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Osservazioni psichiatrico forensi
di buona pratica clinica in tema di
comportamento violento sulla persona
agito dal paziente
G.C. Nivoli, L. Lorettu, P. Milia, A.M.A. Nivoli.
1
INDICE
Premessa
Pag 4
Il CVP è un evento multideterminato
Pag 6
Il rischio del CVP può variare rapidamente nel tempo per quantità e qualità
Pag 14
Non esistono metodologie obiettive per una sicura previsione del CVP nel singolo caso
clinico.
Pag 16
Esistono fattori di rischio e fattori protettivi del CVP
Pag 19
Non esistono farmaci con l’indicazione di guarire il CVP
Pag 27
Non esistono provvedimenti psicoterapeutici che guariscano sempre, rapidamente e senza
recidive tutti i CVP
Pag 37
Esistono situazioni di crisi che possono precedere il CVP
Pag 38
Esistono ipotesi cliniche di ricerca per valutare il CVP in assenza di disturbo psichico
Pag 57
Esistono principi di vittimologia utili per la valutazione ed il trattamento del CVP
Pag 72
Esistono reazioni emotive che possono influire sulla valutazione e gestione clinica e
forense del CVP
Pag 74
La responsabilità dello psichiatra é da valutare al momento dei fatti.
Pag 79
La responsabilità dello psichiatra è da contestualizzare nel singolo caso clinico.
Pag 84
Necessità di precisare le singole responsabilità professionali degli psichiatri che hanno
curato un paziente
Pag 86
Necessità di precisare i criteri di assunzione, dismissione e contenuto della posizione di
garanzia.
Pag 87
2
Osservazioni conclusive
Pag 89
Difficoltà ad assumere una atteggiamento neutrale di fronte alla responsabilità dello
psichiatra
Pag 89
Varietà della tipologia ed incertezza dei dati scientifici sul CVP
Pag 89
Necessità di chiarire le aspettative nei confronti della medicina e della psichiatria
Pag 90
L’atteggiamento personale dello psichiatra e di chi lo giudica nei confronti del CVP
Pag 90
La confusione tra ipotesi cliniche di ricerca ed evidenze cliniche condivise
Pag 90
La confusione tra diagnosi psichiatrica categoriale statistica e diagnosi psichiatrica
forense peritale
Pag 91
Necessità di una criteriologia per la valutazione dei requisiti di causalità e del nesso di
causalità tra azione ed omissioni dello psichiatra e CVP del paziente
Pag 93
Necessità di ribilanciare l’importanza del disturbo psichico in relazione al CVP
Pag 95
Necessità di riesaminare i giudizi, in termini di responsabilità professionale, sulla
pericolosità sociale penale e sulla pericolosità sociale psichiatrica
Pag 96
La qualificazione dei periti e dei consulenti
Pag 96
La responsabilità di periti e consulenti
Pag 97
I mutamenti giurisprudenziali e le variazioni normative in tema di responsabilità per la
prestazione sanitaria
Pag 99
La difficoltà a proporre criteri in tema di responsabilità forense dello psichiatra
Pag 100
Conclusioni
Pag 100
Bibliografia
Pag 101
3
Premessa
Il comportamento violento sulla persona (CVP) inteso nella sua specifica definizione
giuridica (percosse, lesioni personali, omicidio tentato ed attuato) compiuto da un paziente
psichiatrico a danno di terzi è uno degli eventi più drammatici e dolorosi sul piano umano
che possono occorrere nella pratica clinica e permane una delle cause più frequenti di
incriminazione penale e di responsabilità civile dello psichiatra. La responsabilità
professionale dello psichiatra nei confronti di un paziente a rischio di CVP è tema ricco di
criticità con interpretazioni contrastanti della buona pratica clinica, delle leggi e della
giurisprudenza. In ragione di ciò è parsa utile la formulazione di osservazioni psichiatrico
forensi di buona pratica clinica in tema di CVP messo in atto dal paziente che possano
fruire di consenso clinico e scientifico. Il fine è aumentare la beneficialità del paziente nel
rispetto dei suoi diritti e doveri, migliorare la formazione professionale dello psichiatra e
facilitare, al contempo, la comprensione dell’evento di violenza a tutti i protagonisti
(magistrati, avvocati, periti, consulenti, familiari del paziente, etc.) che in differenti ruoli
accusano, difendono e giudicano lo psichiatra in relazione al CVP del paziente. Il tutto al
fine di costruire le basi per una discussione approfondita e critica su principi psichiatrico
forensi di buona pratica clinica che possano essere validati come criteri di giudizio, con
ulteriori osservazioni cliniche e giuridiche, nei contenziosi giudiziari.
Nelle presenti osservazioni non si è ritenuto dovere approfondire le definizioni, le varie
forme, le differenze tra normalità e patologia di interesse psichiatrico della violenza (1);
l’evoluzione storica e clinica del concetto psichiatrico, criminologico e giuridico di
pericolosità (2); la responsabilità medica e psichiatrica in tema di specifiche sentenze civili
o penali (3-5).
Per ognuna delle osservazioni psichiatrico forensi descritte vi sarà una componente di
evidenza clinica sulla gestione del rischio di CVP accompagnata da specifiche osservazioni
forensi formulate sulla base delle imputazioni e condanne penali e civili in cui incorrono
più frequentemente i medici psichiatri. Nella parte forense, attraverso una specifica
terminologia sottolineata anche graficamente (corsivo), saranno utilizzate esemplificazioni
e chiarificazioni che risultino più aderenti possibile a concetti peculiarmente forensi ed allo
specifico linguaggio delle aule giudiziarie in tema di responsabilità professionale dello
psichiatra piuttosto che mirate alla qualità e profondità clinica specialistica dell’assistenza
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psichiatrica al paziente con rischio di CVP (1,5-9). Alcuni principi forensi saranno trattati
più volte per una loro più approfondita e specifica chiarificazione legata al contesto. E’
stato volontariamente assegnato molto spazio di attenzione alla riduzione del rischio di
CVP nelle situazioni di crisi per mettere in luce l’importanza di interventi preventivi; alla
valutazione di ipotesi cliniche di eziologia del CVP indipendentemente dalla presenza di
un disturbo psichico per agevolare il clinico a trovare i fattori di rischio del CVP senza la
necessità di formulare diagnosi categoriali di malattia mentale. Alcuni concetti di
psicopatologia, oltre la traduzione in italiano, saranno riportati, per maggior fedeltà al
pensiero degli autori, in lingua originale. In particolare sarà spesso fatto uso di
terminologia in lingua inglese per favorire, con l’offerta di opportune parole-chiave, la
possibilità di ricercare una abbondante bibliografia internazionale su temi specifici,
settoriali e controversi. Sarà fatto un ampio uso di esempi clinici allo scopo di rendere più
chiari concetti psichiatrici a persone non specialiste del settore, ma protagonisti in tema di
gestione del rischio di CVP e di valutazione della responsabilità professionale dello
psichiatra. Considerando inoltre il presupposto che una osservazione psichiatrico forense
può essere banale e scontata per uno specialista del settore ma non per un profano,
volontariamente saranno messi in luce principi elementari di clinica e di pratica forense,
compresi gli stessi pregiudizi e modalità comunicative così come hanno luogo nelle aule
giudiziarie. Saranno inoltre offerte, ad una attenzione critica per ulteriori approfondimenti
e nel rispetto della varietà delle differenti scuole di pensiero in psichiatria, ipotesi cliniche
interpretative in tema di CVP allo scopo primario di aumentare la beneficialità del paziente
in merito alle possibilità di migliorare la prevenzione del rischio e sottolineare, sotto il
profilo clinico, la varietà e la complessità degli approcci interpretativi in psichiatria e, sotto
il profilo forense, la molteplicità delle variabili da valutare nel giudizio sulla responsabilità
professionale del medico psichiatra.
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1
Il CVP è un evento multideterminato.
Le cause del CVP sono molteplici: biologiche, psicologiche, sociali, culturali,
circostanziali (2,7). Si tratta quindi di un evento:
1. ad eziologia multideterminata e cioè dalla causalità complessa legata a numerose
variabili (costellazioni di variabili) che si estendono, integrandosi ed interagendo
tra loro, da quelle più squisitamente biologiche a quelle più squisitamente sociali e
circostanziali.
2. a diagnosi multiassiale e cioè una metodologia di formulazione della diagnosi,
anche mirata alla comprensione dell’atto, che tiene conto non solo degli aspetti
biologici, psichiatrici, psicologici, sociali e culturali, ma anche della specifica
contestualizzazione del caso clinico, al momento della valutazione, nelle
irrepetibili circostanze psico-socio-culturali di tempo, luogo e persone.
3. ad intervento di prevenzione e trattamento multistrategico e cioè la messa in atto
di provvedimenti, per evitare la recidiva, che spaziano, con differenti priorità a
seconda del caso clinico, nel campo medico, psichiatrico, psicologico,
sociologico, culturale, legislativo, etc focalizzato sulla eziologia multideterminata
e sulla diagnosi multiassiale del CVP.
La relazione tra CVP e disturbo psichico (come inteso nei manuali D.S.M.5; I.C.D.10)
sono complesse, oggetto di diatribe scientifiche e di continue ricerche cliniche di
approfondimento e specificazione. Allo stato attuale delle conoscenze, con i limiti
precedentemente descritti, è possibile formulare alcune osservazioni sotto il profilo
prevalentemente psichiatrico forense e clinico criminologico. Con un prevalente approccio
psichiatrico forense è possibile affermare quanto segue.
1. il disturbo psichico non è causa unica e diretta del CVP. (10) Non tutti i soggetti
con disturbo psichico mettono in atto un comportamento violento e non tutti gli
atti di violenza sulla persona sono messi in atto da soggetti con disturbo psichico
(7). In termini più generali gli esseri umani non hanno necessità di un disturbo
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psichico per agire con percosse, lesioni personali all’integrità fisica, tentare o
compiere un omicidio od una violenza sessuale su di un altro essere umano.
2. il disturbo psichico può essere uno tra i molteplici fattori di rischio del CVP. In
presenza di CVP non deve essere ricercata una sola e univoca causa diretta, ma
occorre ricercare le numerose variabili (costellazione di variabili tra cui vi può
essere il disturbo psichico) che interagiscono tra loro e si integrano in una stessa
persona con modalità dinamiche nel tempo.
3. Il disturbo psichico come fattore di rischio del CVP ha valore scientifico modesto
rispetto ad altri fattori (ad esempio l’abuso di sostanze; precedenti antisociali)
(modest predictive factor for violence (7).
4. Il disturbo psichico quando presente può non essere in nesso causale col CVP.
Motivazioni al CVP non di competenza psichiatrica possono essere presenti (e lo
sono spesso) (11) in soggetti con disturbo psichico. Un soggetto con disturbo
psichico può mettere in atto un CVP per le stesse motivazioni forensi di un
soggetto senza disturbo psichico.
5. Il disturbo psichico, quando presente ed in nesso causale con il CVP, deve essere
valutato nel singolo caso clinico come uno tra i vari fattori di rischio in relazione
ai fattori protettivi ed alla multideterminatezza dell’evento.
Concretamente non è corretto, sotto l’aspetto scientifico e forense affermare: quel paziente
ha ucciso la moglie perché affetto da schizofrenia delirante con contenuto persecutorio.
Non tutti i pazienti con questo disturbo psichico uccidono la moglie e poi, per uccidere la
moglie non vi è bisogno di avere un disturbo psichico. Nella pratica la valutazione
scientifica e forense in presenza di disturbo psichico e CVP è complessa, e si può svolgere
attraverso quattro tappe progressive:
a) l’esame del disturbo psichico;
b) l’esame del comportamento violento;
c) l’esame delle reazioni emotive;
d) la formulazione di una valutazione e piano di trattamento
Si tratta di operazioni che implicano conoscenze scientifiche e cliniche molto differenziate
(5). Ad esempio per valutare un soggetto con diagnosi di schizofrenia che compie un
omicidio non è sufficiente possedere nozioni scientifiche sul disturbo psichico
(schizofrenia) ma è necessario possedere anche nozioni scientifiche sulla eziologia e sulle
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dinamiche dei comportamenti violenti (omicidio: in particolare uxoricidio). Per quanto
concerne l’esemplificazione sopra riferita la valutazione, più esaustiva, potrebbe svolgersi
secondo la seguente sequenza:
a) L’esame del disturbo psichico comprende la formulazione della diagnosi categoriale
arricchita con adeguati approfondimenti al caso clinico. Nell’esempio sono riportati tre
possibili e specifici approfondimenti, utili ai fini diagnostici e terapeutici, non escludendo
altre tipologie di indagine (ad esempio prototipica, fenomenologica, narrativa, etc.).
1. diagnosi categoriale (schizofrenia con disturbo delirante a contenuto
persecutorio);
2. diagnosi dimensionale (impulsività ed aggressività);
3. diagnosi dinamica (la propria aggressività è attribuita, per il meccanismo
psicologico di difesa della proiezione, ad altre persone ed alla moglie).
b) L’esame del comportamento violento può comprendere almeno altre tre tappe di
approfondimento:
1. diagnosi eziologica del comportamento violento (il nonno e il padre erano stati
condannati per maltrattamento familiare: apprendimento sociale pluri
generazionale del comportamento violento specifico sulla compagna di vita,
etc.);
2. diagnosi dinamica alla base del comportamento violento (sentimento
d’inferiorità nei confronti del sesso femminile legata ad un’impotenza sessuale
con formazione reattiva di controllo sadico e distruttivo: prima che tu mi umili,
mi domini e mi distruggi, io ti umilio, ti domino e ti distruggo);
3. diagnosi vittimologica e cioè il legame tra aggressore e vittima (la moglie prima
di essere uccisa lo ha insultato con un grave atto di provocazione sulle reali
debolezze e fragilità : sei un fallito nella vita ed un impotente sessuale).
c) L’esame delle reazioni emotive dei protagonisti dell’evento di violenza (transfert e
controtransfert in senso allargato) è giustificato da almeno tre motivazioni.
1. Approfondimento clinico del caso secondo il principio diagnostico che una
persona non è solo quello che dice, quello che fa, quello che pensa, le sue
fantasie, ma è anche tutte le emozioni che esperimenta. Non esaminare le
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reazioni emotive che prova (e suscita) un soggetto che uccide non è indice di
buona pratica clinica cosi come non è buona pratica clinica non esaminare le
fantasie sessuali di un soggetto che compie una violenza sessuale.
2. Riduzione degli errori diagnostici e trattamentali. Ad esempio l’operatore
sanitario o il valutatore devono essere consapevoli dei sentimenti che provano
nei confronti dell’assassino. Sentimenti primari di pietà e giustificazione (non è
colpa sua: è malato di mente) o di giudizio e condanna (è un delinquente che
deve essere chiuso in carcere). Queste ed altre emozioni, nelle loro variegate
tipologie,
complesse
sfumature
e
differenti
livelli
di
accesso
alla
consapevolezza, sostengono pregiudizi e comportamenti e possono influire
sulla valutazione e sul trattamento.
3. Conoscenza di schemi di comportamento utili alla valutazione e trattamento. Ad
esempio il soggetto che ha ucciso la moglie ha presentato nei confronti del
terapeuta una reazione emotiva impostata sulla dipendenza esplosiva: succube e
passivo sino a quando non sono state soddisfatte le sue esigenze. Dopo il rifiuto
di assecondare le sue richieste, improvvisamente è divenuto violento su oggetti
ed ha minacciato fisicamente il terapeuta. Il paziente ha cioè messo in atto col
terapeuta l’analogo comportamento utilizzato con la moglie fornendo
importanti informazioni, per il suo trattamento, sui fattori (trigger) che
scatenano il suo CVP.
d) La formulazione di un piano di valutazione e trattamento (di cui la diagnosi e la
terapia psichiatrica sono solamente la parte che riguarda il disturbo psichico se è presente)
che sia fattibile nel caso specifico e monitorabile con facilità ed obiettività. In ragione della
ricerca di obiettività, riproducibilità tra operatori, facilità di somministrazione, etc., è
auspicabile, nel rispetto di una sempre maggior validità e sensibilità degli strumenti di
misura, una adeguata integrazione tra metodologia clinica e metodologia attuariale non
solo in questa fase, ma anche nelle precedenti.
In conclusione la prima tappa e cioè l’esame psichiatrico può essere facilmente rispettata
dagli operatori della salute mentale che dovrebbero essere competenti sul disturbo
psichico; la seconda tappa e cioè l’esame del comportamento violento richiede nozioni
specifiche e diverse dalle informazioni sulla salute di mente; la terza tappa necessita di una
preparazione tecnica specifica sull’esame delle emozioni proprie e degli altri ed un
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atteggiamento personale emotivo (che può concretizzarsi in ideologie razionalizzate di
accettazione o di rifiuto) di disponibilità a praticarla; la quarta tappa implica una attiva
collaborazione fra molte istituzioni tra cui l’amministrazione della giustizia, l’assistenza
sociale, l’assistenza psichiatrica, etc. Nascono quindi problemi legati:
a) alla formazione del personale,
b) alla specializzazione in ambito di CVP,
c) ed alla collaborazione tra diverse istituzioni.
1a. Inadeguatezza clinica e forense dei ragionamenti semplicistici ed errati in tema di
relazione tra disturbo psichico e CVP. La concausalizzazione pregiudiziale della
malattia mentale
Se è lo psichiatra stesso a stabilire che esiste un rapporto di causa unica e diretta tra
disturbo psichico e CVP non v’è da stupirsi che chi giudica la sua responsabilità
professionale accetti questa interpretazione che può determinare una serie di gravi errori
scientifici, clinici e forensi. Allo psichiatra infatti può essere richiesto di guarire il disturbo
psichico (deriva giuridica dall’obbligo di cura all’obbligo di guarigione: attribuzione allo
psichiatra del ruolo di santo che fa i miracoli e non di medico che cura con i limiti propri
della scienza). In questa visione qualsiasi imprecisione o errore (indipendentemente dal
nesso causale) può essere pretestato (attraverso la razionalizzazione che segue il principio
del senno del dopo) come causa del CVP (se lo psichiatra avesse curato bene il paziente…
il paziente non sarebbe stato violento). La psichiatrizzazione ottimistica di tutti i CVP
(tutte le persone che mettono in atto un CVP hanno un disturbo psichico che dovrebbe
essere curato e potrebbe essere guarito) porta in primo luogo ad una gestione insufficiente
e dannosa della beneficialità del paziente (si cura il disturbo psichico e nulla è fatto per
trattare il CVP) ed in secondo luogo, sotto l’aspetto forense, implica assunzioni eccessive
ed inadeguate di responsabilità professionali per lo psichiatra.
Nell’ambito di una inadeguatezza clinica e forense nello stabilire un nesso causale
semplicistico ed errato tra disturbo psichico e CVP possiamo mettere in luce la
concausalizzazione pregiudiziale della malattia mentale. Molta parte degli eventi di
rilevanza forense in Medicina ed in Psichiatria riconoscono una pluralità di fattori causali
e cioè sono multideterminati e non monodeterminati. Questo elenco di fattori che
contribuiscono a produrre un evento può sovrapporsi a quello reperibile nei testi di
medicina nei paragrafi che in ciascuna malattia , medica e psichiatrica, sono compresi nei
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fattori eziologici. Tutti questi fattori causali (cause concorrenti dette comunemente
concause) pur possedendo, ciascuna, una propria dignità qualitativa, non hanno la stessa
importanza quantitativa per cui differiscono tra loro, ed in secondo luogo non possono
essere tutte indistintamente considerate a livello forense fattori causali: vi è differenza tra
fattori eziologici di natura medica e fattori causali di interesse giuridico. Premesso che le
concause possono essere preesistenti, simultanee e sopravvenute nel codice penale (art. 41)
è sancito che le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da
sole sufficienti a determinare l’evento. Concretamente è così delimitata la responsabilità
delle persone da una troppo rigida interpretazione ed applicazione della teoria
condizionalistica
attraverso
anche
la
teoria
della
causalità
adeguata,
teoria
dell’imputazione obiettiva dell’evento ed anche della teoria dell’aumento del rischio.
Senza inoltrarsi oltre nella complessa causalità nella responsabilità medica la
concausalizzazione pregiudiziale della malattia mentale, sotto il profilo clinico e forense,
consiste nell’attribuzione errata del ruolo di causa, attraverso la specificazione di concausa,
alla malattia mentale nel determinare il CVP. Ciò deriva dal pregiudizio che il CVP messo
in atto da un soggetto con disturbo psichico sia sempre legato al disturbo di cui soffre.
Questo processo di concausalizzazione pregiudiziale della malattia mentale può avvenire
in ambito peritale attraverso tre distinti passaggi:
1) la selezione mirata ed esclusiva della concausa,
2) l’ ingrandimento del disturbo psichico
3) il travisamento causale del disturbo psichico
Ad esempio: nella valutazione forense di un paziente psicotico che ha ucciso un altro
paziente il perito seleziona come oggetto di valutazione esclusivamente la psicosi del
soggetto che ha ucciso e non il comportamento della persona uccisa che il giorno prima del
fatto aveva minacciato fisicamente e sfidato in modo provocatorio, alla presenza di
numerose persone, ridicolizzando ed umiliando chi diventerà il suo assassino. Segue poi
l’ingrandimento della psicosi dell’autore dell’omicidio raccogliendo non solo dalla sua
anamnesi ma anche dalla letteratura le psicopatologie più gravi allo scopo di rendere
sempre più grave e devastante, soprattutto nel profano che legge, l’azione della malattia
mentale sulla capacità di intendere e di volere del soggetto che ha ucciso. Selezionato ed
ingrandito un quadro di un omicida gravemente malato di mente ed incapace di intendere e
di volere e di una vittima del tutto innocente non è certo difficile trovare, soprattutto col
senno del dopo e cioè a fatti avvenuti, qualcuno che ha sbagliato qualcosa. Trovare un
11
errore nella farmacoterapia, psicoterapia, assunzione e circolazione delle informazioni,
applicazioni di misure cautelari, non applicazioni di regolamenti (che, ripetiamo, a
posteriori appaiono chiarissime), etc. è compito non difficile soprattutto quando l’errore è
presente anche se non è rilevante a livello forense. Il travisamento del quadro clinico e
forense attraverso la causalizzazione dell’errore irrilevante (erronea trasformazione di un
errore irrilevante in errore rilevante a livello forense) completa l’intero processo di
concausalizzazione pregiudiziale della malattia mentale. L’errore più grave sotto il profilo
metodologico clinico e forense del perito o del consulente (non si entra in merito ai pareri
motivati personali in tema di giudizio sulle concause) nel caso che precede è che attraverso
il suo processo di selezione mirata ed esclusiva, ingrandimento e travisamento della
psicopatologia, non ha considerato e discusso il fatto che il comportamento della vittima
(come è descritto nella numerosa letteratura scientifica in tema di vittime che provocano il
loro omicidio: victim precipitaded homicide) poteva, di per sé, essere considerato come
causa sopravvenuta capace da sola di determinare il fatto a prescindere dalla malattia
mentale dell’assassino o dagli errori di terze persone. In altri termini ed in linea generale
(nel rispetto della contestualizzzazione nel singolo caso clinico) minacciare fisicamente,
sfidare provocatoriamente, ridicolizzare ed umiliare pubblicamente un soggetto con
precedenti di violenza sulla persona, potrebbe rappresentare un fattore giuridico causale
adeguato a causare una reattività omicidiaria senza dover invocare, sempre e di necessità,
l’intervento del disturbo psichico. Se nell’elaborato peritale non compaiono precise e
dettagliate osservazioni cliniche su questa criticità debbono essere posti non pochi
interrogativi non solo sulla competenza tecnica metodologica forense ma anche sui
possibili pregiudizi personali, non scientifici, del perito, nonché su eventuali interessi
personali del perito o consulente come verrà specificato nel proseguo di questo scritto in
tema di qualificazione e responsabilità del perito e del consulente. Ignorare le discriminanti
in ambito di concause, la presenza di dinamiche criminali o tossicofiliche in tema di CVP ,
il pregiudizio che il CVP sia sempre legato al disturbo psichico, la non accettazione
pregiudiziale della
possibile imprevedibilità ed inevitabilità del CVP, etc. possono
rappresentare alcune tra le motivazioni più frequenti alla base della concausalizzazione
pregiudiziale della malattia mentale.
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1.b. Necessità di valutare, nei giudizi di responsabilità, l’impossibilità per lo
psichiatra di controllare tutte le variabili della causalità clinica del CVP.
Nella ricerca causale clinica (causalità materiale) del CVP non può essere ignorata la
molteplicità della cause più stabili (biologiche, psichiatriche, etc.) e più aleatorie
circostanziali (come l’annuncio della separazione del coniuge, etc.). In particolare deve
essere accettato che in ogni CVP, soprattutto quando crudele ed efferato, vi è sempre
qualcosa di poco comprensibile e misterioso, talvolta difficile, spesso impossibile da
comprendere anche per lo psichiatra più esperto. Il terapeuta che ritenesse di saper
controllare tutte le variabili (biologiche, psichiatriche, psicologiche, sociali, circostanziali,
etc.) che determinano il CVP potrebbe essere fuorviato nel suo giudizio da un irrealistico
eccesso di fiducia nelle proprie capacità e non rivelare, per ciò stesso, le migliori qualità
professionali a garanzia di un comportamento terapeutico beneficiale per il paziente.
Analogamente chi è deputato a valutare la responsabilità professionale dello psichiatra non
può, sempre e comunque, riconoscergli caratteristiche di onnipotenza e di controllo su
ognuna delle variabili delle causalità cliniche che governano il rischio di CVP, né
attribuirgli sconfinate capacità taumaturgiche di potere e sapere guarire sempre,
rapidamente e completamente ogni tipo di disturbo psichico. Soprattutto tenendo presenti
gli eventi multideterminati nei quali il ruolo della professione medica e psichiatrica non
può che essere, in molti casi, pressoché irrilevante. Anche chi valuta la responsabilità
professionale dello psichiatra deve sapere accettare la realtà dei fatti, e non cadere vittima
delle umanamente comprensibili paure e pregiudizi sul CVP, confondendo un lodevole e
generoso desiderio di guarire tutte le persone (anche se stessi) quando lo si desidera o
quando necessita, dalla malattia del CVP, con le evidenze cliniche sulla causalità
multideterminata del CVP e le concrete possibilità di intervento che ha il singolo operatore
sanitario nella realtà.
Nasce quindi, in ambito forense, la necessità di considerare le difficoltà reali dello
psichiatra nella gestione del singolo caso clinico, a prescindere dai casi più manifesti di
imprevedibilità ed inevitabilità dell’evento o di grossolane colpe generiche in tema di
prudenza, diligenza e perizia o colpe specifiche per inosservanza di leggi, regolamenti,
ordini, discipline.
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2
Il rischio del CVP può variare rapidamente nel tempo
per quantità e qualità.
Il rischio di CVP non rimane costante nel tempo ma può variare anche rapidamente come
qualità e quantità per numerose motivazioni (7,11). Le circostanze psico-sociali possono
stimolare il soggetto, attraverso la realtà o la percezione soggettiva, a sperimentare
sentimenti di gravi ingiustizie subite, frustrazioni dolorose al proprio ruolo e visibilità
sociale, minacce alla propria identità ideale. L’incontro con la vittima può avvenire
nell’ambito di una circostanzialità scatenante: vi sono vittime che scatenano il loro
omicidio (victim precipitated homicide) come quei mariti violenti che provocano in cucina
la moglie armata di coltello dicendole minacciosi: prova ad uccidermi se hai il coraggio.
Il CVP può anche essere legato od utilizzato al fine suicidiario come ad esempio negli
omicidi di massa (Mass murder) ove si manifesta con platealità la triade omicidiariasuicidiaria (desiderio di uccidere, di essere ucciso e di uccidersi) o nei suicidi a mezzo
delle forze dell’ordine (suicide by cops) in cui il soggetto ricerca il proprio suicidio
provocando la reazione omicidiaria delle persone che minaccia concretamente di uccidere.
Le rapide variazioni del rischio di eventi multideterminati (come il suicidio od il CVP che
possono essere tra loro associati come nella descrizione che precede) in soggetti con
disturbo psichico sono anche recentemente sottolineate dalla sentenza della Suprema Corte
di Cassazione IV sez. pen. (n.14766/16) al proposito di un evento suicidario in soggetto
con disturbo psichico: Va esclusa pertanto ogni rimproverabilità per colpa, mancando la
prevedibilità ed evitabilità dell’evento suicidiario, legato piuttosto al fisiologico fattore di
imprevedibilità delle condotte imprudenti e/o inconsulte di pazienti psichiatrici.
2a. Necessità di monitorare,
quando è presente una giustificazione clinica, il rischio di CVP
Lo psichiatra dopo, una prima valutazione sulla eventuale presenza di motivazione clinica
(ad esempio il paziente ha nuovamente proferito gravi minacce strutturate di morte ed ha
acquisito un’arma letale) deve monitorare ancora il rischio di CVP.
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2b. Necessita di accettare sotto il profilo clinico, forense ed emotivo personale che il
CVP può essere imprevedibile ed inevitabile.
Allo psichiatra non può essere richiesto sotto l’aspetto clinico e forense di:
1) disporre di tutte le informazioni sul paziente (il paziente può mentire
volontariamente, sottovalutare o interpretare in modo soggettivo una informazione
richiesta dal terapeuta, i familiari possono non sapere o volontariamente tacere o
nascondere dati che non ritengono opportuno comunicare, etc.)
2) predire il futuro (la previsione deve essere fatta al momento dei fatti per cui si
procede. Col senno del dopo è facile per tutti fare previsioni). Da sottolineare che
differenti
denominazioni
e
specificazioni
della
prevedibilità,
quali
rappresentabilità o riconoscibilità, implicano sempre una previsione del
comportamento nel futuro
3) neutralizzare sempre ogni tipo di CVP (lo psichiatra è tenuto alla prestazioni
dei mezzi e non dei risultati)
Non può essere attribuito allo psichiatra il ruolo di poliziotto perfetto (per la raccolta delle
informazioni), di indovino infallibile (per la prevedibilità) o di santo protettore onnipotente
ed onnipresente (per la evitabilità). Queste attribuzioni inadeguate di poteri allo psichiatra
possono provocare, nei suoi confronti, le accuse non giustificate di aver ignorato
informazioni, di non avere saputo predire il comportamento del suo paziente e non saperne
modificare il destino futuro neutralizzando il CVP. Queste accuse sono favorite dall’uso
inadeguato del senno del dopo che spesso regala la percezione di individuare, a fatti
avvenuti, soprattutto per i profani ed in modo erroneo sotto il profilo clinico e forense, le
cause che hanno determinato il CVP.
15
3
Non esistono metodologie obiettive per una sicura previsione del
CVP nel singolo caso clinico.
La valutazione del rischio di CVP può essere effettuata, in generale, attraverso due
metodologie: clinica ed attuariale (2,5,7).
1. La metodologia clinica è basata sul colloquio clinico col paziente nel corso del quale
lo psichiatra raccoglie informazioni anamnestiche personali e familiari, pratica un
esame psichiatrico, raccoglie informazioni per la formulazione di una diagnosi e
terapia (disturbo psichico) e di una valutazione e trattamento (comportamento
violento) Nel corso di questa metodologia clinica lo psichiatra può utilizzare l’esame
del linguaggio non verbale del paziente, le resistenze (definibili, in senso allargato,
come quei meccanismi psichici che si sovrappongono alla presa di coscienza di
desideri, paure, impulsi, etc. inaccettabili per il paziente) e le reazioni emotive che il
paziente stimola in lui e le reazioni emotive che lui come valutatore e terapeuta
stimola nel paziente.
2. La metodologia attuariale consiste nell’esaminare il paziente con interviste
strutturate, questionari auto od etero-somministrati con domande già compilate,
reattivi mentali di livello e di proiezione, etc. che hanno lo scopo specifico di valutare
i dati obiettivi (età, sesso, razza, qualità e quantità dei reati precedenti, uso di droghe,
etc.) e di stabilire su queste basi, a livello statistico, un giudizio sul rischio di CVP nel
soggetto esaminato.
Questi due metodi di valutazione del rischio del CVP, clinica ed attuariale, possono essere
praticati in modo singolo o integrati l’un l’altro con differenti modalità. In qualsiasi caso
questi due metodi non sono in grado di permettere una sicura previsione del CVP nel
singolo caso clinico.
3.a. Necessità di valutare il rischio di CVP con metodologia clinica documentata.
Nella valutazione del rischio di CVP di un soggetto è indispensabile, sotto il profilo clinico
e forense, operare una valutazione eseguita con metodologia clinica documentata nella
cartella clinica per la beneficialità del paziente e per la tutela giuridica dello psichiatra.
16
1. In primo luogo nella valutazione del soggetto con rischio di CVP debbono essere
considerati i fattori di rischio ed i fattori di protezione in tema di CVP. Sotto il
profilo clinico è importante, per la beneficialità del paziente, che siano valutati con
profondità tanto i fattori di rischio (per poter ridurre la loro influenza quando
possibile) quanto i fattori di protezione (per poter implementare la loro azione,
quando possibile, e proteggere con modalità preventive il soggetto). Sotto il profilo
forense l’esame valutativo dei fattori di rischio e di protezione permette una base di
discussione forense su criteri scientifici a partire dalla complessità della valutazione
del soggetto a rischio di CVP. La sola valutazione (o peggio la mancanza di
valutazione) dei fattori di rischio può innescare, come spesso capita nelle aule
giudiziarie, una base di discussione forense accusatoria nella quale lo psichiatra,
almeno inizialmente, è imputato di aver dimenticato, sottovalutato, non capito, etc.
la moltitudine di fattori di rischio che il soggetto presentava (spesso trovati col
senno del dopo).
2. In secondo luogo la valutazione con metodologia clinica deve anche essere rivolta
alla attualità e concretezza del rischio di CVP. Deve cioè poter evidenziare il
pericolo attuale (al momento dei fatti per cui si procede e non prima o dopo) e
concreto (non possibilità teoriche ma probabilità reali: in campo forense non tutto è
possibile ma solo qualcosa è probabile) che il paziente metta in atto un CVP.
E’ necessario che il risultato delle valutazioni venga riportato nel diario clinico
come documentazione di buona pratica clinica e per la tutela forense dello
psichiatra.
La metodologia attuariale è importante per la ricerca clinica e scientifica e per il
perfezionamento della formazione psichiatrica. Tuttavia allo stato attuale delle conoscenze,
in ragione del valore statistico generale e non individuale, delle difficoltà di soddisfare ai
numerosi criteri di validazione dei reattivi mentali, dei questionari, delle schede di
rilevazione, etc. detta metodologia non presenta carattere forense di indispensabilità nella
valutazione della responsabilità professionale particolarmente in presenza di ipotesi
cliniche di ricerca da convalidare con ulteriori studi e con evidenze cliniche condivise
comprovate da pubblicazioni scientifiche nazionali ed internazionali e dall'avvallo di
accreditate Società Scientifiche. Quanto precede non esclude (soprattutto a livello di
ulteriore garanzia del buon operato clinico ed in specifici contesti istituzionali forensi) un
uso complementare della metodologia attuariale. Si tratta in questi casi, di utilizzare una
17
metodologia clinica semistrutturata: méthode clinique semi-structurèe (2) nella quale il
metodo clinico è accompagnato dal metodo attuariale con funzione di integrazione e di
particolare attenzione a numerose e specifiche variabili. L’esame clinico del soggetto a
rischio di CVP può essere corredato con vari mezzi attuariali che aiutano a valutare
specifici aspetti del CVP. Ad esempio HCR-20 (Historical Clinical Risk Management 20
Item Scale); VRAG (Violence Risk Appraisal Guide); SORAG (Sex Offenders Risk
Appraisal Guide); SAVRY (Structured Assesment of Violent Risk in Youth); etc. Con il
progredire della affidabilità scientifica della metodologia attuariale la valutazione ed il
trattamento del CVP saranno sempre più approfonditi ed adeguati al singolo caso clinico,
alla richiesta di obiettività in campo forense e ad iniziative di screening su specifici
campioni di soggetti. Tuttavia, nonostante il desiderio profondamente umano e
comprensibile di poter disporre di uno strumento obiettivo per valutare e discriminare, con
precisione, obiettività e senza errore, il soggetto che metterà in atto un CVP da quello che
non metterà in atto un CVP, è da considerare il fatto scientifico e forense che, purtroppo,
questo strumento (scale cliniche, questionari auto od etero somministrati, reattivi mentali,
esami di laboratorio, diagnostica per immagini, etc.) non esiste allo stato attuale. Quanto
precede non autorizza lo psichiatra a comportamenti puramente ed esclusivamente omissivi
o ad una totale inerzia nei confronti del CVP che è pur sempre da valutare alla luce della
prevedibilità, evitabilità, e del potere/dovere di intervento.
3b Necessità di adottare misure cautelative
per ridurre il rischio del CVP se è presente.
Le
misure
preventive
di
cautela
non
possono
essere
applicate
sempre
ed
indiscriminatamente a tutti i pazienti con il massimo grado di intensità e frequenza, ma vi
si deve ricorrere:
1) se il rischio è presente, attuale e concreto
2) in relazione alla gravità del rischio del singolo soggetto al momento dell’esame clinico
3) in conformità al contesto di risorse disponibili al momento dei fatti.
18
4
Esistono fattori di rischio e fattori protettivi
del CVP
Gli studiosi hanno messo in luce, su estesi campioni di soggetti, fattori che, a livello
statistico e con maggiore frequenza di altri, appaiono legati al rischio di mettere in atto un
CVP od alla protezione di mettere in atto un CVP, sia nella popolazione generale che in
popolazioni più specifiche (2,7). Questi fattori sono oggetto di differenti classificazioni a
seconda degli autori. In relazione agli obiettivi del presente scritto possono essere
classificati in tipologie che, pur non essendo mutualmente esclusive, presentano una
facilitazione al loro utilizzo forense.
In considerazione dei limiti di questo approccio i fattori di rischio di CVP possono essere
suddivisi nelle seguenti tipologie (2):
a) Tra i fattori socio demografici sono da considerare il sesso (i maschi sono
circa il 90%: nettamente prevalenti sulle femmine: (13,14); l’età (meno di trenta o
quaranta anni (15); il celibato (i celibi sono più a rischio degli sposati, di quelli
che vivono in coppia od in famiglia. (16,17); lo stato economico (basso livello
economico) (14,18,19) ed in particolare l’isolamento sociale, la scarsa fruibilità
di aiuti sociali, l’esposizione a sottoculture di violenza (20,21).
b) tra i fattori personali è da segnalare il tipo di famiglia (più a rischio famiglie
permissive e valorizzanti il comportamento violento (22); famiglie maltrattanti
fisicamente e psicologicamente (23-25) e gli antecedenti comportamenti violenti
(precedenti atti criminali di violenza e delinquenza minorile precoce (16,25,26).
c) tra i fattori legati all’abuso di sostanze voluttuarie è da segnalare che l’abuso
di alcool e di droghe (17,27-31), aumenta il rischio di commettere comportamenti
violenti. Da sottolineare che la comorbidità (contemporanea presenza) di abuso di
alcool e di droghe e disturbo mentale grave aumenta di circa il doppio (da 3,4 ad
8 nel caso di schizofrenia o disturbo dell’umore) il rischio di un comportamento
violento legato solo al disturbo mentale grave (32,33).
d) I fattori legati al disturbo mentale sono continuo oggetto di ricerca e diatribe
scientifiche attraverso approfondimenti e specificazioni sempre più sofisticati con
19
metodologie attuariali, integrazioni tra sociologia e psicologia del profondo, e con
nuovi mezzi di diagnosi. Con i limiti che precedono è possibile ipotizzare , per
ulteriori ricerche di verifica, quanto segue.
a) non tutti i disturbi mentali aumentano il rischio di CVP (2)
b) nei disturbi mentali gravi il rischio di CVP è moderatamente più
elevato in rapporto alla popolazione generale (7,13,31,34,35)
c) i disturbi mentali gravi non permettono, da soli, di prevedere il CVP
ma devono essere accompagnati da altri fattori di rischio. Ad esempio
(36) da: 1) fattori predittivi storici (pregressa violenza, detenzione
minorile, abuso fisico, etc.); 2) fattori clinici (abuso di sostanze,
minacce percepite, etc.); 3) fattori disposizionali (età, sesso, reddito,
etc.); d) fattori contestuali (recente divorzio, disoccupazione, etc.).
d) i disturbi mentali presentano, tra loro, un rischio differenziato di CVP
(2,37,38). Ad esempio un disturbo di personalità psicopatico o
borderline aumentano il rischio di CVP in misura maggiore di altri
disturbi di personalità (39-41).
e) la contemporanea presenza di gravità e quantità di sintomi psichiatrici
(deliri a contenuto persecutorio, mistico di influenzamento vissuti con
persistenza e passionalità; allucinazioni uditive a comando vissute
acriticamente e con impulsività; forti componenti depressive vissute
con fantasmi di violenza e disorganizzazione del pensiero in soggetti
violenti; etc.) con la presenza di fattori di rischio di CVP presenti in
soggetti senza disturbo psichico (precedenti criminali, abuso di alcool
o droghe, etc.) aumenta il rischio di CVP (42).
f) i soggetti con psicosi, anche nei sottogruppi considerati più a rischio,
esaminati nelle migliori condizioni, non permettono di isolare fattori di
rischio di CVP (un numero significativo di veri positivi: true positive)
validi per il trattamento o ai fini della protezione di terzi (43).
e) i fattori legati al trattamento mettono in luce l’aumento del rischio per la non
aderenza alle cure (44); la brusca interruzione della terapia (45-47); la mancanza
di alleanza terapeutica o la presenza della pseudo-alleanza terapeutica e cioè una
20
alleanza terapeutica non autentica ma fondata sul timore dei curanti di non
contrariare il paziente per timore di perderlo; la incapacità del paziente di
chiedere aiuto in modo facilmente comprensibile per gestire la sua situazione di
crisi (22); la mancanza di comprensione del paziente dell’esistenza di problemi
psichici alla base delle sue sofferenze (48); la presenza di conflittualità o di
violenza con l’ambiente sociale o con i curanti (48).
f)I fattori circostanziali possono aumentare il rischio di comportamento violento
(rotture reali od immaginarie di legami affettivi, situazioni di conflitto acuto o
cronico con familiari, reali o percepiti tracolli finanziari, problemi o
licenziamenti dal lavoro, etc.) (49) soprattutto se si accompagnano a sentimenti di
essere chiusi in trappola senza soluzioni alternative (sentiment d’impasse
situazionel) (4,48-50).
g) I fattori legati alla recidiva possono essere valutati con diverse metodologie.
L’esame per sottogruppi mette in luce gruppi di soggetti con specifiche
caratteristiche ad esempio pazienti con tripla diagnosi e cioè schizofrenia, abuso
di alcool e disturbo antisociale di personalità (51) Un’altra metodologia è mettere
in luce i fattori più frequenti nella recidiva criminale ad esempio i grandi otto
(the big eight): 1) precedenti criminali; 2) personalità antisociale; 3) cultura
criminale; 4) frequentazione di criminali; 5) problemi familiari o di coppia; 6)
problemi a scuola o sul lavoro; 7) mancanza di interessi ricreativi rispettosi della
salute fisica e psichica ; 8) abuso di alcool o droghe.
I fattori protettivi del CVP sono trattati in vario modo dalla letteratura.
a) In primo luogo sono deducibili dai fattori di rischio: fattori socio-demografici;
fattori personali; fattori legati all’abuso di alcol e di droghe; fattori legati al
disturbo mentale; fattori in relazione al trattamento; fattori circostanziali; fattori
legati alla recidiva.
b) A livello più generale di prevenzione possono essere considerati fattori
protettivi del CVP tutti gli interventi psicosociali per meglio gestire le situazioni
di crisi che possono sfociare in comportamenti violenti sulla persona
(disponibilità di servizi di ascolto e di aiuto per situazioni di crisi; fruibilità di
servizi sociali e di salute mentale; collaborazione stretta e specifica tra sistema
della giustizia e psichiatria (ad esempio magistrati esperti in criminalità e malattia
21
mentale - Mental Health Court- o in grado di disporre misure trattamentali quali
la obbligatorietà della cura dei soggetti a rischio - Legal Levelage -, etc.).
c) A livello più settoriale, per la prevenzione della recidiva in soggetti con
disturbo mentale, sono spesso utilizzati fattori sia legati alla terapia del disturbo
psichico (aderenza alla farmaco e psicoterapia, introspezione sulle proprie
difficoltà e fragilità psichiche, capacità di richiedere aiuto, disponibilità alla
alleanza terapeutica, capacità di mediare col sociale, etc.) che alla capacità di
gestione della violenza (capacità di riconoscere la propria violenza ed i fattori
scatenanti; empatia, pensieri ed atti di riparazione nei confronti della vittima;
sentimenti di colpa personale e di responsabilizzazione personale per l’evento di
violenza; capacità di ventilare e di gestire emotivamente sentimenti di rabbia,
frustrazione, vendetta, odio, senza impulsivi passaggi all’atto violento; capacità di
mentalizzare penosi stati d’animo senza passaggi all’atto impulsivi;
di
padroneggiare tecniche di problem solving (saper risolvere i problemi della vita di
relazione), know how (conoscenza tecnica del come fare per ottenere un risultato
ricercato), talk down (saper ridurre gli stati emozionali che turbano la tranquillità
psichica e comportamentale), etc. nell’ambito della mediazione con problemi
sociali od interpersonali; etc.).
d) è stata inoltre sottolineata la ricerca di fattori di protezione più specifici al
campo forense. Ad esempio (52,53): supporto sociale presente ed adeguato,
legami affettivi forti e stabili, investimenti emotivi positivi in figure di autorità,
tratti di personalità con buona capacità di resilienza, esistenza di un legame
terapeutico, buona aderenza al trattamento, contesto familiare o di terapia
accettante ed accettato.
e) i fattori di protezione sono stati anche oggetto di scale di valutazione. Ad
esempio nel Coding sheet SAPROF : protective factors for violent risk, sono stati
considerati :
a. fattori interni (buon livello di intelligenza, stile di attaccamento sicuro
nella infanzia, capacità di empatia, capacità di gestire i problemi,
capacità di autocontrollo)
b. fattori motivazionali (presenza di attività lavorativa, uso creativo del
tempo libero, capacità di gestirsi economicamente, motivazioni al
22
trattamento, buon atteggiamento verso le figure di autorità, presenza di
obiettivi di vita, assunzione dei farmaci)
c. fattori esterni (presenza di soddisfacenti relazioni sociali, relazioni
affettive privilegiate valide, attenzione e cura di una propria
professionalità, circostanze di vita favorevoli, presenza di controlli
esterni)
Questa scala di valutazione, che deve essere usata in complemento con altre scale
e con l’esame clinico, permette, secondo il suo razionale, un giudizio graduato
della valutazione del rischio di violenza da: basso, basso-moderato, moderato,
moderato-alto, alto.
Tutti i fattori di rischio e di protezione dal CVP presentano le caratteristiche che seguono.
1. Hanno valore statistico su grandi numeri, ma non hanno validità forense (di
obiettività, di contestualità, etc.) applicati da soli od associati, sul singolo caso
clinico.
2. Non hanno valore causale diretto, da soli od associati, nel singolo caso clinico.
Possono cioè essere presenti uno o più fattori di rischio ed il soggetto non mette in
atto alcun CVP o possono essere presenti uno o più fattori di protezione ed il
soggetto può mettere in atto un CVP.
3. Sono oggetto di continue revisioni ed approfondimenti clinici e appartengono alle
ipotesi cliniche di ricerca e non alle evidenze cliniche condivise.
4. Non sono validi per tutti i soggetti in tutte le circostanze. Ad esempio debbono
essere considerati in relazione all’età del soggetto (ragazzi, giovani, adulti, etc.);
all’ambiente (carcere, struttura di pronto soccorso, comunità terapeutica, assistenza
sul territorio); etc.
5. Hanno significato ed utilizzo diverso in rapporto ad un approccio terapeutico
(mirato alla beneficialità del paziente, miglioramento della qualità di vita, etc.) o
forense (mirato alla documentazione di resposabilità, etc.).
6. Debbono sempre essere contestualizzati nella irripetibile unicità di variabili biopsico –sociali del caso clinico in esame.
7. Debbono sempre essere valutati nel loro aspetto dinamico e cioè variabile nel
tempo per quanto concerne gravità, persistenza, intrusività, interattività e
comorbilità nel singolo caso clinico.
23
8. Debbono sempre essere valutati nel complesso rapporto tra fattori che aumentano
il rischio e fattori che proteggono dal rischio di mettere in atto un CVP
contestualizzati nel loro aspetto dinamico nel singolo caso clinico.
4a. Utilizzo clinico e forense dei fattori di rischio e di protezione in tema di CVP.
La buona pratica clinica dello psichiatra con il paziente a rischio di CVP impone la
valutazione dei fattori di rischio e dei fattori protettivi e la loro reciproca interazione.
Questa valutazione (risk formulation) (7) deve essere puntualmente registrata, con
chiarezza ed obiettività, in cartella clinica. Con questa modalità di approccio, di buona
pratica clinica documentata, sono raggiunti importanti obiettivi:
1. la beneficialità del paziente la cui situazione clinica è valutata con attenzione sia
nei fattori di rischio che di protezione. Su entrambi può essere indirizzato
l’intervento terapeutico;
2. la documentazione obiettiva di buona pratica clinica adottata dallo psichiatra che
ha agito con perizia, diligenza e prudenza illustrando la complessità dei fattori
presenti nella valutazione del rischio di mettere in atto un CVP.
In questo senso, sottolineiamo, l’impianto accusatorio formulato contro lo psichiatra per
non aver valutato in modo corretto la presenza dei fattori di rischio di CVP, quando fatto
senza opportune basi scientifiche di discussione e senza la contestualizzazione del caso
clinico per cui si procede, trova precise risposte nei seguenti punti:
1. I fattori di rischio sono stati valutati in relazione ai fattori protettivi: a volte i fattori
protettivi possono essere equivalenti o più importanti dei fattori di rischio;
2. Lo psichiatra non può intervenire con risultati immediati sui fattori di rischio stabili
permanenti come il sesso, l’età, i precedenti atti di CVP, etc.
3. Lo psichiatra non può prevedere nel singolo caso clinico gli eventi circostanziali
del rischio di CVP. Ad esempio l’improvviso abbandono o tradimento del paziente
da parte del coniuge, etc.
4. Lo psichiatra non è in grado di controllare in modo minuzioso e costante nel tempo
caratteristiche psichiatriche del soggetto a rischio di CVP come ad esempio la
impulsività, l’aderenza al trattamento farmaco terapico o psicoterapico, il tipo di
alleanza terapeutica, etc.
24
Come i fattori di rischio debbono essere valutati in modo corretto sotto l’aspetto scientifico
e forense anche i fattori protettivi debbono essere valutati con criteri scientifici e forensi. A
prescindere da questa corretta metodologia di valutazione e dalla doverosa speranza nella
ricerca attraverso un approfondimento scientifico sempre più beneficiale per il soggetto a
rischio di CVP, rimane la constatazione, sottolineata da una delle linee guida più usate
dagli psichiatri (7) che i fattori legati al rischio di violenza sono ancora incerti e non esiste
allo stato attuale una metodologia di valutazione del rischio che sia la più affidabile (it
remains uncertain which factors are associated with violence and how to best asses risk ).
4b. Non validità clinica e forense del ragionamento basato
sul accattonaggio dei sintomi e dei fattori di rischio e
sulla causalizzazione del fattore di rischio.
Il giudizio in tema di responsabilità professionale dello psichiatra in merito al CVP messo
in atto dal paziente si basa sul presupposto clinico e forense che i fattori di rischio e di
protezione, intesi in senso lato, debbano essere valutati tenendo conto delle loro criticità e
della loro contestualizzazione nel caso specifico e, sottolineiamo ancora, della loro
attualità e concretezza.
A) Attualità significa che la valutazione del rischio deve essere in relazione
all’esame psichiatrico al momento delle decisioni per cui si procede. Se un
paziente ha messo in atto un CVP (ad esempio una grave lesione personale)
all’età di 16 anni ed al momento dei fatti per cui si procede ne ha 40, pur senza
cancellare dalla sua anamnesi il passato, l’esame valutativo deve essere condotto,
in quanto a significatività clinica e forense, sulle variabili attuali e cioè da quanto
risulta dall’esame psichiatrico al momento delle decisioni per cui si procede (che
può accordare un valore non sempre eguale al CVP messo in atto a 16 anni). Il
fatto che un paziente abbia messo in atto un CVP a 16 anni non può etichettarlo o
marchiarlo per tutto il resto della sua vita come paziente a rischio di CVP e,
soprattutto, non deve giustificare misure cautelari mediche, psichiatriche o
giuridiche nei suoi confronti continuate per tutta la sua vita. E’ necessario tenere
conto della variabilità nel tempo del rischio di CVP, della sua ambivalenza, del
suo interagire dinamico con altri fattori anch’essi mutevoli nel tempo, del variare
delle condizioni che lo hanno determinato sia personali che sociali.
25
B) Concretezza sta a significare che il rischio non deve essere teorico o
semplicemente possibile, ma debbono essere presenti variabili che depongano per
una reale probabilità e prevedibilità.
C) Contestualizzazione significa, in pratica, che lo psichiatra deve prendere in
esame i fattori di rischio e protezione specifici per quello specifico paziente in
quella specifica circostanza psicosociale. Questa contestualizzazione assicura la
miglior beneficialità al paziente ed assicura, se adeguatamente documentata in
cartella clinica anche con la condivisione di altri operatori della salute mentale,
l’adozione, anche sotto l’aspetto forense, di una buona pratica clinica.
Sulla base di queste premesse l’accattonaggio dei sintomi e dei fattori di rischio (in
analogia a quanto fanno gli accattoni quando raccolgono tutto ciò che trovano prescindere
dalla utilità) e cioè la raccolta anamnestica indifferenziata, relativa a tutta la vita del
soggetto, di sintomi psichiatrici e/o di fattori di rischio di CVP sulla cui base si costruisce,
indipendentemente dall’esame psichiatrico al momento dei fatti per cui si procede,
l’affermazione che nell’attualità e concretezza il soggetto presentava al momento dei fatti
un grave rischio di CVP, è errata ed inaccettabile sotto il profilo clinico e forense.
La causalizzazione del fattore di rischio consiste nell’attribuzione, erronea sotto il profilo
clinico e forense, dei requisiti di causalità ad uno o più fattori di rischio. In altre parole si
confonde il concetto di rischio del CVP con il concetto di causa del CVP. I requisiti di
causalità (come sarà ulteriormente sottolineato nella causalizzazione dell’errore irrilevante
descritta in seguito) debbono essere valutati alla luce di adeguatezza della causa, di rischio
consentito, di evoluzione naturale, etc. oltre l’applicazione dei criteri di base ad esempio di
prevedibilità e di probabilità. I fattori di rischio debbono sempre essere valutati in rapporto
ai limiti clinici e forensi di ognuno, delle loro interazioni ed in rapporto ai fattori protettivi
sempre contestualizzati in uno specifico caso clinico. Per meglio comprendere le
conseguenze cliniche e forensi dell’errore della causalizzazione dei fattori di rischio è utile
considerare alcune importanti evidenze cliniche condivise. La prima è che le linee guida
NICE (7), punto di repere internazionale per la buona pratica clinica, illustrano 44 fattori di
rischio di violenza rispettivamente suddivisi in: a) demografici e di premorbidità (10
fattori); b) criminologici (6 fattori); c) psicopatologici (19 fattori); d) in relazione al
trattamento (7 fattori); e) abuso di sostanze (1 fattore); suicidarietà (1 fattore). A corollario
di questa osservazione è da segnalare che in un colloquio psichiatrico standard e cioè
26
normale nella pratica clinica (con utilizzo di una metodologia clinica) possono essere prese
in considerazione
almeno 89 fattori di rischio di comportamento violento (52) cosi
suddivisi: infanzia del soggetto (14 fattori); precedenti criminali (5 fattori); stato mentale
(28 fattori), stile di vita e socialità (13 fattori); situazione precriminale (9 fattori);
caratteristiche della vittima virtuale (12 fattori); trattamento (8 fattori). Con l’utilizzo di
una metodologia attuariale è stato costruito uno strumento di misura del rischio di
comportamento violento (ICT: Iterative Classification Tree (54), formato da 134 fattori di
rischio. Infine è da segnalare che una tra le più accreditate meta-analisi che ha esaminato la
letteratura scientifica in tema di rischio di comportamento violento ha messo in luce, in
110 studi su 45.000 soggetti, 146 fattori di rischio di violenza (55). Questa stessa metaanalisi ha messo ulteriormente in luce che il fattore statico più significativo per il rischio di
CVP e’ stata la storia criminale ridimensionando quindi, come è possibile rilevare anche
dagli studi precedentemente citati, l’importanza, relativa e modesta, del disturbo psichico
come fattore di rischio. Attribuire quindi, in modo errato, valore di causa ai fattori di
rischio, equivarrebbe a stabilire i presupposti sul piano forense, per incriminare e
condannare tutti gli operatori della salute mentale che sono stati implicati nella assistenza
ad un soggetto che ha messo in atto un CVP: sarebbe quasi impossibile non trovare per
ogni evento di CVP uno o più fattori di rischio che non siano contemplati tra i 44, gli 89, i
134 od i 146 descritti dalla letteratura.
5
Non esistono farmaci con l’indicazione di guarire il CVP
La terapia farmacologica del CVP è ricca di criticità.
1. In primo luogo non esistono in medicina, e quindi in psichiatria, farmaci che
guariscano comportamenti multideterminati. I farmaci agiscono sul singolo
sintomo o su un insieme di sintomi e non su eventi multideterminati nei quali la
componente biologica o psichiatrica è assente o trascurabile come qualità o
27
quantità. Non esistono farmaci che nella scheda tecnica o nel foglietto illustrativo
indichino specificamente di guarire il CVP.
2. Per il comportamento aggressivo e violento non si individua un trattamento
farmacologico elettivo, non essendo un sintomo di specifiche entità nosografiche
(ad esempio schizofrenia, disturbi dell’umore, etc.), ma essendo un aspetto del
comportamento umano presente in ciascun individuo e quindi, trasversalmente,
anche in ogni disturbo psichiatrico (56)
3. In ambito psichiatrico il farmaco agisce sul sintomo (non sempre eliminandolo
totalmente) e tra il sintomo e il CVP vi è la complessa valutazione dei requisiti
della causalità e del nesso causale che deve essere esaminata alla luce della
multideterminatezza dell’evento. Ad esempio l’agitazione psicomotoria è un
sintomo che può essere aggredibile farmacologicamente, ma la maggior parte dei
casi di CVP non avviene in corso di agitazione psicomotoria di competenza
psichiatrica. E’ inoltre da sottolineare, sempre in tema di rilevanza forense dello
stato di agitazione psicomotoria, che gli stati emotivi e passionali che la possono
stimolare o condizionare, non influiscono, in senso forense, sulla capacità di
intendere e di volere ai sensi degli art. 88 ed 89 c.p. In particolare, sempre in tema
della complessità eziologica e clinica della agitazione psicomotoria, non può essere
sempre ed indiscriminatamente usato, in modo acritico, un trattamento massivo
farmacoterapico (ad esempio neurolettizazione rapida, tranquillizzazione rapida,
etc.) per evitare un CVP.
4. Il farmaco agisce esclusivamente sui sintomi e spesso su sintomi specifici quali
irritabilità, agitazione, ansia, rabbia, impulsività, insonnia che nel singolo caso
clinico non sono necessariamente in nesso causale con la complessa dinamica
biopsicosociale e situazionale del CVP. Inoltre questi sintomi rappresentano
fattori di rischio addizionali (additional risk factors) in quanto largamente diffusi
tra la popolazione generale e psichiatrica e, se non contestualizzati in modo
adeguato, perdono il loro valore predittivo di fattori di rischio in tema di CVP. La
discussione con il senno del dopo non è valida per la valutazione delle variabili al
momento dei fatti per cui si procede.
5. I sintomi su cui agisce il farmaco non sono, spesso, entità semplici, indivisibili e
non approfondibili a livello scientifico: possono infatti essere sottoposti a
dissezione (l’aggressività può essere scorporata in autodiretta od eterodiretta), a
28
riunione (più sintomi possono essere riuniti nel concetto di nevroticismo), a
strutturazioni in reti (net-work con sintomi nucleari e periferici), ecc. I sintomi
non sono nello stesso soggetto o nello stesso disturbo psichico sempre stabili ed
esclusivi: possono variare col variare della malattia, raggrupparsi in dimensioni
psicopatologiche variabili nel tempo, essere transdiagnostici e cioè presenti in
differenti disturbi mentali, ecc. Possono presentare, secondo le attuali conoscenze
scientifiche, una eziologia non univoca e legata ad una specifica psicopatologia:
l’attività delirante non è esclusivamente legata alla psicopatologia della
schizofrenia e non riconosce, a livello di ipotesi cliniche, una sola eziologia
(ipotesi della salienza aberrante; della verbalizzazione metaforica o simbolica di
una vita interiore; del meccanismo psicologico di difesa da un percepito sociale
frustrante, incontrollabile ed inaccettabile; della proiezione gratificatoria o
giustificatoria di bisogni e paure primarie; etc). In altri termini le conoscenze
attuali non permettono ancora di realizzare il desiderio di molti studiosi di poter
considerare i sintomi psichiatrici come specifiche alterazioni biochimiche cui
potrebbero corrispondere specifici farmaci che le normalizzerebbero. Allo stato
attuale questa complessità del sintomo, diagnostica ed eziologica, è un elemento
che complica ulteriormente l’azione del farmaco nel singolo caso clinico.
6. Ai fini di una sempre maggior beneficialità del paziente nell’ambito di una buona
pratica clinica nella gestione del farmaco (e di una comprensione scientifica più
approfondita in campo forense in tema di rischio-beneficio nella prescrizione del
farmaco) è utile conoscere i disturbi indotti dai farmaci. Si tratta di reattività
avverse al farmaco (DSM5) che possono interessare la medicina internistica, il
sistema nervoso autonomo, l’esecuzione dei movimenti, la sensorialità e gli aspetti
psichiatrici con la creazione di sintomi psichici nuovi e disturbanti la qualità di
vita del paziente (oltre i sintomi già presenti per i quali è stata instaurata la
terapia). Questi disturbi indotti da farmaci (Adverse drug reactions) sono
molteplici, ancora oggetto di approfondimenti scientifici, possono essere specifici
per un singolo farmaco ed essere modulati da una specifica reattività, non sempre
o facilmente prevedibile a livello clinico e forense, del singolo soggetto.
Ad esempio la somministrazione di farmaci antidepressivi può, in certe
condizioni, indurre le seguenti reazioni avverse: Sindrome apatico-amotivazionale
da antidepressivi (Antidepressant Apathy Syndrome; Apathy Syndrome;
Amotivational Syndrome, SSRI-Induced Indifference,SSRI-induced apathy
29
syndrome, Antidepressant–Induced Apathy Syndrome, ecc); Sindrome da
discontinuità da antidepressivi (Antidepressant Discontinuation Syndrome);
Sindrome
Serotoninergica
(Serotonergic
Syndrome,
Serotonin
Syndrom,
Serotonergic Disorders); Sindrome Anticolinergica (Anticholinergic Syndrome);
Tremore posturale indotto da antidepressivi (Medication-Induced Postural
Tremor); Sintomi extrapiramidali da Sindrome serotoninergica da antidepressivi
(Extrapiramidal Reactions Associated with Serotoninergic Antidepressant);
Disfunzioni della sessualità: desiderio sessuale, orgasmo, eiaculazione, erezione
(Antidepressant-induced sexual dysfuction); Viraggio del sintomo (swicht);
Induzione di sintomi extrapiramidali (SSRI-Induced EPS, Akathisia and
Dyskinesia); Alterazioni cardiovascolari (Cardiovascular Effects of Serotonin);
Aumento del rischio suicidario (Antidepressant and Suicidality) ecc.
Per citare un altro esempio la somministrazione di antipsicotici può provocare:
Sindrome Maligna da neurolettici (Neuroleptic Malignant Syndrome); Sindrome
Maligna da neurolettici Atipica (Atypical Neuroleptic Malignant Syndrome),
Catatonia e Catatonia Maligna (Catatonia, Malignant Catatonia); Parkinsonismo
indotto
da
neurolettici
(Neuroleptic-Induced
Parkinsonism),
Psicosi
da
supersensitività da antipsicotici (Supersensitivity psychosis, Antipsychotic
induced dopamine supersensitivity Psychosis), discinesie tardive (Tardive
Dyskinesia), distonie acute e tardive (Acute Tardive Dystonia), Acatisia acuta e
tardiva (Acute, Tardive Akathisia); Accentuazione dei sintomi negativi; Incidenti
cardio-vascolari ( torsade de pointes : transient or sustained); Alterazioni
metaboliche (Methabolic side effects. Diabetes mellitus. Metabolic Syndrome);
Disfunzioni sessuali da Antipsicotici (Sexual Dysfunction Induced by
Antipsychotics); ecc
7. La constatazione clinica e forense che un farmaco non agisce su tutte le persone
con le stesse modalità e che non sia sempre noto, a livello scientifico, perché in
certi gruppi di persone il farmaco abbia gli effetti desiderati ed in altri gruppi di
persone no e, addirittura, presenti effetti indesiderati, ha messo in moto varie
strategie terapeutiche per affrontare queste criticità. Tra le varie strategie che
mirano a personalizzare l’azione del farmaco su di uno specifico soggetto o su
uno specifico sintomo con un preciso correlato biologico sono da considerare
aspetti della Medicina di genere (Gender Medicine) che mette in luce le
differenze, a livello di farmacoterapia, tra sesso maschile e femminile; aspetti
30
della Medicina di precisione o Medicina Personalizzata (Precision Medecine,
Personalizaled Medicine) che ricerca la disponibilità di farmaci mirati verso forme
di malattia di cui è nota una precisa componente genetica; aspetti della Medicina
Traslazionale (Translactional Medicine) in cui una parte della ricerca
traslazionale in medicina (RTM) è dedicata alle basi biologiche del disturbo che
possono fornire il fondamento scientifico per lo sviluppo ed il miglioramento di
nuove terapie farmacologiche con un rapido passaggio applicativo dalla scienza di
base alla clinica. Si tratta di strategie, attualmente in studio, che, nelle aspettative,
dovrebbero fornire, attraverso una sempre più stretta aderenza tra basi biologiche
del disturbo da curare e farmaco che cura una sempre maggiore funzionalità del
farmaco.
8. Tra le strategie terapeutiche che mirano ad ottenere, in modo primario, un
generico beneficio alla salute fisica e psichica del soggetto sono attualmente in
corso ricerche attraverso la Medicina che studia i Nutraceutici (Pharma-food) e
cioè quei principi nutrizionali (probiotici, vitamine, integratori, etc.) che
influiscono favorevolmente sui processi biologici degli individui. Anche in questo
caso si tratta di ricerche in fase di approfondimento scientifico.
9. Non esiste in medicina, ed a maggior ragione in psichiatria, il farmaco perfetto
che agisce su ogni individuo, sul sintomo nella sua totalità, che guarisce subito e
completamente, che protegge per sempre da ricadute o da evoluzioni sfavorevoli
del disturbo e, soprattutto, che non presenta rischi unitamente a benefici
10. Per quanto concerne la farmacoterapia, sulla base delle evidenze cliniche, è
possibile mettere in luce quanto segue sulle criticità legate non al farmaco perfetto
quanto al farmaco nella sua utilizzazione assistenziale quotidiana e nel suo
funzionamento reale. Sul problema della relazione tra diagnosi e terapia
farmacologica è da segnalare che in psichiatria è possibile formulare diagnosi, su
di uno stesso individuo, che partono da differenti presupposti dottrinali (diagnosi
categoriali,
prototipiche,
dimensionali,
dinamiche,
fenomenologiche,
psicoanalitiche, narrative, etc.) che non implicano, anche nello stesso caso
clinico, l’adozione della stessa terapia farmacologica. E’ inoltre da sottolineare
che in psichiatria esistono numerosi manuali di classificazione dei disturbi
psichici : DSM5 (Diagnostic and Statisical Manual of Mental Disorder) e ICD-10
(International Classification of Diseases) che privilegiano una descrizione
categoriale statistica del disturbo mentale; PDM (Psychodynamic Diagnostic
31
Manual) che privilegia un aspetto diagnostico psicodinamico e psicoanalitico;
RDoC (Research Domain Criteria) che privilegia l’aspetto della ricerca
neuroscientifica legata al disturbo mentale; etc. Si tratta di manuali che, pur non
eguali nella impostazione metodologica, ma passibili di integrazione reciproca,
rappresentano un valido aiuto alla ricerca scientifica nell’approfondire l’eziologia,
la diagnosi e la terapia del disturbo psichico.
11. Nello stesso individuo possono poi coesistere differenti disturbi psichici
(comorbilità anche con disturbi medici organici, abuso di sostanze, etc.) che
rendono ulteriormente più complessa l’adozione di una terapia farmacologica
univoca e specificamente mirata. La mutevolezza dei sintomi nel tempo, la loro
comunanza con disturbi psichici diversi, la presenza di sintomi di durata
estremamente breve che scompaiono senza lasciare traccia, la ridotta visibilità dei
sintomi di esordio dei disturbi psichici, l'aderenza al trattamento del paziente
nell'effettuare con regolarità le cure prescritte complicano ulteriormente la
farmacoterapia.
12. Inoltre un trattamento farmacologico anche corretto in rapporto alla diagnosi,
scelta del farmaco, dose, via di somministrazione ed aderenza del paziente al
trattamento non assicura, come afferma unanime la letteratura, una risoluzione
del sintomo psichiatrico. Questo concetto clinico e forense è stato recentemente
ribadito e chiarito dalla Suprema Corte di Cassazione IV sez. pen. (n. 14766/16)
al proposito di un suicido, evento ad eziologia multi determinata come il CVP, di
un soggetto con disturbo psichico: In concreto, secondo i canoni della moderna
psichiatria, si è fatto ricorso ai farmaci, la cui efficacia terapeutica è
notoriamente variabile e non sicuramente prevedibile, non essendo in grado di
garantire né la guarigione dei pazienti né l’arresto di progressione della malattia
e neppure la prevenzione da gesti auto o etero aggressivi… Il paziente può infatti
reagire al farmaco in modo imprevedibile e drammatico rendendo impossibile la
somministrazione (intolleranza) non reagire al farmaco (resistenza) e alle varie
strategie per vincere la resistenza (ottimizzazione, combinazione, sostituzione,
potenziamento, etc.), reagire solo parzialmente (risposta parziale), può presentare
complicazioni non prevedibili nel singolo caso clinico (effetti collaterali), il
farmaco può provocare reazioni differenti rispetto a quelle che, a livello statistico
sono le aspettative terapeutiche (effetti paradossi), può modificare il corso della
malattia senza offrire la guarigione (disease-modifying drugs), il farmaco, per
32
motivazioni biologiche legate al singolo individuo, può non funzionare o
presentare complicazioni non prevedibili (specificità farmacogenomica), il
farmaco, per motivazioni psicologiche legate al singolo individuo, può nella
percezione del soggetto, non agire o produrre effetti dannosi (effetto nocebo); il
decorso del disturbo psichico può essere caratterizzato da guarigioni incomplete,
aggravamenti e ritorno dei sintomi, non prevedibili nel singolo caso clinico ed in
modo indipendente dalla correttezza della terapia farmacologica (remissioni
parziali, ricadute e ricorrenze), il farmaco può interagire con altri farmaci della
cui assunzione lo psichiatra non è stato avvertito o con imprevedibili mutamenti
dell’organismo che alterano la farmacocinetica o la farmacodinamica (interazione
con altri farmaci o con il substrato biologico).
13. Infine, a livello generale di comprensione della farmacoterapia, è da sottolineare
che, sotto il profilo clinico, non esiste il farmaco perfetto che agisce sul sintomo
immediatamente, guarisce tutto, per sempre, senza rischi, solo con benefici su
tutte le persone indistintamente. Per avere una visione scientifica e clinica corretta
dell’azione dei farmaci sui sintomi della schizofrenia (e cioè uno tra i disturbi
psichici con maggiori rischi di CVP) è da considerare la evidenza clinica
condivisa che gli antipsicotici non danno risposte terapeutiche in questo tipo di
psicosi dal 10 al 30 per cento dei casi e che un altro 30 per cento di pazienti
presenta solo una risposta parziale (57). E’ da sottolineare che stiamo sempre
valutando l’azione del farmaco sul sintomo e non sul CVP. E’ quindi da
aggiungere, per una approfondita e realistica valutazione del farmaco, il
complesso rapporto, spesso non documentabile od inesistente a livello forense, tra
sintomo e CVP. Una recente revisione sistematica della letteratura sulla
farmacoterapia del comportamento aggressivo ha evidenziato la debole evidenza
clinica della efficacia della varie classi di farmaci (weak evidence of efficacy of
various classes was found) (58) confermando le criticità della farmacoterapia in
tema di CVP.
14. Sotto il profilo forense, ricordiamo ancora che il disturbo psichico può essere
presente od assente nel CVP e quando è presente è sempre necessario dimostrare il
suo nesso causale con il CVP. Inoltre il CVP è un evento multideterminato e che, in
qualsiasi caso, il disturbo psichico è solo uno tra i tanti fattori che possono
aumentare il rischio di CVP che deve
essere valutato in relazione ai fattori
33
protettivi. In questo complesso contesto sono da valutare le ulteriori criticità legate
alla farmacoterapia del CVP.
15. La disciplina psichiatrica a differenza di altre discipline mediche necessita, a livello
forense, per quanto riguarda la farmacoterapia del CVP di una particolare e
specifica attenzione alle sue criticità in ragione di una sua maggiore complessità.
Ad esempio il CVP non può essere paragonato all’affezione internistica del diabete.
Per quest’ultima esistono, a differenza di quanto avviene nel CVP, precisi esami
obiettivi condivisi per la diagnosi (ad esempio il livello ematico della glicemia) e
specifici farmaci efficaci per la terapia (ad esempio l’insulina). Questo concetto
clinico e forense è stato recentemente sottolineato in modo chiaro dalla Corte
Suprema di Cassazione, IV sez.pen. (n.14766/16) : E’ fuori discussione che le
regole cautelari dell’attività medica presentino, in generale, un tasso elevato di
peculiarità e difficoltà, non solo nella fase di verifica e della valutazione, ma anche
in quella, più strettamente modale ed operativa, della scelta del percorso
terapeutico. Il discorso si pone in termini ancor più problematici con riferimento
alla scienza psichiatrica, a fronte della imprevedibilità della condotta che
caratterizza talune sindromi e taluni singoli casi, giacché le manifestazioni
morbose a carico della psiche sono tendenzialmente meno evidenti e afferrabili
delle malattie fisiche, per cui il confine tra trattamento giusto e trattamento
sbagliato può almeno in certi casi diventare ancora più incerto che non nell’ambito
della generica attività medica.
5a. Necessità di introdurre un fattore di correzione nella valutazione della
farmacoterapia per il CVP rispetto ad altre farmacoterapie mediche.
La complessità dell’evento multideterminato, la difficoltà di trattare sintomatologie non
facilmente obiettivabili con un unico tipo di diagnosi, la complessità e vriabilità del
sintomo, i mezzi farmacoterapici non sempre efficaci e non indenni da rischi, il complesso
legame clinico e forense di causalità tra sintomo e CVP, etc. implicano l’introduzione di un
fattore di correzione (inteso come una particolare attenzione in tema di approfondimento
clinico, scientifico e forense) allo scopo di valutare con criticità la reale responsabilità
farmacoterapica dello psichiatra. Quanto precede non esclude la doverosa riconoscenza
34
dei meriti della farmacoterapia in tema di cura del disturbo psichico e di miglioramento
della qualità di vita del paziente, dell’auspicio di sempre più approfondimenti scientifici
della neuro psico farmacologia per la beneficialità del paziente, della necessità di applicare
e perfezionare interventi farmaco terapici validi ed adeguati in situazioni psichiatriche
croniche ed acute di crisi. Inoltre è da considerare il rispetto che, nella cura del singolo
paziente, deve essere accordato alla psicoeducazione al farmaco ove evidenze scientifiche
sono gestite alla luce della comunicazione, nella gestione della alleanza terapeutica, della
speranza di miglioramento o di guarigione mirata alle caratteristiche personologiche in
uno specifico contesto di realtà psicosociale e di vissuti emotivi personali.
5b. Non validità clinica e forense della pubblicità ingannevole del farmaco miracoloso e
della causalizzazione dell’errore non rilevante .
Non raramente la centralità della discussione sulla responsabilità professionale dello
psichiatra ha come oggetto la prescrizione farmacologica impostata sulla percezione del
farmaco perfetto ed indispensabile per evitare il CVP. Questa concezione di farmaco
perfetto in grado di guarire un evento multifattoriale come il comportamento violento sulla
persona non è solo presente nelle fantasie popolari, ma anche in operatori della salute
mentale e, seppure in modo più sofisticato meno palese e più razionalizzato, anche in periti
e consulenti senza valida esperienza clinica nell’assistenza farmacologica a specifiche
tipologie di pazienti. Accanto alla semplicistica affermazione: è violento perché è malato
di mente, esiste la altrettanto errata affermazione: era sufficiente somministrare un farmaco
adeguato e non avrebbe messo in atto un CVP. Si tratta di una sorta di pubblicità
ingannevole sul farmaco che deve sempre essere valutata tenendo conto della sue criticità.
Un’altra osservazione psichiatrico forense che si può fare derivare da quanto precede, è
attribuire ad un eventuale errore nell’operato dello psichiatra (che può essere presente ma
ininfluente ed irrilevante ai fini dei requisiti della causalità e dell’aumento del rischio
suicidario: ad esempio in termini di adeguatezza della causa, di rischio consentito, di
evoluzione naturale, ecc), un requisito di causalità (causa o concausa) o un rapporto di
causalità (nesso di causalità) col CVP (causalizzazione dell’errore irrilevante).
In tema di responsabilità dello psichiatra per presunto errore farmacologico non è, quindi,
accettabile, sotto l’aspetto clinico, scientifico e forense, l’accusa superficiale che si limita
ad affermare, senza copertura scientifica specifica sul caso, senza evidenze cliniche
35
scientifiche e senza disamina critica contestualizzata, che lo psichiatra: non ha dato il
farmaco che avrebbe evitato il CVP. Ovvero: ha dato il farmaco che ha scatenato il CVP.
Ovvero: ha sbagliato a somministrare, a scalare o sospendere il farmaco e quindi il
paziente ha messo in atto un CVP. Chi formula l’accusa è tenuto ad essere chiaro,
circostanziato e documentato. Affinché l’accusa possa essere presa in considerazione deve
precisare, secondo parere motivato (giustificato da adeguata copertura scientifica e non
una semplice opinione personale) ed in rapporto alla causalità omissiva o commissiva,
quale avrebbe dovuto essere la scelta farmacologica corretta e motivare l’esistenza o meno
del nesso di causalità (ad esempio attraverso il ragionamento contro fattuale: se il paziente
avesse fatto la terapia corretta che io suggerisco sulla base di una copertura scientifica il
CVP si sarebbe verificato?) In particolare sulla base dei loro doveri il perito e il consulente
devono precisare il tipo di farmacoterapia da loro ritenuta corretta:
1. il tipo specifico di farmaco;
2. la dose;
3. la via di somministrazione;
4. la durata della somministrazione;
5. le percentuali di intolleranza e di resistenza al farmaco in quel tipo di disturbo
psichico;
6. le percentuali di successo e fallimento nell'uso delle varie strategie alternative per
vincere la resistenza in quello specifico disturbo;
7. le percentuali di effetti collaterali e la rispettiva gravità clinica;
8. la percentuale di effetti paradossi;
9. la percentuale di remissioni non complete dei sintomi, delle ricadute e delle
ricorrenze in quello specifico disturbo psichico;
10. la possibilità di interazioni farmacologiche o variazioni farmacocinetiche
o
farmacodinamiche imprevedibili o inevitabili da parte del curante;
11. La percentuale di non aderenza terapeutica a quel farmaco in quel determinato
disturbo psichico;
12. La tipologia di alleanza terapeutica che quello specifico paziente era solito stabilire
con i curanti.
13. L’eventuale esistenza di particolari condizioni soggettive del paziente che potevano
rendere problematica la riuscita del trattamento farmacologico.
36
Il perito ed il consulente non possono presentare un farmaco perfetto, ideale e miracoloso
su un paziente ideale senza fornire i necessari chiarimenti sopra esposti, ma debbono
presentare un farmaco nel suo funzionamento reale, contestualizzato nello specifico caso
clinico con la copertura scientifica della più accreditata letteratura. Tale letteratura, in
campo forense, deve essere estranea ad interessi economici delle case farmaceutiche e ad
interessi di clinici che presentano conflitti con case farmaceutiche, qualora non siano
rispettati i principi :
a) di appropriatezza della cura,
b) delle possibilità di gestione non farmacologica del caso,
c) delle possibilità farmaco terapiche alternative.
Inoltre la letteratura, per avere valore forense, deve essere mirata a risultati concreti nella
pratica clinica quotidiana e rispondere ai criteri internazionali di alta qualità scientifica e
metodologica. Questo è il modo di presentare, a chi deve comprendere e giudicare l'operato
dello psichiatra, evidenze cliniche condivise, in tema di farmacoterapia, ed agire in modo
corretto sotto il profilo clinico e forense.
6
Non esistono provvedimenti psicoterapeutici che guariscano
sempre, rapidamente e senza recidive tutti i CVP
Nessun provvedimento psicoterapeutico è in grado di neutralizzare il CVP in tutti i casi
clinici, con rapidità e senza possibilità di recidive, anche a brevissimo termine o nella
immediatezza, ed azzerare il rischio di imprevedibilità e inevitabilità. Provvedimenti
terapeutici anche contro la volontà del soggetto, come i vari tipi di isolamento e di
contenzione fisica (in stanza di sicurezza, al letto, parziale sulle mani od incrociata mani e
gambe, etc.) non possono che essere applicati secondo specifiche indicazioni e per un
tempo molto limitato e rappresentano un provvedimento di urgenza. Interventi terapeutici
di breve durata come le tecniche per tranquillizzare (talk down), per fare verbalizzare la
sofferenza (talk up), per gestire la rabbia senza abolirla, per la pacificazione, per il
negoziato emotivo, per la mediazione, per la gestione psicologica delle situazioni di crisi,
per il trattamento delle personalità difficili, etc. (59-64), non sempre sono applicabili e
37
quando applicate non sempre offrono, anche nell’immediatezza, risultati terapeutici
concreti, hanno indicazioni cliniche per essere applicate a tutti i soggetti, ed hanno effetto
sulla totalità dei pazienti.
6a. Applicabilità dei provvedimenti psicoterapici
Utile che i provvedimenti psicoterapici, nel caso debbano o possano essere fatti, siano
documentati, proporzionali alla gravità del rischio, fattibili e monitorabili.
6b.Necessità che lo psichiatra, quando è il caso e dopo valutazione del rischiobeneficio, avverta e suggerisca misure di protezione per la probabile vittima
L’avvertimento e la protezione della vittima sono un tema complesso oggetto di diatribe
giuridiche, forensi e cliniche. Tra le numerose criticità ricordiamo la possibile violazione
del segreto professionale, la differenza tra il possibile (tutti possono essere vittime) ed il
probabile (solo qualcuno sarà vittima in realtà), la ritrattazione e negazione di minacce e
verbalizzati di morte da parte del protagonista (con conseguenti rivendicazioni e denunce
contro lo psichiatra), il limite non sempre chiaro tra il dovere di avvertire (duty to warn) e
dovere di proteggere (duty to protect). E’ comunque sempre doveroso per lo psichiatra
valutare con attenzione e monitorare nel tempo le minacce significative e strutturate di
CVP formulate da un paziente all’indirizzo preciso di una specifica vittima ed
approfondirne il significato.
7
Esistono situazioni di crisi che possono precedere il CVP
Sono presenti in psichiatria situazioni di crisi (pazienti non disponibili o non in grado di
comunicare; pazienti che formulano richieste inadeguate, dissociali, inconciliabili col ruolo
di terapeuta o con i principi di funzionamento e sicurezza della istituzione; etc.), spesso
con pazienti a difficile gestione (pazienti agitati, confusi; deliranti; allucinati; minacciosi;
38
auto ed etero aggressivi; intrusivi; autori o vittime di danni fisici a persone; etc.), in
contesti socioambientali a rischio (istituzioni penitenziarie, stati di affollamento in pronto
soccorso o servizi di diagnosi e cura, etc.) che, se non adeguatamente gestite, possono
esitare in CVP. Pur nel rispetto della specificità di ogni singolo caso clinico è possibile
tracciare alcuni principi generali che possono essere utili per gestire con buona pratica
clinica queste situazioni di crisi e ridurre il rischio di CVP.
•
Assicurare la sicurezza fisica delle persone
Obiettivo prioritario è preservare l’integrità fisica delle persone in particolare del soggetto
in crisi (aggressività autodiretta) o degli operatori presenti, di eventuali altre persone
(aggressività eterodiretta) che possono essere implicate in un evento di violenza. Il
terapeuta deve conoscere i fattori di rischio e le misure precauzionali da adottare in caso di
pazienti autolesivi, suicidiari e violenti. Per rispettare questo obiettivo primario è
indispensabile provvedere:
1. alla sicurezza dell’ambiente fisico (assenza di oggetti pericolosi da usare come armi
di offesa quali porta abiti mobili, porta cenere massicci, tagliacarte rigidi ed affilati;
poter disporre della presenza di vie di fuga per l’aggressore e per l’aggredito; etc.)
2. alla sicurezza delle persone (ridurre il numero delle persone a rischio, mantenere la
distanza di sicurezza dal soggetto in esame, non voltare le spalle, non abbandonare
il controllo visivo, mantenere la posizione del corpo esponendo la parte meno
aggredibile e più difendibile e cioè il fianco protetto dagli arti superiori, etc.)
3. alla disponibilità di interventi di urgenza rapidi (controllo visivo da parte di altri
operatori, pulsanti di allarme, etc.)
4. a collaudate tecniche di neutralizzazione del soggetto violento (immobilizzazione
fisica con personale esercitato e saper evitare danni collaterali, intervento
farmacoterapico, etc.)
5. a collaudati protocolli di prevenzione e gestione di specifiche situazioni di violenza
(prevenzione e gestione dello stalking; del paziente armato col coltello, con arma
da fuoco; del paziente che cerca di strangolare, sferra calci e pugni, etc.)
6. al ricupero della situazione terapeutica dopo l’evento di violenza (ventilazione dei
sentimenti, partecipazioni manifeste di empatia alla vittima, auditing e debriefing
non colpevolizzanti per i protagonisti, etc.)
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7. all’esame dell’evento di violenza come evento sentinella (per aumentare la
sicurezza, la beneficialità del paziente, migliorare le tecniche di intervento, ridurre
possibili recidive, assumere provvedimenti adeguati anche a livello giudiziario,
etc.)
Esempio Infermiera percossa da un paziente dopo un diverbio. Il primario ignora
l’accaduto colpevolizzando la vittima con linguaggio non verbale. Dopo una
settimana il primario è aggredito dallo stesso paziente e gli infermieri tardano a
prestare aiuto. In questo caso non è stato esaminato il fatto (domanda aggressiva
del paziente e risposta speculare aggressiva della infermiera), non si è parlato in
equipe del malessere e della simpatia verso l’infermiera aggredita (non è stata
fatta ventilazione dei sentimenti e partecipazione empatica alla vittima), non si è
tenuto conto che il paziente avrebbe messo in atto una violenza vendicativa
stimolata da un altro infermiere (agito di violenza vendicativa per procura) e del
comportamento aggressivo di tutta l’equipe nei confronti del primario (omissione
con ritardo volontario e condiviso nel soccorso).
•
Raccogliere informazioni sul paziente prima della visita
È utile che, sopratutto la prima visita, avvenga con tutte le informazioni utili sul paziente e
sulle sue abitudini comportamentali (potrebbe essere solito circolare armato, fare proposte
sessuali violente, richiedere insistentemente denaro od alloggiamento, utilizzare un
approccio cronico provocatorio, etc.)
Esempio Un paziente è inviato presso specialisti psichiatri per valutare il rischio di
comportamento violento. I consulenti non sono stati avvertiti da chi ha inviato il
paziente che poche ore prima aveva aggredito un sanitario: Non lo abbiamo detto
per non influenzare il vostro parere....
•
Utilizzo terapeutico delle emozioni
Il terapeuta non può ignorare che le emozioni esistono in ogni relazione personale. In
particolare deve saper riconoscere ed utilizzare a fini terapeutici le emozioni che prova
verso il paziente e quelle che il paziente prova verso di lui. La doppia apertura alle
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emozioni proprie ed a quelle del paziente permette un colloquio ed un rapporto terapeutico
gestito secondo i principi fondamentali di buona pratica clinica.
Esempio. Terapeuta con emozioni di paura nei confronti del paziente violento
afferma: non ho indagato sul suo desiderio di violenza per evitare di stimolarlo a
diventare violento. Terapeuta ansioso afferma: non lascio mai dei silenzi tra me ed
il paziente, non voglio che diventi ansioso. Terapeuta che non è in grado di gestire
le emozioni afferma: non permetto ai pazienti di esternare troppo le loro emozioni,
soprattutto il pianto e la disperazione: questi pazienti non sono in grado di gestire
le loro emozioni...
•
Osservazione e controllo della comunicazione non verbale
E’ importante che il terapeuta sia consapevole della comunicazione non verbale del
paziente (per coglierne gli stati emotivi, la autenticità, il grado di ansia e sofferenza, etc.) e
che sappia tenere sotto controllo la propria comunicazione non verbale (per non
comunicare emozioni non utili ai fini terapeutici come noia, fastidio, irritazione,
disperazione e sappia comunicare le emozioni utili al processo terapeutico come empatia,
attenzione, rispetto). Empatia non significa, in questo caso, che il terapeuta debba
identificarsi al paziente pensando e agendo come lui, o provare, esaurendosi emotivamente,
gli stessi sentimenti del paziente (non deve accettare le identiche sofferenze e conflittualità
del paziente). La comunicazione non verbale è costituita da: il linguaggio orale (volume,
tonalità, velocità, ritmo, inflessione della voce, pause, sospiri, sbuffi, ritmo del respiro,
etc.); la mimica facciale (direzione dello sguardo, apertura della rima palpebrale, forma
della rima buccale, espressività della muscolatura facciale, etc.); la posizione del corpo
(spalle e viso protesi in avanti con aria minacciosa, naso in linea con la punta dei piedi,
verbalizzati rivendicativi espressi ad alta voce, etc.); la gestualità degli arti (indice puntato
sull’interlocutore, apertura/chiusura delle mani tremanti e sudate, etc.).
La comunicazione non verbale può essere differente come intensità e riconoscibilità e
variare da grossolane manifestazioni facilmente visibili (parlare con un soggetto paranoide
ad alta voce ponendosi alle sue spalle in posizione sopraelevata in piedi mentre lui è seduto
e toccandogli una spalla improvvisamente senza avvertirlo, etc.) sino a manifestazioni
meno plateali non consapevoli e meno riconoscibili (invisibili ad occhi non esperti:
enactement) ma sempre ben decodificate dal paziente (rapidi movimenti quasi
41
impercettibili della apertura/chiusura della rima palpebrale o della direzione delle sguardo,
blocco o variazione dei movimenti di una mano o di un dito, etc.). In questo contesto è
utile saper cogliere anche i segnali non verbali che il soggetto può comunicare come
possibile violenza imminente: espressione facciale tesa ed arrabbiata, aumento di
movimenti afinalizzati che si prolungano nel tempo, aumento del ritmo respiratorio e
cardiaco, dilatazione delle pupille, tremolio dei muscoli, prolungato contatto visivo diretto
negli occhi, movimenti impulsivi reattivi aggressivi, gestualità di minaccia, tentativi di
impedire l’accesso a vie di uscita, sguardi prolungati ad oggetti che possono essere
utilizzati come arma di offesa, rifiuto di comunicare, agitazione psicomotoria, etc. Questi
segnali non verbali possono integrarsi con altri segnali di allarme di violenza imminente
come verbalizzazioni di sentimenti di rabbia e di violenza; processi di pensiero all’insegna
della confusione, irritabilità, rivendicazione; presenza di allucinazioni o aspetti deliranti a
contenuto di violenza; etc.
Esempio. Terapeuta percosso da un paziente confessa: avrei dovuto accorgermene
e porre una distanza di sicurezza perché il paziente aveva un posizione del corpo
da pugile (corpo con una gamba arretrata e le anche ruotate di circa 45 gradi), i
pugni chiusi, lo sguardo fisso nei miei occhi e le mascelle con tutti i muscoli
contratti…
•
Prestare ascolto
Tra le modalità di condurre un colloquio sono da segnalare il colloquio direttivo (il
terapeuta pone al paziente domande numerose, specifiche e dirette), il colloquio non
direttivo (il terapeuta invita il paziente a esporre quanto ritiene più opportuno in relazione
ai suoi disagi), il colloquio semidirettivo (il terapeuta formula domande a carattere generale
poco numerose e lascia molto spazio libero alle verbalizzazioni spontanee del paziente).
Queste tre modalità possono essere integrate nel colloquio ad imbuto.
1. La prima parte o fase del campo libero è costituita da domande generali cui il
paziente può rispondere a 360° (mi parli della sua famiglia). In questa fase il
paziente può descrivere quello che più desidera.
2. Nella seconda fase, fase di chiarificazione, il terapeuta richiede spiegazione ed
approfondimenti su singoli temi (lei mi ha detto che ama sua moglie mi può
42
spiegare meglio…) In questa fase il terapeuta può approfondire il comportamento, i
pensieri, le emozioni, le fantasie del soggetto.
3. Nella terza fase, del confronto con la realtà, il paziente è messo di fronte a fatti
reali della sua vita sui quali è stimolato a dare una spiegazione. Questa fase, molto
delicata, può non essere tollerata dal paziente e sollevare atteggiamenti
rivendicativi con manifestazioni comportamentali violente sino a vere e proprie
crisi pantoclastiche (ad esempio nel caso di maltrattamenti in famiglia affermare:
lei mi ha detto che ama sua moglie come spiega che è stata più volte ricoverata al
pronto soccorso perché lei l’ha picchiata?).
È quindi importante per il terapeuta considerare l’eventualità che non tutte le domande
possono sempre essere fatte in ogni momento e che non tutte le parole del paziente devono
sempre essere nell’immediatezza approfondite con la più accanita e metodica diligenza
(capacità del terapeuta di essere momentaneamente muto e sordo).
Esempio. Il paziente appena giunto al colloquio deposita un’arma sulla scrivania
del terapeuta. Quest’ultimo si alza spaventato, senza ascoltare altro ed esce dalla
stanza richiedendo l’aiuto degli agenti di sicurezza. La situazione verrà poi
chiarita. Il paziente dirà: avevo portato la pistola per consegnarla al mio
terapeuta perché non ritenevo utile per me rimanere in possesso di un’arma così
pericolosa… ma il terapeuta non mi ha lasciato il tempo di parlare…
•
Facilitare la comunicazione verbale
Il terapeuta può utilizzare tecniche che rendano più fluido e ricco di informazioni il
colloquio e migliorare la relazione terapeutica.
L’invito generico consiste nella gestualità (cenno di approvazione con il capo, cenno di
continuare con il palmo della mano, etc.); nell’uso di fonemi e cioè suoni privi di senso
(“hum”), di singole parole (si, bene, e dopo), di frasi più complesse (potrebbe precisare
meglio).
Nella ripetizione semplice viene ripetuta l’ultima parola del paziente. Nella ripetizione
elaborata viene ripetuta un’intera frase.
La riformulazione, che è un riassunto dopo il discorso del paziente, si cerca di sintetizzare
quanto detto. La riformulazione può contenere imprecisioni nel riportare il pensiero del
paziente e può prestarsi ad una manipolazione a fini terapeutici. La riformulazione43
centraggio consiste nel centrare l’attenzione, tra le tante cose dette dal paziente, su uno
specifico tema (se ho capito esiste anche il fatto che…). La riformulazione positiva mette
in luce gli aspetti positivi di quanto descritto dal paziente. Una frase tipo: nessuno ha
fiducia in me, con la riformulazione positiva può divenire: Lei desidera che le persone le
accordino fiducia).
Nella diversione lo scopo è distogliere transitoriamente l’attenzione da temi in quel
momento difficili da affrontare tanto per il paziente quanto per il terapeuta. Può essere una
diversione di rottura (sospendiamo per un caffè); una diversione di sospensione (possiamo
parlarne il prossimo colloquio); una diversione di ri orientamento (interrompere la
descrizione di un profondo dolore da lutto e l’invito a parlare degli aspetti positivi della
persona scomparsa).
La sostituzione consiste nell’utilizzare, invece di frasi che bloccano il colloquio, locuzioni
che lo facilitino (non: voi non capite quello che dico, ma: forse non mi sono espresso con
chiarezza).
La mediazione è utile in quelle situazioni di impasse terapeutico. Per esempio un paziente
con grosse difficoltà ad esprimere in parole la propria sofferenza, non accetta una relazione
terapeutica, etc. e contemporaneamente un terapeuta che si percepisce impotente, confuso
senza appigli da cui ripartire: in questi casi una mediazione attraverso un approccio
medico, una attività ludica od una occupazione lavorativa ed espressiva elementare
possono permettere al paziente ed al terapeuta di uscire da una situazione di ristagno
terapeutico mortifero.
Tutte queste tecniche di facilitazione del colloquio debbono essere usate con molta
adeguatezza al caso e con molta accortezza e buona esperienza clinica al fine di evitare che
il paziente possa farsi l’idea di un terapeuta distratto, che utilizza suoni gutturali
incomprensibili, che ripete le parole come un pappagallo, non capisce i concetti che gli
vengono esposti, impreciso nel ripetere le cose che lui ha detto, e che cerca di distogliere la
sua attenzione dai veri problemi che lo fanno soffrire.
Esempio. Vi sono operatori della salute mentale che sono noti come terapeuti che
fanno saltare i pazienti (scompensano l’equilibrio psichico del paziente e lo
possono stimolare ad agiti di violenza) attraverso il loro linguaggio verbale (allora
non mi capisci…quante volte debbo dire che ci sono delle regole da
rispettare…non sono problemi miei...mi vuoi dire o non mi vuoi dire qual’ è il tuo
problema…stai calmo e non ti agitare inutilmente…ed io in tutto questo che ci
44
posso fare?, etc.) e non verbale (gestualità che esprime dominazione,
provocazione, autoritarismo, disprezzo, ironia, etc.) inadeguate al contesto
terapeutico.
Far comprendere che si è compreso
•
Dimostrare al paziente di averlo compreso e di avere una empatica simpatia nei suoi
confronti permette, insieme all’ascolto, di instaurare un valido rapporto terapeutico. Per
approfondire e meglio comprendere i verbalizzati del paziente, oltre alla riformulazione
fedele, è utile stimolarlo a fornire ulteriori informazioni esplicitando con prudenza dubbi
su quanto si è creduto di comprendere con l’uso di precauzioni psicologiche oratorie: se
ho capito bene…forse ho dimenticato qualcosa… non ho capito…mi può spiegare
meglio… In questa fase è utile usare il più possibile le stesse parole e frasi utilizzate dal
paziente.
Esempio Terapeuta: lei ha detto che odia sua madre. Paziente: non è vero che
odio mia madre. Per evitare l’utilizzo delle resistenze psicologiche, di cadere in
un clima di contradditorio ed evitare al paziente un intollerabile confronto con la
realtà può essere più utile dire: non ho capito bene il rapporto con sua madre… mi
può aiutare a capire meglio…
Fornire informazioni al paziente
•
Utile che il terapeuta fornisca al paziente informazioni semplici (il contratto terapeutico, le
regole presenti in una istituzione, etc.) ed anche, quando è il caso, anche più complesse
(leggi, tradizioni, usanze, etc.)
Queste informazioni non debbono essere somministrate come regole autoritarie o
limitazioni alla libertà personale, ma come utilità al paziente per affermare i suoi diritti e
tutelare le sue aspettative. La loro funzione può essere così riassunta:
a.
spersonalizzare il rapporto quando se ne presenta la necessità,
b.
fornire un quadro della realtà quando questo è confuso,
c.
stimolare a livello terapeutico un comportamento sociale adeguato.
45
Obiettivo che deve essere raggiunto con particolare attenzione ed esperienza in quanto
rappresenta un confronto del paziente con le limitazioni imposte dalle regole di vita
sociale. In certi casi è possibile dividere l’intervento terapeutico in tre fasi:
1. in primo luogo favorire la comprensione di ciò che desidera,
2. in secondo luogo favorire le modalità di realizzazione tenendo conto dei vincoli
delle regole sociali
3. solo nella terza parte approfondire le motivazioni e la loro adeguatezza alla base
dei suoi desideri.
E’ possibile affermare che fornire informazioni al paziente con le modalità sopra descritte
appartiene alla complessa e difficile seconda fase di questo tipo di trattamento nell’ambito
di questa specifica definizione di intervento terapeutico.
Esempio. Nell’ambito della cultura dell’accoglienza e della chiarificazione del
contratto terapeutico il paziente deve essere informato, con particolare attenzione
e sensibilità ai suoi specifici bisogni, delle regole sociali presenti nello specifico
contesto di terapia e di ambiente in cui è situato. E’ da evitare che il paziente
possa recriminare: nessuno mi ha spiegato, nessuno mi ha avvertito, nessuno mi
ha aiutato, nessuno si è occupato dei miei problemi,etc.
•
Comunicare disponibilità all’aiuto
Nel rapporto terapeutico è necessaria la comunicazione comprensibile e concreta al
paziente di una empatica disponibilità ad aiutarlo. Questa disponibilità all’aiuto e la sua
comunicazione possono essere assai varie a seconda del tipo e delle problematiche del
paziente: dagli interventi concreti sulla vita quotidiana (soluzione di semplici problemi
legati al cibo, la igiene, la comunicazione) sino ai più complessi contenimenti emotivi (ad
esempio l’accettazione, la modulazione, la sublimazione della sua aggressività).
Esempio Il paziente in stato di agitazione domanda imperiosamente di poter fare
una telefonata urgente. Invece di rispondere, in modo autoritario ed immediato,
che non è possibile perché il regolamento lo vieta, si può chiedere al paziente di
chiarire verbalmente le motivazioni alla sua richiesta e cercare, con il suo aiuto, di
trovare soluzioni, anche alternative (se possibile) al problema.
46
•
Essere il garante della realtà
Tra i compiti del terapeuta vi è anche quello di richiamare, con le dovute modalità, il
proprio paziente alla realtà. Anche nella crisi più acuta, infatti, può essere individuato un
brandello di realtà che possa essere terapeuticamente utile (terapeuta come ricercatore di
realtà utili). Il richiamo alla realtà deve tenere conto delle difficoltà al colloquio che il
paziente può presentare in qualsiasi momento della terapia. Adattarsi, quindi, alle capacità
di comprensione sia cognitiva che emotiva che il paziente presenta in ogni specifico
momento del percorso terapeutico. Il terapeuta deve diventare un dispensatore di realtà
personalizzate e mirate alle esigenze del momento e, come un sarto, cucire addosso al
paziente la realtà che è più accettabile e utile in quello specifico momento di difficoltà al
colloquio. Le realtà cliniche che possono essere illustrate ai pazienti variano dalle più
semplici ed accettabili (modalità di comportamento e regole sociali di vita in istituzione)
alle più complesse e difficili da accettare (descrizione dei guadagni secondari legati ai
sintomi lamentati, le contraddizioni tra quello che dice e quello che fa, etc.)
Esempio. Il terapeuta può anche essere garante della realtà (ricercatore e
dispensatore) in casi clinici che possono apparire refrattari alla comprensione
della realtà e nei quali il colloquio può apparire difficile od impossibile
(teatralismo isterico, delirio, etc.) Il paziente, pur con le dovute eccezioni, può
essere stimolato a descrivere le reali difficoltà nel suo vivere sociale che gli
procurano i sintomi che lamenta (ad esempio: ritenere di essere perseguitato dai
servizi segreti le crea problemi nella vita di tutti i giorni?).
•
Responsabilizzare il paziente
Quando il processo terapeutico lo permette e le condizioni del paziente lo rendono fattibile
è necessario responsabilizzare, con la dovuta gradualità, il paziente nei confronti delle sue
azioni e delle conseguenze che queste ultime hanno sulla sua vita quotidiana e futura.
Questo rendere il paziente, in modo adeguato alla sua situazione, artefice del proprio
destino permette di evitare e neutralizzare, gradualmente, le molteplici e tenaci difese che
mette in atto proprio rispetto al processo di responsabilizzazione e di mettere da parte i
47
guadagni secondari della sintomatologia esibita (vera o pretesa) e del comportamento
violento minacciato od esibito.
Esempio il paziente ricoverato in istituzione senza diritto all’uscita chiede in
apparente stato di agitazione, di voler uscire subito. Con la necessaria serenità e
pacatezza il terapeuta deve essere in grado (dopo adeguata preparazione: è tuo
diritto uscire, troviamo il metodo perché tu esca al più presto possibile, etc.) di far
comprendere al paziente che l’uscita dall’istituzione (dopo aver discusso le
difficoltà trattate empaticamente con lui) dipende dal suo comportamento. Infine
l’operatore prospetta in modo semplice, concreto, fattibile, quale può essere il
comportamento del paziente per uscire dall’istituzione il più presto possibile.
•
Conservare il dialogo e la negoziazione
È indispensabile con qualsiasi paziente in crisi mantenere aperto un dialogo basato sulla
empatia, sulla accettazione e sulla possibile e concreta discussione e risoluzione dei
problemi che prospetta. Nell’ambito di questi interventi possono essere considerate varie
eventualità.
1. La pacificazione degli stati acuti di crisi (sentimenti di ingiustizia; fattori stressanti;
problemi di salute fisica; riattivazioni di traumi psichici passati; cumulo di
frustrazioni; etc.) si basa sul principio di tranquillizzare l’interessato (privilegiando
la propria protezione personale) aiutandolo ad esprimere le sue sofferenze. Si tratta
di accompagnare il paziente nelle quattro fasi della sua crisi. Il passaggio all’atto
iniziale (urla, violenza, etc.) è gestito dal terapeuta cercando di comunicare senza
divenire il capro espiatorio. Nella seconda fase vi è un ciclo di altri passaggi all’atto
del paziente nel corso dei quali il terapeuta cerca di farlo esprimere non con le
azioni, ma con le parole. Infine nella terza fase (meta comunicazione) e quarta fase
(risoluzione) il paziente è portato a prendere coscienza della presenza e dell’azione
del terapeuta e del suo ruolo di aiuto (non intrusivo, non giudicante, non
controllante, ma solo di accudimento). La crisi può essere risolta, ma non è risolto
con questo metodo la situazione che ha portato alla crisi.
2. Il metodo END (Empatia, Normalizzazione, Descalation) (65) privilegia l’uso
corretto della comunicazione con soggetti che si trovano in situazioni di crisi
48
(impauriti, disperati, arrabbiati, aggressivi, deliranti, allucinati, eccitati, etc.) allo
scopo di tranquillizzarli e di conseguenza anche di evitare il passaggio a
comportamenti violenti. Si tratta di una tecnica di intervento basata su dimensioni
psicopatologiche dominanti (attivazione psicomotoria, paura, terrore, distorsione
della realtà, rabbia, aggressività, impulsività, etc.), sulla presenza in ogni persona di
un punto di entrata (entry point) per iniziare una comunicazione (anche nel
delirante, allucinato, etc.), e sulla teoria della mente (essere capace di attribuire
stati mentali a sé e agli altri e di prevedere , sulla base di tali inferenze, il proprio e
l’altrui comportamento). La prima tappa è l’empatia e cioè comprendere come sta il
soggetto e fargli capire che si è compreso (è una situazione insopportabile…si sente
arrabbiato…etc.). La seconda tappa è la normalizzazione e cioè si forniscono
spiegazioni semplici e si riduce il senso di emergenza, di terrore e si facilita
l’autocontrollo (può succedere che… è naturale sia preoccupato…etc.). La terza
tappa è la descalation nella quale si cerca di ridurre le emozioni, di individuare i
bisogni, si cerca una soluzione e si favorisce l’autocontrollo (cosa è successo ?...,
posso essere di aiuto…etc.). Caratteristica del metodo END è che si articola in
precise sequenze che possono essere facilmente apprese e perfezionate con
adeguato atteggiamento mentale, esercizio e pratica clinica.
3. La comunicazione non violenta si basa (soprattutto nelle crisi legate a rabbia e
collera) su quattro tappe per portare alla luce la causa della crisi e non le variabili
che la scatenano. La prima tappa è dedicata a far verbalizzare il paziente
esclusivamente sugli eventi che scatenano la sua crisi. La seconda tappa si focalizza
l’attenzione sull’importanza di pregiudizi e aspettative personali che lo hanno
portato alla crisi mettendo in luce (terza tappa) i bisogni del paziente che non sono
stati soddisfatti (bisogno di essere ascoltato, rispettato, amato, etc.) per terminare
(quarta tappa) con lo stimolo a realizzare i vari bisogni in modo socialmente
adeguato (comunicare in modo socialmente accettabile ed affermativo le proprie
esigenze a chi di dovere). Si tratta di un processo di comunicazione che richiede
tempo e capacità introspettive da parte del paziente.
4. Il negoziato emotivo (61) si basa sulla capacità di gestire in modo positivo le
emozioni delle persone e non lasciarsi confondere dalle emozioni negative (rabbia,
disgusto, ansia, umiliazione, noia, invidia, etc.) che possono turbare un colloquio o
una trattativa col paziente in situazioni di crisi. Alla base del negoziato emotivo nel
terapeuta (inteso anche come negoziatore delle richieste del paziente) vi è la ricerca
49
di soddisfare cinque esigenze primarie del paziente: apprezzamento (i miei pensieri
sono presi in considerazione), affiliazione (sono trattato come una persona amica),
autonomia (gli altri rispettano le mie decisioni), status (la mia posizione sociale è
riconosciuta), ruolo (il ruolo che ho nella negoziazione è appagante). Questa
modalità di intervento (peraltro applicabile ad ogni forma di negoziato (politico,
sociale, economico) implica la possibilità, nel corso della crisi del paziente, di
affrontare e talvolta risolvere le sue richieste. Quando le richieste del paziente sono
formulate in un clima di possibile violenza sulle persone, in modo urgente, con un
rapporto di forza tra le parti, si parla di negoziato emotivo in situazioni di crisi che
non può prescindere dalla delicatezza e rapidità nel tempo di negoziare e dalla
fattibilità dei risultati in quella specifica circostanza con la miglior soluzione
alternativa.
5. Nella gestione psichiatrica della vittima in situazione di crisi (vittime di gravi
danni fisici e psichici in seguito ad eventi naturali o delitti con CVP: tentato
omicidio, violenza sessuale, maltrattamenti, abusi, etc.) sono illustrati i vari
interventi nel colloquio (ristrutturare il sentimento di controllo della situazione, il
ricupero dell’autostima, ridurre il sentimento di assenza di speranza, gestire gli
evocatori del trauma, modulare e stabilizzare l’affettività, intervenire sul dubbio di
alienazione mentale, ridurre il sentimento di isolamento, di ingiustizia subita, di
colpa, favorire le affinità, l’empatia, la comunicazione ed il principio di sincronia,
valutare i meccanismi psicologici di difesa, rispettare i percorsi mentali nel riferire
il ricordo, stimolare il passaggio da vittima a sopravvissuto, etc.) e sono sottolineati
i vari errori emotivi e comportamentali che può fare il terapeuta (colpevolizzare la
vittima, negare i fatti e le emozioni, sviluppare ruoli di salvatori e di nemici,
sopravalutare il ruolo della volontà e delle terapie, non aiutare la vittima ad aiutarsi,
trascurare la terapia per il terapeuta, etc.) Tutti questi interventi vittimologici
possono essere utilizzati nel primo colloquio con la vittima in situazione di crisi.
6. La psicoterapia della crisi emozionale motivata da eventi esterni (catastrofe,
disastri naturali, specifiche violenze fisiche subite, malattie gravi incurabili,
separazioni, divorzi, perdite, etc.) o interni (traumi psichici in narcisismi fragili, in
tratti megalomani, in strutture psichiche basate sul controllo, etc.) si manifesta con
ansia, disforia, agitazione, insonnia, somatizzazioni, ed anche con una
sintomatologia manifesta di dolorosa impotenza (crabbia, paura, tristezza,
disperazione) e sofferenza intollerabile (sentimento di mancanza di speranza e di
50
via di uscita dalla situazione con possibili condotte alternative di disadattamento, di
tossicomania, di comportamento violento auto ed etero diretto). La crisi emozionale
è da distinguere dalla crisi esistenziale (riequilibrio continuo nel corso dei vari
momenti evolutivi e fondamentali della vita) e dalla crisi psicotica (deliri,
allucinazioni, confusione, etc.) Gli obiettivi di questa psicoterapia si raggiungono
con interventi che facilitano la reazione e la catarsi, sfruttano principi di tipo
pedagogico e cognitivo, usano terapeuticamente la relazione tra paziente e
terapeuta, mirano a conservare i limiti fra il mondo interno e il mondo esterno,
favoriscono il reinvestimento oggettuale, storicizzano l’evento di crisi nella sua
dimensione fantasmatica attraverso la utilizzazione del transfert, facilitano
l’emergere del preconscio, cercano di contenere il sentimento di impotenza e di
favorire l’esperienza controllata del dolore e della depressione. La psicoterapia
della crisi emozionale richiede tempo e setting stabile (da 2 a 3 mesi con 10 sedute
ognuna di 40- 45 minuti), una competenza psichiatrica specialistica ed è applicabile
a pazienti che non necessitano di ricovero psichiatrico o medico, accettano la
terapia e non presentano un esame di realtà gravemente compromesso.
Esempio. Vi sono terapeuti che tendono a chiudere la negoziazione e la
comunicazione col paziente quando il colloquio diventa difficile utilizzando in
modo inadeguato il ciclo della domanda-rifiuto-frustrazione; le risposte riflesse:
domanda aggressiva-risposta aggressiva; il ricorso apodittico a leggi e
regolamenti; le contese personalizzate con braccio di ferro; le personalizzazioni
direttive sulla base acritica del ruolo o delle competenze.
•
Non invalidare il colloquio
Il terapeuta non deve compiere errori nella gestione del colloquio con paziente per non
invalidare e rendere nullo l’intervento terapeutico. Tra gli errori più frequenti che bloccano
ed invalidano il colloquio possiamo ricordare quanto segue.
Un grande numero di domande inquisitorie (raffiche di perché) può far sì che il paziente si
percepisca vittima di una inquisizione poliziesca oppure si percepisca impotente e
disperato di fronte qualcuno intento a sezionare il suo cervello, i suoi pensieri e i suoi
sentimenti come si fa con un cadavere in una autopsia.
51
Interventi autoritari allorquando il terapeuta assume il ruolo di comandante che impartisce
ordini perentori, di esperto che non sbaglia, di indovino infallibile del futuro, privano il
paziente della capacità di decidere e sollevano tutti i suoi problemi nei confronti
dell’autorità.
Interpretazioni selvagge che cercano di spiegare al paziente il suo comportamento non
effettuate nel contesto terapeutico e nel tempo adeguato non possono che sollevare le
resistenze dei meccanismi psicologici di difesa del paziente che ignora e che soprattutto
spesso non vuole o non è in grado di conoscere e di accettare le motivazioni profonde del
suo agire.
Un atteggiamento giudicante (è bene-è male, è giusto-non è giusto) blocca il fluire del
colloquio per il timore di essere giudicato o lo può indirizzare verso la manipolazione o la
ricerca di una buona visibilità sociale da parte del terapeuta.
Il seguire le false piste dei pregiudizi che si hanno sul paziente legati ai primi minuti del
colloquio (modalità di presentarsi, abbigliamento, tono e volume della voce, contenuti di
pensiero espressi) o che derivano da una raccolta di informazioni dai parenti
accompagnatori, possono creare una riduzione già indirizzata verso la comprensione di
quanto dirà al paziente e possono esplicitarsi attraverso la comunicazione non verbale e
verbale.
Esempio. La collusione tra psicopatologia del paziente e psicopatologia del
terapeuta può invalidare l’aspetto diagnostico e terapeutico del colloquio. Nel caso
di un paziente narcisista in cura da un terapeuta narcisista, dopo un primo periodo
di luna di miele in cui tutti e due si percepiranno meravigliosi, subentrerà il
divorzio, cioè una brusca interruzione della comunicazione, non essendo in grado
di soddisfare le reciproche aspettative inadeguate alla realtà.
•
Non dimenticare i comportamenti precauzionali
Nel corso della quotidianità l’operatore può non tenere conto, per abitudine, fretta,
distrazione, affaticamento, etc., di comportamenti utili ad una preventiva gestione
beneficiale del paziente riducendo il rischio delle sue possibilità di andare incontro ad
eventi di crisi. Ad esempio essere distratto e voltare le spalle a un paziente confuso od
agitato, non rispondere alle domande, formulare divieti, imporre consigli, emettere giudizi
con tono autoritario, fare battute ironiche non adeguate, dimenticare di mantenere una
52
distanza di sicurezza nel colloquio con un paziente violento, non rilevare il rapido variare
dell’atteggiamento del viso o della postura del paziente, etc., possono aumentare il rischio
di CVP.
Esempio. Un operatore della salute mentale aggredito fisicamente da un paziente
commenta: avrei dovuto capire che mi avrebbe aggredito… tutti gli altri pazienti
lo evitavano e si mantenevano a distanza di sicurezza.
•
Non reagire alle provocazioni
È indispensabile saper cogliere le parole e i comportamenti provocatori del paziente ed
essere coscienti delle proprie reazioni emotive che possono portare a verbalizzare o a
mettere in atto comportamenti non utili alla beneficialità del paziente e provocare un
aumento del rischio di CVP. È da evitare la risposta alla provocazione con un’altra
provocazione.
Esempio il paziente afferma: voi ve ne fregate della mia sofferenza… Io posso
morire… A voi interessa solo il vostro stipendio… Il terapeuta non deve
rispondere alla provocazione, ma far verbalizzare il paziente, ad esempio, sul
problema per lui più importante ed implicarlo nella possibile risoluzione.
•
Non creare provocazioni
Il terapeuta non deve fornire stimoli personali (anche apparentemente invisibili come non
verbali di noia, fastidio, condanna, etc.) od ambientali (lunghe attese del paziente per un
colloquio, la sua promiscuità con altre persone, la vicinanza con altri pazienti in crisi, etc.)
per il rischio che questo comporta di scatenare nel paziente situazione di crisi.
Esempio. Nel corso del colloquio il paziente rifiuta di sedersi. L’operatore può
risolvere il problema se prova ad esprimersi, per esempio: se preferisci parlare in
piedi camminando …se ti senti meglio, va bene così... Parlami allora…..
53
•
Non personalizzare
In ogni situazione di crisi il terapeuta non deve personalizzare eventuali divergenze o
contrasti con il paziente evitando di divenire il persecutore od il capro espiatorio di tutte le
sue sofferenze interne o di tutte le frustrazioni e le umiliazioni sociali esterne.
Esempio Nei confronti di un paziente che simula una sintomatologia inesistente non
è il caso di affermare: io non sono così stupido da credere a quello che mi dici…
sappi che io ho esperienza di tanti anni e quindi non sono facilmente preso in
giro… credi di essere più bravo di me e farmi credere una cosa per un’altra, stai
simulando e tutti lo sanno... In questi casi il terapeuta dovrà evitare di accusare di
simulazione e cercare di comprendere le motivazioni. Analogo comportamento con
un paziente che manipola, formula richieste contro la legge, usa il turpiloquio,
propone un rapporto sessuale: non personalizzare, far parlare per mantenere la
comunicazione e cercare di chiarire, con adeguate tecniche, le motivazioni.
•
Comprendere e non fare minacce
Il terapeuta deve essere in grado di comprendere il senso delle minacce che possono essere
formulate contro di lui ed evitare, a sua volta, di minacciare il paziente. Le minacce
formulate da un paziente nei confronti del terapeuta, oltre un significato basale di
aggressività che deve essere sempre decodificato, possono avere diverse motivazioni. E’
importante che il terapeuta comprenda quali sono le modalità più adeguate per ridurre il
rischio di una minaccia. L’avvertenza che il terapeuta non minacci il paziente non significa
che il paziente non debba essere confrontato con la realtà, con le sue contraddizioni, con la
sua inosservanza delle regole sociali, e soprattutto con le conseguenze delle sue azioni.
L’azione di confronto deve essere fatta attraverso modalità gestionali terapeutiche
responsabilizzanti.
Esempio Paziente in stato di ebbrezza alcolica minaccia, con modalità recidivanti,
gli avventori di un locale pubblico. Il comportamento adottato da tre differenti
tutori dell’ordine intervenuti per porre fine alla rissa è stato rappresentato da tre
differenti tipologie. In una occasione il tutore dell’ordine, dopo aver ascoltato i
suoi insulti e minacce, lo ha portato fuori dal locale, lo ha redarguito e lo ha
54
obbligato a raggiungere il proprio domicilio con l’aiuto di suo fratello. Nella
seconda occasione chi interviene, dopo aver ascoltato i suoi insulti e minacce, non
riesce ad evitare una colluttazione: il paziente è colpito con violenza al basso
ventre, è arrestato con l’imputazione di resistenza a pubblico ufficiale e
turbamento della quiete pubblica e privato della libertà. Nel terzo caso chi è
intervenuto, ignorando insulti e minacce, ha stimolato il paziente a parlare,
tranquillamente assiso ad un tavolo dello stesso locale pubblico, in merito
all’accaduto ed alle circostanze che avevano determinato la rissa. Il paziente ebbe
il modo di raccontare di essere stato abbandonato dalla moglie. Chi è intervenuto
è riuscito a riaccompagnarlo dal fratello, a fargli chiedere scusa agli avventori del
locale per il disturbo arrecato, senza percuoterlo, denunciarlo e privarlo della
libertà personale.
7a. Utilità di chiarificare i livelli di violenza e la tollerabilità della istituzione alla
violenza
Nella immediatezza del ricovero del paziente in una istituzione può essere utile illustrare i
comportamenti graditi e quelli non tollerati. In particolare possono essere chiarificati i
comportamenti violenti ed il loro grado di tollerabilità con le relative sanzioni in vigore
nella istituzione. Può anche essere adottata la regola di nessuna tolleranza (tolleranza zero)
nei confronti della violenza fisica su altre persone. Queste regole di vita sociale possono
essere completate da un documento scritto, in cartella clinica, che contenga anche le
richieste di spiegazioni del paziente, i suoi commenti ed il contenuto della discussione che
eventualmente ne segue. Questa documentazione e il contenuto della discussione saranno
poi, se è il caso, oggetto di un utilizzo terapeutico, con il massimo rispetto del tempo e
delle modalità di intervento, se il paziente metterà in atto un CVP. Da sottolineare sempre
a scopo terapeutico la necessità di affiancare alle sanzioni per i comportamenti violenti
anche le gratificazioni per i comportamenti sociali che valorizzano il reciproco rispetto.
55
7b. La valutazione clinica e forense delle situazioni di crisi
I principi enunciati presentano numerose criticità: necessità di adeguamento ad una
specifica situazione (il silenzio prolungato e fuori da un adeguato contesto può bloccare il
colloquio; interruzioni ripetute del silenzio da parte del terapeuta possono bloccare il fluire
della relazione terapeutica); impossibilità tecnica, a volte, di una loro applicazione
(paziente violento con passaggio all’atto improvviso ed imprevedibile); possibilità di
integrazione tra i vari principi (precauzioni psicologiche oratorie e diversione); ambiguità
a seconda dell’uso (la riformulazione può essere chiarificatrice o manipolatoria del
pensiero del paziente); rischio paradosso che siano controproducenti alla relazione
terapeutica (la ripetizione delle parole del paziente cronica e monotona può essere
percepita come espressione di noia e di disinteresse); complementarietà con una buona
relazione terapeutica (ascolto, empatia); dipendenza dalle caratteristiche personologiche
dei protagonisti (autenticità, umanità, capacità di comunicare e di empatia, etc.); necessità
di programmi di esercitazioni e di strategie di intervento prima, durante e dopo i fatti di
violenza (allo scopo di mettere in luce ed agire sui fattori che predispongono, scatenano e
contribuiscono alla cronicità del CVP); opportunità di applicare questi principi associati tra
loro in un contesto generale di riduzione degli stimoli che aumentano il rischio di CVP
(sistemazione alberghiera idonea, spazi fisici di libertà, riduzioni di intrusivisità
disturbanti, conoscenza di tecniche di talk dawn, etc.); opportunità di associare questi
principi con l’applicazione dei principi aspecifici (o comuni) nel processo di cura delle
psicoterapie in relazione al paziente, al terapeuta, al setting, etc. (ad esempio da parte del
paziente: consapevolezza del soggetto di avere problemi di comportamento, desiderio
attivo di richiedere aiuto, capacità di stabilire un rapporto empatico con l’operatore della
salute mentale, capacità di narrare la propria storia, etc).
In ragione di queste criticità non è esigibile sotto il profilo forense una valutazione di
questi principi di intervento (de-escalation in senso generale) esclusivamente centrata sui
risultati. Sotto il profilo clinico ulteriori studi potranno approfondire la validità clinica dei
principi trattati nelle varie e numerose situazioni di crisi per la beneficialità del paziente e
per ridurre il rischio di CVP.
56
8
Esistono ipotesi cliniche di ricerca per valutare il CVP in
assenza di disturbo psichico.
Sono presenti in letteratura numerose ipotesi di ricerca sul CVP che, sotto il profilo clinico,
mettono in luce la multideterminazione dell’evento di violenza interpersonale senza la
necessità di coinvolgere psicopatologie di interesse psichiatrico: in particolare come sono
descritte nei manuali statistici e diagnostici più diffusi (DSM 5 e ICD 10). Tra queste
ipotesi cliniche di ricerca possiamo segnalare le seguenti.
•
L’apprendimento sociale e psicologico del CVP
Come una persona apprende, senza alcuna partecipazione di psicopatologia di interesse
psichiatrico, il comportamento sociale rispettoso della integrità altrui così può apprendere,
al variare delle circostanze psicosociali, il CVP non rispettoso della integrità fisica altrui.
Le numerose teorie sociologiche (teoria delle aree criminali, della disorganizzazione
sociale, dei conflitti culturali, delle associazioni differenziali, della identificazione
differenziale, della devianza, del strutturale, etc.) e teorie psicologiche (dei contenitori, non
direzionale, dell’identità personale, dei ruoli, dell’interpretazione psicoambientale, etc.) sul
comportamento criminale possono essere applicabili, in non pochi casi, al CVP. Teorie
dell’apprendimento mettono in luce (66) nell’ambito del determinismo triadico reciproco
(persona, ambiente e condotta) come gli individui, privi di qualsiasi psicopatologia di
interesse psichiatrico, possano adottare comportamenti criminali violenti attraverso
strategie di disimpegno morale: etichettamento eufemistico, dislocamento o diffusione
della responsabilità, negazione o distorsione delle conseguenze, giustificazione morale,
attribuzione proiettiva di colpa, disumanizzazione della vittima. Per quanto concerne in
modo specifico il CVP sono stati descritti vari stadi attraverso i quali può avvenire la
violentizzazione del comportamento (invece della socializzazione) in cui non è solo
normalizzato, ma valorizzato l’uso del CVP come modalità prioritaria di gestione di
conflitti personali. La letteratura ha inoltre messo in luce l’apprendimento sociale del CVP
più grave e cioè l’omicidio in specifiche sottoculture di violenza di organizzazioni
criminali, di gestione sociale della vendetta e dei conflitti personali. Ricordiamo omicidi
sottoculturali con alto indice di depravazione (atroci, efferati e crudeli) compiuti da
organizzazioni criminali (67). La sottocultura omicidiaria nel continente americano
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(Bolivia) che contempla ad esempio il corpo dell’ucciso inciso profondamente come si usa
preparare il pesce da arrostire sul fuoco (67). La sottocultura omicidiaria nel corso della
vendetta nel bacino mediterraneo (Sardegna) (68) in cui è scritta sul cadavere la
motivazione dell’uccisione: allargamento col coltello della rima buccale sino alle orecchie
(la vittima colpevole di aver fatto una delazione alla polizia), apertura del corpo in due
parti longitudinalmente come si prepara il maialetto per essere cucinato sul fuoco (la
vittima colpevole di violenza sessuale su minore di età); etc.
•
Guadagno secondario del CVP
Come esistono i guadagni secondari del disturbo psichico e del ruolo di paziente (maggiore
accudimento e protezione, riduzione od assenza di responsabilità, evitamento di attività
faticose come il lavoro, etc.) così esistono i guadagni secondari del CVP (ottenere e fare
quello che si desidera, allontanare od evitare stimoli e compiti indesiderati, manifestare
liberamente il narcisismo distruttivo, godere di un irresponsabile controllo sadico sulle
persone, etc.). Nella valutazione e trattamento del CVP è importante l’approfondimento
della presenza e della consapevolezza nel soggetto di specifici guadagni secondari che
l’aggressore con o senza disturbo mentale acquisisce nella immediatezza o nella sua
percezione finalistica del suo agire.
Esempio. Paziente adulto con diagnosi di schizofrenia è solito, minacciando un
CVP, mettere in atto i seguenti agiti: utilizza taxi per farsi portare al mare, a
trovare gli amici, alle partite di calcio della squadra preferita senza pagare;
frequenta i locali pubblici facendosi servire pasti, caffè e liquori senza pagare;
percuote la madre e la sorella se non preparano la tipologia e la qualità dei cibi
che lui ordina. Tutti comportamenti accompagnati dalle sue verbalizzazioni: tanto
io sono schizofrenico… Nessuno può farmi qualcosa… Mio fratello deve pagare
per me… Mia madre e mia sorella debbono ubbidirmi… Questo esempio per
illustrare che anche in presenza di malattia mentale vi possono essere i guadagni
secondari all’uso della violenza.
•
I cicli di violenza tra aggressore e vittima
58
Il comportamento violento dell’aggressore e la reattività della vittima possono tra loro
interagire con modalità tali da ripetersi regolarmente e circolarmente nel tempo. In questo
senso si formano cicli di violenza tra aggressore e vittima che presentano una facile
prevedibilità, ma spesso una difficile trattabilità Nel trattamento dei cicli di violenza oltre
all’attenzione all’aggressore deve essere posta attenzione alla vittima e allo specifico
legame tra aggressore e vittima (69-73). Da rilevare che l’intervento sulla vittima oltre
all’esame della fattibilità dei provvedimenti (cosa realmente si può fare a livello
terapeutico e
preventivo nel caso specifico) deve altresì contemplare un approccio
differenziato per competenze (non solo psichiatrico, ma anche sociale e giuridico.).
Esempio: Nel maltrattamento familiare ripetuto è possibile osservare, non
raramente, due distinti aspetti del ciclo della violenza.
1. Nella prima parte prevale l’obiettività del CVP dell’aggressore (ad esempio il
marito) e la vittima (ad esempio la moglie) esprime la chiara volontà di separarsi e
di denunciarlo ed in concreto spesso denuncia il marito alle autorità.
2. Nella seconda parte del ciclo l’aggressore si mostra pentito di quanto ha fatto,
depresso, bisognoso di aiuto, perdutamente innamorato e dipendente dalla
compagna che aveva maltrattato sino a pochi minuti o poche ore prima. In questa
seconda parte del ciclo l’aggressore provoca nella vittima sentimenti di
accudimento, di protezione e di identificazione al debole, all’impotente, allo
sfortunato. Inoltre stimola attraverso la giustificazione del proprio comportamento
sentimenti di colpa presso la vittima che arrivano al punto in cui quest’ultima si
attribuisce le colpe del fatto violento e minimizza o banalizza la violenza subita
sino a negarla e nasconderla alle autorità.
In conclusione quindi alla fine del ciclo la vittima (la moglie) ritira la denuncia e continua
a vivere con l’aggressore sino a quando il ciclo di violenza si ripeterà.
•
Gli schemi ripetitivi del CVP
Il protagonista del CVP può ripetere il suo agire attraverso varie modalità. La firma o
personalizzazione (signature) dell’autore del CVP tende ad essere ripetitiva nella sua
essenza (l’omicida a tutte le vittime che uccide amputa gli organi sessuali, etc.) Nello
staging il soggetto altera di proposito la scena del crimine e può riprodurre scene ripetitive
59
di alto valore simbolico (le vittime dopo essere uccise possono essere messe in posizioni
sessuali sconvenienti assai varie e fantasiose, etc.). Nel overkilling l’aggressore può, in
modo volontario e ripetitivo mettere in atto un eccesso di quantità e qualità della violenza
omicidiaria (ad esempio le vittime sono uccise con oltre 60 coltellate di cui decine con
carattere di letalità, etc.) Nella modalità di operare (modus operandi) l’autore del
comportamento violento apprende, attraverso gli errori che ha compiuto, modalità sempre
più perfezionate per l’esecuzione della violenza (migliorare le sue abituali tecniche di
controllo sulla vittima e la ricerca della propria impunità). Alcuni omicidi seriali uccidono
ad intervalli di tempo vittime che presentano specifiche caratteristiche obiettive (ad
esempio donne giovani, di razza bianca, bionde, procaci). Alcuni omicidi recidivano in
rapporto a specifici eventi (abbandono, tradimento, specifiche offese, etc.)
Esempio. Giovane paziente con diagnosi di schizofrenia uccide una prostituta che
lo aveva dileggiato perché si era rivelato impotente sessualmente. Dopo numerosi
anni di permanenza in ospedale psichiatrico giudiziario ( per infermità
sopravvenuta) il paziente esce in libertà, si reca presso un’altra prostituta. Anche
in questo caso è sessualmente impotente e la prostituta anche questa volta lo
dileggia. Il giovane cerca di strozzare la prostituta e convinto di averla uccisa (la
prostituta si salverà) da solo e spontaneamente si reca in ospedale psichiatrico
giudiziario dov’era stato curato e afferma: ricoveratemi… ho ucciso un’altra volta
per gli stessi motivi... L’esempio mostra la presenza di schemi ripetitivi a
motivazione indipendente dal disturbo mentale.
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I percorsi strutturati del CVP
Il protagonista del CVP può non mettere in atto il suo agire in modo improvviso ed
inaspettato come un fulmine a ciel sereno, ma attraverso una serie di tappe che sono
progressive e identificabili.
Esempio: Nella trasformazione dell’immagine della vittima da buona in cattiva
ricordiamo le seguenti tappe progressive.
1. La prima tappa di questa trasformazione è l’accusa di comportamento ingiusto nei
confronti del soggetto che diventerà poi vittima della violenza. Questa accusa può
essere formulata in modo indipendente dalla realtà (con la drammatizzazione dei
fatti, con la proiezione sulla vittima dell’aggressività dell’accusatore, etc.).
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2. La seconda è il danno esistenziale intollerabile nella percezione di chi sarà
l’aggressore. Questo danno anche di tipo esistenziale ha carattere soggettivo a
prescindere dalla sua realtà.
3. La terza tappa è la legittima difesa e cioè chi sarà l’aggressore si sente giustificato
ad aggredire e anche ad uccidere chi, in modo ingiusto (contro la legge, l’etica, la
morale, l’amicizia, etc.) e doloso (con espressa volontà di nuocere) gli ha provocato
un grave danno dal quale non ha potuto difendersi (danno intollerabile,
imprevedibile ed inevitabile.)
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I viraggi del CVP
Il comportamento violento può spostare il bersaglio del suo agire di violenza:
a) da una persona a un’altra persona
b) dalla propria persona ad un’altra persona
c) da un’altra persona alla propria persona.
Questo viraggio può avvenire in modo rapido nel tempo ed essere difficilmente prevedibile
ed evitabile oppure può avvenire in modo più lento e più facilmente prevedibile ed
evitabile. Non conoscere questi spostamenti rapidi o lenti del bersaglio dell’aggressività
può porre anche lo psichiatra a causa della sua ignoranza nella incapacità colposa di non
essere in grado di mettere in atto adeguati provvedimenti di prevenzione del CVP.
Esempio: L’omicidio passionale nella sua descrizione classica è costituito da un
viraggio dal rischio suicidiario a quello omicidiario.
1. Nel rischio suicidiario l’individuo abbandonato dal partner disperato e depresso
cerca di uccidersi in modo più o meno manifesto o plateale.
2. Nel rischio omicidiario l’individuo abbandonato, dopo la richiesta di un ultimo
colloquio per ottenere delle spiegazioni, pur avendo sino allora mostrato a livello
manifesto esclusivamente un rischio suicidiario in concreto uccide la persona che
l’ha abbandonato.
Se si ignora questo viraggio dell’omicidio passionale lo psichiatra può essere fuorviato e
cioè concentrare le sue attenzioni sul rischio suicidiario e non mettere in atto alcun
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provvedimento per evitare il rischio omicidiario (evitare che la vittima si trovi con
l’aggressore per fornire spiegazioni, allontanare spazialmente i due protagonisti e cioè
aggressore e vittima)
•
Gli aloni progressivi del CVP
Il CVP può aver luogo allorquando un’emozione (ad esempio rabbia, odio, disprezzo,)
aumenta sempre più di intensità sino a determinare un passaggio all’atto violento. È
importante che la persona che commette o può mettere in atto un CVP sia anche valutata in
modo approfondito sul tipo e l’intensità delle sue emozioni per formulare in modo più
giustificato la diagnosi e suggerire i provvedimenti più idonee per la prevenzione. seppur
limitata e specifica ad un fattore prevalente del CVP.
Esempio. Un’emozione come la rabbia può:
1. divenire sempre più intensa (attraverso la proiezione della propria aggressività
sull’altro);
2. spostarsi da una situazione o da una persona ad un’altra situazione o ad
un’altra
persona
(mutando
così
rapidamente
del
tempo
l’obiettivo
dell’aggressività mediante il meccanismo psicologico di difesa dello
spostamento);
3. allargarsi a macchia d’olio e cioè estendersi in modo automatico, diffuso ed
intrusivo a tutti i rapporti interpersonali.
4. autoalimentarsi con la provocazione, la sfida, le minacce (per suscitare la
reattività altrui e agire la propria violenza attraverso il meccanismo
psicologico di difesa della razionalizzazione).
Sono il fenomeno degli aloni progressivi di una rabbia sempre più intensa, diffusa e
sempre meno controllata che possono essere riconosciuti e possono essere oggetto di
interventi preventivi attraverso i numerosi provvedimenti terapeutici che possono essere
adottati per gestire, senza negarla, la rabbia in modo socialmente accettabile.
•
La multifattorialità limitata e specifica a fattore prevalente
62
Alla base del CVP vi può essere un numero di fattori limitato (ad esempio quattro);
specifici campi di applicazione (ad esempio aggressori sessuali); ed il presupposto che un
fattore giochi un ruolo più importante degli altri nel determinare il CVP.
Esempio. Nell’ambito delle aggressioni sessuali sulle donne il modello a quattro
fattori (precursori motivazionali) contempla alla base del CVP: attivazione
sessuale; distorsioni cognitive; discontrollo emotivo; disordini dello sviluppo. Tra
questi fattori nel singolo caso clinico ve n’è uno che gioca un ruolo di fattore
preponderante e senza il quale non vi sarebbe il comportamento violento.
L’assenza di uno o più precursori motivazionali riduce il rischio di aggressioni
sessuali. Emerge in questo caso un modello eziologico di CVP (74) con
predominanza delle caratteristiche psichiche dell’aggressore ed è messo in luce il
concetto di soglia della importanza dell’intensità dei precursori al di sotto della
quale non vi sarebbe un CVP.
•
La multifattorialità limitata e specifica a confluenza di fattori
Alla base del CVP vi può essere un numero di fattori limitato (ad esempio due fattori),
applicazione a specifici campi dell’ agito violento (ad esempio aggressioni sessuali), la
genesi del CVP non presuppone un fattore più importante degli altri, ma una confluenza
(interazione) di pochi fattori (ad esempio due).
Esempio. Nell’aggressione sessuale verso le donne, pur essendo molti i fattori che
la determinano, possono essere, secondo alcuni autori (74), isolati due principi: la
mascolinità ostile (atteggiamento sospettoso, gratificazione nel dominare,
controllare, umiliare la donna); attività sessuale impersonale e promiscua (senza
coinvolgimento emotivo, non rivolta allo scambio, comunicazione non condivisa,
assenza di riconoscimento dell’altro) Questi fattori sono le due vie principali che
conducono attraverso una loro integrazione (confluenza) a causare nella singola
persona un comportamento violento in ambito sessuale.
•
La riattuazione del CVP.
63
Il modello della riattuazione si basa sul presupposto che l’aggressore rappresenti sulla
vittima, in modo simbolico attraverso il suo atto di violenza, abusi, umiliazioni, traumi
psichici o fisici disturbanti da lui subiti nell’infanzia. Questa riproduzione (riattuazione)
simbolica attraverso la violenza permette all’aggressore di avere la sensazione di dominare
gli eventi e di vendicarsi di un torto subito e di innalzare, seppur in modo inadeguato, il
suo livello di autostima e di valore personale (74). Queste gratificazioni possono spiegare
perché l’aggressore tende a recidivare nella sua aggressione. Sono un limite a questo
modello la grande varietà dei traumi psichici che una persona può subire e la differente
reattività di ogni persona al trauma subito.
Esempio. In un giovane soggetto che aggrediva sessualmente e fisicamente i
bimbi è stato possibile mettere in luce che lui stesso da bimbo era stato aggredito
sessualmente e fisicamente in più occasioni da un familiare. Il meccanismo
psicologico della identificazione all’aggressore (la sua trasformazione in
aggressore attivo per placare l’ansia di potere essere o di essere stato vittima
passiva di violenza) è emersa chiaramente dai vari colloqui ed ha permesso
interventi mirati di prevenzione e di terapia.
•
Le dinamiche criminali e il CVP
Il CVP può aver luogo su una base di dinamiche legate al comportamento criminale
(genericamente contro legge e quindi non solo contro l’integrità fisica della persona)
Saranno illustrati alcuni esempi clinici.
a) Il comportamento predatorio del criminale può complicarsi con un CVP: un
ladro entrato di notte in casa per rubare trova nel letto una giovane donna, cerca
di violentarla e la uccide perché lei si difende e minaccia di denunciarlo.
b) Nel sentimento di ingiustizia subita la rivendicazione del criminale (reale o
nelle sue fantasie compensatorie) può complicarsi con sentimenti di onnipotenza
distruttiva di controllo sadico e portare alla distruzione di una vita umana.
c) L’atteggiamento controfobico di molti criminali che non riescono a stabilire un
equilibrio tra la proiezione della loro aggressività sugli altri e la capacità di
identificarsi alle sofferenze dell’altro può portare per un eccesso di aggressività e
per una mancanza di identificazione ad una disumanizzazione dell’altro che
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facilita una reattività omicidiaria su base controfobica (dopo aver trasferito su di
te i miei desideri di uccidere e pensare che tu vuoi uccidere, ho così tanta paura
che tu mi uccida che ti uccido io prima che tu lo faccia).
In linea generale le dinamiche criminali che fungono da base al CVP sono da considerare a
livello diagnostico e preventivo, ma non esimono dall’approfondimento della eziologia e
della dinamica del CVP nel singolo caso nel suo specifico contesto.
Esempio. Una tipica dinamica che può essere alla base della comportamento
criminale è la triade: disprezzo trionfo, controllo. L’invidia che hanno molti
criminali (a causa dei loro fallimenti esistenziali e della loro miserevole qualità di
vita) per altre persone con una vita migliore sotto l’aspetto economico, sociale,
affettivo, può condurre al disprezzo (non sono io che valgo nulla… è lui che vale
nulla); al trionfo (non è lui che è importante ed ha successo… ma sono io che
sono importante ed ho successo) ed al controllo (non sono io che dipendo dagli
altri… ma sono gli altri che dipendono da me … io posso controllare e fare degli
altri ciò che desidero). In questi casi (oltre i meccanismi psicologici di difesa
della negazione, proiezione, identificazione proiettiva, formazione reattiva, etc.)
un eccesso di sentimenti di onnipotenza di controllo sadico, di fantasie di volontà
distruttive , di reattività di violenza agita a fantasmi di perdita e umiliazione, etc.
possono portare a trattare la vittima con un CVP anche omicidario dopo averla
disprezzata perché invidiata, trionfato su di essa umiliandola e cercato di
controllarla con la violenza psicologica e fisica. Questa triade a causa della sua
reattività, anche su base affettiva, a condizioni di sofferenza psichica è stata
chiamata la triade delle difese maniacali del criminale (75).
•
Il livello di interpretazione dei fattori di rischio del CVP
Esistono fattori che, in alcuni casi clinici, possono influire sulla qualità e quantità del
rischio di CVP, pur non rappresentando la causa unica e diretta: abuso di sostanze
stupefacenti e di alcol; precedenti criminali; disturbo mentale; impulsività; sottocultura
della violenza; posizione economica precaria in povertà in contesti culturali anomici; etc.
Questi fattori di rischio del CVP possono essere esaminati ed interpretati:
1) a livelli più profondi in campo diagnostico
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2) a livelli differenti in rapporto alle finalità della valutazione.
Esempio di interpretazione più profonda dei fattori di rischio in campo
diagnostico. Considerando un possibile fattore di rischio del CVP, il disturbo
psichico, è possibile una sua più approfondita comprensione scientifica. Ad
esempio specifiche psicopatologie facilmente visibili e diagnosticabili possono
nascondere (diagnosi categoriali statistiche di facciata, di maschera, etc.) più
complesse eziologie del CVP. Ad esempio la diagnosi superficiale e manifesta di
depressione o di delirio di rovina nei casi di omicidio-suicidio (omicidio altruista
del figlio con suicidio della madre; omicidio familiare con suicidio del familicida;
patto suicidario condiviso (pactes suicidaires) in cui un contraente uccide l’altro
consenziente e poi si suicida; etc.) in realtà possono nascondere una eziologia più
complessa della violenza che risulta legata, ad esempio, a vissuti narcisistici di
frustrazione, vergogna ed umiliazione (2). In altri termini più si approfondisce il
caso clinico di un soggetto con disturbo psichico che ha messo in atto un CVP più
è possibile mettere in luce dinamiche psichiche comprensibili legate al
comportamento violento e non alla malattia mentale (2,76,77). Analogo risultato
si può ottenere con l’approfondimento diagnostico di altri fattori quali povertà
economica in contesti di isolamento sociale, impulsività, abuso di droghe, etc.
Esempio di differente interpretazione dei fattori di rischio in rapporto alla finalità
della valutazione. E’ un dato di fatto che un delirio di nocumento in un soggetto
schizofrenico che ha compiuto un omicidio è valutato sotto angoli visuali di
finalità
diverse nell’ambito di una perizia psichiatrica o nell’ambito di un
trattamento del soggetto. Nel primo caso, in concreto a prescindere dalle
motivazioni e dalle criticità, il delirio può assumere importanza primaria in merito
alla valutazione giudiziaria della capacità di intendere e volere al momento dei
fatti. Nel secondo caso il delirio perde la sua primaria importanza (a prescindere
dalle più giustificate e sofisticate obiezioni che in teoria il delirio dovrebbe essere
interpretato da tutti gli psichiatri ed in tutti contesti con gli stessi criteri) per
lasciare il posto a fattori più profondi e specifici legati alla eziologia e dinamica
del comportamento violento esaminati e valutati ai fini della riduzione della
recidiva del CVP (come spesso è sottolineato, con linguaggio non scientifico ma
emotivamente colorito, in ambito trattamentale: il delirio non è in grado di
trasformare in diavolo un santo, tutt’al più fa diventare più diavolo un diavolo e
66
più santo un santo…). A prescindere da quanto precede, sotto il profilo scientifico
e pratico operativo il terapeuta non può ritenere in modo semplicistico che:
elimino il delirio col farmaco e così elimino il CVP dal soggetto che diviene,
immediatamente, capace di intendere e di volere, responsabile
del proprio
comportamento ed ossequiente delle leggi. La realtà clinica e forense è molto più
complessa di questi ragionamenti e pregiudizi semplicistici (anche se presentati
con sofisticate razionalizzazioni ed intellettualizzazioni). Questa attuale e concreta
diversità interpretativa in rapporto alle finalità della valutazione (ad esempio
dell’importanza del delirio in merito alla capacità di intendere e di volere, e quindi
di responsabilità personale in scelte di comportamento, in ambito di perizia e di
trattamento) potrebbe essere oggetto (indipendentemente dalla soggettività
interpretativa del perito e dalle differenti modalità operative del terapeuta, dal
difficile connubio tra psichiatria e diritto, etc.) di una revisione critica ai fini di
una maggior beneficialità del paziente e di prevenzione più accurata del CVP.
•
I segni premonitori del CVP
I comportamenti violenti possono, in alcuni casi, essere preceduti da segni premonitori
generici. Questi segni premonitori possono essere obiettivi ed associarsi tra loro (ad
esempio minacce di morte seguite da acquisto di arma letale) od essere meno obiettivabili
ed isolati (insonnia, agitazione psichica e motoria, sentimento di ingiustizia subita, etc)
Esempio. Il comportamento omicidiario (anche il suicidiario ed anche
l’omicidiario seguito dal suicidiario) può in alcuni casi essere preceduto da uno
stato di disimplicazione (desangagement) dalla vita quotidiana. Il soggetto prima
del CVP trascorre molto tempo in solitudine, appartato, non si prende cura dei
suoi bisogni più elementari di igiene, di nutrizione, può apparire calmo e
distaccato dai problemi della vita reale, può anche verbalizzare, se richiesto, che :
non ci sono problemi…tutto va bene…
•
La comunicazione simbolica del CVP
67
L’aggressore può comunicare alla vittima il suo prossimo comportamento violento
attraverso un linguaggio simbolico in cui cioè una cosa significa anche e soprattutto
un’altra cosa, un’altra classe di cose od un attributo di una cosa diversa. Queste
comunicazioni simboliche possono contemplare aspetti più elettivamente culturali (come la
comunicazione di un CVP mediante la testa mozzata di un animale da compagnia come
cane e gatto inchiodata alla porta dell’abitazione) o più personali legati alla situazione
specifica (un soggetto psicotico di fronte al sacerdote, suo tutore, affonda il pugnale in
un’ostia dicendo: tu sei come questa ostia… Dopo qualche giorno il soggetto pugnala alle
spalle il sacerdote La lama del pugnale si conficca nella colonna dorsale e si spezza
salvando così la vita al religioso). Questa comunicazione del comportamento violento a
volte può essere non facilmente comprensibile a livello manifesto e la sua interpretazione,
pur suggestiva, può essere carente di dati obiettivi ed in qualsiasi caso non può essere
generalizzata.
Esempio. Un giovane delinquente recidiva nel rubare e distruggere col fuoco un
particolare modello di auto sportiva. Successivamente cerca di uccidere col fuoco,
l’incendio della casa, il suo patrigno col quale era in aperto contrasto e che
possedeva lo stesso modello di auto sportiva. Dirà il giovane alla polizia: ho
capito che non volevo bruciare quella bella auto sportiva… volevo bruciare e
uccidere il mio patrigno che mi aveva tolto l’affetto di mia madre…
•
Le minacce del CVP
Le minacce verbali e gestuali di un CVP, che non sempre sono seguite dalla realtà della
violenza, rivestono un significato basale di un’aggressività del soggetto che necessita di
essere approfondita e compresa. A livello più superficiale tra le possibili interpretazione
delle minacce ricordiamo: la richiesta di aiuto (chiedo attraverso le minacce di aiutarmi a
risolvere il mio problema), il rafforzamento della intenzione (minaccio davanti a tutti così
mi obbligo a metterle in atto), il fine strumentale (ho imparato che con le minacce da sole,
ottengo quello che voglio), il momento che precede l’atto (ho già preso la decisione di
mettere in atto un comportamento violento e le minacce sono la fase che precede), etc.
Sotto il profilo diagnostico e terapeutico è utile quindi approfondire l’interpretazione delle
minacce soprattutto quando queste ultime possono essere mascherate nelle loro
motivazioni dalle verbalizzazioni dei pazienti.
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Esempio Soggetto adulto con diagnosi di schizofrenia e delirio a contenuto
persecutorio uccide lo zio (mi perseguitava) dopo averlo minacciato di morte in
varie occasioni. Ad un esame più approfondito il soggetto sin da piccolo aveva
sempre adottato le minacce e un CVP per gestire in senso narcisistico e sadico di
controllo le persone vicino a lui (vi obbligo, spaventandovi con le minacce, a fare
quello che voglio). Nel caso specifico il soggetto era in contrasto con lo zio perché
quest’ultimo lo aveva avvertito che se avesse continuato a percuotere madre e
padre lo avrebbe fatto ricoverare in ospedale psichiatrico. La motivazione legata
al delirio è giunta a scopo difensivo dopo la confessione della motivazione legata
ai contrasti con lo zio (ho dovuto ucciderlo ..mi avrebbe fatto ricoverare in
ospedale…)
•
Le interpretazioni simboliche del CVP
La rappresentazione mentale che l’aggressore si costruisce del suo atto di violenza può
essere interpretata perché può avere un significato diverso dalla motivazione verbalizzata
a livello manifesto. Questo significato diverso da quello proposto dall’aggressore è spesso
da quest’ultimo ignorato a livello di coscienza. Questa interpretazione simbolica,
correttamente costruita sotto l’aspetto procedurale è valida per soggetti con o senza
disturbo psichico ed è utile ai fini diagnostici, terapeutici e preventivi di una recidiva.
Esempio. Giovane soggetto affetto da schizofrenia uccide la nonna descritta come
persona sadica e cattiva con numerose coltellate. Inoltre il soggetto verbalizza un
grande amore verso la madre descritta come la persona più brava e buona del
mondo con la quale desidera continuare la sua vita dopo il doloroso episodio della
morte della nonna. Al colloquio clinico il giovane soggetto omicida, senza esserne
cosciente, invece di descrivere la nonna descrive il sadismo e la cattiveria della
madre (che lo ha abbandonato, ha preferito affettivamente il fratello, ha impedito
una sua realizzazione lavorativa, etc. ). L’interpretazione simbolica mette in luce
che il soggetto voleva uccidere la madre (descritta con tanto affetto attraverso il
meccanismo psicologico di difesa della formazione reattiva (invece di: madre io ti
odio tantissimo… il soggetto dice madre io ti amo tantissimo) Il soggetto poi per
il meccanismo psicologico dello spostamento ha ucciso al posto della madre la
nonna con il guadagno emotivo secondario di conservare la madre e cioè
69
l’oggetto amato e odiato. In questo caso specifico il magistrato ha accettato in
ambito peritale questa interpretazione simbolica dell’omicidio ed ha impedito al
giovane, al momento della fine della pena detentiva, di convivere con la madre
8a. Osservazioni sulle ipotesi cliniche di ricerca.
Le varie ipotesi di ricerca clinica descritte mettono in luce che allo stato attuale delle
conoscenze scientifiche non è ancora stata isolata una eziologia obiettiva e condivisa da
tutti i ricercatori che spieghi la nascita e l’evolvere nel singolo individuo ed in una
specifica circostanza sociale il CVP. Inoltre le ipotesi cliniche di ricerca descritte, come le
molte altre non citate a priorità sociale o biologica od integrate (teoria dell’attaccamento
disorganizzato, il modello dei multipli percorsi fisiologici, il modello evoluzionistico,
strategie genetiche di sopravvivenza, ruolo della epigenetica, modulazione ormonale,
biologia dell’impulsività, etc.) presentano le seguenti criticità che non permettono,
soprattutto se contestualizzate, una corretto utilizzo forense per le ragioni che seguono.
1. Presentano diversità anche contraddittorie tra loro. Ad esempio nelle eziologia nella
diagnosi e terapia del CVP in tema di sessualità sono contemplate circa una ventina
di modelli (78) che presentano grandi diversità tra loro in tema di fattori
bioevoluzionistici e fattori socio appresi.
2. Sono spesso legate a campioni di popolazioni limitati e non facilmente
identificabili rispetto ad altri Ad esempio CVP in un contesto sessuale, di coppia,
familiare.
3. Presuppongono spesso un particolare legame tra aggressore e vittima molto
individualizzato e variabile nel tempo Ad esempio il viraggio dell’aggressività da
auto a eterodiretta nell’omicidio passionale, i cicli di violenza in famiglia, etc.)
4. Hanno un valore statistico che non è, allo stato delle conoscenze attuali, ancora
approfondito e condiviso e non possono essere applicate in uno specifico contesto
individuale Ad esempio le minacce di violenza hanno molteplici significati ancora
non statisticamente approfonditi e condivisi ed inoltre raramente sono poste in
pratica
5. Necessitano di una validazione con una metodologia corretta soprattutto con
strumenti di rilevamento qualitativo e quantitativo. Ad esempio molte schede di
70
rilevazione, questionari auto od etero somministrati, reattivi mentali, non sono
validati scientificamente (non si sa esattamente cosa misurano, se hanno potere
discriminante , quale è la loro sensibilità ai falsi positivi e falsi negativi, etc.)
6. Le loro conclusioni devono essere condivise dalle comunità scientifiche (quindi
necessitano di ulteriori studi di approfondimento e di controllo critico da parte delle
organizzazioni scientifiche nazionali e internazionali)
7. Spesso fanno appello ad interpretazioni della realtà che non sono facilmente
obiettivabili od accettabili in un contesto giudiziario. Ad esempio l’omicidio reale
di una persona attraverso un processo di interpretazione simbolica può
rappresentare l’omicidio di un’altra persona.
Nonostante i limiti esposti le ipotesi cliniche di ricerca in tema di CVP sono utili alla
formazione della teoria e della clinica nella disciplina psichiatrica e sono utili, sempre
come ipotesi operative criticamente contestualizzate, nella quotidianità della pratica
clinica. Sono inoltre la tappa necessaria perché la disciplina psichiatrica migliori le sue
conoscenze potendo divenire alcune ipotesi cliniche di ricerca dopo un’adeguata
metodologia di validazione scientifica, delle realtà cliniche condivise più utilizzabili sotto
il profilo clinico e forense. Questo passaggio avviene progressivamente e non è certo
possibile dividere sempre secondo criteri categorici mutualmente esclusivi, come bianco e
nero, le ipotesi cliniche di ricerca dalle realtà cliniche condivise.
8b. Non adeguatezza forense delle ipotesi cliniche di ricerca ad essere utilizzate come
le evidenze cliniche condivise quali criteri per la valutazione della responsabilità
professionale dello psichiatra.
Secondo la giurisprudenza lo psichiatra non è giustificato, nell’ambito di una buona pratica
clinica, di adottare diagnosi e terapie che si fondino su ipotesi cliniche di ricerca non
validate scientificamente. Sarebbe un fatto non facilmente comprensibile che lo psichiatra,
imputato e condannato perché ha usato delle ipotesi cliniche di ricerca come fondamento
per la sua buona pratica clinica, venisse poi, a parità di condizioni, automaticamente
imputato e condannato perché non le ha utilizzate.
71
9
Esistono principi di vittimologia
utili per la valutazione ed il trattamento del CVP
Il CVP per essere compreso con maggiore profondità clinica implica informazioni sia
sull’aggressore che sulla vittima (69,70,76-80). E’ utile che lo psichiatra disponga di
informazioni scientifiche sulle vittime preferenziali (facilmente vittimizzabili su base
statistica), sulle vittime che mentono (consapevoli e non consapevoli di mentire), sulle
vittime per vocazione (facilmente vittimizzabili su base personologica), sui legami
patologici tra aggressore e vittima (collusioni di psicopatologie), sul viraggio da vittima
ad aggressore (la vittima diventa aggressore), sulla coesistenza di vittima ed aggressore
(stesso soggetto è aggressore e vittima), sulla assistenza della vittima in emergenza (cosa
fare e non fare in situazione di crisi), sulla gestione della recidiva vittimologia (tecniche
per ridurre il comportamento recidivante vittimologico), sull’uso terapeutico dei
meccanismi psicologici di difesa dell’aggressore e della vittima (per formulare interventi
terapeutici sulla psicopatologia specifica di aggressore e vittima)
E’ inoltre utile per lo psichiatra e gli operatori della salute mentale conoscere la specifica
semeiotica psichiatrica e psicologica della clinica vittimologica (dissociazione, rabbia,
iperattivazione, evitamento, metaemozioni, sentimento di colpa, ottundimento psichico,
memoria dell’evento traumatico, distorsioni cognitive, adesioni a guadagni secondari,
rivittimizzaione, vittimizzazione secondaria, vittimizzazione allargata, vittimizzazione
diretta ed indiretta del terapeuta, fattori di protezione, fattori di flessibilità, fattori di
rischio, fattori di mantenimento, sindrome da ripetizione, crescita maturativa da
vittimizzazione, etc.) allo scopo di saper condurre con buona pratica clinica il colloquio
diagnostico con la vittima anche e soprattutto in termini di prevenzione di complicazioni
psichiche e di comportamenti recidivanti nel ruolo attivo o passivo di vittima. Altrettanto
utile per la formazione dello psichiatra e degli operatori della salute mentale è conoscere le
indicazioni ed i contenuti clinici e, quando possibile saper applicare i principi fondamentali
della psicoterapia alle vittime (cognitivo comportamentale, desensibilizzazione e
rielaborazione, Gestalt, terapia ipnotica, psicoterapie dinamiche, debriefing psicologico,
72
terapia di rete, terapia creativa, terapie di gruppo, riabilitazione psicosociale, gruppi di auto
e mutuo soccorso, etc). In particolare è utile per l’intervento terapeutico sulla vittima (ed
evitare la riconversione del ruolo di vittima in ruolo di aggressore) la conoscenza di
specifiche tecniche di trattamento di sintomi specifici (terapia della rabbia; della
dissociazione; dell’evitamento; della iperattivazione; della coscienza, della appropriazione
ed accettazione emozionale; della esposizione e del ricordo al trauma; della ristrutturazione
dei pensieri irrazionali; etc.)
9a.Utilità clinica per lo psichiatra e gli operatori della salute mentale possedere
informazioni scientifiche sulla vittimologia.
Lo psichiatra può integrare le informazioni specifiche di vittimologia con informazioni di
tipo psichiatrico, psicologico, sociologico e giuridico. Queste informazioni sono utili per
meglio comprendere l’evento di violenza tra aggressore e vittima e per impostare e mettere
in atto trattamenti e strategie di prevenzione nei confronti di ambedue i protagonisti e per
evitare la trasformazione della vittima in aggressore.
9b. Utilità clinica e forense dei centri di vittimologia
Questi centri dovrebbero disporre di competenze diversificate relative a:
1. assistenza medica e legale alle vittime nell’urgenza e nel trattamento a medio e
lungo termine (attraverso una equipe nella quale sono reperibili: psichiatra,
psicologo, assistente sociale, medicolegale, avvocato);
2. applicazione di procedure standardizzate per la valutazione del danno fisico e
psichico della vittima (e non lasciare questa valutazione alla discrezionalità di
valutatori non qualificati o faziosi);
3. accesso a strutture di preparazione della vittima al processo (esplicitare e rendere
operativi alla vittima i suoi diritti e difficoltà, anche emotive, al processo).
73
10
Esistono reazioni emotive che possono influire sulla valutazione
e gestione clinica e forense del CVP
Molte persone di fronte ad un aggressore, una vittima od un disturbo psichico, possono
provare reazioni emotive (che stimolano pensieri e comportamenti) non sempre adeguate
che alterano la corretta valutazione e gestione del CVP. Queste reazioni emotive possono
trovare numerose motivazioni anche di interesse psichiatrico, non sempre facilmente
separabili le une dalle altre (81,82,83):
1) Reazioni emotive legate ad una risposta umana di carattere generale. Ad esempio
reazioni emotive di odio, rabbia, nei confronti di autori di delitti crudeli ed efferati o
reazioni emotive di disperazione e di colpa stimolate dalle vittime di violenza.
2) Reazioni emotive più specifiche legate alle caratteristiche psichiche dell’aggressore,
della vittima e della persona che valuta, gestisce e giudica il CVP. Ricordiamo la
psichiatrizzazione
dell’aggressore,
la
colpevolizzazzione
della
vittima,
la
criminalizzazione del malato di mente, la deresponsabilizzazione del malato di mente:
intesi come processi di etichettamento ingiustificato non rispettoso di evidenze cliniche
condivise, ma legati alle emozioni soggettive, non necessariamente vissute con
consapevolezza, di chi valuta. In altri termini psichiatrizzare, colpevolizzare,
criminalizzare, deresponsabilizzare quando non sono presenti motivazioni scientifiche e
cliniche che possano giustificarlo.
a) La psichiatrizzazione dell’aggressore consiste, nei suoi aspetti generali ed emotivi
acritici, nell’attribuire ai comportamenti e pensieri dell’aggressore un valore di
disturbo psichico che in realtà non possiedono (ad esempio: tutte le persone che
uccidono sono malate di mente, se fossero sane di mente non avrebbero ucciso).
Questo automatico, generalizzato ed acritico giudizio di malato di mente,
soprattutto a chi commette omicidi può essere spiegato attraverso varie ipotesi. E’
senz’altro suggestiva l’ipotesi che questo meccanismo può permettere a molte
persone che assistono o valutano il CVP di difendersi dal pericoloso, dal non
accettabile, dal non dicibile per il loro equilibrio psichico (accettare di essere
74
aggressivi e di voler e poter uccidere) e di mantenere importanti aree psicologiche
di sicurezza e di prevedibilità personale comportamentale (solamente una persona
con disturbo psichico può uccidere… Io non ho disturbo psichico… Quindi io non
sarò mai, soprattutto per caso e senza la mia volontà, un assassino… io, sano di
mente, che sono così diverso da chi uccide, malato di mente, posso continuare a
vivere tranquillo e prevedere sempre per me un comportamento socialmente
approvato e rimanere tranquillo…) Questa ipotesi può coesistere o integrarsi con
molte altre ipotesi per spiegare la psichiatrizzazione. Inoltre questa ipotesa è
rispettosa della constatazione quotidiana che la gravità ed efferatezza di alcuni
crimini di violenza sulla persona in rapporto alla comune sensibilità morale
(depravity) provochino una reattività emotiva nelle persone che è molto più ampia e
personale di quanto ad esempio non siano le circostanze aggravanti od attenuanti
come contemplate dalla legge.
b) La colpevolizzazione della vittima consiste, nei suoi aspetti generali ed emotivi
acritici, sostanzialmente in una attribuzione ingiustificata di colpa alla vittima per
essersi messa in situazione di pericolo, non aver saputo trovare una adeguata e
vantaggiosa via di uscita per non riportare danni fisici o psichici, non voler
praticare con correttezza e speranza le cure per guarire. Anche in questo caso
possono essere presenti ipotesi esplicative analoghe al meccanismo della
psichiatrizzazione. Ritenere infatti per una qualsiasi persona che il mondo è
pericoloso, imprevedibile e che si può essere facilmente senza volerlo e per caso
vittime dei più atroci delitti o delle disgrazie più gravi sarebbe un sovraccarico di
ansietà non facilmente tollerabile. Molto più utile ritenere
e corroborare
il
pensiero-speranza: a me non capiterà.. attribuendo alla vittima la colpa di essersi
messa nei guai e non aver saputo uscirne indenne. Cosi anche con questo
meccanismo psicologico di difesa sono salvaguardate aree psicologiche di
sicurezza e di prevedibilità personale che possono allontanare ansie e
tranquillizzare: la vittima si è messa in pericolo da sola… Io non mi metterò mai in
pericolo come ha fatto la vittima… Io non sarò mai una vittima…). Questa come
tante altre ipotesi possibili non è in contrasto con la constatazione realistica delle
molte vittime che volontariamente od ingenuamente si pongono in situazione di
pericolo ed obiettivamente si comportano in modo malaccorto per uscirne indenni.
c) La criminalizzazione del malato di mente consiste, nei suoi aspetti generali ed
emotivi acritici, nel ritenere, senza giustificazione scientifica, che: tutti i malati di
75
mente sono pericolosi perché possono compiere gesti criminali e sopratutto mettere
in atto in modo imprevedibile ed inevitabile comportamenti violenti sulle persone.
La percezione del malato di mente come persona diversa dal sano di mente
trascina, proprio in ragione di una diversità spesso incomprensibile paure e
fantasmi protettivi ancestrali che ispirano diffidenza e facilitano proiezioni di
sentimenti inaccettabili come quelli aggressivi e violenti. Questa deformazione
della realtà non tiene conto dei dati fatto che mettono in luce che sono più violenti i
criminali ed i drogati dei malati di mente e che i malati di mente sono da due a tre
volte più vittime di violenze che i soggetti sani di mente.
d) La deresponsabilizzazione del malato di mente consiste, nei suoi aspetti generali
ed emotivi acritici, nell’applicazione del pregiudizio scientificamente errato, che :
tutti i soggetti con disturbo psichico non sono responsabili delle loro azioni.
Questo tipo di deresponsabilizzazione è contrario al principio fondamentale
terapeutico di responsabilizzare, in modo e tempi opportuni, il paziente; può essere
di danno psichico favorendo la regressione, la fissazione, l’infantilismo, la
continuità nello sfruttamento dei guadagni secondari della malattia e favorire agiti
dissociali
in
nome
della
protezione
e
tutela
sistematica
(84).
La
deresponsabilizzazione così intesa può rappresentare una scelta di comodo per
alcuni
terapeuti
di
fronte
alle
difficoltà
tecnica
ed
emotiva
della
responsabilizzazione terapeutica soprattutto in pazienti difficili con comportamenti
di disturbo sociale.
A prescindere dalla accettabilità di queste interpretazioni o dalla loro sostituzione o
integrazione con altre spiegazioni resta il fatto clinico incontrovertibile che la
psichiatrizzazione dell’aggressore e la colpevolizzazione della vittima restano due grandi
problemi emotivi che intralciano il trattamento dell’aggressore e della vittima. Non meno
problematica è la criminalizzazione del malato di mente che intralcia il trattamento con
meccanismi di etichettamento, stigma, emarginazione ed esclusione sociale oltre essere,
non raramente, l’esito di un danza diagnostica, nelle terapie difficili, che parte da una
diagnosi di malato per giungere (spesso dopo frustranti insuccessi) ad una diagnosi di
criminale (il passaggio da mad a bad con un liberatorio trasferimento dal circuito
psichiatrico al circuito penitenziario). La deresponsabilizzazione del malato di mente,
come definita, è contraria alle tendenze più moderne della psichiatria che vuole accordare
diritto (ma anche doveri) di cittadinanza al paziente con disturbo psichico.
76
3) Reazioni emotive legate a specifici conflitti di chi valuta e gestisce il CVP: ad esempio
la difficoltà a valutare un’aggressione sessuale violenta su una ragazza di 16 anni da parte
di una psichiatra che ha una figlia di 16 anni che è stata aggredita e stuprata.
4) Nell’ambito della gestione trattamentale del CVP a stretto contatto interpersonale con
aggressore e vittima si possono creare grandi varietà di reazioni emotive complesse 8283). Importante per il trattamento che il terapeuta sia in grado di comprendere le reazioni
emotive che il soggetto con CVP prova nei suoi confronti (84-86) e che rivelano le sue
dinamiche psichiche sulla gestione della violenza: il narcisismo maligno (la distruzione di
chi non ci accetta come noi crediamo di essere); un sentimento di colpa poco funzionale
(che permette la liberazione di angosce arcaiche e pensieri primitivi come la legge del
taglione, il viraggio dall’etero alla auto aggressività, legami sado-masochisti, etc.);
sentimenti di onnipotenza (che sono stimolati in particolare da ambivalenti sentimenti di
dipendenza ed indipendenza); l’uso inadeguato di meccanismi di difesa primitivi
(passaggio all’atto, scissione, identificazione proiettiva, negazione, proiezione, etc.)
Egualmente importane ai fini del trattamento che il terapeuta sappia riconoscere la
interazione tra le emozioni del soggetto violento (o la vittima) e le proprie emozioni.
Queste interazioni di emozioni (11,82,86) possono essere fortemente ansiogene sino ad
essere cognitivamente destrutturanti per tutti i protagonisti compreso il terapeuta
(confusione tra i conflitti dell’aggressore, della vittima ed i conflitti del terapeuta in tema
di violenza sulla persona; collusioni inconsapevoli col terapeuta che scatenano nel
paziente l’agito violento; identificazioni proiettive non consapevoli all’aggressore, alla
vittima, al giudice; stimolazioni di recidive nell’aggressore e nella vittima con l’utilizzo
non consapevole del proprio sadismo e masochismo; passaggi della psicopatologia dal
terapeuta all’aggressore o dall’aggressore al terapeuta; etc.)
10a. Utilità che gli operatori della salute mentale sappiano riconoscere e gestire le loro
reazioni emotive nei confronti dei pazienti psichiatrici con CVP.
E’ auspicabile che gli operatori nel campo della salute mentale assumano coscienza che :
a) le reazioni emotive esistono,
b) sappiano attribuire loro un nome ed un contenuto,
77
c) conoscano le conseguenze negative sulla diagnosi e trattamento
d) sappiano sfruttare le conseguenze positive sulla diagnosi e trattamento del
paziente.
Questa sensibilità alle proprie ed altrui emozioni è utile sia un patrimonio scientifico e
clinico, nella gradualità di comprensione e di applicazione concreta sul paziente adatta e
legittima ad ognuno secondo il suo ruolo e la sua qualificazione, di tutti gli operatori della
salute mentale. Riconoscimento e controllo di stati emotivi auspicabile anche per chi, a
vario titolo, difende, accusa o giudica lo psichiatra in tema di responsabilità sul CVP.
Le reazioni emotive, cosi come descritte, non presentando obblighi oggettivamente
determinati, appartenendo a doveri esclusivamente morali sul piano idealistico, non
presentando poteri impeditivi obiettivi e dimostrabili su eventi dannosi, non configurando a
livello soggettivo esigibilità della condotta, essendo classificabili come ipotesi cliniche di
ricerca basate su percezioni soggettive assai variabili nella mutevolezza della
intersoggettività, ecc., non hanno valore forense di rimproverabilità agli operatori della
salute mentale.
10b. Utilità che gli operatori della salute mentale possano usufruire di una
formazione per riconoscere e gestire le loro reazioni emotive nei confronti dei pazienti
psichiatrici con CVP
E’ utile che gli operatori della salute mentale possano usufruire di progressiva formazione
professionale in tema del riconoscimento e gestione delle emozioni in particolare in
relazione al CVP con :
a) corsi di formazione sulle reazioni emotive
b) discussione condivisa con esperti sul caso clinico,
c) ventilazione dei sentimenti, debriefing, auditing in equipes,
d) psicoterapia personale sulle proprie reazioni emotive
E’ da considerare l’opportunità che gli operatori della salute mentale che continuano a
presentare, nonostante i vari e progressivi interventi formativi dannose reazioni emotive
nei confronti dei protagonisti del CVP dirigano (o vengano diretti da chi ne ha il dovere)
78
le loro professionalità su altri campi della salute mentale per maggior beneficialità dei
pazienti.
11
La responsabilità dello psichiatra é da valutare
al momento dei fatti.
L’operato dello psichiatra deve essere valutato sulla base delle numerose variabili presenti
al momento delle decisioni nel caso specifico per cui si procede: ad esempio le
informazioni di cui si disponeva sul paziente, la complessità di una sintomatologia in
evoluzione e non chiaramente indicativa di una diagnosi, la diversa fattibilità delle ipotesi
di trattamento, le priorità nella specifica situazione, etc. Anche se queste valutazioni
avvengono dopo i fatti (ex post) e cioè a posteriori in realtà debbono essere formulate
relativamente al momento dei fatti (ex ante). Non si può cioè, nel giudizio sulla
responsabilità professionale dello psichiatra, rapportare ad ora quello che è successo allora
(errore clinico e forense dell’ora per allora).
11a. Non validità clinica e forense del giudizio
col senno del dopo, col si poteva fare di più, col si poteva fare diversamente e col
travisamento del sintomo.
Dopo che un paziente ha commesso un atto di violenza fisica su un'altra persona è facile
per tutti, soprattutto per i profani delle materie mediche e psichiatriche, trovare non solo le
cause del CVP, ma soprattutto gli errori commessi dallo psichiatra e da altri operatori della
salute mentale. Il ragionamento col senno del dopo non è corretto sotto il profilo clinico e
forense perché in concreto:
1. Si avvale di informazioni di cui lo psichiatra non disponeva al momento dei fatti e
che conferiscono differente significatività a variabili cliniche e comportamentali.
2. Possono essere presenti numerosi errori di pensiero tra i quali possiamo ricordare:
la dissonanza cognitiva (non si considerano gli elementi che confliggono con
l’ipotesi prediletta); lo scotoma preferenziale (una cecità mirata e circoscritta a fatti
79
obiettivi ma ansiogeni); il pensiero primitivo della causalità psicologica proiettata
(non accettare la imprevedibilità ed inevitabilità degli eventi, ma ritenere tutta la
realtà determinata da volontà e scelte di qualcuno o di qualcosa etc.); etc.
3. Possono essere presenti, anche con modalità fortemente intrusive e patologiche,
meccanismi psicologici di difesa. Ad esempio di fronte al sentimento di impotenza
e di paura che suscita un comportamento di violenza sulla persona grave,
drammatico, incomprensibile, che appare imprevedibile ed inevitabile diventa
facile fare appello ad un capro espiatorio che permette di abbassare il livello
dell’ansia : quella violenza era prevedibile ed evitabile… se qualcuno non avesse
fatto degli errori… quell’orribile fatto di violenza non si sarebbe verificato.
Costruirsi
un
mondo,
attraverso
i
meccanismi
psicologici
di
difesa
(intellettualizzazione , sublimazione, razionalizzazione, etc.) in cui i fatti spiacevoli
sono sempre prevedibili ed evitabili è molto meno ansioso di un mondo dove i fatti
spiacevoli sono spesso imprevedibili ed inevitabili. Motivo in più, per alimentare
questo desiderio, per trovare l’errore che ha causato il CVP e punire chi si accusa di
averlo compiuto. Gli esempi clinici potrebbero continuare per ognuno dei vari
sentimenti disturbanti che suscita il CVP in ogni persona.
Emerge da quanto precede che il ragionamento col senno del dopo non solo contiene errori
non accettabili sotto il profilo clinico e forense, grossolani e primitivi errori di pensiero, ma
possiede anche un indubbio fascino e guadagno psicologico immediato nei confronti di
tutti gli spiacevoli sentimenti che il CVP suscita in tutte le persone (e quindi anche i
protagonisti che accusano, difendono e giudicano lo psichiatra in merito al CVP del
paziente). Nello stato d’animo di pregiudizio legato al ragionamento del senno del dopo,
ripetiamo, senza alcuna validità clinica e forense: il paziente ha commesso un atto di
violenza, quindi è stato fatto un errore si crea il presupposto che quasi tutto può divenire
un errore fatale che ha provocato il CVP. In questa affermazione si ignora il fatto che
l‘agito dello psichiatra può essere corretto, ma il paziente può mettere in atto un CVP
egualmente e che il CVP è un evento multifattoriale nel quale il disturbo psichico può
essere o non essere presente e che in qualsiasi caso è sempre da dimostrare un nesso
causale tra disturbo psichico, se presente, e CVP. Con il pregiudizio del senno del dopo
una insignificante variazione della dose dei farmaci, un appuntamento pretestuosamente
ritenuto dilazionato, un’ennesima piccola cautela preventiva irrilevante non assunta, etc
possono diventare l’errore fatale, la causa del CVP, la motivazione indiscutibile per
80
giustificare, attraverso il meccanismo psicologico della razionalizzazione, (a prescindere
dai casi clinici con legittime concause) la responsabilità professionale dello psichiatra. Per
questo il ragionamento col senno del dopo non può essere accettato in ambito clinico e
forense.
Quanto precede non esclude l’uso corretto del senno del dopo in un contesto non clinico e
forense come è stato specificato. Un utilizzo corretto di tutte le sequenze storiche che
hanno condotto al CVP ed alle relative misure adottate per ridurlo o neutralizzarlo può
avvenire con notevoli vantaggi ed utilità per gli operatori interessati e per i pazienti.
Possono essere ricordate a questo proposito particolari tipologie di debriefing : ad esempio
nella immediatezza del dopo il fatto (immediate post-incident debrief) per ventilare i
sentimenti degli operatori sanitari immediatamente dopo il CVP e meglio comprendere
l’evento e la adeguatezza delle misure adottate; varie tipologie di formal external post –
incident review e cioè un riesame di quanto accaduto da parte di un gruppo esterno agli
operatori sanitari interessati sempre allo scopo di meglio comprendere l’evento nella sua
complessità; differenti tipi di audit (ad esempio per ipotizzare dinamiche non
colpevolizzanti e non giuridicamente utilizzabili nei confronti degli operatori interessati e
funzionali alla prevenzione e migliore gestione clinica e forense dell’evento di violenza);
come evento sentinella nell’ambito del risk management (per implementare, anche
attraverso la individuazione delle varie componenti della sequenza del CVP e delle misure
adottate, la sicurezza nell’ambito delle prestazioni sanitarie); etc.
Anche il ragionamento che si basa sul principio del si poteva fare di più è errato sotto il
profilo clinico e forense perché non rispettoso del principio, sia clinico che forense, che si
fa quello che si deve fare e non tutto quello che si può fare: non si fanno cose inutili in
quel caso specifico ed in quello specifico contesto (se un paziente si reca dal medico
lamentando un dolore all’alluce del piede destro perché gli è caduta sopra una pietra di
piccole dimensioni, il medico, in assenza di altri sintomi, non deve richiedere esami non
giustificati quali T.A.C., ecodoppler arterioso e venoso di tutto l’arto inferiore). Il
ragionamento del si poteva fare di più, spesso associato e conseguente al ragionamento col
senno del dopo, può permettere, in buona fede o meno, di accusare tutti di tutto. Dopo che
il paziente ha messo in atto un CVP tutti sono in grado di suggerire tutte le cose che si
sarebbero potute fare in più (oltre quello che si doveva fare): anche se, spesso, nessuno può
provare che, in concreto, avrebbero evitato il CVP del paziente.
81
Il ragionamento col si poteva fare di più, applicato in modo erroneo e pretestuoso in
ambito forense è alla base motivazionale della medicina difensiva, apparentemente
protettiva del medico, inutile per la beneficialità del paziente in oggetto, non rispettosa
della appropriatezza della cura (intesa come il tentativo di conciliare l’ideale etico di
fornire la miglior assistenza possibile tenendo conto delle risorse economiche disponibili),
altamente lesiva della assistenza medica di altri pazienti realmente bisognosi che, a causa
della realtà di risorse limitate, sono privati di cure necessarie ed utili al loro diritto
costituzionale alla salute.
Anche il ragionamento che si basa sul principio del si poteva fare diversamente (ad
esempio per evitare il CVP si sarebbe potuto somministrare farmaci diversi, usare misure
cautelari diverse da quelle adottate, utilizzare un approccio psicoterapico differente da
quello utilizzato, etc.) è errato sotto il profilo forense in quanto, analogamente al
ragionamento si poteva fare di più, non è rispettoso del principio forense: si fa quello che
si deve fare e non tutto quello che si potrebbe fare di alternativo… soprattutto se suggerito
dal senno del dopo e senza alcuna dimostrazione obiettiva che il diverso avrebbe risolto la
situazione evitando il CVP. Questo concetto ( la non validità forense del ragionamento col
si poteva fare diversamente) è stato ribadito, in un caso di suicidio, dalla Suprema Corte
di Cassazione IV sez. pen. (sentenza14766/16): Nel caso di suicidio di un paziente affetto
da turbe mentali, qualora si arrivi a dimostrare che il terapeuta abbia applicato,
nell’economia complessiva della specifica valutazione clinica, la terapia più aderente alle
condizioni del malato ed alle regole dell’arte psichiatrica…, può dirsi che il medico non
avrebbe dovuto comportarsi diversamente da come ha fatto, disponendo una differente
iniziativa ( pur fattualmente dotata di efficacia impeditiva dell’evento ), e in conclusione
che non ha errato nel non averla disposta e non ha omesso una doverosa condotta. La
stessa sentenza precisa a completamento di quanto precede: … essendo poi indimostrato
che un diverso approccio terapeutico avrebbe avuto un risultato salvifico.
Il travisamento del sintomo consiste nell’alterare (volontariamente, per ignoranza, per
superficialità, etc.) la realtà ed il significato clinico del sintomo ed usare questo
travisamento a fini di giustizia. L’eccesso di potere nel travisamento del sintomo ad
opera di periti e consulenti può corrispondere, nell’ambito del diritto civile, al vizio
dell’errore di fatto nel negozio giuridico. Ad esempio affermare: le minacce del paziente
di comportamento violento sulla persona sono state sintomo inequivocabile, attuale e
concreto, dell’omicidio che poi ha commesso … potrebbe essere del tutto errato in quello
82
specifico paziente ed in quella specifica occasione. Il paziente, infatti, avrebbe potuto
mettere in atto minacce per una grande varietà di motivazioni. Ad esempio per richiedere
aiuto a non passare all’atto violento, per ottenere nella immediatezza il guadagno
secondario di soddisfare una sua esigenza voluttuaria come denaro, cibo prelibato,
sigarette in abbondanza, etc. Non è certo la stessa diagnosi una minaccia come sintomo
patognomonico di omicidio, di richiesta di aiuto di un soggetto in difficoltà emotiva, di
ricerca manipolatoria di un futile guadagno secondario.
11b. La necessità della valutazione del nesso di causalità.
Deve essere valutato se vi è un legame tra quanto ha fatto o non ha fatto lo psichiatra e il
CVP messo in atto dal paziente. Lo psichiatra può aver messo in atto uno o più gesti di
non buona pratica clinica, ma queste sue mancanze possono essere del tutto irrilevanti ai
fini dell’aumento del rischio del CVP. Il nesso di causalità può essere esaminato attraverso
varie metodologie ed in tempi brevi, può essere valutato attraverso il ragionamento
controfattuale: se lo psichiatra avesse fatto correttamente quello che doveva fare il CVP
messo in atto dal paziente si sarebbe verificato? Se la risposta è affermativa non esiste il
nesso causale.
Particolare attenzione nella valutazione del nesso causale, anche per evitare l’errore di una
causalizzazione di un errore irrilevante, è la presa in considerazione, unitamente ad altri
fattori quali la adeguatezza della causa, la gravità della evoluzione naturale, etc. anche il
rischio consentito. Questo concetto è stato ulteriormente ribadito e chiarito, in data recente,
(11/5/2016) in relazione ad un suicidio in soggetto con disturbo psichico dalla Suprema
Corte di Cassazione IV sez. pen. (n.14766/16): …rischio consentito, di quel rischio cioè
inerente ad una data attività che non sempre può essere eliminato del tutto per effetto di
condotte appropriate. Tale rischio si colloca all’interno di strategie di intervento
normalmente richieste e previste dagli standard di comportamento giuridicamente regolati
o socialmente accettati in quanto ritenuti sufficientemente prudenti…
83
12
La responsabilità dello psichiatra è da contestualizzare
nel singolo caso clinico
Lo psichiatra deve basare il proprio operato su solide basi scientifiche e cliniche. Diagnosi
e terapia devono essere suggerite da manuali e trattati di psichiatria di chiara fama e serietà
scientifica, deve essere posta attenzione alle linee guida e ai protocolli riconosciuti dalle
società scientifiche, devono essere presenti inveterate acquisizioni di capacità cliniche
specifiche di centri di eccellenza su specifici campi del sapere. Questi sono gli insostituibili
dati fattuali giustificativi che garantiscono la buona pratica clinica. Tuttavia la buona
pratica clinica deve essere contestualizzata in quello specifico psichiatra, con quelle
specifiche esperienze cliniche e formazione scientifica, con quel particolare paziente in
quell’irripetibile contesto psicopatologico e psicosociale in cui il fatto si è verificato in
concreto.
12a. Necessità di contestualizzare il caso clinico
Questa necessità porta ad un utilizzo critico delle linee guida per i seguenti motivi.
1. Sono spesso inspirate da ideologie psichiatriche o costruite con metodologia statistica
di ricerca clinica non sempre condivise, spesso settoriali e mutevoli nel tempo
2. Sono costruite tecnicamente con scale di valori che privilegiano i risultati scientifici
della Evidence-Based Medicine, che possono essere discordanti dalla realtà clinica
quotidiana, a discapito della valorizzazione dei consensi tra clinici esperti (every-day
clinical world)
84
3. Riguardano spesso pazienti ideali, altamente selezionati, da curare con pratiche ideali,
in situazioni di assistenza ideali, non facendo riferimento al paziente vero, reale e
molto più complesso che è presente nella pratica quotidiana
4. Possono essere influenzate da motivazioni di ordine economico, di semplificazione
gestionale, di approccio difensivo di matrice assicurativa, etc. in cui non si privilegia la
beneficialità del paziente
5. Sono spesso differenti tra loro nei livelli di valorizzazione delle evidenze scientifiche e
delle raccomandazioni cliniche suggerite
6. Le variabili cliniche che propongono presentano gradi di affidabilità molto diversi
7. Mutano rapidamente nel tempo
8. Possono fornire indicazioni anche quando mancano evidenze cliniche condivise (gaps
in the evidence base) (7). In questi casi è utilizzato il consenso clinico di un gruppo di
persone deputato allo sviluppo della linea guida (7).
9. Non possono essere applicate a tutti i casi clinici ed a tutte le situazioni per l’unicità
del caso clinico (uniqueness of individuals) (7) e per la difficoltà a generalizzare i
risultati delle ricerche cliniche (generalisability of research findings) (7)
10. Possono essere utilizzate a fini difensivi ed autotutelativi in uno specifico paziente, in
una specifica situazione, senza privilegiare o, addirittura, contro la beneficialità dello
stesso paziente
11. possono essere utilizzate per una psichiatria difensiva che non privilegia la
beneficialità del paziente
12. non garantiscono per legge l’assoluzione dello psichiatra (10454\2010; 8254\2011;
4391\2012;10)
13. non esimono il giudice dalla valutazione delle circostanze che caratterizzano il caso
concreto e la specifica situazione del paziente nel rispetto della sua volontà al di là
delle regole cristallizzate (C.di Cas: IV sez. pen. N.35922\2012)
14. Non tengono conto della contestualizzazione nel singolo paziente, elemento clinico e
forense indispensabile per stabilire la buona pratica clinica
15. Non tengono conto del diritto di autodeterminazione informata del paziente. Il rispetto
della volontà del paziente è recentemente ancora sottolineato dalla Suprema Corte di
Cassazione IV sez. pen. (n.14766/16) che afferma: Un altro profilo che incide sui
confini della posizione di garanzia e dispiega i suoi effetti anche sul versante della
configurabilità della colpa
è il ruolo della volontà del paziente nella relazione
terapeutica: la persona con disturbo psichico è titolare del diritto alla propria cura…
85
12b. Necessità di rispettare le evidenze cliniche condivise.
L’agire dello psichiatra deve basarsi su evidenze cliniche condivise contestualizzate nel
caso specifico ed è utile che siano documentate in cartella clinica (per evitare l’obiezione
forense che: tutto ciò che non è stato scritto non è stato fatto.
13
Necessità di precisare le singole responsabilità professionali
degli psichiatri che hanno curato un paziente
Sotto il profilo clinico e forense è utile precisare le responsabilità di ognuno dei
partecipanti alla cura di un paziente.
13a. Necessità di precisare le responsabilità dei singoli
La precisazione di ruoli e di responsabilità di ognuno deve essere:
1. ufficializzata per iscritto;
2. resa nota alle persone interessate;
3. resa pubblica;
4. rispettare le qualifiche professionali;
5. applicata in concreto nel quotidiano;
6. oggetto di discussioni e chiarificazioni ufficializzate tra le persone interessate.
In questo modo si evita che vi siano imputazioni anche su chi non è responsabile
(imputazioni a pioggia su tutti quando la giustizia spara nel mucchio) e si evitano altresì in
giudizio lunghi, dispendiosi ed aggressivi rimpalli di responsabilità tra i curanti.
13.b. Valorizzazione del principio
dell’affidamento e dell’autonomia vincolata
86
La definizione e specificazione dei compiti di ogni componente dell’équipe permette a
ciascuno di usufruire del principio dell’affidamento e cioè di ritenere, in linea generale, che
gli altri membri svolgano con competenza il loro compito e di esplicare la propria
autonomia, cioè la capacità di compiere azioni terapeutiche per le quali si è qualificati. Si
tratta, comunque, di una autonomia vincolata, e cioè legata a direttive generali che
provengono da persone che hanno il diritto di formularle. Da segnalare che il vincolo legato
all’autonomia non può sollevare il singolo operatore da una sua personale responsabilità,
riconducibile alla immanente titolarità di una posizione di garanzia. Ad esempio,
l’infermiere non solo ha il diritto, ma anche il dovere di non ottemperare alle richieste di un
primario psichiatra se quest’ultimo fornisce direttive contrarie alle più semplici ed
elementari norme di buona pratica clinica infermieristica o, nel caso di un paziente con
rischio di CVP ordinare un comportamento contrario alle più elementari precauzioni di
prudenza e diligenza. Non può essere dimenticato, anche alla luce degli orientamenti della
giurisprudenza, che quando un partecipe dell’equipe abbia modo di percepire una
inadeguatezza comportamentale o valutativa di altro soggetto, con cui coopera nella cura
del medesimo paziente, che possa risolversi in pregiudizio di questi, ha l’obbligo giuridico
di rilevarla, segnalandola (per scritto, quando possibile) al soggetto che presiede l’èquipe
stessa e comunque facendola constare, ovvero ponendovi direttamente rimedio (ove in
grado di farlo).
Quanto precede, inoltre, deve essere valutato, sotto il profilo forense, alla luce della
presenza di obblighi differenziati tra posizione apicale e posizione di
subordinato
gerarchico, del dissenso all’autorità non legittimo, della presenza di specifici regolamenti,
protocolli operativi, algoritmi decisionali, etc validi operativamente e, condizione
indispensabile, rispettosi dei principi generali, clinici e forensi, di buona pratica clinica.
14
Necessità di precisare i criteri di assunzione, dismissione e
contenuto della posizione di garanzia.
87
La posizione di garanzia dello psichiatra verso un paziente implica due distinti doveri:
curare e proteggere. Quando si instaura una relazione terapeutica tra paziente e
professionista nell’ambito di uno specifico conferimento professionale iniziano i doveri.
Ad esempio: ripetere i farmaci in ricetta significa entrare in posizione di garanzia
(assunzione). L’uscita dalla posizione di garanzia (dismissione) in paziente con rischio di
CVP, quando è il caso, deve rispettare la continuità di cura: non è sufficiente una lettera di
dimissioni se non seguita da un contatto diretto tra medici: la lettera potrebbe non arrivare,
non essere letta dal responsabile. Il contenuto della posizione di garanzia è ricco di criticità
in particolare per quanto concerne il dovere di proteggere nel discrimine tra l’intervento
medico e quello custodialistico.
14a.Necessità dello psichiatra di conoscere quando
si assume e quando si dismette la posizione di garanzia
Lo psichiatra deve conoscere questi due fondamentali momenti della posizione di garanzia.
14b. Necessità che lo psichiatra e chi lo valuta
conoscano il contenuto della posizione di garanzia
Per ridurre il rischio di CVP allo psichiatra non possono essere richiesti, in modo diretto e
soprattutto pretestuoso, ruoli per cui non è qualificato: (poliziotto perfetto che sa tutto di
tutti; indovino infallibile che sa predire il futuro; maestro di arti marziali; santo protettore
onnipotente che protegge tutti dal CVP; guardia del corpo; angelo custode; guaritore
miracoloso; responsabile della sicurezza, dell’ordine sociale e della moralità della
popolazione; onnipresente ed onnipotente igienista mentale che deve estirpare la malattia
mentale e la violenza dal mondo; etc).
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Osservazioni conclusive
Difficoltà ad assumere un atteggiamento neutrale di fronte
alla responsabilità dello psichiatra.
Le osservazioni che precedono, isolate dal loro contesto, possono essere interpretate sia
per accusare più facilmente (ad esempio l’estensione dei doveri dello psichiatra nella
posizione di garanzia e nella continuità delle cure, etc.) quanto per assolvere più facilmente
(ad esempio la imprevedibilità e la inevitabilità del CVP, le condotte imprudenti e/o
inconsulte dei pazienti psichiatrici, etc.) lo psichiatra.
Varietà della tipologia ed incertezza dei dati scientifici sul CVP
Il CVP quale evento multideterminato (anche in presenza di disturbo psichico) può
presentare priorità biologiche (violenza accidentale nel corso di demenza agitata) sino a
priorità sociali (violenza acquisitiva economica in associazioni criminali). E’ inoltre da
considerare la grande varietà dei comportamenti violenti (psicologici o fisici; affettivi o
predatori; verbali od agiti; su cose, animali, persone; etc.) che non sempre rendono agevole
un comparazione di dati scientifici. La stessa restrizione al campo di indagine del CVP
implica approfondimenti in tema di tipologie (le dinamiche alla base delle percosse non
sono necessariamente eguali a quelle dell’omicidio) e di specificità nella singole tipologie
(ad esempio le dinamiche in tema di uxoricidio, patricidio, figlicidio, etc. non sono
89
sovrapponibili a livello diagnostico e trattamentale). Vi è inoltre incertezza e varietà
discordanti dei dati scientifici sulla eziologia, sulla clinica e sui correlati biologici (studi
neuro anatomici e neuro fisiologici, fattori neuro trasmettitoriali, fattori neuro
endocrinologici, fattori genetici ed epigenetici, etc.) del CVP.
Necessità di chiarire le aspettative
nei confronti della medicina e della psichiatria
L’aspettativa che le scienze mediche permettano complete e definitive guarigioni da tutte
le malattie e da eventi multideterminati (ove il ruolo della medicina e della psichiatria può
essere assente od irrilevante) può stimolare l’opinione pubblica ed implicare la gestione
della giustizia in rivendicazioni ed accuse che non rispettano la realtà clinica e forense (ad
esempio richieste di controllo del disturbo sociale e della criminalità invece del rispetto
della libertà di cura e della buona pratica clinica e del buon governo del rischio consentito
e cioè non eliminabile).
L’atteggiamento personale
dello psichiatra e di chi lo giudica nei confronti del CVP
Tutti i vari indirizzi psichiatrici (biologico, dinamico, fenomenologico, psicoanalitico, etc.)
contemplano, seppur con diversa importanza e senza entrare in merito alle complesse
definizioni di
reazioni transferali e controtransferali in senso allargato e ristretto, le
reazioni emotive delle persone che mettono in atto, subiscono, assistono in realtà od in
finzione, valutano e giudicano per legge il CVP. Questi atteggiamenti personali non
possono essere ignorati a livello clinico e forense.
La confusione tra
ipotesi cliniche di ricerca ed evidenze cliniche condivise.
La ipotesi clinica di ricerca (studi e ricerche ancora oggetto di approfondimento e criticità
scientifiche non ancora convalidate dalla letteratura internazionale) utile per il progredire
90
della psichiatria e per una sempre maggiore beneficialità del paziente, può essere svolta,
non solo attraverso studi sperimentali su campioni selezionati con metodologie di indagine
e di elaborazione dei dati altamente sofisticate, ma anche al letto del paziente nella
quotidianità dell’assistenza. Ad esempio il paziente a rischio di CVP può essere sottoposto
ai più disparati strumenti di valutazione (diagnostica per immagini alla ricerca di correlati
biologici, reattivi mentali usati in modo singolo, integrato od in costellazioni di batterie,
questionari specifici per il suicidio auto ed etero somministrati, schede di rilevazione e
monitoraggio compilate da tutti gli operatori sociali, etc.) Solo una piccola parte di queste
ipotesi cliniche di ricerca avrà valore scientifico riconosciuto sia dai ricercatori che dai
clinici che curano i pazienti e farà parte di quelle evidenze cliniche condivise accettate dalla
comunità scientifica. Esempi di evidenza clinica condivisa, in tema di CVP, sono il fatto
che si tratta di un evento multideterminato, che non esistono strumenti clinici ed attuariali
per una sicura previsione nel singolo caso clinico, che il rischio di CVP può variare
rapidamente nel tempo, etc. Sotto l’aspetto forense, a prescindere dalle più approfondite e
sofisticate diatribe sul valore euristico ed epistemologico di evidenza scientifica, sui livelli
e categorie di evidenze (full, limited, lack, negative, etc.) e sulla criticità del discrimine tra
ipotesi clinica di ricerca ed evidenza clinica condivisa, in realtà ha valore forense solo la
evidenza clinica condivisa e non i mille rivoli della pur necessaria ed importante ipotesi
clinica di ricerca. Quest’ultima, infatti, sempre a livello forense, non è ancora
scientificamente approfondita, convalidata nella pratica quotidiana e condivisa dagli
studiosi ed esperti clinici a livello nazionale ed internazionale.
La confusione tra
diagnosi psichiatrica categoriale statistica e diagnosi psichiatrica forense peritale.
La diagnosi psichiatrica categoriale statistica è generalmente tratta dai manuali
diagnostici e statistici più diffusi (D.S.M.5; I.C.D.10; P.D.M.) e, nelle cartelle cliniche di
degenza, compare in genere nella formulazione della diagnosi di entrata e di uscita dal
reparto. Questa diagnosi, come è specificato negli stessi manuali, non ha valore forense se
isolata da un contesto di chiarificazione. Ha, infatti un importante valore statistico
classificatorio e di comunicazione tecnica tra specialisti, utile nella ricerca scientifica, ma
non approfondisce (se non chiarificata ed integrata con più informazioni) sotto l’aspetto
91
clinico e forense, il singolo caso in esame. Quest’ultimo è reso infatti assai più complesso
in ragione:
1. Della variabilità individuale della qualità, quantità, persistenza ed interazione dei
sintomi;
2. Delle differenti presenze e relazioni funzionali di specifiche comorbidità del
singolo
3. Della unicità irrepetibile della situazione psicosociale reale e percepita che
contestualizza il caso in esame;
4. Dell’apporto alla diagnosi e terapia delle reazioni emotive transferali e contro
transferali intese in senso allargato, come emozioni, o in senso ristretto in specifici
contesti di psicoterapia.
5. Dalla specifica reattività del singolo caso clinico alle psicoterapie e farmacoterapie
6. Dalla mutevolezza continua delle interazioni con l’ambiente psicosociale.
La diagnosi psichiatrica forense peritale è costituita dall’insieme di segni (oggettivi) e
sintomi (soggettivi) presenti nel paziente al momento dei fatti per cui si procede e delle
decisioni oggetto di indagine giudiziaria, ed ha valore forense nelle perizie e consulenze.
Questa diagnosi rappresenta, soprattutto quando documentata in modo esauriente, la
situazione psichiatrica clinica del singolo soggetto in esame (che può integrarsi con
elementi della diagnosi statistica contestualizzata nel caso clinico in esame) ed è
generalmente contenuta (nei pazienti con disturbo psichico ricoverati) nelle cartelle
cliniche di degenza nel diario clinico alle date riferite ai fatti per cui si procede.
Le due diagnosi psichiatriche, categoriale statistica e forense peritale, non debbono essere
confuse perché non rappresentano la stessa tipologia di diagnosi ed hanno differenti
funzionalità. Lo stesso criterio vale per altri tipi di diagnosi che non rispettano, come la
diagnosi categoriale statistica, le caratteristiche della diagnosi forense peritale e sono
utilizzate (in modo esclusivo o prioritario o non contestualizzate nel caso per cui si procede
al momento dei fatti) al posto di quest’ultima in specifico contesto forense di perizia o
consulenza. Le perizie e le consulenze devono fare riferimento alla diagnosi forense
peritale per il corretto giudizio sulle decisioni assunte al momento dei fatti. Ad esempio la
diagnosi categoriale statistica di disturbo dell’umore, senza altre specificazioni, non
contempla misure di cautela protettive. Qualora nel diario clinico fosse segnalato, alla data
dei fatti per cui si procede, un grave rischio di CVP che dovrebbe comportare misure
cautelari di protezione per il paziente, saremmo di fronte ad una diagnosi forense peritale:
92
è a questa seconda diagnosi che deve essere relazionata, principalmente, la responsabilità
professionale dello psichiatra che si trovava, in quel momento, in posizione di garanzia col
paziente a rischio di CVP. E’ valido il principio anche in situazione opposta: ad esempio se
la diagnosi categoriale di entrata in reparto è di disturbo dell’umore con attuale e concreto
rischio di CVP vi è necessità di misure cautelari. Se poi nel diario clinico è riportato (dopo
un accurato e prolungato monitoraggio della situazione clinica) una riduzione dei sintomi
del disturbo del’umore, dei fattori di rischio del CVP e netta prevalenza dei sintomi
protettivi del CVP, al momento dei fatti per cui si procede, allora le misure cautelari non
sono più necessarie. Anche in questo caso è sempre la diagnosi psichiatrica forense peritale
al momento dei fatti a cui deve essere relazionata la messa in atto e la adeguatezza delle
misure cautelari e, in primo luogo, rapportato, in merito a questa variabile, il giudizio sulla
responsabilità professionale in relazione alle decisioni assunte al momento per cui si
procede.
Necessità di una criteriologia per la valutazione
dei requisiti di causalità e del nesso di causalità
tra azione od omissione dello psichiatra e CVP del paziente.
La valutazione dei requisiti di causalità e del nesso di causalità in medicina e psichiatria
sono temi complessi e ricchi di diatribe cliniche e forensi (5,87-91). E’ quindi necessaria
una criteriologia valutativa condivisa che deve essere applicata in sede forense da periti e
consulenti in tema di responsabilità professionale dello psichiatra in merito al CVP del
paziente.
1) Inquadramento clinico e forense delle cause di CVP. Deve infatti risultare nell’elaborato
scritto di periti e consulenti, rapportato al caso clinico in oggetto, il rispetto:
a. del CVP come evento multifattoriale e non monofattoriale,
b. della differenza tra i fattori eziologici di interesse clinico e quelli di interesse
giuridico,
c. dei criteri di giudizio della causalità commissiva ed omissiva dello psichiatra,
d. dei criteri di giudizio della causalità nel civile e penale.
93
2) Specificazione, nel caso clinico in oggetto, di quella che il perito od il consulente hanno
ritenuto e motivato come causalità del CVP. In questa chiarificazione della eziologia:
a. debbono essere usati i criteri più accreditati per definire, in senso forense, i requisiti
della causalità (ad esempio i criteri di prevedibilità e di probabilità).
b. debbono essere individuati tutti i possibili meccanismi eziologici e verificate se
queste alternative ricostruzioni possono tutte essere riferite alle condotte (colpose)
dell’agente come condiviso dalla prevalente dottrina attuale (Cass., IV sez. pen.;
10795; 2007).
3) Esistenza o non esistenza del rapporto di causalità tra azione od omissione dello
psichiatra e CVP del paziente. Attraverso i criteri più accreditati dell’accertamento del
nesso causale deve essere specificato:
a. l’esclusione del rapporto causale (con le motivazioni in rapporto alle possibilità
scientifiche od alla insufficienza dei dati che sostengono l’ipotesi),
b. la presenza e la quantificazione probabilistica motivata del rapporto di causalità:
a) incerto, b) molto probabile, c) sostanzialmente certo.
4) Esistenza o criteri di esclusione di altre cause necessarie e sufficienti a produrre il CVP
del paziente indipendentemente dalla azione od omissione dello psichiatra. Attraverso i
criteri più accreditati della valutazione delle concause (preesistenti, simultanee,
sopravvenute) deve essere specificata la loro presenza od assenza e, se presenti, il loro
ruolo nel caso clinico per cui si procede.
5) Considerazione che la professione medica e psichiatrica appartengono alle attività
rischiose. In questo senso, pur non ignorando le varie teorie sulla causalità
(condizionalistica, della sussunzione sotto leggi, della causalità adeguata, della
imputazione obiettiva dell’evento, etc.) particolare sensibilità deve essere posta:
a. alla teoria dell’aumento del rischio ed in particolare del rischio consentito nella
professione psichiatrica in merito al tema specifico del CVP contestualizzato al
caso clinico in oggetto.
b. alla evoluzione naturale ed alla potenzialità del CVP (valutazione del fisiologico
variare nel tempo e della intrinseca gravità clinica del CVP) del singolo caso
94
clinico nel suo ruolo di bilanciamento probabilistico del valore eziologico dei
vari fattori in discussione.
Quanto precede rappresenta una criteriologia forense, da contestualizzare nel penale e nel
civile, utile a soddisfare in termini di chiarezza le esigenze della giustizia ed è onere che
grava e deve essere rispettato dai medici che esprimono pareri motivati forensi (5- Fiori).
Inoltre questa criteriologia permette di prevenire illegittime estensioni o restrizioni del
concetto forense di causa e concausa, soggettive e non motivate dichiarazioni di presenza
od assenza di nessi di causalità, assenza di prove della rilevanza causale dell’errore dello
psichiatra; errori metodologici (per superficialità, fretta, ignoranza, pregiudizi, imperizia
peritale, tendenze assolutorie o colpevoliste, etc.) o di giudizio forense quali ragionamenti
col senno del dopo, si poteva fare di più, si poteva fare diversamente, pubblicità
ingannevole del farmaco miracoloso, accattonaggio dei sintomi e dei fattori di rischio,
psichiatrizzazione, confusione tra ora ed allora, causalizzazione dell’errore irrilevante,
causalizzazione del fattore di rischio, travisamento del sintomo.
Necessità di ribilanciare
il rischio del disturbo psichico in relazione al CVP
Recenti studi (92,93) mettono in luce che l’incidenza del CVP:
a. nelle persone con disturbo psichico è solo leggermente superiore a quella delle
persone senza disturbo psichico (rischio abituale attribuibile modesto);
b. è inferiore a quella dei soggetti che fanno abuso di alcool, di droghe, e dei
soggetti criminali (rischio relativo inferiore);
c. aumenta con abuso di alcool, droghe e precedenti criminali (rischio aumentato
con associazioni specifiche).
Questo ribilanciamento (inteso in senso forense come bilanciamento probabilistico del
valore eziologico dei vari fattori in discussione) dall’emotivo (implicante una non
scientifica criminalizzazione del disturbo psichico: i malati di mente sono pericolosi) al
rispetto della realtà (esistono molte categorie di persone più pericolose dei malati di
mente) implica una revisione della attuale responsabilità giuridica e deontologica dello
psichiatra e della esclusiva o sperequata attenzione, anche in sede di elaborati peritali, al
95
disturbo psichico, non scientificamente corroborata, nell’ambito della multi determinatezza
dell’evento di CVP. Questo ribilanciamento della importanza del disturbo psichico
potrebbe portare, nella sua applicazione concreta, ad una beneficialità per il paziente che
potrebbe fruire di una più selettiva attenzione dello psichiatra al disturbo psichico sul quale
ha il dovere e la qualificazione per intervenire ed anche beneficialità per la professione
dello psichiatra non disperdendo, in modo inappropriato, energie ed assumendo
responsabilità improprie su quegli aspetti di eventi multideterminati sui quali non ha il
dovere e non è qualificato per intervenire.
Necessità di riesaminare i giudizi,
in termini di responsabilità professionale,
sulla pericolosità sociale penale e sulla pericolosità sociale psichiatrica
Esistono, secondo il codice penale due tipi di pericolosità sociale. La pericolosità sociale
penale (o criminale) è di esclusiva competenza del magistrato (art. 203 ed art.133, CP e
relative modifiche). La pericolosità sociale psichiatrica può essere valutata dallo psichiatra
(e poi accettata o rifiutata dal magistrato che è, per legge, il perito dei periti). In ambedue i
casi, valutazione del magistrato o valutazione dello psichiatra, segue concretamente, in
caso di pericolosità, la messa in atto o meno di misure cautelari, di differente entità, che
hanno lo scopo di neutralizzare o ridurre il rischio di CVP. Sulla base di queste premesse
sarebbe da valutare la constatazione che sia solo la pericolosità sociale psichiatrica, in
modo così esclusivo o decisamente prevalente, ad essere oggetto di rivendicazioni legali.
Questo riesame critico di un dato di fatto, apparentemente sperequativo, non può che
essere affrontato col massimo rispetto del ruolo del magistrato e del suo diritto alla libertà
di giudizio e della difficoltà di giudizio dello psichiatra e con la necessità di stabilire per
tutti e due, magistrato e psichiatra, criteri il più possibile obiettivi per una valutazione di
responsabilità professionale di importanza forense.
La qualificazione dei periti e dei consulenti.
Le imputazioni e le condanne nonché i lunghi percorsi giudiziari in tema di responsabilità
professionale dello psichiatra sono molto spesso stimolati, se non determinati, da periti e
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consulenti e non esclusivamente dal magistrato (5). Per questo motivo periti e consulenti
debbono presentare una adeguata qualificazione di competenza reale (e non solo di titoli)
al loro compito. Sulla base degli art. 220 e 221 del Codice di Procedura Penale in tema di
perizia e di periti (che mettono in luce le qualificazioni richieste: specifiche competenze
tecniche; particolare competenza nella specifica disciplina), dei codici deontologici medici
sulla responsabilità professionale (art. 62 del Nuovo Codice di Deontologia Medica, 18-052014, che sottolinea la qualificazione: effettivo possesso delle specifiche competenze
richieste dal caso) e della legge Balduzzi (art. 3, comma 5, lg 189 del 08 nov. 2012; dl 13
sett. 2012; sul ruolo delle Società Scientifiche in merito all‘accreditamento di buone
pratiche cliniche), la Società Italiana di Psichiatria (SIP) e la Società Italiana di Psichiatria
Forense (SIPF) hanno approvato (Congresso Nazionale SIPF, Alghero, maggio, 2015) un
position paper nel quale sono stabiliti i criteri per il giudizio sulla responsabilità
professionale dello psichiatra:
1. La presenza di un collegio peritale in cui vi sia uno psichiatra;
2. Lo psichiatra deve possedere:
• la specializzazione in psichiatria;
• esperienza clinica assistenziale di almeno otto anni in struttura pubblica
oltre gli anni di specializzazione;
• adeguato curriculum in relazione al giudizio del caso in oggetto.
3. Queste qualificazioni debbono essere specificate e scritte nel verbale al momento
del conferimento dell'incarico peritale.
La responsabilità di periti e consulenti.
Sulla base della centralità che periti e consulenti hanno nei contenziosi sulla responsabilità
professionale dello psichiatra, costoro debbono rispondere delle loro affermazioni agli enti
istituzionali preposti al controllo, seppur con differenti ruoli e diverse possibilità
sanzionatorie: gli Ordini Professionali, le Società Scientifiche, le Commissioni di
disciplina, il Giudice Civile ed il Giudice Penale.
I periti possono compiere errori professionali legati ad imprudenza, negligenza ed
imperizia (ricostruzioni ipotetiche e fantasiose su dati insufficienti, dimenticanze nella
ricerca dei dati, ignoranza della letteratura sul tema in giudizio, pareri conclusivi sprovvisti
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di adeguata motivazione o di copertura scientifica, affermazioni cliniche contrarie a tutte le
evidenze cliniche condivise dalla letteratura nazionale ed internazionale, etc.)
In particolare la imperizia del perito o del consulente consiste nella incompetenza tecnica
nello specifico argomento oggetto della perizia (5), che può essere accompagnata dalla
mancanza di consapevolezza dei propri limiti professionali (ove tale consapevolezza
sussistesse si verrebbe a delineare anche il profilo della imprudenza per cd. temerarietà)
(5). La imperizia peritale può essere considerata più grave in periti che commettono errori
non scusabili (5), i quali possono agire con una condotta soggettivamente dolosa (5) in
quanto sostenuta dall’interesse professionale di essere graditi al committente e mantenere
in tal modo un flusso costante di incarichi peritali (5) (secondo un atteggiamento più volte
denunciato nell’ambito della medicina legale in generale, considerato espressivo, secondo
efficace definizione, di medicina legale della obbedienza giurisprudenziale), con indebita
assunzione di un ruolo pregiudizialmente accusatorio (5). A mantenere nel perito (e
consulente) un pregiudizio accusatorio è altresì da considerare il fatto obiettivo che non di
rado le parti lese non accettano conclusioni assolutorie e possono reagire non solo con
agguerrite consulenze ma anche con denuncie penali che, ambedue, possono mettere in
grande difficoltà chi nel suo parere non è sfavorevole ai medici (5): si tratta di un
comportamento preventivo difensivo del perito (e consulente) a danno del periziando, che
merita una preoccupata riflessione e caratterizza la medicina legale difensiva (5).
Anche i consulenti di parte possono compiere errori professionali (e fondatamente
assumere una responsabilità deontologica ex art. 62 del codice di deontologia medica)
quando presentano consulenze sfacciatamente compiacenti e prive di decenti motivazioni
scientifiche (5); formulano richieste di approfondimenti diagnostici peritali non giustificati
sotto il profilo clinico e forense; utilizzano in modo non scientifico ed erroneo sotto il
profilo forense, dati delle neuroscienze o principi clinici della psicologia del profondo o di
specifiche correnti di pensiero psicanalitico; utilizzano in modo erroneo dati di laboratorio
o di reattivi mentali travisandone il senso per utilità personale ai fini di giustizia; etc.
Sono inoltre descritte, in letteratura, altre due tipologie di perito che non soddisfano le
esigenze di giustizia e la correttezza professionale: gli innocentisti ad oltranza, con
tendenze assolutorie verso la classe medica per un atteggiamento ingiustamente
corporativo (5), ed i colpevolisti ad oltranza e cioè quei medici, che in veste di periti o
consulenti formulano pareri tecnici non obiettivi perché in preminenza ispirati,
consciamente o inconsciamente, dal timore di conseguenze negative, professionali e/o
personali, a loro danno, qualunque sia la provenienza e la natura di tale rischio reale o
98
presunto : altro esempio di medicina legale difensiva legata al timore di ritorsioni ed alla
perdita di un filone professionale redditizio (5).
Quanto precede non esime periti e consulenti dal rispondere di comportamenti contrari a
precise norme di legge contemplate nel codice Civile e Penale (ad esempio, falsa perizia od
interpretazione, art.373 c.p.; false dichiarazioni od attestazioni in atti destinati all’autorità
giudiziaria, art.374 bis c.p.; etc.).
Periti e consulenti incapaci e/o in malafede, come descritti dalla letteratura internazionale e
nazionale e nei trattati forensi (91,94), debbono essere riconosciuti, isolati, etichettati e
sanzionati non solo perché spesso carpiscono la buona fede dei committenti e del
magistrato attraverso l’esibizione di titoli di specializzazioni o titoli accademici cui non
corrisponde la competenza reale sull’argomento della perizia (la legge, ex artt.220 e 221
c.p.p., richiede la competenza reale sul tema in oggetto di giudizio), ma anche per il danno
ingiusto che procurano a singoli professionisti ed il grave discredito che gettano sulla
rispettabilità e credibilità scientifica, etica e sociale di tutta la categoria degli psichiatri.
I mutamenti giurisprudenziali e le variazioni normative in tema di responsabilità per
la prestazione sanitaria.
Anche l’applicazione concreta e quotidiana dell’assistenza psichiatrica risente del mutare
nel tempo del contenuto delle decisioni dei giudici in tema di responsabilità da prestazione
sanitaria. L’orientamento delle sentenze in tema di contrattualizzazione della prestazione
medica, del contratto di protezione tra psichiatra e paziente, dell’obbligo legale derivante
dal contatto sociale del gestore di un servizio sanitario pubblico con il paziente, della
tendenza alla dissoluzione della differenza tra obbligazione di mezzi ed obbligazione di
risultato, etc., è in continua evoluzione ed oggetto costante di legittime valutazioni critiche
a scopo migliorativo (89,90)
Questo variare della giurisprudenza, almeno come recepito a livello divulgativo presso gli
psichiatri, può stimolare, a prescindere da una lettura approfondita e critica di ogni singola
sentenza, comportamenti difensivi pregiudiziali (gli psichiatri spaventati corrono dietro
alle sentenze adottando una psichiatria difensiva) che possono non rispettare in modo
adeguato le obiettività cliniche e la beneficialità del paziente con rischio di CVP. In questo
contesto è da auspicare (se non una depenalizzazione, che potrebbe essere in contrasto con
il precetto costituzionale) una valutazione giudiziale ispirata a larghezza di vedute e
99
comprensione specie per l’aspetto della colpa per imperizia, prefigurando, sul piano
processuale: l’adozione di mezzi di conciliazione alternativi alle conflittualità e lunghezza
temporale dei processi; un utilizzo più frequente della mediazione; l’inversione dell’onere
della prova; la maggiore implicazione forense dei responsabili delle strutture atte
all’accoglienza e cura del paziente; la previsione della istituzione per via normativa di
fondi di solidarietà sociale a garanzia delle istanze risarcitorie nei casi di colpa non
macroscopica, la possibilità di conciliazione tra le parti in causa di tipo prevalentemente od
esclusivamente assicurativo. In questo contesto di mutamenti è da sottolineare le incertezze
e le problematiche sollevate dalla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari.
Inoltre sono da considerare le continue proposte di legge che concernono il CVP. Ad
esempio il concetto di pericolosità, assai mutevole nel tempo, è passato da una valutazione
individuale di Pericolosità ad una valutazione, su base statistica, di Rischio di
Comportamento Violento. Attualmente il concetto di pericolosità è oggetto di discussione,
per proposta di legge, per quanto riguarda lo psichiatra, di acquisire un significato
esclusivamente medico–terapeutico definibile come Bisogno di cure.
La difficoltà a proporre criteri
in tema di responsabilità forense dello psichiatra.
La formulazione di criteri troppo specifici e dettagliati non permette di contemplare tutte
le individualità dei singoli casi clinici. Criteri troppo generali possono risultare vaghi ed
interpretabili soggettivamente nel singolo caso clinico. Queste criticità sono poi esasperate
dai limiti scientifici della disciplina della psichiatria, dalla difficoltà di definire la buona
pratica clinica contestualizzata, dalla difficile integrazione tra diritto e medicina e dai
mutamenti giurisprudenziali e variazioni normative che regolano la prestazione sanitaria.
Conclusioni.
Le osservazioni psichiatrico forensi che precedono possono rappresentare uno stimolo di
approfondimento critico per la ricerca di una condivisione sempre maggiore sul piano
100
clinico e scientifico tra gli psichiatri sulla gestione del rischio di CVP al fine di una più
ampia beneficialità per tutti i protagonisti attivi e passivi dell’evento di violenza nel pieno
rispetto dell’autodeterminazione del paziente. Queste osservazioni hanno un valore
generale e possono essere allargate ed approfondite, in tema di gestione del CVP, a livello
personale ed istituzionale con protocolli d’azione, algoritmi di decisioni, specifiche
divisioni di ruoli terapeutici, schemi di procedure ed obiettivi di intervento, indicazioni
preventive e gestionali delle situazioni di crisi, corsi di formazione su specifici temi di
valutazione e gestione del CVP, arricchimenti con metodologie attuariali dei risultati
clinici, utilizzo critico ed approfondimento scientifico di ipotesi cliniche di ricerca.
Pur nella considerazione dei necessari approfondimenti critici attuali, delle correzioni
future, del mutare delle ideologie psichiatriche e dei principi giuridici e della possibilità per
ogni psichiatra di ampliare (anche a livello ufficiale e per iscritto) i suoi compiti nella
gestione del CVP è da rilevare che queste osservazioni forensi e di buona pratica clinica
già allo stato attuale permettono:
A) di offrire al paziente ed ai protagonisti dell’evento di violenza una alta qualità di
beneficialità in tema di cura e protezione rispettosa della autodeterminazione.
B) di offrire allo psichiatra uno schema di comportamenti obiettivi di buona pratica
clinica soddisfacendo il suo diritto e dovere di conoscere, prima di essere imputato, i
criteri precisi sui quali è giudicata la sua responsabilità professionale
C) di evitare che in una aula giudiziaria siano esclusivamente altre persone (avvocati,
giudici, medici legali, periti, consulenti, familiari) a suggerire o decidere quali siano
le coordinate cliniche sulle quali giudicare la responsabilità dello psichiatra in tema di
CVP.
Infine queste osservazioni psichiatrico forensi di buona pratica clinica dovrebbero
stimolare un dialogo costruttivo fra tutti i protagonisti dell’evento clinico e giudiziario del
CVP messe in atto dai pazienti allo scopo di una sempre maggior beneficialità per tutte le
persone interessate nel pieno rispetto del diritto all’autodeterminazione di ognuno, delle
evidenze cliniche condivise e delle leggi vigenti.
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