittime dei più atroci delitti o delle disgrazie più gravi sarebbe un sovraccarico di ansietà non facilmente tollerabile. Molto più utile ritenere e corroborare il pensiero-speranza: a me non capiterà.. attribuendo alla vittima la colpa di essersi messa nei guai e non aver saputo uscirne indenne. Cosi anche con questo meccanismo psicologico di difesa sono salvaguardate aree psicologiche di sicurezza e di prevedibilità personale che possono allontanare ansie e tranquillizzare: la vittima si è messa in pericolo da sola… Io non mi metterò mai in pericolo come ha fatto la vittima… Io non sarò mai una vittima…). Questa come tante altre ipotesi possibili non è in contrasto con la constatazione realistica delle molte vittime che volontariamente od ingenuamente si pongono in situazione di pericolo ed obiettivamente si comportano in modo malaccorto per uscirne indenni. c) La criminalizzazione del malato di mente consiste, nei suoi aspetti generali ed emotivi acritici, nel ritenere, senza giustificazione scientifica, che: tutti i malati di 75 mente sono pericolosi perché possono compiere gesti criminali e sopratutto mettere in atto in modo imprevedibile ed inevitabile comportamenti violenti sulle persone. La percezione del malato di mente come persona diversa dal sano di mente trascina, proprio in ragione di una diversità spesso incomprensibile paure e fantasmi protettivi ancestrali che ispirano diffidenza e facilitano proiezioni di sentimenti inaccettabili come quelli aggressivi e violenti. Questa deformazione della realtà non tiene conto dei dati fatto che mettono in luce che sono più violenti i criminali ed i drogati dei malati di mente e che i malati di mente sono da due a tre volte più vittime di violenze che i soggetti sani di mente. d) La deresponsabilizzazione del malato di mente consiste, nei suoi aspetti generali ed emotivi acritici, nell’applicazione del pregiudizio scientificamente errato, che : tutti i soggetti con disturbo psichico non sono responsabili delle loro azioni. Questo tipo di deresponsabilizzazione è contrario al principio fondamentale terapeutico di responsabilizzare, in modo e tempi opportuni, il paziente; può essere di danno psichico favorendo la regressione, la fissazione, l’infantilismo, la continuità nello sfruttamento dei guadagni secondari della malattia e favorire agiti dissociali in nome della protezione e tutela sistematica (84). La deresponsabilizzazione così intesa può rappresentare una scelta di comodo per alcuni terapeuti di fronte alle difficoltà tecnica ed emotiva della responsabilizzazione terapeutica soprattutto in pazienti difficili con comportamenti di disturbo sociale. A prescindere dalla accettabilità di queste interpretazioni o dalla loro sostituzione o integrazione con altre spiegazioni resta il fatto clinico incontrovertibile che la psichiatrizzazione dell’aggressore e la colpevolizzazione della vittima restano due grandi problemi emotivi che intralciano il trattamento dell’aggressore e della vittima. Non meno problematica è la criminalizzazione del malato di mente che intralcia il trattamento con meccanismi di etichettamento, stigma, emarginazione ed esclusione sociale oltre essere, non raramente, l’esito di un danza diagnostica, nelle terapie difficili, che parte da una diagnosi di malato per giungere (spesso dopo frustranti insuccessi) ad una diagnosi di criminale (il passaggio da mad a bad con un liberatorio trasferimento dal circuito psichiatrico al circuito penitenziario). La deresponsabilizzazione del malato di mente, come definita, è contraria alle tendenze più moderne della psichiatria che vuole accordare diritto (ma anche doveri) di cittadinanza al paziente con disturbo psichico. 76 3) Reazioni emotive legate a specifici conflitti di chi valuta e gestisce il CVP: ad esempio la difficoltà a valutare un’aggressione sessuale violenta su una ragazza di 16 anni da parte di una psichiatra che ha una figlia di 16 anni che è stata aggredita e stuprata. 4) Nell’ambito della gestione trattamentale del CVP a stretto contatto interpersonale con aggressore e vittima si possono creare grandi varietà di reazioni emotive complesse 8283). Importante per il trattamento che il terapeuta sia in grado di comprendere le reazioni emotive che il soggetto con CVP prova nei suoi confronti (84-86) e che rivelano le sue dinamiche psichiche sulla gestione della violenza: il narcisismo maligno (la distruzione di chi non ci accetta come noi crediamo di essere); un sentimento di colpa poco funzionale (che permette la liberazione di angosce arcaiche e pensieri primitivi come la legge del taglione, il viraggio dall’etero alla auto aggressività, legami sado-masochisti, etc.); sentimenti di onnipotenza (che sono stimolati in particolare da ambivalenti sentimenti di dipendenza ed indipendenza); l’uso inadeguato di meccanismi di difesa primitivi (passaggio all’atto, scissione, identificazione proiettiva, negazione, proiezione, etc.) Egualmente importane ai fini del trattamento che il terapeuta sappia riconoscere la interazione tra le emozioni del soggetto violento (o la vittima) e le proprie emozioni. Queste interazioni di emozioni (11,82,86) possono essere fortemente ansiogene sino ad essere cognitivamente destrutturanti per tutti i protagonisti compreso il terapeuta (confusione tra i conflitti dell’aggressore, della vittima ed i conflitti del terapeuta in tema di violenza sulla persona; collusioni inconsapevoli col terapeuta che scatenano nel paziente l’agito violento; identificazioni proiettive non consapevoli all’aggressore, alla vittima, al giudice; stimolazioni di recidive nell’aggressore e nella vittima con l’utilizzo non consapevole del proprio sadismo e masochismo; passaggi della psicopatologia dal terapeuta all’aggressore o dall’aggressore al terapeuta; etc.) 10a. Utilità che gli operatori della salute mentale sappiano riconoscere e gestire le loro reazioni emotive nei confronti dei pazienti psichiatrici con CVP. E’ auspicabile che gli operatori nel campo della salute mentale assumano coscienza che : a) le reazioni emotive esistono, b) sappiano attribuire loro un nome ed un contenuto, 77 c) conoscano le conseguenze negative sulla diagnosi e trattamento d) sappiano sfruttare le conseguenze positive sulla diagnosi e trattamento del paziente. Questa sensibilità alle proprie ed altrui emozioni è utile sia un patrimonio scientifico e clinico, nella gradualità di comprensione e di applicazione concreta sul paziente adatta e legittima ad ognuno secondo il suo ruolo e la sua qualificazione, di tutti gli operatori della salute mentale. Riconoscimento e controllo di stati emotivi auspicabile anche per chi, a vario titolo, difende, accusa o giudica lo psichiatra in tema di responsabilità sul CVP. Le reazioni emotive, cosi come descritte, non presentando obblighi oggettivamente determinati, appartenendo a doveri esclusivamente morali sul piano idealistico, non presentando poteri impeditivi obiettivi e dimostrabili su eventi dannosi, non configurando a livello soggettivo esigibilità della condotta, essendo classificabili come ipotesi cliniche di ricerca basate su percezioni soggettive assai variabili nella mutevolezza della intersoggettività, ecc., non hanno valore forense di rimproverabilità agli operatori della salute mentale. 10b. Utilità che gli operatori della salute mentale possano usufruire di una formazione per riconoscere e gestire le loro reazioni emotive nei confronti dei pazienti psichiatrici con CVP E’ utile che gli operatori della salute mentale possano usufruire di progressiva formazione professionale in tema del riconoscimento e gestione delle emozioni in particolare in relazione al CVP con : a) corsi di formazione sulle reazioni emotive b) discussione condivisa con esperti sul caso clinico, c) ventilazione dei sentimenti, debriefing, auditing in equipes, d) psicoterapia personale sulle proprie reazioni emotive E’ da considerare l’opportunità che gli operatori della salute mentale che continuano a presentare, nonostante i vari e progressivi interventi formativi dannose reazioni emotive nei confronti dei protagonisti del CVP dirigano (o vengano diretti da chi ne ha il dovere) 78 le loro professionalità su altri campi della salute mentale per maggior beneficialità dei pazienti. 11 La responsabilità dello psichiatra é da valutare al momento dei fatti. L’operato dello psichiatra deve essere valutato sulla base delle numerose variabili presenti al momento delle decisioni nel caso specifico per cui si procede: ad esempio le informazioni di cui si disponeva sul paziente, la complessità di una sintomatologia in evoluzione e non chiaramente indicativa di una diagnosi, la diversa fattibilità delle ipotesi di trattamento, le priorità nella specifica situazione, etc. Anche se queste valutazioni avvengono dopo i fatti (ex post) e cioè a posteriori in realtà debbono essere formulate relativamente al momento dei fatti (ex ante). Non si può cioè, nel giudizio sulla responsabilità professionale dello psichiatra, rapportare ad ora quello che è successo allora (errore clinico e forense dell’ora per allora). 11a. Non validità clinica e forense del giudizio col senno del dopo, col si poteva fare di più, col si poteva fare diversamente e col travisamento del sintomo. Dopo che un paziente ha commesso un atto di violenza fisica su un'altra persona è facile per tutti, soprattutto per i profani delle materie mediche e psichiatriche, trovare non solo le cause del CVP, ma soprattutto gli errori commessi dallo psichiatra e da altri operatori della salute mentale. Il ragionamento col senno del dopo non è corretto sotto il profilo clinico e forense perché in concreto: 1. Si avvale di informazioni di cui lo psichiatra non disponeva al momento dei fatti e che conferiscono differente significatività a variabili cliniche e comportamentali. 2. Possono essere presenti numerosi errori di pensiero tra i quali possiamo ricordare: la dissonanza cognitiva (non si considerano gli elementi che confliggono con l’ipotesi prediletta); lo scotoma preferenziale (una cecità mirata e circoscritta a fatti 79 obiettivi ma ansiogeni); il pensiero primitivo della causalità psicologica proiettata (non accettare la imprevedibilità ed inevitabilità degli eventi, ma ritenere tutta la realtà determinata da volontà e scelte di qualcuno o di qualcosa etc.); etc. 3. Possono essere presenti, anche con modalità fortemente intrusive e patologiche, meccanismi psicologici di difesa. Ad esempio di fronte al sentimento di impotenza e di paura che suscita un comportamento di violenza sulla persona grave, drammatico, incomprensibile, che appare imprevedibile ed inevitabile diventa facile fare appello ad un capro espiatorio che permette di abbassare il livello dell’ansia : quella violenza era prevedibile ed evitabile… se qualcuno non avesse fatto degli errori… quell’orribile fatto di violenza non si sarebbe verificato. Costruirsi un mondo, attraverso i meccanismi psicologici di difesa (intellettualizzazione , sublimazione, razionalizzazione, etc.) in cui i fatti spiacevoli sono sempre prevedibili ed evitabili è molto meno ansioso di un mondo dove i fatti spiacevoli sono spesso imprevedibili ed inevitabili. Motivo in più, per alimentare questo desiderio, per trovare l’errore che ha causato il CVP e punire chi si accusa di averlo compiuto. Gli esempi clinici potrebbero continuare per ognuno dei vari sentimenti disturbanti che suscita il CVP in ogni persona. Emerge da quanto precede che il ragionamento col senno del dopo non solo contiene errori non accettabili sotto il profilo clinico e forense, grossolani e primitivi errori di pensiero, ma possiede anche un indubbio fascino e guadagno psicologico immediato nei confronti di tutti gli spiacevoli sentimenti che il CVP suscita in tutte le persone (e quindi anche i protagonisti che accusano, difendono e giudicano lo psichiatra in merito al CVP del paziente). Nello stato d’animo di pregiudizio legato al ragionamento del senno del dopo, ripetiamo, senza alcuna validità clinica e forense: il paziente ha commesso un atto di violenza, quindi è stato fatto un errore si crea il presupposto che quasi tutto può divenire un errore fatale che ha provocato il CVP. In questa affermazione si ignora il fatto che l‘agito dello psichiatra può essere corretto, ma il paziente può mettere in atto un CVP egualmente e che il CVP è un evento multifattoriale nel quale il disturbo psichico può essere o non essere presente e che in qualsiasi caso è sempre da dimostrare un nesso causale tra disturbo psichico, se presente, e CVP. Con il pregiudizio del senno del dopo una insignificante variazione della dose dei farmaci, un appuntamento pretestuosamente ritenuto dilazionato, un’ennesima piccola cautela preventiva irrilevante non assunta, etc possono diventare l’errore fatale, la causa del CVP, la motivazione indiscutibile per 80 giustificare, attraverso il meccanismo psicologico della razionalizzazione, (a prescindere dai casi clinici con legittime concause) la responsabilità professionale dello psichiatra. Per questo il ragionamento col senno del dopo non può essere accettato in ambito clinico e forense. Quanto precede non esclude l’uso corretto del senno del dopo in un contesto non clinico e forense come è stato specificato. Un utilizzo corretto di tutte le sequenze storiche che hanno condotto al CVP ed alle relative misure adottate per ridurlo o neutralizzarlo può avvenire con notevoli vantaggi ed utilità per gli operatori interessati e per i pazienti. Possono essere ricordate a questo proposito particolari tipologie di debriefing : ad esempio nella immediatezza del dopo il fatto (immediate post-incident debrief) per ventilare i sentimenti degli operatori sanitari immediatamente dopo il CVP e meglio comprendere l’evento e la adeguatezza delle misure adottate; varie tipologie di formal external post – incident review e cioè un riesame di quanto accaduto da parte di un gruppo esterno agli operatori sanitari interessati sempre allo scopo di meglio comprendere l’evento nella sua complessità; differenti tipi di audit (ad esempio per ipotizzare dinamiche non colpevolizzanti e non giuridicamente utilizzabili nei confronti degli operatori interessati e funzionali alla prevenzione e migliore gestione clinica e forense dell’evento di violenza); come evento sentinella nell’ambito del risk management (per implementare, anche attraverso la individuazione delle varie componenti della sequenza del CVP e delle misure adottate, la sicurezza nell’ambito delle prestazioni sanitarie); etc. Anche il ragionamento che si basa sul principio del si poteva fare di più è errato sotto il profilo clinico e forense perché non rispettoso del principio, sia clinico che forense, che si fa quello che si deve fare e non tutto quello che si può fare: non si fanno cose inutili in quel caso specifico ed in quello specifico contesto (se un paziente si reca dal medico lamentando un dolore all’alluce del piede destro perché gli è caduta sopra una pietra di piccole dimensioni, il medico, in assenza di altri sintomi, non deve richiedere esami non giustificati quali T.A.C., ecodoppler arterioso e venoso di tutto l’arto inferiore). Il ragionamento del si poteva fare di più, spesso associato e conseguente al ragionamento col senno del dopo, può permettere, in buona fede o meno, di accusare tutti di tutto. Dopo che il paziente ha messo in atto un CVP tutti sono in grado di suggerire tutte le cose che si sarebbero potute fare in più (oltre quello che si doveva fare): anche se, spesso, nessuno può provare che, in concreto, avrebbero evitato il CVP del paziente. 81 Il ragionamento col si poteva fare di più, applicato in modo erroneo e pretestuoso in ambito forense è alla base motivazionale della medicina difensiva, apparentemente protettiva del medico, inutile per la beneficialità del paziente in oggetto, non rispettosa della appropriatezza della cura (intesa come il tentativo di conciliare l’ideale etico di fornire la miglior assistenza possibile tenendo conto delle risorse economiche disponibili), altamente lesiva della assistenza medica di altri pazienti realmente bisognosi che, a causa della realtà di risorse limitate, sono privati di cure necessarie ed utili al loro diritto costituzionale alla salute. Anche il ragionamento che si basa sul principio del si poteva fare diversamente (ad esempio per evitare il CVP si sarebbe potuto somministrare farmaci diversi, usare misure cautelari diverse da quelle adottate, utilizzare un approccio psicoterapico differente da quello utilizzato, etc.) è errato sotto il profilo forense in quanto, analogamente al ragionamento si poteva fare di più, non è rispettoso del principio forense: si fa quello che si deve fare e non tutto quello che si potrebbe fare di alternativo… soprattutto se suggerito dal senno del dopo e senza alcuna dimostrazione obiettiva che il diverso avrebbe risolto la situazione evitando il CVP. Questo concetto ( la non validità forense del ragionamento col si poteva fare diversamente) è stato ribadito, in un caso di suicidio, dalla Suprema Corte di Cassazione IV sez. pen. (sentenza14766/16): Nel caso di suicidio di un paziente affetto da turbe mentali, qualora si arrivi a dimostrare che il terapeuta abbia applicato, nell’economia complessiva della specifica valutazione clinica, la terapia più aderente alle condizioni del malato ed alle regole dell’arte psichiatrica…, può dirsi che il medico non avrebbe dovuto comportarsi diversamente da come ha fatto, disponendo una differente iniziativa ( pur fattualmente dotata di efficacia impeditiva dell’evento ), e in conclusione che non ha errato nel non averla disposta e non ha omesso una doverosa condotta. La stessa sentenza precisa a completamento di quanto precede: … essendo poi indimostrato che un diverso approccio terapeutico avrebbe avuto un risultato salvifico. Il travisamento del sintomo consiste nell’alterare (volontariamente, per ignoranza, per superficialità, etc.) la realtà ed il significato clinico del sintomo ed usare questo travisamento a fini di giustizia. L’eccesso di potere nel travisamento del sintomo ad opera di periti e consulenti può corrispondere, nell’ambito del diritto civile, al vizio dell’errore di fatto nel negozio giuridico. Ad esempio affermare: le minacce del paziente di comportamento violento sulla persona sono state sintomo inequivocabile, attuale e concreto, dell’omicidio che poi ha commesso … potrebbe essere del tutto errato in quello 82 specifico paziente ed in quella specifica occasione. Il paziente, infatti, avrebbe potuto mettere in atto minacce per una grande varietà di motivazioni. Ad esempio per richiedere aiuto a non passare all’atto violento, per ottenere nella immediatezza il guadagno secondario di soddisfare una sua esigenza voluttuaria come denaro, cibo prelibato, sigarette in abbondanza, etc. Non è certo la stessa diagnosi una minaccia come sintomo patognomonico di omicidio, di richiesta di aiuto di un soggetto in difficoltà emotiva, di ricerca manipolatoria di un futile guadagno secondario. 11b. La necessità della valutazione del nesso di causalità. Deve essere valutato se vi è un legame tra quanto ha fatto o non ha fatto lo psichiatra e il CVP messo in atto dal paziente. Lo psichiatra può aver messo in atto uno o più gesti di non buona pratica clinica, ma queste sue mancanze possono essere del tutto irrilevanti ai fini dell’aumento del rischio del CVP. Il nesso di causalità può essere esaminato attraverso varie metodologie ed in tempi brevi, può essere valutato attraverso il ragionamento controfattuale: se lo psichiatra avesse fatto correttamente quello che doveva fare il CVP messo in atto dal paziente si sarebbe verificato? Se la risposta è affermativa non esiste il nesso causale. Particolare attenzione nella valutazione del nesso causale, anche per evitare l’errore di una causalizzazione di un errore irrilevante, è la presa in considerazione, unitamente ad altri fattori quali la adeguatezza della causa, la gravità della evoluzione naturale, etc. anche il rischio consentito. Questo concetto è stato ulteriormente ribadito e chiarito, in data recente, (11/5/2016) in relazione ad un suicidio in soggetto con disturbo psichico dalla Suprema Corte di Cassazione IV sez. pen. (n.14766/16): …rischio consentito, di quel rischio cioè inerente ad una data attività che non sempre può essere eliminato del tutto per effetto di condotte appropriate. Tale rischio si colloca all’interno di strategie di intervento normalmente richieste e previste dagli standard di comportamento giuridicamente regolati o socialmente accettati in quanto ritenuti sufficientemente prudenti… 83 12 La responsabilità dello psichiatra è da contestualizzare nel singolo caso clinico Lo psichiatra deve basare il proprio operato su solide basi scientifiche e cliniche. Diagnosi e terapia devono essere suggerite da manuali e trattati di psichiatria di chiara fama e serietà scientifica, deve essere posta attenzione alle linee guida e ai protocolli riconosciuti dalle società scientifiche, devono essere presenti inveterate acquisizioni di capacità cliniche specifiche di centri di eccellenza su specifici campi del sapere. Questi sono gli insostituibili dati fattuali giustificativi che garantiscono la buona pratica clinica. Tuttavia la buona pratica clinica deve essere contestualizzata in quello specifico psichiatra, con quelle specifiche esperienze cliniche e formazione scientifica, con quel particolare paziente in quell’irripetibile contesto psicopatologico e psicosociale in cui il fatto si è verificato in concreto. 12a. Necessità di contestualizzare il caso clinico Questa necessità porta ad un utilizzo critico delle linee guida per i seguenti motivi. 1. Sono spesso inspirate da ideologie psichiatriche o costruite con metodologia statistica di ricerca clinica non sempre condivise, spesso settoriali e mutevoli nel tempo 2. Sono costruite tecnicamente con scale di valori che privilegiano i risultati scientifici della Evidence-Based Medicine, che possono essere discordanti dalla realtà clinica quotidiana, a discapito della valorizzazione dei consensi tra clinici esperti (every-day clinical world) 84 3. Riguardano spesso pazienti ideali, altamente selezionati, da curare con pratiche ideali, in situazioni di assistenza ideali, non facendo riferimento al paziente vero, reale e molto più complesso che è presente nella pratica quotidiana 4. Possono essere influenzate da motivazioni di ordine economico, di semplificazione gestionale, di approccio difensivo di matrice assicurativa, etc. in cui non si privilegia la beneficialità del paziente 5. Sono spesso differenti tra loro nei livelli di valorizzazione delle evidenze scientifiche e delle raccomandazioni cliniche suggerite 6. Le variabili cliniche che propongono presentano gradi di affidabilità molto diversi 7. Mutano rapidamente nel tempo 8. Possono fornire indicazioni anche quando mancano evidenze cliniche condivise (gaps in the evidence base) (7). In questi casi è utilizzato il consenso clinico di un gruppo di persone deputato allo sviluppo della linea guida (7). 9. Non possono essere applicate a tutti i casi clinici ed a tutte le situazioni per l’unicità del caso clinico (uniqueness of individuals) (7) e per la difficoltà a generalizzare i risultati delle ricerche cliniche (generalisability of research findings) (7) 10. Possono essere utilizzate a fini difensivi ed autotutelativi in uno specifico paziente, in una specifica situazione, senza privilegiare o, addirittura, contro la beneficialità dello stesso paziente 11. possono essere utilizzate per una psichiatria difensiva che non privilegia la beneficialità del paziente 12. non garantiscono per legge l’assoluzione dello psichiatra (10454\2010; 8254\2011; 4391\2012;10) 13. non esimono il giudice dalla valutazione delle circostanze che caratterizzano il caso concreto e la specifica situazione del paziente nel rispetto della sua volontà al di là delle regole cristallizzate (C.di Cas: IV sez. pen. N.35922\2012) 14. Non tengono conto della contestualizzazione nel singolo paziente, elemento clinico e forense indispensabile per stabilire la buona pratica clinica 15. Non tengono conto del diritto di autodeterminazione informata del paziente. Il rispetto della volontà del paziente è recentemente ancora sottolineato dalla Suprema Corte di Cassazione IV sez. pen. (n.14766/16) che afferma: Un altro profilo che incide sui confini della posizione di garanzia e dispiega i suoi effetti anche sul versante della configurabilità della colpa è il ruolo della volontà del paziente nella relazione terapeutica: la persona con disturbo psichico è titolare del diritto alla propria cura… 85 12b. Necessità di rispettare le evidenze cliniche condivise. L’agire dello psichiatra deve basarsi su evidenze cliniche condivise contestualizzate nel caso specifico ed è utile che siano documentate in cartella clinica (per evitare l’obiezione forense che: tutto ciò che non è stato scritto non è stato fatto. 13 Necessità di precisare le singole responsabilità professionali degli psichiatri che hanno curato un paziente Sotto il profilo clinico e forense è utile precisare le responsabilità di ognuno dei partecipanti alla cura di un paziente. 13a. Necessità di precisare le responsabilità dei singoli La precisazione di ruoli e di responsabilità di ognuno deve essere: 1. ufficializzata per iscritto; 2. resa nota alle persone interessate; 3. resa pubblica; 4. rispettare le qualifiche professionali; 5. applicata in concreto nel quotidiano; 6. oggetto di discussioni e chiarificazioni ufficializzate tra le persone interessate. In questo modo si evita che vi siano imputazioni anche su chi non è responsabile (imputazioni a pioggia su tutti quando la giustizia spara nel mucchio) e si evitano altresì in giudizio lunghi, dispendiosi ed aggressivi rimpalli di responsabilità tra i curanti. 13.b. Valorizzazione del principio dell’affidamento e dell’autonomia vincolata 86 La definizione e specificazione dei compiti di ogni componente dell’équipe permette a ciascuno di usufruire del principio dell’affidamento e cioè di ritenere, in linea generale, che gli altri membri svolgano con competenza il loro compito e di esplicare la propria autonomia, cioè la capacità di compiere azioni terapeutiche per le quali si è qualificati. Si tratta, comunque, di una autonomia vincolata, e cioè legata a direttive generali che provengono da persone che hanno il diritto di formularle. Da segnalare che il vincolo legato all’autonomia non può sollevare il singolo operatore da una sua personale responsabilità, riconducibile alla immanente titolarità di una posizione di garanzia. Ad esempio, l’infermiere non solo ha il diritto, ma anche il dovere di non ottemperare alle richieste di un primario psichiatra se quest’ultimo fornisce direttive contrarie alle più semplici ed elementari norme di buona pratica clinica infermieristica o, nel caso di un paziente con rischio di CVP ordinare un comportamento contrario alle più elementari precauzioni di prudenza e diligenza. Non può essere dimenticato, anche alla luce degli orientamenti della giurisprudenza, che quando un partecipe dell’equipe abbia modo di percepire una inadeguatezza comportamentale o valutativa di altro soggetto, con cui coopera nella cura del medesimo paziente, che possa risolversi in pregiudizio di questi, ha l’obbligo giuridico di rilevarla, segnalandola (per scritto, quando possibile) al soggetto che presiede l’èquipe stessa e comunque facendola constare, ovvero ponendovi direttamente rimedio (ove in grado di farlo). Quanto precede, inoltre, deve essere valutato, sotto il profilo forense, alla luce della presenza di obblighi differenziati tra posizione apicale e posizione di subordinato gerarchico, del dissenso all’autorità non legittimo, della presenza di specifici regolamenti, protocolli operativi, algoritmi decisionali, etc validi operativamente e, condizione indispensabile, rispettosi dei principi generali, clinici e forensi, di buona pratica clinica. 14 Necessità di precisare i criteri di assunzione, dismissione e contenuto della posizione di garanzia. 87 La posizione di garanzia dello psichiatra verso un paziente implica due distinti doveri: curare e proteggere. Quando si instaura una relazione terapeutica tra paziente e professionista nell’ambito di uno specifico conferimento professionale iniziano i doveri. Ad esempio: ripetere i farmaci in ricetta significa entrare in posizione di garanzia (assunzione). L’uscita dalla posizione di garanzia (dismissione) in paziente con rischio di CVP, quando è il caso, deve rispettare la continuità di cura: non è sufficiente una lettera di dimissioni se non seguita da un contatto diretto tra medici: la lettera potrebbe non arrivare, non essere letta dal responsabile. Il contenuto della posizione di garanzia è ricco di criticità in particolare per quanto concerne il dovere di proteggere nel discrimine tra l’intervento medico e quello custodialistico. 14a.Necessità dello psichiatra di conoscere quando si assume e quando si dismette la posizione di garanzia Lo psichiatra deve conoscere questi due fondamentali momenti della posizione di garanzia. 14b. Necessità che lo psichiatra e chi lo valuta conoscano il contenuto della posizione di garanzia Per ridurre il rischio di CVP allo psichiatra non possono essere richiesti, in modo diretto e soprattutto pretestuoso, ruoli per cui non è qualificato: (poliziotto perfetto che sa tutto di tutti; indovino infallibile che sa predire il futuro; maestro di arti marziali; santo protettore onnipotente che protegge tutti dal CVP; guardia del corpo; angelo custode; guaritore miracoloso; responsabile della sicurezza, dell’ordine sociale e della moralità della popolazione; onnipresente ed onnipotente igienista mentale che deve estirpare la malattia mentale e la violenza dal mondo; etc). 88 Osservazioni conclusive Difficoltà ad assumere un atteggiamento neutrale di fronte alla responsabilità dello psichiatra. Le osservazioni che precedono, isolate dal loro contesto, possono essere interpretate sia per accusare più facilmente (ad esempio l’estensione dei doveri dello psichiatra nella posizione di garanzia e nella continuità delle cure, etc.) quanto per assolvere più facilmente (ad esempio la imprevedibilità e la inevitabilità del CVP, le condotte imprudenti e/o inconsulte dei pazienti psichiatrici, etc.) lo psichiatra. Varietà della tipologia ed incertezza dei dati scientifici sul CVP Il CVP quale evento multideterminato (anche in presenza di disturbo psichico) può presentare priorità biologiche (violenza accidentale nel corso di demenza agitata) sino a priorità sociali (violenza acquisitiva economica in associazioni criminali). E’ inoltre da considerare la grande varietà dei comportamenti violenti (psicologici o fisici; affettivi o predatori; verbali od agiti; su cose, animali, persone; etc.) che non sempre rendono agevole un comparazione di dati scientifici. La stessa restrizione al campo di indagine del CVP implica approfondimenti in tema di tipologie (le dinamiche alla base delle percosse non sono necessariamente eguali a quelle dell’omicidio) e di specificità nella singole tipologie (ad esempio le dinamiche in tema di uxoricidio, patricidio, figlicidio, etc. non sono 89 sovrapponibili a livello diagnostico e trattamentale). Vi è inoltre incertezza e varietà discordanti dei dati scientifici sulla eziologia, sulla clinica e sui correlati biologici (studi neuro anatomici e neuro fisiologici, fattori neuro trasmettitoriali, fattori neuro endocrinologici, fattori genetici ed epigenetici, etc.) del CVP. Necessità di chiarire le aspettative nei confronti della medicina e della psichiatria L’aspettativa che le scienze mediche permettano complete e definitive guarigioni da tutte le malattie e da eventi multideterminati (ove il ruolo della medicina e della psichiatria può essere assente od irrilevante) può stimolare l’opinione pubblica ed implicare la gestione della giustizia in rivendicazioni ed accuse che non rispettano la realtà clinica e forense (ad esempio richieste di controllo del disturbo sociale e della criminalità invece del rispetto della libertà di cura e della buona pratica clinica e del buon governo del rischio consentito e cioè non eliminabile). L’atteggiamento personale dello psichiatra e di chi lo giudica nei confronti del CVP Tutti i vari indirizzi psichiatrici (biologico, dinamico, fenomenologico, psicoanalitico, etc.) contemplano, seppur con diversa importanza e senza entrare in merito alle complesse definizioni di reazioni transferali e controtransferali in senso allargato e ristretto, le reazioni emotive delle persone che mettono in atto, subiscono, assistono in realtà od in finzione, valutano e giudicano per legge il CVP. Questi atteggiamenti personali non possono essere ignorati a livello clinico e forense. La confusione tra ipotesi cliniche di ricerca ed evidenze cliniche condivise. La ipotesi clinica di ricerca (studi e ricerche ancora oggetto di approfondimento e criticità scientifiche non ancora convalidate dalla letteratura internazionale) utile per il progredire 90 della psichiatria e per una sempre maggiore beneficialità del paziente, può essere svolta, non solo attraverso studi sperimentali su campioni selezionati con metodologie di indagine e di elaborazione dei dati altamente sofisticate, ma anche al letto del paziente nella quotidianità dell’assistenza. Ad esempio il paziente a rischio di CVP può essere sottoposto ai più disparati strumenti di valutazione (diagnostica per immagini alla ricerca di correlati biologici, reattivi mentali usati in modo singolo, integrato od in costellazioni di batterie, questionari specifici per il suicidio auto ed etero somministrati, schede di rilevazione e monitoraggio compilate da tutti gli operatori sociali, etc.) Solo una piccola parte di queste ipotesi cliniche di ricerca avrà valore scientifico riconosciuto sia dai ricercatori che dai clinici che curano i pazienti e farà parte di quelle evidenze cliniche condivise accettate dalla comunità scientifica. Esempi di evidenza clinica condivisa, in tema di CVP, sono il fatto che si tratta di un evento multideterminato, che non esistono strumenti clinici ed attuariali per una sicura previsione nel singolo caso clinico, che il rischio di CVP può variare rapidamente nel tempo, etc. Sotto l’aspetto forense, a prescindere dalle più approfondite e sofisticate diatribe sul valore euristico ed epistemologico di evidenza scientifica, sui livelli e categorie di evidenze (full, limited, lack, negative, etc.) e sulla criticità del discrimine tra ipotesi clinica di ricerca ed evidenza clinica condivisa, in realtà ha valore forense solo la evidenza clinica condivisa e non i mille rivoli della pur necessaria ed importante ipotesi clinica di ricerca. Quest’ultima, infatti, sempre a livello forense, non è ancora scientificamente approfondita, convalidata nella pratica quotidiana e condivisa dagli studiosi ed esperti clinici a livello nazionale ed internazionale. La confusione tra diagnosi psichiatrica categoriale statistica e diagnosi psichiatrica forense peritale. La diagnosi psichiatrica categoriale statistica è generalmente tratta dai manuali diagnostici e statistici più diffusi (D.S.M.5; I.C.D.10; P.D.M.) e, nelle cartelle cliniche di degenza, compare in genere nella formulazione della diagnosi di entrata e di uscita dal reparto. Questa diagnosi, come è specificato negli stessi manuali, non ha valore forense se isolata da un contesto di chiarificazione. Ha, infatti un importante valore statistico classificatorio e di comunicazione tecnica tra specialisti, utile nella ricerca scientifica, ma non approfondisce (se non chiarificata ed integrata con più informazioni) sotto l’aspetto 91 clinico e forense, il singolo caso in esame. Quest’ultimo è reso infatti assai più complesso in ragione: 1. Della variabilità individuale della qualità, quantità, persistenza ed interazione dei sintomi; 2. Delle differenti presenze e relazioni funzionali di specifiche comorbidità del singolo 3. Della unicità irrepetibile della situazione psicosociale reale e percepita che contestualizza il caso in esame; 4. Dell’apporto alla diagnosi e terapia delle reazioni emotive transferali e contro transferali intese in senso allargato, come emozioni, o in senso ristretto in specifici contesti di psicoterapia. 5. Dalla specifica reattività del singolo caso clinico alle psicoterapie e farmacoterapie 6. Dalla mutevolezza continua delle interazioni con l’ambiente psicosociale. La diagnosi psichiatrica forense peritale è costituita dall’insieme di segni (oggettivi) e sintomi (soggettivi) presenti nel paziente al momento dei fatti per cui si procede e delle decisioni oggetto di indagine giudiziaria, ed ha valore forense nelle perizie e consulenze. Questa diagnosi rappresenta, soprattutto quando documentata in modo esauriente, la situazione psichiatrica clinica del singolo soggetto in esame (che può integrarsi con elementi della diagnosi statistica contestualizzata nel caso clinico in esame) ed è generalmente contenuta (nei pazienti con disturbo psichico ricoverati) nelle cartelle cliniche di degenza nel diario clinico alle date riferite ai fatti per cui si procede. Le due diagnosi psichiatriche, categoriale statistica e forense peritale, non debbono essere confuse perché non rappresentano la stessa tipologia di diagnosi ed hanno differenti funzionalità. Lo stesso criterio vale per altri tipi di diagnosi che non rispettano, come la diagnosi categoriale statistica, le caratteristiche della diagnosi forense peritale e sono utilizzate (in modo esclusivo o prioritario o non contestualizzate nel caso per cui si procede al momento dei fatti) al posto di quest’ultima in specifico contesto forense di perizia o consulenza. Le perizie e le consulenze devono fare riferimento alla diagnosi forense peritale per il corretto giudizio sulle decisioni assunte al momento dei fatti. Ad esempio la diagnosi categoriale statistica di disturbo dell’umore, senza altre specificazioni, non contempla misure di cautela protettive. Qualora nel diario clinico fosse segnalato, alla data dei fatti per cui si procede, un grave rischio di CVP che dovrebbe comportare misure cautelari di protezione per il paziente, saremmo di fronte ad una diagnosi forense peritale: 92 è a questa seconda diagnosi che deve essere relazionata, principalmente, la responsabilità professionale dello psichiatra che si trovava, in quel momento, in posizione di garanzia col paziente a rischio di CVP. E’ valido il principio anche in situazione opposta: ad esempio se la diagnosi categoriale di entrata in reparto è di disturbo dell’umore con attuale e concreto rischio di CVP vi è necessità di misure cautelari. Se poi nel diario clinico è riportato (dopo un accurato e prolungato monitoraggio della situazione clinica) una riduzione dei sintomi del disturbo del’umore, dei fattori di rischio del CVP e netta prevalenza dei sintomi protettivi del CVP, al momento dei fatti per cui si procede, allora le misure cautelari non sono più necessarie. Anche in questo caso è sempre la diagnosi psichiatrica forense peritale al momento dei fatti a cui deve essere relazionata la messa in atto e la adeguatezza delle misure cautelari e, in primo luogo, rapportato, in merito a questa variabile, il giudizio sulla responsabilità professionale in relazione alle decisioni assunte al momento per cui si procede. Necessità di una criteriologia per la valutazione dei requisiti di causalità e del nesso di causalità tra azione od omissione dello psichiatra e CVP del paziente. La valutazione dei requisiti di causalità e del nesso di causalità in medicina e psichiatria sono temi complessi e ricchi di diatribe cliniche e forensi (5,87-91). E’ quindi necessaria una criteriologia valutativa condivisa che deve essere applicata in sede forense da periti e consulenti in tema di responsabilità professionale dello psichiatra in merito al CVP del paziente. 1) Inquadramento clinico e forense delle cause di CVP. Deve infatti risultare nell’elaborato scritto di periti e consulenti, rapportato al caso clinico in oggetto, il rispetto: a. del CVP come evento multifattoriale e non monofattoriale, b. della differenza tra i fattori eziologici di interesse clinico e quelli di interesse giuridico, c. dei criteri di giudizio della causalità commissiva ed omissiva dello psichiatra, d. dei criteri di giudizio della causalità nel civile e penale. 93 2) Specificazione, nel caso clinico in oggetto, di quella che il perito od il consulente hanno ritenuto e motivato come causalità del CVP. In questa chiarificazione della eziologia: a. debbono essere usati i criteri più accreditati per definire, in senso forense, i requisiti della causalità (ad esempio i criteri di prevedibilità e di probabilità). b. debbono essere individuati tutti i possibili meccanismi eziologici e verificate se queste alternative ricostruzioni possono tutte essere riferite alle condotte (colpose) dell’agente come condiviso dalla prevalente dottrina attuale (Cass., IV sez. pen.; 10795; 2007). 3) Esistenza o non esistenza del rapporto di causalità tra azione od omissione dello psichiatra e CVP del paziente. Attraverso i criteri più accreditati dell’accertamento del nesso causale deve essere specificato: a. l’esclusione del rapporto causale (con le motivazioni in rapporto alle possibilità scientifiche od alla insufficienza dei dati che sostengono l’ipotesi), b. la presenza e la quantificazione probabilistica motivata del rapporto di causalità: a) incerto, b) molto probabile, c) sostanzialmente certo. 4) Esistenza o criteri di esclusione di altre cause necessarie e sufficienti a produrre il CVP del paziente indipendentemente dalla azione od omissione dello psichiatra. Attraverso i criteri più accreditati della valutazione delle concause (preesistenti, simultanee, sopravvenute) deve essere specificata la loro presenza od assenza e, se presenti, il loro ruolo nel caso clinico per cui si procede. 5) Considerazione che la professione medica e psichiatrica appartengono alle attività rischiose. In questo senso, pur non ignorando le varie teorie sulla causalità (condizionalistica, della sussunzione sotto leggi, della causalità adeguata, della imputazione obiettiva dell’evento, etc.) particolare sensibilità deve essere posta: a. alla teoria dell’aumento del rischio ed in particolare del rischio consentito nella professione psichiatrica in merito al tema specifico del CVP contestualizzato al caso clinico in oggetto. b. alla evoluzione naturale ed alla potenzialità del CVP (valutazione del fisiologico variare nel tempo e della intrinseca gravità clinica del CVP) del singolo caso 94 clinico nel suo ruolo di bilanciamento probabilistico del valore eziologico dei vari fattori in discussione. Quanto precede rappresenta una criteriologia forense, da contestualizzare nel penale e nel civile, utile a soddisfare in termini di chiarezza le esigenze della giustizia ed è onere che grava e deve essere rispettato dai medici che esprimono pareri motivati forensi (5- Fiori). Inoltre questa criteriologia permette di prevenire illegittime estensioni o restrizioni del concetto forense di causa e concausa, soggettive e non motivate dichiarazioni di presenza od assenza di nessi di causalità, assenza di prove della rilevanza causale dell’errore dello psichiatra; errori metodologici (per superficialità, fretta, ignoranza, pregiudizi, imperizia peritale, tendenze assolutorie o colpevoliste, etc.) o di giudizio forense quali ragionamenti col senno del dopo, si poteva fare di più, si poteva fare diversamente, pubblicità ingannevole del farmaco miracoloso, accattonaggio dei sintomi e dei fattori di rischio, psichiatrizzazione, confusione tra ora ed allora, causalizzazione dell’errore irrilevante, causalizzazione del fattore di rischio, travisamento del sintomo. Necessità di ribilanciare il rischio del disturbo psichico in relazione al CVP Recenti studi (92,93) mettono in luce che l’incidenza del CVP: a. nelle persone con disturbo psichico è solo leggermente superiore a quella delle persone senza disturbo psichico (rischio abituale attribuibile modesto); b. è inferiore a quella dei soggetti che fanno abuso di alcool, di droghe, e dei soggetti criminali (rischio relativo inferiore); c. aumenta con abuso di alcool, droghe e precedenti criminali (rischio aumentato con associazioni specifiche). Questo ribilanciamento (inteso in senso forense come bilanciamento probabilistico del valore eziologico dei vari fattori in discussione) dall’emotivo (implicante una non scientifica criminalizzazione del disturbo psichico: i malati di mente sono pericolosi) al rispetto della realtà (esistono molte categorie di persone più pericolose dei malati di mente) implica una revisione della attuale responsabilità giuridica e deontologica dello psichiatra e della esclusiva o sperequata attenzione, anche in sede di elaborati peritali, al 95 disturbo psichico, non scientificamente corroborata, nell’ambito della multi determinatezza dell’evento di CVP. Questo ribilanciamento della importanza del disturbo psichico potrebbe portare, nella sua applicazione concreta, ad una beneficialità per il paziente che potrebbe fruire di una più selettiva attenzione dello psichiatra al disturbo psichico sul quale ha il dovere e la qualificazione per intervenire ed anche beneficialità per la professione dello psichiatra non disperdendo, in modo inappropriato, energie ed assumendo responsabilità improprie su quegli aspetti di eventi multideterminati sui quali non ha il dovere e non è qualificato per intervenire. Necessità di riesaminare i giudizi, in termini di responsabilità professionale, sulla pericolosità sociale penale e sulla pericolosità sociale psichiatrica Esistono, secondo il codice penale due tipi di pericolosità sociale. La pericolosità sociale penale (o criminale) è di esclusiva competenza del magistrato (art. 203 ed art.133, CP e relative modifiche). La pericolosità sociale psichiatrica può essere valutata dallo psichiatra (e poi accettata o rifiutata dal magistrato che è, per legge, il perito dei periti). In ambedue i casi, valutazione del magistrato o valutazione dello psichiatra, segue concretamente, in caso di pericolosità, la messa in atto o meno di misure cautelari, di differente entità, che hanno lo scopo di neutralizzare o ridurre il rischio di CVP. Sulla base di queste premesse sarebbe da valutare la constatazione che sia solo la pericolosità sociale psichiatrica, in modo così esclusivo o decisamente prevalente, ad essere oggetto di rivendicazioni legali. Questo riesame critico di un dato di fatto, apparentemente sperequativo, non può che essere affrontato col massimo rispetto del ruolo del magistrato e del suo diritto alla libertà di giudizio e della difficoltà di giudizio dello psichiatra e con la necessità di stabilire per tutti e due, magistrato e psichiatra, criteri il più possibile obiettivi per una valutazione di responsabilità professionale di importanza forense. La qualificazione dei periti e dei consulenti. Le imputazioni e le condanne nonché i lunghi percorsi giudiziari in tema di responsabilità professionale dello psichiatra sono molto spesso stimolati, se non determinati, da periti e 96 consulenti e non esclusivamente dal magistrato (5). Per questo motivo periti e consulenti debbono presentare una adeguata qualificazione di competenza reale (e non solo di titoli) al loro compito. Sulla base degli art. 220 e 221 del Codice di Procedura Penale in tema di perizia e di periti (che mettono in luce le qualificazioni richieste: specifiche competenze tecniche; particolare competenza nella specifica disciplina), dei codici deontologici medici sulla responsabilità professionale (art. 62 del Nuovo Codice di Deontologia Medica, 18-052014, che sottolinea la qualificazione: effettivo possesso delle specifiche competenze richieste dal caso) e della legge Balduzzi (art. 3, comma 5, lg 189 del 08 nov. 2012; dl 13 sett. 2012; sul ruolo delle Società Scientifiche in merito all‘accreditamento di buone pratiche cliniche), la Società Italiana di Psichiatria (SIP) e la Società Italiana di Psichiatria Forense (SIPF) hanno approvato (Congresso Nazionale SIPF, Alghero, maggio, 2015) un position paper nel quale sono stabiliti i criteri per il giudizio sulla responsabilità professionale dello psichiatra: 1. La presenza di un collegio peritale in cui vi sia uno psichiatra; 2. Lo psichiatra deve possedere: • la specializzazione in psichiatria; • esperienza clinica assistenziale di almeno otto anni in struttura pubblica oltre gli anni di specializzazione; • adeguato curriculum in relazione al giudizio del caso in oggetto. 3. Queste qualificazioni debbono essere specificate e scritte nel verbale al momento del conferimento dell'incarico peritale. La responsabilità di periti e consulenti. Sulla base della centralità che periti e consulenti hanno nei contenziosi sulla responsabilità professionale dello psichiatra, costoro debbono rispondere delle loro affermazioni agli enti istituzionali preposti al controllo, seppur con differenti ruoli e diverse possibilità sanzionatorie: gli Ordini Professionali, le Società Scientifiche, le Commissioni di disciplina, il Giudice Civile ed il Giudice Penale. I periti possono compiere errori professionali legati ad imprudenza, negligenza ed imperizia (ricostruzioni ipotetiche e fantasiose su dati insufficienti, dimenticanze nella ricerca dei dati, ignoranza della letteratura sul tema in giudizio, pareri conclusivi sprovvisti 97 di adeguata motivazione o di copertura scientifica, affermazioni cliniche contrarie a tutte le evidenze cliniche condivise dalla letteratura nazionale ed internazionale, etc.) In particolare la imperizia del perito o del consulente consiste nella incompetenza tecnica nello specifico argomento oggetto della perizia (5), che può essere accompagnata dalla mancanza di consapevolezza dei propri limiti professionali (ove tale consapevolezza sussistesse si verrebbe a delineare anche il profilo della imprudenza per cd. temerarietà) (5). La imperizia peritale può essere considerata più grave in periti che commettono errori non scusabili (5), i quali possono agire con una condotta soggettivamente dolosa (5) in quanto sostenuta dall’interesse professionale di essere graditi al committente e mantenere in tal modo un flusso costante di incarichi peritali (5) (secondo un atteggiamento più volte denunciato nell’ambito della medicina legale in generale, considerato espressivo, secondo efficace definizione, di medicina legale della obbedienza giurisprudenziale), con indebita assunzione di un ruolo pregiudizialmente accusatorio (5). A mantenere nel perito (e consulente) un pregiudizio accusatorio è altresì da considerare il fatto obiettivo che non di rado le parti lese non accettano conclusioni assolutorie e possono reagire non solo con agguerrite consulenze ma anche con denuncie penali che, ambedue, possono mettere in grande difficoltà chi nel suo parere non è sfavorevole ai medici (5): si tratta di un comportamento preventivo difensivo del perito (e consulente) a danno del periziando, che merita una preoccupata riflessione e caratterizza la medicina legale difensiva (5). Anche i consulenti di parte possono compiere errori professionali (e fondatamente assumere una responsabilità deontologica ex art. 62 del codice di deontologia medica) quando presentano consulenze sfacciatamente compiacenti e prive di decenti motivazioni scientifiche (5); formulano richieste di approfondimenti diagnostici peritali non giustificati sotto il profilo clinico e forense; utilizzano in modo non scientifico ed erroneo sotto il profilo forense, dati delle neuroscienze o principi clinici della psicologia del profondo o di specifiche correnti di pensiero psicanalitico; utilizzano in modo erroneo dati di laboratorio o di reattivi mentali travisandone il senso per utilità personale ai fini di giustizia; etc. Sono inoltre descritte, in letteratura, altre due tipologie di perito che non soddisfano le esigenze di giustizia e la correttezza professionale: gli innocentisti ad oltranza, con tendenze assolutorie verso la classe medica per un atteggiamento ingiustamente corporativo (5), ed i colpevolisti ad oltranza e cioè quei medici, che in veste di periti o consulenti formulano pareri tecnici non obiettivi perché in preminenza ispirati, consciamente o inconsciamente, dal timore di conseguenze negative, professionali e/o personali, a loro danno, qualunque sia la provenienza e la natura di tale rischio reale o 98 presunto : altro esempio di medicina legale difensiva legata al timore di ritorsioni ed alla perdita di un filone professionale redditizio (5). Quanto precede non esime periti e consulenti dal rispondere di comportamenti contrari a precise norme di legge contemplate nel codice Civile e Penale (ad esempio, falsa perizia od interpretazione, art.373 c.p.; false dichiarazioni od attestazioni in atti destinati all’autorità giudiziaria, art.374 bis c.p.; etc.). Periti e consulenti incapaci e/o in malafede, come descritti dalla letteratura internazionale e nazionale e nei trattati forensi (91,94), debbono essere riconosciuti, isolati, etichettati e sanzionati non solo perché spesso carpiscono la buona fede dei committenti e del magistrato attraverso l’esibizione di titoli di specializzazioni o titoli accademici cui non corrisponde la competenza reale sull’argomento della perizia (la legge, ex artt.220 e 221 c.p.p., richiede la competenza reale sul tema in oggetto di giudizio), ma anche per il danno ingiusto che procurano a singoli professionisti ed il grave discredito che gettano sulla rispettabilità e credibilità scientifica, etica e sociale di tutta la categoria degli psichiatri. I mutamenti giurisprudenziali e le variazioni normative in tema di responsabilità per la prestazione sanitaria. Anche l’applicazione concreta e quotidiana dell’assistenza psichiatrica risente del mutare nel tempo del contenuto delle decisioni dei giudici in tema di responsabilità da prestazione sanitaria. L’orientamento delle sentenze in tema di contrattualizzazione della prestazione medica, del contratto di protezione tra psichiatra e paziente, dell’obbligo legale derivante dal contatto sociale del gestore di un servizio sanitario pubblico con il paziente, della tendenza alla dissoluzione della differenza tra obbligazione di mezzi ed obbligazione di risultato, etc., è in continua evoluzione ed oggetto costante di legittime valutazioni critiche a scopo migliorativo (89,90) Questo variare della giurisprudenza, almeno come recepito a livello divulgativo presso gli psichiatri, può stimolare, a prescindere da una lettura approfondita e critica di ogni singola sentenza, comportamenti difensivi pregiudiziali (gli psichiatri spaventati corrono dietro alle sentenze adottando una psichiatria difensiva) che possono non rispettare in modo adeguato le obiettività cliniche e la beneficialità del paziente con rischio di CVP. In questo contesto è da auspicare (se non una depenalizzazione, che potrebbe essere in contrasto con il precetto costituzionale) una valutazione giudiziale ispirata a larghezza di vedute e 99 comprensione specie per l’aspetto della colpa per imperizia, prefigurando, sul piano processuale: l’adozione di mezzi di conciliazione alternativi alle conflittualità e lunghezza temporale dei processi; un utilizzo più frequente della mediazione; l’inversione dell’onere della prova; la maggiore implicazione forense dei responsabili delle strutture atte all’accoglienza e cura del paziente; la previsione della istituzione per via normativa di fondi di solidarietà sociale a garanzia delle istanze risarcitorie nei casi di colpa non macroscopica, la possibilità di conciliazione tra le parti in causa di tipo prevalentemente od esclusivamente assicurativo. In questo contesto di mutamenti è da sottolineare le incertezze e le problematiche sollevate dalla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. Inoltre sono da considerare le continue proposte di legge che concernono il CVP. Ad esempio il concetto di pericolosità, assai mutevole nel tempo, è passato da una valutazione individuale di Pericolosità ad una valutazione, su base statistica, di Rischio di Comportamento Violento. Attualmente il concetto di pericolosità è oggetto di discussione, per proposta di legge, per quanto riguarda lo psichiatra, di acquisire un significato esclusivamente medico–terapeutico definibile come Bisogno di cure. La difficoltà a proporre criteri in tema di responsabilità forense dello psichiatra. La formulazione di criteri troppo specifici e dettagliati non permette di contemplare tutte le individualità dei singoli casi clinici. Criteri troppo generali possono risultare vaghi ed interpretabili soggettivamente nel singolo caso clinico. Queste criticità sono poi esasperate dai limiti scientifici della disciplina della psichiatria, dalla difficoltà di definire la buona pratica clinica contestualizzata, dalla difficile integrazione tra diritto e medicina e dai mutamenti giurisprudenziali e variazioni normative che regolano la prestazione sanitaria. Conclusioni. Le osservazioni psichiatrico forensi che precedono possono rappresentare uno stimolo di approfondimento critico per la ricerca di una condivisione sempre maggiore sul piano 100 clinico e scientifico tra gli psichiatri sulla gestione del rischio di CVP al fine di una più ampia beneficialità per tutti i protagonisti attivi e passivi dell’evento di violenza nel pieno rispetto dell’autodeterminazione del paziente. Queste osservazioni hanno un valore generale e possono essere allargate ed approfondite, in tema di gestione del CVP, a livello personale ed istituzionale con protocolli d’azione, algoritmi di decisioni, specifiche divisioni di ruoli terapeutici, schemi di procedure ed obiettivi di intervento, indicazioni preventive e gestionali delle situazioni di crisi, corsi di formazione su specifici temi di valutazione e gestione del CVP, arricchimenti con metodologie attuariali dei risultati clinici, utilizzo critico ed approfondimento scientifico di ipotesi cliniche di ricerca. Pur nella considerazione dei necessari approfondimenti critici attuali, delle correzioni future, del mutare delle ideologie psichiatriche e dei principi giuridici e della possibilità per ogni psichiatra di ampliare (anche a livello ufficiale e per iscritto) i suoi compiti nella gestione del CVP è da rilevare che queste osservazioni forensi e di buona pratica clinica già allo stato attuale permettono: A) di offrire al paziente ed ai protagonisti dell’evento di violenza una alta qualità di beneficialità in tema di cura e protezione rispettosa della autodeterminazione. B) di offrire allo psichiatra uno schema di comportamenti obiettivi di buona pratica clinica soddisfacendo il suo diritto e dovere di conoscere, prima di essere imputato, i criteri precisi sui quali è giudicata la sua responsabilità professionale C) di evitare che in una aula giudiziaria siano esclusivamente altre persone (avvocati, giudici, medici legali, periti, consulenti, familiari) a suggerire o decidere quali siano le coordinate cliniche sulle quali giudicare la responsabilità dello psichiatra in tema di CVP. Infine queste osservazioni psichiatrico forensi di buona pratica clinica dovrebbero stimolare un dialogo costruttivo fra tutti i protagonisti dell’evento clinico e giudiziario del CVP messe in atto dai pazienti allo scopo di una sempre maggior beneficialità per tutte le persone interessate nel pieno rispetto del diritto all’autodeterminazione di ognuno, delle evidenze cliniche condivise e delle leggi vigenti. Bibliografia 1. Morasz L; Comprendre la violence en psychiatrie. 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