LA DIFFERENZA FRA ME E TE SEMINARIO REGIONALE DEI GIOVANI DEMOCRATICI DEL LAZIO RIETI, 17-18 DICEMBRE 2011 TRACCIA DI DISCUSSIONE INTRODUZIONE .......................................................................................................................... 2 PREMESSA ........................................................................................................................................ 2 NOI, DEMOCRATICI ........................................................................................................................... 2 CARATTERI DI UN CICLO: ALCUNE RIFLESSIONI SUL QUARANTENNIO PASSATO ........................... 4 LA CITTADINANZA DEL XXI SECOLO: IL RUOLO DI UNA GENERAZIONE POLITICA .......................... 7 PREMESSE ......................................................................................................................................... 7 LA CITTADINANZA DEL XXI SECOLO FRA EUROPA E ITALIA ............................................................... 8 CRISI DELLE ISTITUZIONI E CRISI ECONOMICA .................................................................................. 9 SOCIETA’ DELLA CONOSCENZA E WELFARE UNIVERSALE ............................................................... 10 L’ISTRUZIONE NEL DOPO TRENTENNIO .......................................................................................... 11 CONCLUSIONI........................................................................................................................... 13 L’AZIONE DEI GIOVANI DEMOCRATICI ............................................................................................ 13 LA FEDERAZIONE DEGLI STUDENTI ................................................................................................. 15 LA RETE UNIVERSITARIA NAZIONALE .............................................................................................. 15 INTRODUZIONE PREMESSA Ci avviamo verso il primo congresso nazionale dei Giovani Democratici. Questi primi tre anni di vita hanno visto l’organizzazione giovanile impegnata a radicarsi nei territori, nei luoghi di studio e di lavoro, definendo parallelamente il proprio profilo politico rispetto ai temi all’ordine del giorno della discussione nazionale, regionale e locale. Questi primi anni di lavoro hanno consentito ai Giovani Democratici di prendere progressivamente consapevolezza di quale debba essere la funzione di un soggetto generazionale. La stessa esistenza di un’organizzazione giovanile nel PD non era un esito scontato: organizzarsi in un soggetto autonomo è stata la ferma volontà di tantissimi ragazzi accumunati da una specifica visione di fondo della politica e del partito, convinti, in questo modo, di riuscire ad essere l’avanguardia del riformismo italiano ed europeo, non solo rispetto ai temi più propriamente generazionali, ma rispetto ad una visione più complessiva della società. Sul modello del partito “liquido” ci fu imposto di eleggere gli organismi dirigenti dell’organizzazione giovanile tramite “primarie”, cosa che ha creato, come parallelamente accadeva nel partito, non poche storture e disfunzioni. Tuttavia ci siamo rivelati una generazione ben più “solida” di quanto si potesse pensare. Ed è così che l’organizzazione giovanile è stata in questi anni il presidio di una militanza politica che invece al livello dei partiti si andava tendenzialmente perdendo. Si tratta ora di mettere questo progetto su basi politiche ed organizzative più solide. In questo senso il congresso, il nostro primo congresso, è un momento veramente fondativo. NOI, DEMOCRATICI Siamo i Giovani Democratici, l’organizzazione giovanile del Partito Democratico. Non è una semplice constatazione: dirsi Democratici assume oggi un significato storico ed esprime una scelta di campo ben precisa. Il 6 e 7 ottobre 2006, a Orvieto, i gruppi dirigenti di DS e Margherita decidono la nascita del Partito Democratico. L’accordo di Orvieto è il risultato di un’aspirazione antica, di una riflessione profonda e di un lavoro comune tra i due principali partiti concretizzatosi già precedentemente nell’Ulivo. L’esigenza di garantire la presenza di un soggetto politico che potesse essere da guida della nuova farraginosa maggioranza parlamentare uscita dalle elezioni del 9 e 10 aprile 2006 ha accelerato il compimento di questo processo storico. Il compromesso storico negli anni ’70 aveva rappresentato il primo tentativo di avvicinamento sul piano del governo del paese tra due forze, culturalmente diversissime, ma entrambe costituenti, entrambe di massa e di matrice popolare. L’uccisione di Aldo Moro bloccò questo dialogo e PCI e DC si sono poi arroccati su posizioni difensive per il resto della “prima repubblica”. Ma l’aspirazione comune all’azione riformatrice, ancorché solo sul piano del governo, che non poteva realizzarsi nella stagione della guerra fredda e del conflitto tra sistemi ideologici e politici, diventa una necessità storica ineludibile nell’Italia della “seconda repubblica”. Diventava allora necessario, infatti, un soggetto politico che, per la sua forza e le sue radici, fosse in grado di dare una guida politica e morale all’Italia, di ricostruire l’identità distrutta di una nazione moderna e partecipe della costruzione dell’Europa come attore mondiale, una grande forza progressista di rango europeo, che unisse tutte le culture e le forze del riformismo, quelle che s’ispiravano al socialismo europeo, quelle liberaldemocratiche, quelle laiche, quelle cattoliche democratiche, quelle ecologiste, andando oltre la parzialità delle loro singole esperienze per dare una rappresentanza politica unitaria al riformismo italiano. Questo il progetto del Partito Democratico. L’Ulivo è stato il luogo dell’incontro di queste forze, permettendo loro di riconoscersi reciprocamente e di elaborare una comune lettura della società italiana e un comune progetto politico per l’Italia, fondato in primo luogo sull'aspirazione europeista. E l’Ulivo è stato anche il luogo di incontro dei riformismi laici con il riformismo di matrice cattolica, con la consapevolezza di quanto decisivo e strategico sia nella storia d’Italia il mondo cattolico e di come un'alternativa democratica e di progresso sia assai più difficile se quel mondo volge il suo sguardo a destra. Da queste fondamenta il 15 ottobre 2007 nasce il Partito Democratico attraverso l’elezione diretta degli organi costituenti nazionali e regionali da parte degli elettori. Questo momento si ripeterà il 14 febbraio 2008 per i gruppi dirigenti locali. È una scelta che vede una larga partecipazione di popolo, ma che in breve mostrerà le sue contraddizioni nella fragilità dei gruppi dirigenti figli delle primarie. Ciò, unitamente alla logica del “partito liquido”, che vede un indebolimento del valore della militanza, ha condotto anche il PD verso un modello di partito fondato su una delega plebiscitaria e deresponsabilizzante ad una leadership demiurgica al livello nazionale e su un ampio margine discrezionale lasciato agli amministratori al livello locale. Proprio al livello locale, inoltre, si stanno sentendo gli effetti dell’assenza di un momento di incontro tra le due anime del partito, come al livello nazionale era stato invece l’Ulivo. La segreteria di Bersani ha segnato un cambio di rotta rispetto a questo modello, ribadendo la centralità del partito e recuperando il ruolo della membership, tracciando inoltre un percorso per la definizione di un profilo politico e programmatico di partito progressista e popolare. L’idea del Partito Democratico si è rivelata più che corretta. Nel contesto europeo, l’unità dei riformismi in una nuova prospettiva democratica è una scelta vincente, perché è del tutto evidente la parzialità delle tradizioni cattoliche sociali e socialdemocratiche, legate indissolubilmente alle esperienze politiche del Novecento e dell’Europa, in un mondo in cui lo stesso peso relativo del continente europeo è destinato a ridimensionarsi irreversibilmente a fronte di uno spostamento del baricentro politico verso l’Asia e il Sudamerica. Inoltre, dopo la stagione dei governi progressisti negli anni ’90, si è entrati in una fase politica particolarmente sfavorevole alle forze del socialismo europeo, in cui la destra ha dimostrato un primato culturale e politico. Alla prova dei fatti, però, la destra europea non si è rivelata altrettanto in grado di dare risposte; anzi, si dimostra ogni giorno particolarmente fragile sul piano del governo della crisi. E, tuttavia, in nessun paese europeo è emersa finora con forza un’alternativa socialdemocratica. Al contrario, alle elezioni europee del 2009 si è assistito ad un arretramento storico dei partiti del socialismo europeo, che ha consegnato al PD il primo posto in termini di rappresentanti tra i partiti progressisti in seno al parlamento europeo, in un contesto internazionale che aveva visto, invece, l’affermarsi di forze progressiste alla guida delle due più popolose democrazie del mondo, l’India e gli Stati Uniti. Nei paesi emergenti, poi, nessuno dei partiti progressisti al governo è un partito socialista o socialdemocratico, a dimostrazione della limitatezza delle nostre categorie politiche, europee e novecentesche. La stessa decisione di creare, in seno al parlamento europeo, l’Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici è in questo senso emblematica. Tutto ciò non deve assolutamente essere letto come una conferma della tesi, che le forze di sinistre si sono ripetute per anni come un mantra, secondo cui con il crollo del muro di Berlino le ideologie erano morte e si inaugurava una società post-identitaria, per cui anche i partiti, pena l’anacronismo, dovevano essere post-identitari. Ma cosa vuol dire post-identitari? Il berlusconismo, il leghismo, chi ragionevolmente li definirebbe post-identitari? O forse non spargono a piene mani ideologia, cioè senso comune, un sistema di concetti che viene prima della proposta politica e dell’azione di governo, costruendo narrazioni a cui le forze democratiche e progressiste non hanno saputo contrapporre nulla? Chi definirebbe post-identitario il pensiero unico liberista che sottende all’attuale assurda gestione europea della crisi? Si tratta al contrario di capire come le ideologie e le identità del ‘900, che sono tutt’altro che vecchi arnesi di cui disfarsi, possano essere messe al servizio della costruzione di un’identità progressista, decisa e riconoscibile. Le forze democratiche devono affrontare una nuova battaglia per la giustizia sociale, che risponda alle forme inedite in cui questa è messa in pericolo nel XXI secolo al livello planetario. CARATTERI DI UN CICLO: ALCUNE RIFLESSIONI SUL QUARANTENNIO PASSATO Siamo consapevoli di partecipare ad una fase storica di svolta. La crisi iniziata nel 2008 segna la chiusura di un ciclo iniziato negli anni Settanta: il crack finanziario prima, la recessione economica poi ed infine le attuali crisi del debito, con il parallelo acuirsi della questione sociale, sono avvertiti da buona parte della popolazione come punti di rottura dell’assetto economico e sociale che è prevalso nel corso di questo ultimo quarantennio. Ci sono state alcune caratteristiche distintive del pensiero politico-culturale di questo periodo, riconducibili ad una visione neoliberista: prime fra tutte una visione semplicistica del mercato come quell’istituzione “naturale” che, lasciata a sé stessa, in assenza di ingerenze dei pubblici poteri, è in grado di assicurare il massimo benessere individuale e sociale. Si è proceduto, nel nome di questa visione, largamente egemone in questi anni, lungo la strada della moderazione salariale e della flessibilizzazione del mercato del lavoro, si è esaltato il ruolo del risparmio nel favorire la crescita, si è stigmatizzato l’intervento pubblico, considerato al tempo stesso inefficiente e controproducente, si è teorizzato lo Stato minimo con la demonizzazione del sistema d'imposizione fiscale e la destrutturazione dello Stato Sociale. E la stessa crisi scoppiata nel 2008 può essere ricondotta in buona parte all’applicazione dei dogmi neo-liberisti: la sua origine viene proprio da salari sensibilmente inferiori al tasso di crescita della produttività, compensati, in particolare negli USA, con una politica del prestito facile, in un contesto finanziario ormai senza vincoli nazionali dominato da diffuse opacità, da estrema volatilità e dal feticcio della liquidità degli strumenti finanziari. Anche Obama, nel suo recente discorso in Kansas, ha evidenziato questi aspetti negativi nello sviluppo economico dei recenti anni. Tutto questo ha generato crescenti disuguaglianze, divari eccessivi fra i redditi da capitale e da lavoro, e squilibri internazionali difficilmente sostenibili nel lungo periodo. Le caratteristiche di questo quarantennio però non sono riducibili esclusivamente ai processi di globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia, o a una rivoluzione politica conservatrice, ma sono il frutto di un mutamento in buona parte “endogeno”, nel senso che è conseguenza del procedere della divisione del lavoro (nazionale e internazionale) e del progresso tecnologico e, in buona parte, figlio della degenerazione degli assetti sorti nel dopoguerra. Insomma, hanno giocato un ruolo decisivo l'evoluzione nei consumi, nelle classi sociali, nelle produzioni, l'emergere delle economie del terzo mondo, Cina e India in testa, gli enormi sviluppi nella tecnologia dei processi produttivi e nel sistema delle comunicazioni. Un peso decisivo ha avuto l’evoluzione della struttura sociale dei paesi occidentali. Già all’inizio degli anni ’70 era chiaro che il benessere generato durante il boom del secondo dopoguerra e l’avanzare spedito del processo di divisione del lavoro avevano prodotto, come risultato, l’estensione di un ceto medio enormemente differenziato al livello di reddito, al livello culturale, di stili di vita, ecc. E' proprio l’espansione del ceto-medio, con la connessa crescente domanda di remunerazione selettiva, che costituisce la pulsione disgregatrice principale degli assetti emersi dalla II guerra mondiale. Un altro aspetto dell’evoluzione della struttura sociale è stato l’aumento del peso della rendita finanziaria nella distribuzione del reddito (e quindi anche del peso politico), per cui il modello principe dell'impresa capitalistica è diventato la società per azioni e l’attenzione dei risparmiatori si è spostata dalla valutazione della redditività dell’investimento alla previsione di come i mercati avrebbero valutato il prezzo di un’attività, rendendo estremamente volatili i prezzi (e specularmente il rendimento degli investimenti) e richiedendo un elevata liquidità degli strumenti finanziari. Con il soddisfacimento generalizzato dei bisogni primari connesso al crescente benessere, sono emersi poi prepotentemente nuovi bisogni eterogenei: si è passati dalla società di massa alla società dominata dagli status symbol, dove i “creatori di simboli” (calciatori, pop-star, uomini dello spettacolo, grandi pubblicitari, top manager, ecc.) sono diventati la nuova classe di super ricchi. Se leggiamo i “Trent’anni” puramente con la chiave interpretativa del liberismo, senza indagare sulle mutazioni sociali, non riusciamo a collocarvi il fenomeno Berlusconi. Egli vuole il laissez faire, laissez passer solo per quanto riguarda la sua attività di imprenditore, ma non è contrario ad interventi pubblici di sostegno a specifiche attività, come il sostegno finanziario alla diffusione dei decoder per la televisione digitale terrestre o come addossare allo stato le passività Alitalia; non si pone certo problemi d’identità politica quando le politiche del suo governo si muovono in direzione contraria a quei principi tipicamente liberali di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge e di eguaglianza nei punti di partenza; non si può certo dire che sia stato attivo nel realizzare concretamente quella teorica “concorrenza perfetta”. E' stato piuttosto il garante di una serie di interessi del capitalismo italiano, dei ceti piccolo-imprenditoriali del nord e della vecchia classe dirigente del sud, al crocevia fra istanze modernizzanti, reazioni difensive alla globalizzazione, vecchio clientelismo all'ombra del potere pubblico e degli enti locali. In questo scenario, la crisi della sinistra nasce in quella che è stata chiamata “crisi fiscale dello Stato Sociale”. Si è cioè diffusa nell’opinione pubblica la convinzione che il crescente prelievo fiscale era solo in parte il corrispettivo di prestazioni sociali utili, ma in parte significativa derivasse dagli sprechi connessi ad una degenerazione burocratica dello Stato Sociale, al servizio non del cittadino ma del pubblico impiego: una burocrazia pubblica volta unicamente a auto-perpetuare se stessa nei suoi privilegi, a spese dei lavoratori. Piuttosto che per il carattere convincente delle sue ricette iperliberiste, la “rivoluzione conservatrice” ha avuto buon gioco perché ha denunciato mali evidenti a tutti, davanti ai quali le forze progressiste, soprattutto quelle di matrice socialdemocratica, non riuscivano, per limiti culturali e assetti sociali e organizzativi consolidati (in primis il rapporto con i sindacati), ad elaborare una risposta. La sinistra occidentale, infatti, aveva creduto, fin dalla I guerra mondiale, di bilanciare la scelta di campo dell'economia di mercato con l’idea che in un sistema capitalistico il progresso civile e lo sviluppo della democrazia derivassero da un’espansione della sfera pubblica. Da questa incapacità della sinistra è derivato anche un fondamentale spostamento a destra dei ceti popolari e produttivi. Un altro grande problema che ci lascia aperto questo ciclo quarantennale è quello dell’assetto democratico delle società occidentali, e in primo luogo di quella italiana, in cui questo problema fa tutt’uno col dibattito sulla c.d. “Seconda Repubblica”, cioè questo periodo di incertezza culturale e istituzionale sui caratteri della nostra democrazia che perdura ormai da diciassette anni. E' innegabile che abbiamo assistito su scala europea ad una trasformazione del sistema democratico che investe sia il modo di concepirne il funzionamento, sia il suo concreto funzionamento e che riguarda tutti gli elementi costitutivi del sistema: le istituzioni e i poteri che rappresentano, i partiti, la società. Quali sono i contenuti di questa trasformazione? 1. La verticalizzazione della leadership, il mito del decisionismo e la conseguente personalizzazione della politica nati come risposta alla richiesta di maggior efficienza, velocità e capacità di decisione nei processi decisionali. Ne è derivato un modello di partito incentrato sulla figura del leader che, sciolto dalla logica complessa dell’organizzazione, si rapporta direttamente con i media per attirare il gradimento di un’opinione pubblica ritenuta ondivaga. Parallelamente all’indebolimento della membership e al processo di accentramento verticistico, i partiti hanno dovuto lasciare ampio margine di manovra ai leader locali, che sono venuti naturalmente a coincidere con gli amministratori; un duplice processo che ha portato ad un partito del leader al livello nazionale e ad un partito degli eletti al livello locale. 2. Una scarto tra la costituzione materiale e quella formale, prodotto soprattutto tramite le leggi elettorali e il comportamento dei partiti, che è consistito nello svilimento della democrazia parlamentare e nello scivolamento in una forma di presidenzialismo di facciata non regolato, in cui la distinzione tra potere legislativo e potere esecutivo si è fatta labile. 3. L’emergere, il diffondersi e il radicarsi nel senso comune di una retorica antipolitica basata su una contrapposizione artificiosa tra società partitica, descritta come casta impegnata esclusivamente a perpetuare se stessa nei suoi privilegi, e società civile. Alla democrazia “partitocratica” (cioè la democrazia rappresentativa di rilievo costituzionale) si oppone una fumosa democrazia “reale” o “partecipativa”, emblematizzata da internet, ma che alla prova dei fatti si riduce spesso a manifestazioni di gradimento, di sapore plebiscitario, verso il capopopolo di turno. LA CITTADINANZA DEL XXI SECOLO: IL RUOLO DI UNA GENERAZIONE POLITICA “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” Art.3 Costituzione della Repubblica Italiana PREMESSE All’Italia ed all’Europa spetta oggi fare scelte di fondo che chiudano questo ciclo quarantennale e ne aprano un altro. Queste scelte determineranno verso quale modello di società il nostro paese vuole tendere. Non bisognerà fare lo stesso errore del 2008, quando si pensava, di fronte alla catastrofe della crisi economica, che fosse sufficiente l’evoluzione naturale degli eventi per sconfessare un pensiero trentennale: un nuovo corso non sorgerà automaticamente dal fallimento del vecchio, ma c’è bisogno di una visione politica di fondo che guidi coscientemente i processi politici ed economici. Ma, per questo, è necessario in primo luogo recuperare una concezione di politica come il compito storico che abbiamo davanti, rigettando quella visione che riduce la politica ad ordinaria amministrazione. Noi siamo dentro la storia e rifiutiamo il massimalismo e l’antagonismo: siamo figli dello storicismo e del materialismo storico, dell'idealismo crociano, del pensiero cattolico democratico, dell'etica kantiana della responsabilità, dell'illuminismo repubblicano. I nostri punti di riferimento sono l'antifascismo e la Costituzione repubblicana. Solo così, con il recupero della responsabilità morale e delle radici storiche della politica, è possibile chiudere questo ciclo quarantennale e porre le basi per un mondo più giusto, più equilibrato. Riscopriamo quindi i motivi per una rinnovata militanza in un’organizzazione giovanile: il ruolo generazionale come ruolo storico, perché noi vogliamo cambiare il mondo. E proprio per poter svolgere questo ruolo, nella società odierna, abbiamo bisogno dei Giovani Democratici come organizzazione giovanile di massa, capace di penetrare in ogni piega della società e di esercitare una direzione politica dei processi. Al comunitarismo e all'individualismo contrapponiamo la società plurale e solidale e l'emancipazione della persona nelle sue relazioni sociali. Società plurale e solidale vuol dire riconoscere il valore delle differenze religiose, culturali, di genere, proprie dell'individuo, nel nome di principi etici condivisi e del metodo democratico, propri di una società. E si deve accompagnare allo sforzo collettivo della società e delle istituzioni per mettere ognuno nelle condizioni di esprimere la sua libertà senza soggezioni: la dignità dell’uomo conosce continuamente nuove sfide e continuamente è messa in pericolo in forme inedite. Oggi si rischia, ad esempio, una nuova profonda frattura sociale tra chi è padrone di un sapere e chi ne è succube, tra chi è incluso in un processo di apprendimento e chi ne è escluso, con un ampliamento delle disuguaglianze di reddito, giacché la quantità del lavoro è sempre meno misura della sua remunerazione, che viene maggiormente a dipendere dalla qualità, dalla qualificazione e dalla responsabilità nel processo produttivo. Libertà ed emancipazione sono l'unico modo per permettere all'uomo di sviluppare la propria soggettività in costante relazione con gli altri. LA CITTADINANZA DEL XXI SECOLO FRA EUROPA E ITALIA Noi siamo la polis, e siamo cittadini di questo mondo, anche se cittadini “incompiuti” a causa di una rappresentanza politica privata di mediazioni e ridotta al populismo, di un patto sociale rotto dalla precarietà e dalla disoccupazione senza opportunità e diritti, dell'istruzione statale indebolita dai continui tagli, non adeguata al suo ruolo nella società. Il ruolo di supplenza, spesso svolto, in Italia, da famiglie, partiti, comunità locali, Chiesa, non è più sufficiente, perché anche quelle istituzioni sono parzialmente in crisi, indebolite da questo ciclo storico-politico. Affermare la cittadinanza del XXI secolo è quindi il compito di una generazione politica, perché è passaggio necessario per ricreare quel rapporto fra individuo e società che consenta al più debole di uscire da una condizione di subalternità, per affermare le possibilità di sviluppo della persona umana e l’effettività e la pienezza della partecipazione democratica. Servono istituzioni nuove e modelli di sviluppo adeguati alle sfide della globalizzazione e della società odierna, e per affermarli non basta un programma, ma serve la capacità collettiva di aprire un terreno di riflessione e di azione politica che coinvolga direttamente la mappa dei poteri italiana, stimolando processi di cambiamento in tutti gli spazi democratici del vivere civile. Significa disegnare il perimetro di una battaglia politica che tenga assieme una costante tensione alla democrazia con la sfida per uno sviluppo economico-sociale equo e sostenibile, in cui società della conoscenza, welfare universalistico, riforma dell’istruzione siano aspetti strettamente intrecciati che non possono camminare disgiuntamente. Su queste basi possiamo essere in grado di mobilitare un paese intero verso una riscossa civile e offrire una piattaforma credibile per una generazione che deve pensare e mettere in moto una politica diversa da quella egemonizzata dal berlusconismo. La prima questione per ripensare la cittadinanza del XXI secolo è interrogarci su dove risieda la sovranità oggi e sulla legittimità democratica delle decisioni politiche. Il processo di declino degli Stati-nazione, privi della possibilità di fare guerre e di conquistare colonie, non ha parallelamente lasciato spazio ad altri luoghi sovrani per risolvere i conflitti e pianificare il futuro. La sovranità europea è l'obiettivo, che deve essere raggiunto favorendo opportunità d'accesso indiscriminate alla dimensione europea e integrando i sistemi politici, economici, sociali e culturali. L’Europa non deve più essere, com’è stato nella logica neoliberista che l’ha guidata negli anni ’90-‘00, solo il luogo delle elites economiche e politiche, il luogo della negoziazione intergovernativa, ma deve essere sempre più uno spazio comune, dove far sviluppare nell’opinione pubblica un’agenda politica condivisa sul futuro dei paesi UE e sul ruolo che essi devono svolgere nel mondo, dove si devono intrecciare sempre di più sensibilità culturali, processi economici, esperienze di vita. E’ l’unico modo per evitare il risorgere di nazionalismi o pericolose derive xenofobe, come sta invece accadendo in Ungheria o come lasciano presupporre le inquietanti reti di complicità dietro l’attentato in Norvegia. Sul terreno strettamente politico, la questione è superare la dimensione intergovernativa del governo dell'Unione Europea e rafforzare i partiti europei e il loro luogo di confronto, il parlamento. Il dibattito ad oggi in Europa è tutto incentrato sull'agenda imposta dai conservatori, sul falso dilemma fra stabilità e crescita, sull’austerità fiscale come panacea a tutti i mali. La spinta verso riforme internazionali incisive della regolamentazione finanziaria, che era forte al sorgere della crisi, va via via indebolendosi man mano che il comparto finanziario sembra riacquistare profili di maggiore stabilità, e i risultati del G20 rimangono deludenti. Infine, di fronte alle prime difficoltà di bilancio derivanti dall’aumento dei deficit pubblici e dall’arresto della crescita, l’Europa si è arroccata nuovamente in una visione monetarista: stabilità monetaria e tagli. Visione che non fa che alimentare la spirale recessiva. Il punto dovrebbe essere, invece, la costruzione del modello sociale europeo, nell'ottica non solo dell’apertura dei mercati, ma della convergenza dei sistemi economici e dell'armonizzazione delle politiche economiche e sociali attraverso una governance economica europea, a partire dalla gestione comune del debito e da investimenti comuni (eurobond, riforma della BCE), per una cittadinanza veramente europea. Deve essere fondato su politiche pubbliche per uno spazio europeo della ricerca e dell'innovazione, e portare ad uno sviluppo incentrato sulla domanda e sulla riduzione degli attuali squilibri fra paesi e dentro i paesi. CRISI DELLE ISTITUZIONI E CRISI ECONOMICA Riforma delle istituzioni, elemento necessario per affermare una rinnovata cittadinanza, significa ripensare lo spazio democratico, e definire ruolo, regole e confini dello Stato, degli enti locali, del mercato, dei partiti, della società intesa nei suoi mille rivoli diversi. Non possiamo disgiungere l'obiettivo di una nuova legge elettorale, che faccia ritrovare una capacità di rappresentanza dei partiti in Parlamento e assicuri la governabilità, o il diritto di voto da attribuire ai residenti stranieri in Italia, da liberalizzazioni che amplino gli spazi del mercato in settori non caratterizzati da monopoli naturali o da un sistema fiscale che sposti il peso della tassazione sulle rendite finanziarie e immobiliari, o altri esempi similari, perché la questione è come orientare sempre più in chiave democratica la mappa dei poteri italiana nell'ottica della capacità del sistema di assumere un ruolo nel contesto europeo e mondiale. Efficienza, equità e democrazia vanno di pari passo per creare una società più giusta e ridare all'Italia una spinta propulsiva di cui le giovani generazioni hanno bisogno. Negli anni '90 e 2000 la forbice delle disuguaglianze è cresciuta enormemente, e la crisi ha impattato su una situazione già socialmente difficile, costringendo alla chiusura migliaia di imprese e aumentando vertiginosamente le ore di cassa integrazione e i licenziamenti. I risparmi delle famiglie, in Italia consistenti, si stanno assottigliando e rischiano nei prossimi anni di non riuscire più a svolgere quella funzione di ancora di salvataggio rispetto a un welfare strutturalmente inadeguato. I più penalizzati, da questo punto di vista, sono i giovani e le donne. Questa è l'emergenza: misure di protezione sociale, lavoro e piccole opere, sostegno ai consumi per le fasce deboli, per far ripartire la domanda interna, senza la quale non vi è una crescita endogena. SOCIETA’ DELLA CONOSCENZA E WELFARE UNIVERSALE Davanti ai cambiamenti nel sistema economico mondiale degli ultimi decenni, i paesi europei possono scegliere tra due vie: lo sfruttamento del lavoro, in un processo di ricambio sempre più frequente della forza lavoro occupata, mirando ad una competizione di prezzo sui mercati internazionali, oppure l’arricchimento e la riqualificazione continua del lavoro, interpretando la flessibilità come mobilità sostenuta da un elevato patrimonio professionale e mirando ad una competizione internazionale basata sull’innovazione. Puntare sull'innovazione di prodotto e di processo, che poi vuol dire creare la società della conoscenza. Non basta investire su scuola, università e ricerca (che pure è indispensabile), ma attrezzare un contesto complessivo favorevole a questa trasformazione del sistema produttivo italiano, compresa la valorizzazione del lavoro, la formazione, le infrastrutture, amministrazioni trasparenti ed efficienti, un sistema finanziario efficiente. Il corollario è favorire una nuova imprenditorialità e l’apertura di una pagina più avanzata del capitalismo italiano, che coniughi territorio, vocazione sociale, apertura internazionale, capacità di fare rete, rapporti con gli enti di ricerca, e consideri il lavoro come snodo fra queste relazioni. Quindi, per fare due esempi di cui si discute molto, a cambiare deve essere non solo il diritto del lavoro o il sistema d’istruzione, perché la scelta rispetto a quale modello di sviluppo tendere non è una questione tecnica o economicista e che consegna alla politica solo una parzialità di problemi separati da affrontare e risolvere rispetto a interessi contrapposti. La scelta sul modello di sviluppo è, invece, il crinale sul quale passa la differenza fra reazione e democrazia, fra chi vuole mantenere il potere concentrato in una mappa predefinita ed esclusiva di relazioni e chi pensa, nell’incessante movimento della storia, ad un’evoluzione democratica delle relazioni politiche all’insegna dell’inclusione sociale. In questo senso la società della conoscenza può essere, prima di tutto, la forma di un nuovo compromesso fra capitale e lavoro, in cui il rapporto non sia più quello di dipendenza del lavoro dal capitale in cambio di una serie di diritti. Esiste quindi una tendenza potenziale, consistente nella possibilità di superare il lavoro “astratto”, il lavoro meramente esecutivo, con il lavoro come espressione della creatività e delle qualità della persona. Questa tendenza si scontra da un lato con le contraddizioni presenti nella gestione d’impresa, in molti casi ancora legata ad un’organizzazione del lavoro di tipo tayloristico, e dall’altro con una ideologia della flessibilità che ha portato alla moltiplicazione delle forme contrattuali e ai tentativi di competere esclusivamente sul costo del lavoro. Il lavoro oggi, invece, non può più essere inteso solo come fonte di reddito per consumi, ma come realizzazione della personalità e contributo alla società. Il paradigma della società dei consumi sta crollando con il lento assottigliarsi in questi anni della classe media, che sta perdendo la funzione di classe generale e vede messa in crisi la sua stessa identità, ma ancora permangono le contraddizioni esplicitate sopra. Il riconoscimento di questo valore sociale del lavoro deve essere fondamento del patto sociale di diritti e doveri della cittadinanza moderna. Vuol dire abbandonare il dualismo del mondo del lavoro, a cui si aggiunge la posizione peculiare dei lavoratori stranieri, confermare il contratto unico nazionale, riportare il lavoro flessibile ad una dimensione interna alle imprese, affrontare la questione di un nuovo welfare che accompagni i percorsi lavorativi individuali, ripensare l’impresa e le forme di distribuzione del profitto. Il PD e i GD hanno cominciato da tempo a dare risposte chiare su alcuni dei problemi legati alla società della conoscenza: l’urgenza sociale di un forte investimento in istruzione che garantisca l’effettività del diritto allo studio, la necessità che un’ora di lavoro flessibile costi più di un’ora di lavoro stabile, ecc. Si tratta di capire che tutto ciò ha un senso solo se l’uniamo ad una riflessione sulla rinascita del sistema di welfare, abbandonando l’assetto laburistico-corporativistico per una complessiva evoluzione in senso universalistico. In particolare, a causa delle mutazione del mondo del lavoro, all’interno del sistema di welfare è assolutamente prioritario riorganizzare il sistema degli ammortizzatori sociali. L’affermazione di schemi di ammortizzatori sociali universalistici significa, nel concreto: scollegare la titolarità dei diritti delle prestazioni del sistema di welfare sia dalle appartenenze lavorative, che oggi rischiano di rivelarsi sempre più instabili, sia dalle diverse posizione contributive, che divengono prive di senso ove si consideri l’estensione del lavoro parasubordinato; in un’ottica di solidarietà, significa finanziare le prestazioni tramite la fiscalità generale; significa strutturare un sistema di politiche attive del lavoro, da affiancare alla tradizionali prestazioni monetarie a titolo di sostegno al reddito o a copertura del rischio di disoccupazione, di modo da consentire una continua riqualificazione della forza lavoro e da incrementarne la possibilità di essere nuovamente occupati (quest’ultimo aspetto fa tutt’uno con la costruzione di un sistema di formazione continua). L’ISTRUZIONE NEL DOPO QUARANTENNIO Per costruire la cittadinanza del XXI secolo non si può prescindere da un ripensamento del sistema d’istruzione italiano. In particolare, la scuola italiana è ancora una scuola profondamente classista, sia perché l’impianto fondamentale gentiliano ha resistito ai successivi interventi sulla scuola, sia perché risulta profondamente inadeguata a rispondere ai mutamenti negli assetti economici e sociali intervenuti nell’ultimo quarantennio. Il riferimento fondamentale è allora ancora all’Art. 3, co. II, Cost. Se con questo articolo si riconosce l’esistenza di situazioni di diseguaglianza di fatto e se si assegna alle istituzioni il compito di rimuovere tali situazioni, allora il sistema d’istruzione diviene una delle principali forme concrete con cui le istituzioni provvedono allo sviluppo della persona e alla creazione del legame di cittadinanza che è al centro del rapporto fra individuo e società. In particolare vanno assolutamente innalzati a 10 gli anni d’istruzione uguali per tutti. Non si può pensare, infatti, ad un’istruzione limitata alla formazione professionale, sia pure intesa in senso ampio come preparazione del lavoratore ad un certo ruolo lavorativo. L’istruzione deve andare oltre, e questo è il primo motivo per cui deve essere pubblica, poiché il mercato favorirebbe soprattutto la formazione professionale. L’istruzione ha poi la funzione perequativa di limitare il rischio che la differenziazione delle qualifiche lavorative, e la stratificazione sociale che ne deriva, tendano a cristallizzarsi. È dunque fondamentale un periodo iniziale il più lungo possibile (al limite coincidente con la scuola dell’obbligo) di istruzione generale, prima che le strade formative si separino a seconda degli indirizzi professionali prescelti. Non si possono disgiungere questi necessari provvedimenti da una urgente riforma dei contenuti dell’insegnamento volta ad un integrazione (e non ad una separazione) dei saperi, all’interdisciplinarità, a far maturare competenze più che a trasmettere conoscenze. Ma non si può prescindere neanche da un serio sistema di valutazione del sistema d’istruzione, degli istituti e della classe docente. Bisogna, inoltre, rimettere al centro la ricerca e l’università italiana mediante il recupero della sua funzione pubblica ed istituzionale, intesa come principale fonte di sviluppo sociale, culturale ed economico del paese e di costruzione delle opportunità per la realizzazione del principio di equità e di mobilità sociale. Non siamo ancora arrivati cioè a costruire l’università di massa, al tempo stesso guida e servizio del proprio territorio e laboratorio funzionale ad un modello di sviluppo incentrato sull’innovazione. Le risposte date negli ultimi anni si collocano in totale controtendenza rispetto alla necessità di un aumento delle opportunità; infatti le risorse per il diritto allo studio sono diminuite in modo drammatico: il governo uscente ha previsto un taglio del 95% al fondo integrativo per il diritto allo studio, le cui risorse dal 2010 al 2013 passeranno da 150 milioni di euro a poco più di 10 milioni. Oggi l’Italia continua a gestire il sistema universitario seguendo logiche burocratiche che lo hanno svuotato di gran parte della propria autonomia e funzione. Il potere centrale, negli ultimi anni, ha avviato un processo di centralizzazione che ha ottenuto come unico risultato un conflitto perenne con il mondo accademico, senza peraltro riuscire a riformarlo ed a limitarne i vizi; l’università è stata governata male e le esigenze della formazione sono passate in secondo piano rispetto alle necessità di controllo della spesa. Il disegno di legge Gelmini rappresenta l’esasperazione di queste logiche burocratiche, senza puntare, piuttosto, a “forme evolute di autonomia”, che possano rendere effettivo un percorso di sviluppo dell’università e della ricerca pubblica in Italia da realizzarsi all’insegna del principio di “autonomia e responsabilità”. Bisognerebbe, infatti, introdurre una seria valutazione, come uno dei criteri per l’assegnazione delle risorse, che dovrà riguardare tanto la ricerca scientifica quanto i servizi ed il sostegno agli studenti. Una vera riforma dell’università deve puntare alla valorizzazione dei saperi acquisiti e deve consentire a ciascuno, al di là delle condizioni socio-economiche di partenza, di realizzarsi e di sprigionare le proprie energie: una riforma fondata sulla “libertà dal bisogno”, in cui i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, possano raggiungere i massimi obiettivi e realizzarsi nel mondo del lavoro mediante l’opportunità di svolgere un lavoro qualificato. La politica deve farsi carico di un’inversione di tendenza, promuovendo delle politiche pubbliche che, a partire da un adeguato investimento finanziario e senza intaccare l’autonomia e strangolare l’università italiana, riescano ad incentivare l’università ad investire nel welfare studentesco, sulla qualità dell’offerta formativa e sulla valorizzazione delle menti migliori, assicurando così un ricambio generazionale in grado di sostenere il carico di responsabilità della costruzione di un futuro migliore per il nostro paese. CONCLUSIONI L’AZIONE DEI GIOVANI DEMOCRATICI Se interpretiamo come ruolo storico la nostra funzione di organizzazione giovanile, e i ragionamenti proposti in quest’elaborato vanno esattamente nella direzione di aprire un confronto su quale sia il ruolo di una generazione politica, allora è chiaro che dobbiamo mettere in campo anzitutto una battaglia culturale e politica capace di far maturare nelle giovani generazione quella “coscienza”, visione più profonda di scopi e di fini, che non è solamente esperienza di rivendicazione di interessi contingenti o di amministrazione del quotidiano. Il senso di un'organizzazione giovanile, che la distingue rispetto a un semplice dipartimento giovani del partito, in fondo è questo: non semplicemente una struttura, in cui l'iniziativa si costruisce rispetto a un'agenda imposta dal partito o dalla politica quotidiana e che vive come somma di singole esperienze, ma un corpo collettivo che si mobilita organicamente rispetto a un obbiettivo comune. Ogni iscritto, ogni dirigente, si deve sentire soggetto attivo e protagonista della sfida politica dei Giovani Democratici e deve vivere la propria militanza all’insegna dei principi e degli obbiettivi che l’organizzazione vuole rappresentare; dentro una discussione collettiva contribuisce a determinarne la linea politica e deve incarnarla poi nell’iniziativa politica nei GD, nel PD e nella società. Ognuno di noi si deve sentire responsabile rispetto al progetto politico dei Giovani Democratici, come spazio comune di rappresentanza politica di una generazione e come soggetto che vogliamo investire di un ruolo centrale nella vita politica italiana. I Giovani Democratici siamo noi. Il congresso, in questo percorso, sarà un momento di crescita collettiva importante, perché ci permetterà di mettere a sistema le cose fatte in questi anni e ci aiuterà a rafforzare il profilo e a definire meglio il ruolo dei Giovani Democratici. Dovrà vivere nell’attuale fase di grande cambiamenti politici, a partire dal cambio di governo e di maggioranza parlamentare in Italia. Il crollo del governo Berlusconi e la formazione del governo Monti hanno determinato sicuramente un quadro diverso della politica nazionale col quale doverci confrontare, ben sapendo che le questioni di fondo, anche per la natura strettamente parlamentare dell’attuale governo, rimangono, perché riguardano elementi che permeano profondamente la nostra società. Allo stesso modo, non potremo non interrogarci sul movimento del 15 ottobre. Sbaglieremmo a darlo prematuramente per morto dal momento che gli argomenti di quella protesta rimangono validi e che, negli USA, si agitano ancora movimenti gemelli. Nel riconoscerne l’importanza e gli elementi innovativi, non dobbiamo però nasconderci i suoi limiti, fra i quali, oltre alla presenza di quelle frange più violente che hanno infiammato p.za S.Giovanni il giorno della manifestazione, una diffusa tendenza all’antagonismo e alla delegittimazione dei partiti. Dobbiamo, però, comunque confrontarci con le istanze e i problemi che quel movimento ci sottopone e con le realtà politiche che lo animano, partendo da un nostro punto di vista, e i ragionamenti che abbiamo voluto affrontare nel documento e che andranno arricchiti e sviluppati in una discussione congressuale sono un buon punto d’inizio. Partiremo dalla cose fatte in questi anni, come la costituzione dei soggetti studenteschi nazionali, RUN e FdS, per affrontare un dibattito che stia nella vita e nei problemi di una generazione. Un dibattito che ritrovi le giuste categorie d’analisi per un confronto democratico. In questi anni, dentro il Partito Democratico, in particolare nel Lazio, ne abbiamo sentite di tutti i colori, e troppo spesso ci si è soffermati su questioni marginali, che poi hanno impedito al partito di svolgere fino in fondo il suo ruolo. Non dovremo commettere lo stesso errore: partiamo dalle questioni che riguardano il paese e la nostra generazione, e non sbaglieremo. I circoli sono il primo soggetto dei Giovani Democratici, e il luogo dove vivono le sue politiche. La piattaforma, le battaglie politiche, i principi, devono vivere dal livello nazionale fino al territorio, in un continuo interscambio di idee e progetti, nella consapevolezza però che i GD sono un'unica organizzazione, dalla Valle d'Aosta alla Sicilia, e che questo carattere nazionale è il suo principale valore. I circoli hanno il compito primario di riportare le battaglie politiche nazionali dentro le diverse realtà territoriali, costruendo iniziative politiche che vadano nella giusta direzione, perché se non faremo vivere la riflessione sulla cittadinanza del XXI secolo a partire da ogni territorio non riusciremo mai a consolidarne la prospettiva politica. In questo è importante il ruolo di un livello nazionale che sia di continuo stimolo e supporto formativo, ma anche avere dei circoli ricettivi, presenti nel territorio in cui operano e partecipi della vita interna dei GD. Le nostre sezioni, inoltre, devono sempre più tornare ad essere un punto di riferimento, dove, in un momento di crisi sociale, poter fare un’aggregazione giovanile aperta anche a stimoli diversi, culturali, sociali, di volontariato, e dove poter offrire servizi di cui c’è necessità, che non vengono erogati sul mercato, se non magari a prezzi per molti inaccessibili, o ai quali il pubblico non provvede a sufficienza. Ciò significa valorizzare l’esperienza della militanza, impiantandola su basi politiche più profonde, dandosi come obiettivo operativo immediato quello di aderire ad ogni piega della società. È in questo modo che noi portiamo dal cielo alla terra il “radicamento”, attraverso la militanza cosciente e una presenza nella società ad ogni livello. Ciò significa in termini molto pratici anche tornare ai fondamentali della politica: i volantinaggi, i porta a porta, le feste in piazza, il contatto diretto e costante con i cittadini, la presenza nei luoghi di studio e di lavoro, sono, prese singolarmente, piccole cose, ma che nell’insieme danno la misura di un’organizzazione che ha il cuore pulsante della sua attività in una militanza che vuole intraprendere con la società un’interlocuzione su questioni più ampie della miseria quotidiana, sui nostri destini comuni, segnando il passo rispetto ad un partito ancora troppo spesso ripiegato su se stesso. Il radicamento politico può essere quindi il criterio metodologico con il quale misuriamo la nostra iniziativa; un’iniziativa potrà dirsi riuscita se sarà servita ad accrescere iI nostro radicamento, aiutandoci a penetrare in profondità nelle realtà territoriali, a diffondere un messaggio nei luoghi della nostra generazione, ad intrecciare rapporti politici con realtà attive dei nostri comuni, a creare partecipazione. È in questo senso che assumono un ruolo rilevante le nostre associazioni studentesche ed universitarie. LA FEDERAZIONE DEGLI STUDENTI Il nostro punto di partenza per definire un lavoro da fare nelle scuole deve essere la funzione della scuola in quanto palestra di democrazia, cioè luogo dove gli studenti diventano cittadini, dove si forma in nuce la coscienza politica di ognuno. E allora il nostro lavoro nelle scuole deve essere tarato proprio su questa funzione politica del luogo-scuola: non solo sensibilizzare, non solo agitare, non solo rivendicare, ma politicizzare, favorire la partecipazione degli studenti alla vita democratica del paese, forgiare la coscienza civile, politica e generazionale. Di fronte ad un berlusconismo strisciante, di fronte all’identitarismo goliardico dei neofascisti, di fronte all’offensiva culturale leghista, di fronte all’indifferenza e alla cultura dell’opportunismo, il nostro compito nelle scuole sarà quelle di creare una mobilitazione culturale permanente, che sia il terreno fertile su cui possa crescere una generazione che sceglie la via dell’impegno. È su queste basi che abbiamo impostato la nostra associazione studentesca, la Federazione degli Studenti, come associazione politica di sinistra degli studenti. Proprio per questa sua natura, essa non rivolgersi solo agli studenti che hanno già fatto una scelta di campo, ma vuole politicizzarne di nuovi. Allo stesso modo un partito politico come il nostro non parla solo alla platea dei suoi elettori, ma parla al paese tutto, perché il suo obiettivo è creare consenso crescente. Ma nel parlare al paese, il Partito Democratico non rinuncia alla sua identità. Allo stesso modo i GD, tramite FdS, possono rivolgersi a tutti gli studenti, senza per questo rinunciare alla loro identità. Ma, anzi, facendone un punto di forza. La Federazione degli Studenti vuole essere, quindi, lo strumento con cui lavoriamo quotidianamente nelle scuole, con cui aderiamo ad una piega rilevante della nostra società. Un soggetto che recupera la dimensione di associazione di istituto, senza per questo rinunciare ad un deciso profilo politico di carattere nazionale. Un soggetto che non è un think-tank esistente solo al livello “dirigenziale” o una struttura ipertrofica e burocratizzata, ma che, al contrario, fa della rappresentanza studentesca uno dei momenti più importanti della sua attività, non per fare il risiko sulle postazioni, giocando a contarsi, ma perché gli studenti devono sentirsi parte attiva del funzionamento del sistema scuola, tanto più in quella scuola dell’autonomia che ha sempre avuto in mente il centrosinistra. LA RETE UNIVERSITARIA NAZIONALE L’ università è uno dei luoghi privilegiati dell’aggregazione giovanile e fucina nella quale si forgia il futuro delle generazioni più giovani ed una coscienza politica e sociale. L’agire politico nei luoghi del sapere è un’opportunità di crescita collettiva che ha una funzione importante, sia dal punto di vista interno all’organizzazione giovanile sia dal punto di vista del rapporto tra politica e società. Affrontare le politiche universitarie, andando oltre la logica sindacale della pur giusta difesa dei diritti degli studenti, consente di costruire un’idea di società e di conoscenza più generale e sistemica. Per di più, farlo in forma organizzata consente di realizzare un’azione condivisa, incisiva ed efficace, che permetta ai Giovani Democratici di portare i propri contenuti in uno dei principali luoghi della nostra generazione. La costituzione della Rete universitaria nazionale è stata una scelta significativa a livello nazionale dei Giovani Democratici, perché mette in rete in un unico contenitore le differenti realtà studentesche che fanno riferimento alla nostra organizzazione. È un soggetto in grado di raccogliere le istanze studentesche attraverso il radicamento nelle singole realtà universitarie e la rappresentanza studentesca. Da queste istanze, può fare elaborazione politica e mettere a sistema le varie esperienze. Riportare da un piano particolare a uno più generale le politiche universitarie, in una chiave di confronto e dialogo con le istituzioni, è un approccio completo, che contribuisce a fare dei Giovani Democratici un soggetto attivo di cambiamento e di crescita a partire dai luoghi della formazione. Rappresenta una sfida importante che ha contribuito a mettere in relazione sempre più stretta la nostra organizzazione con l’universo studentesco e con i movimenti, con cui in questi anni si è riusciti a costruire alcuni percorsi condivisi. La frammentazione e la disomogeneità di azione delle associazioni universitarie vicine ai GD, negli anni passati, è stato uno degli aspetti deficitari della nostra organizzazione; la RUN, mettendo in rete i soggetti già presenti negli atenei italiani, e creandone di nuovi, ha contribuito a generare le giuste sinergie e a garantire coerenza e continuità all’azione. La conoscenza è uno dei pilastri fondamentali dell’avanzamento sociale, culturale ed economico, e l’università pubblica è il luogo di costruzione delle opportunità; dotarci degli strumenti necessari per realizzare la nostra missione nei luoghi del sapere costituisce un mezzo per realizzare una società più giusta ed un nuovo modello di sviluppo fondato sulla conoscenza.