la differenza fra me e te

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LA DIFFERENZA
FRA ME E TE
SEMINARIO REGIONALE DEI GIOVANI
DEMOCRATICI DEL LAZIO
RIETI, 17-18 DICEMBRE 2011
TRACCIA DI DISCUSSIONE
INTRODUZIONE .......................................................................................................................... 2
PREMESSA ........................................................................................................................................ 2
NOI, DEMOCRATICI ........................................................................................................................... 2
CARATTERI DI UN CICLO: ALCUNE RIFLESSIONI SUL QUARANTENNIO PASSATO ........................... 4
LA CITTADINANZA DEL XXI SECOLO: IL RUOLO DI UNA GENERAZIONE POLITICA .......................... 7
PREMESSE ......................................................................................................................................... 7
LA CITTADINANZA DEL XXI SECOLO FRA EUROPA E ITALIA ............................................................... 8
CRISI DELLE ISTITUZIONI E CRISI ECONOMICA .................................................................................. 9
SOCIETA’ DELLA CONOSCENZA E WELFARE UNIVERSALE ............................................................... 10
L’ISTRUZIONE NEL DOPO TRENTENNIO .......................................................................................... 11
CONCLUSIONI........................................................................................................................... 13
L’AZIONE DEI GIOVANI DEMOCRATICI ............................................................................................ 13
LA FEDERAZIONE DEGLI STUDENTI ................................................................................................. 15
LA RETE UNIVERSITARIA NAZIONALE .............................................................................................. 15
INTRODUZIONE
PREMESSA
Ci avviamo verso il primo congresso nazionale dei Giovani Democratici. Questi primi tre anni di vita hanno
visto l’organizzazione giovanile impegnata a radicarsi nei territori, nei luoghi di studio e di lavoro, definendo
parallelamente il proprio profilo politico rispetto ai temi all’ordine del giorno della discussione nazionale,
regionale e locale. Questi primi anni di lavoro hanno consentito ai Giovani Democratici di prendere
progressivamente consapevolezza di quale debba essere la funzione di un soggetto generazionale. La stessa
esistenza di un’organizzazione giovanile nel PD non era un esito scontato: organizzarsi in un soggetto
autonomo è stata la ferma volontà di tantissimi ragazzi accumunati da una specifica visione di fondo della
politica e del partito, convinti, in questo modo, di riuscire ad essere l’avanguardia del riformismo italiano ed
europeo, non solo rispetto ai temi più propriamente generazionali, ma rispetto ad una visione più
complessiva della società. Sul modello del partito “liquido” ci fu imposto di eleggere gli organismi dirigenti
dell’organizzazione giovanile tramite “primarie”, cosa che ha creato, come parallelamente accadeva nel
partito, non poche storture e disfunzioni. Tuttavia ci siamo rivelati una generazione ben più “solida” di
quanto si potesse pensare. Ed è così che l’organizzazione giovanile è stata in questi anni il presidio di una
militanza politica che invece al livello dei partiti si andava tendenzialmente perdendo. Si tratta ora di
mettere questo progetto su basi politiche ed organizzative più solide. In questo senso il congresso, il nostro
primo congresso, è un momento veramente fondativo.
NOI, DEMOCRATICI
Siamo i Giovani Democratici, l’organizzazione giovanile del Partito Democratico. Non è una semplice
constatazione: dirsi Democratici assume oggi un significato storico ed esprime una scelta di campo ben
precisa.
Il 6 e 7 ottobre 2006, a Orvieto, i gruppi dirigenti di DS e Margherita decidono la nascita del Partito
Democratico. L’accordo di Orvieto è il risultato di un’aspirazione antica, di una riflessione profonda e di un
lavoro comune tra i due principali partiti concretizzatosi già precedentemente nell’Ulivo. L’esigenza di
garantire la presenza di un soggetto politico che potesse essere da guida della nuova farraginosa
maggioranza parlamentare uscita dalle elezioni del 9 e 10 aprile 2006 ha accelerato il compimento di
questo processo storico.
Il compromesso storico negli anni ’70 aveva rappresentato il primo tentativo di avvicinamento sul piano del
governo del paese tra due forze, culturalmente diversissime, ma entrambe costituenti, entrambe di massa
e di matrice popolare. L’uccisione di Aldo Moro bloccò questo dialogo e PCI e DC si sono poi arroccati su
posizioni difensive per il resto della “prima repubblica”. Ma l’aspirazione comune all’azione riformatrice,
ancorché solo sul piano del governo, che non poteva realizzarsi nella stagione della guerra fredda e del
conflitto tra sistemi ideologici e politici, diventa una necessità storica ineludibile nell’Italia della “seconda
repubblica”. Diventava allora necessario, infatti, un soggetto politico che, per la sua forza e le sue radici,
fosse in grado di dare una guida politica e morale all’Italia, di ricostruire l’identità distrutta di una nazione
moderna e partecipe della costruzione dell’Europa come attore mondiale, una grande forza progressista di
rango europeo, che unisse tutte le culture e le forze del riformismo, quelle che s’ispiravano al socialismo
europeo, quelle liberaldemocratiche, quelle laiche, quelle cattoliche democratiche, quelle ecologiste,
andando oltre la parzialità delle loro singole esperienze per dare una rappresentanza politica unitaria al
riformismo italiano. Questo il progetto del Partito Democratico.
L’Ulivo è stato il luogo dell’incontro di queste forze, permettendo loro di riconoscersi reciprocamente e di
elaborare una comune lettura della società italiana e un comune progetto politico per l’Italia, fondato in
primo luogo sull'aspirazione europeista. E l’Ulivo è stato anche il luogo di incontro dei riformismi laici con il
riformismo di matrice cattolica, con la consapevolezza di quanto decisivo e strategico sia nella storia d’Italia
il mondo cattolico e di come un'alternativa democratica e di progresso sia assai più difficile se quel mondo
volge il suo sguardo a destra.
Da queste fondamenta il 15 ottobre 2007 nasce il Partito Democratico attraverso l’elezione diretta degli
organi costituenti nazionali e regionali da parte degli elettori. Questo momento si ripeterà il 14 febbraio
2008 per i gruppi dirigenti locali. È una scelta che vede una larga partecipazione di popolo, ma che in breve
mostrerà le sue contraddizioni nella fragilità dei gruppi dirigenti figli delle primarie. Ciò, unitamente alla
logica del “partito liquido”, che vede un indebolimento del valore della militanza, ha condotto anche il PD
verso un modello di partito fondato su una delega plebiscitaria e deresponsabilizzante ad una leadership
demiurgica al livello nazionale e su un ampio margine discrezionale lasciato agli amministratori al livello
locale. Proprio al livello locale, inoltre, si stanno sentendo gli effetti dell’assenza di un momento di incontro
tra le due anime del partito, come al livello nazionale era stato invece l’Ulivo. La segreteria di Bersani ha
segnato un cambio di rotta rispetto a questo modello, ribadendo la centralità del partito e recuperando il
ruolo della membership, tracciando inoltre un percorso per la definizione di un profilo politico e
programmatico di partito progressista e popolare.
L’idea del Partito Democratico si è rivelata più che corretta. Nel contesto europeo, l’unità dei riformismi in
una nuova prospettiva democratica è una scelta vincente, perché è del tutto evidente la parzialità delle
tradizioni cattoliche sociali e socialdemocratiche, legate indissolubilmente alle esperienze politiche del
Novecento e dell’Europa, in un mondo in cui lo stesso peso relativo del continente europeo è destinato a
ridimensionarsi irreversibilmente a fronte di uno spostamento del baricentro politico verso l’Asia e il
Sudamerica. Inoltre, dopo la stagione dei governi progressisti negli anni ’90, si è entrati in una fase politica
particolarmente sfavorevole alle forze del socialismo europeo, in cui la destra ha dimostrato un primato
culturale e politico. Alla prova dei fatti, però, la destra europea non si è rivelata altrettanto in grado di dare
risposte; anzi, si dimostra ogni giorno particolarmente fragile sul piano del governo della crisi. E, tuttavia, in
nessun paese europeo è emersa finora con forza un’alternativa socialdemocratica. Al contrario, alle elezioni
europee del 2009 si è assistito ad un arretramento storico dei partiti del socialismo europeo, che ha
consegnato al PD il primo posto in termini di rappresentanti tra i partiti progressisti in seno al parlamento
europeo, in un contesto internazionale che aveva visto, invece, l’affermarsi di forze progressiste alla guida
delle due più popolose democrazie del mondo, l’India e gli Stati Uniti. Nei paesi emergenti, poi, nessuno dei
partiti progressisti al governo è un partito socialista o socialdemocratico, a dimostrazione della limitatezza
delle nostre categorie politiche, europee e novecentesche. La stessa decisione di creare, in seno al
parlamento europeo, l’Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici è in questo senso emblematica.
Tutto ciò non deve assolutamente essere letto come una conferma della tesi, che le forze di sinistre si sono
ripetute per anni come un mantra, secondo cui con il crollo del muro di Berlino le ideologie erano morte e
si inaugurava una società post-identitaria, per cui anche i partiti, pena l’anacronismo, dovevano essere
post-identitari. Ma cosa vuol dire post-identitari? Il berlusconismo, il leghismo, chi ragionevolmente li
definirebbe post-identitari? O forse non spargono a piene mani ideologia, cioè senso comune, un sistema di
concetti che viene prima della proposta politica e dell’azione di governo, costruendo narrazioni a cui le
forze democratiche e progressiste non hanno saputo contrapporre nulla? Chi definirebbe post-identitario il
pensiero unico liberista che sottende all’attuale assurda gestione europea della crisi? Si tratta al contrario
di capire come le ideologie e le identità del ‘900, che sono tutt’altro che vecchi arnesi di cui disfarsi,
possano essere messe al servizio della costruzione di un’identità progressista, decisa e riconoscibile. Le
forze democratiche devono affrontare una nuova battaglia per la giustizia sociale, che risponda alle
forme inedite in cui questa è messa in pericolo nel XXI secolo al livello planetario.
CARATTERI DI UN CICLO: ALCUNE RIFLESSIONI SUL QUARANTENNIO
PASSATO
Siamo consapevoli di partecipare ad una fase storica di svolta. La crisi iniziata nel 2008 segna la chiusura di
un ciclo iniziato negli anni Settanta: il crack finanziario prima, la recessione economica poi ed infine le
attuali crisi del debito, con il parallelo acuirsi della questione sociale, sono avvertiti da buona parte della
popolazione come punti di rottura dell’assetto economico e sociale che è prevalso nel corso di questo
ultimo quarantennio.
Ci sono state alcune caratteristiche distintive del pensiero politico-culturale di questo periodo, riconducibili
ad una visione neoliberista: prime fra tutte una visione semplicistica del mercato come quell’istituzione
“naturale” che, lasciata a sé stessa, in assenza di ingerenze dei pubblici poteri, è in grado di assicurare il
massimo benessere individuale e sociale. Si è proceduto, nel nome di questa visione, largamente egemone
in questi anni, lungo la strada della moderazione salariale e della flessibilizzazione del mercato del lavoro, si
è esaltato il ruolo del risparmio nel favorire la crescita, si è stigmatizzato l’intervento pubblico, considerato
al tempo stesso inefficiente e controproducente, si è teorizzato lo Stato minimo con la demonizzazione del
sistema d'imposizione fiscale e la destrutturazione dello Stato Sociale.
E la stessa crisi scoppiata nel 2008 può essere ricondotta in buona parte all’applicazione dei dogmi
neo-liberisti: la sua origine viene proprio da salari sensibilmente inferiori al tasso di crescita della
produttività, compensati, in particolare negli USA, con una politica del prestito facile, in un contesto
finanziario ormai senza vincoli nazionali dominato da diffuse opacità, da estrema volatilità e dal feticcio
della liquidità degli strumenti finanziari. Anche Obama, nel suo recente discorso in Kansas, ha evidenziato
questi aspetti negativi nello sviluppo economico dei recenti anni. Tutto questo ha generato crescenti
disuguaglianze, divari eccessivi fra i redditi da capitale e da lavoro, e squilibri internazionali difficilmente
sostenibili nel lungo periodo.
Le caratteristiche di questo quarantennio però non sono riducibili esclusivamente ai processi di
globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia, o a una rivoluzione politica conservatrice, ma sono il
frutto di un mutamento in buona parte “endogeno”, nel senso che è conseguenza del procedere della
divisione del lavoro (nazionale e internazionale) e del progresso tecnologico e, in buona parte, figlio della
degenerazione degli assetti sorti nel dopoguerra. Insomma, hanno giocato un ruolo decisivo l'evoluzione
nei consumi, nelle classi sociali, nelle produzioni, l'emergere delle economie del terzo mondo, Cina e India
in testa, gli enormi sviluppi nella tecnologia dei processi produttivi e nel sistema delle comunicazioni.
Un peso decisivo ha avuto l’evoluzione della struttura sociale dei paesi occidentali. Già all’inizio degli anni
’70 era chiaro che il benessere generato durante il boom del secondo dopoguerra e l’avanzare spedito del
processo di divisione del lavoro avevano prodotto, come risultato, l’estensione di un ceto medio
enormemente differenziato al livello di reddito, al livello culturale, di stili di vita, ecc. E' proprio l’espansione
del ceto-medio, con la connessa crescente domanda di remunerazione selettiva, che costituisce la pulsione
disgregatrice principale degli assetti emersi dalla II guerra mondiale. Un altro aspetto dell’evoluzione della
struttura sociale è stato l’aumento del peso della rendita finanziaria nella distribuzione del reddito (e quindi
anche del peso politico), per cui il modello principe dell'impresa capitalistica è diventato la società per
azioni e l’attenzione dei risparmiatori si è spostata dalla valutazione della redditività dell’investimento alla
previsione di come i mercati avrebbero valutato il prezzo di un’attività, rendendo estremamente volatili i
prezzi (e specularmente il rendimento degli investimenti) e richiedendo un elevata liquidità degli strumenti
finanziari. Con il soddisfacimento generalizzato dei bisogni primari connesso al crescente benessere, sono
emersi poi prepotentemente nuovi bisogni eterogenei: si è passati dalla società di massa alla società
dominata dagli status symbol, dove i “creatori di simboli” (calciatori, pop-star, uomini dello spettacolo,
grandi pubblicitari, top manager, ecc.) sono diventati la nuova classe di super ricchi.
Se leggiamo i “Trent’anni” puramente con la chiave interpretativa del liberismo, senza indagare sulle
mutazioni sociali, non riusciamo a collocarvi il fenomeno Berlusconi. Egli vuole il laissez faire, laissez passer
solo per quanto riguarda la sua attività di imprenditore, ma non è contrario ad interventi pubblici di
sostegno a specifiche attività, come il sostegno finanziario alla diffusione dei decoder per la televisione
digitale terrestre o come addossare allo stato le passività Alitalia; non si pone certo problemi d’identità
politica quando le politiche del suo governo si muovono in direzione contraria a quei principi tipicamente
liberali di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge e di eguaglianza nei punti di partenza; non si può certo
dire che sia stato attivo nel realizzare concretamente quella teorica “concorrenza perfetta”. E' stato
piuttosto il garante di una serie di interessi del capitalismo italiano, dei ceti piccolo-imprenditoriali del nord
e della vecchia classe dirigente del sud, al crocevia fra istanze modernizzanti, reazioni difensive alla
globalizzazione, vecchio clientelismo all'ombra del potere pubblico e degli enti locali.
In questo scenario, la crisi della sinistra nasce in quella che è stata chiamata “crisi fiscale dello Stato
Sociale”. Si è cioè diffusa nell’opinione pubblica la convinzione che il crescente prelievo fiscale era solo in
parte il corrispettivo di prestazioni sociali utili, ma in parte significativa derivasse dagli sprechi connessi ad
una degenerazione burocratica dello Stato Sociale, al servizio non del cittadino ma del pubblico impiego:
una burocrazia pubblica volta unicamente a auto-perpetuare se stessa nei suoi privilegi, a spese dei
lavoratori. Piuttosto che per il carattere convincente delle sue ricette iperliberiste, la “rivoluzione
conservatrice” ha avuto buon gioco perché ha denunciato mali evidenti a tutti, davanti ai quali le forze
progressiste, soprattutto quelle di matrice socialdemocratica, non riuscivano, per limiti culturali e assetti
sociali e organizzativi consolidati (in primis il rapporto con i sindacati), ad elaborare una risposta. La sinistra
occidentale, infatti, aveva creduto, fin dalla I guerra mondiale, di bilanciare la scelta di campo dell'economia
di mercato con l’idea che in un sistema capitalistico il progresso civile e lo sviluppo della democrazia
derivassero da un’espansione della sfera pubblica. Da questa incapacità della sinistra è derivato anche un
fondamentale spostamento a destra dei ceti popolari e produttivi.
Un altro grande problema che ci lascia aperto questo ciclo quarantennale è quello dell’assetto democratico
delle società occidentali, e in primo luogo di quella italiana, in cui questo problema fa tutt’uno col dibattito
sulla c.d. “Seconda Repubblica”, cioè questo periodo di incertezza culturale e istituzionale sui caratteri della
nostra democrazia che perdura ormai da diciassette anni. E' innegabile che abbiamo assistito su scala
europea ad una trasformazione del sistema democratico che investe sia il modo di concepirne il
funzionamento, sia il suo concreto funzionamento e che riguarda tutti gli elementi costitutivi del sistema: le
istituzioni e i poteri che rappresentano, i partiti, la società. Quali sono i contenuti di questa trasformazione?
1. La verticalizzazione della leadership, il mito del decisionismo e la conseguente personalizzazione
della politica nati come risposta alla richiesta di maggior efficienza, velocità e capacità di decisione
nei processi decisionali. Ne è derivato un modello di partito incentrato sulla figura del leader che,
sciolto dalla logica complessa dell’organizzazione, si rapporta direttamente con i media per attirare
il gradimento di un’opinione pubblica ritenuta ondivaga. Parallelamente all’indebolimento della
membership e al processo di accentramento verticistico, i partiti hanno dovuto lasciare ampio
margine di manovra ai leader locali, che sono venuti naturalmente a coincidere con gli
amministratori; un duplice processo che ha portato ad un partito del leader al livello nazionale e ad
un partito degli eletti al livello locale.
2. Una scarto tra la costituzione materiale e quella formale, prodotto soprattutto tramite le leggi
elettorali e il comportamento dei partiti, che è consistito nello svilimento della democrazia
parlamentare e nello scivolamento in una forma di presidenzialismo di facciata non regolato, in cui
la distinzione tra potere legislativo e potere esecutivo si è fatta labile.
3. L’emergere, il diffondersi e il radicarsi nel senso comune di una retorica antipolitica basata su una
contrapposizione artificiosa tra società partitica, descritta come casta impegnata esclusivamente a
perpetuare se stessa nei suoi privilegi, e società civile. Alla democrazia “partitocratica” (cioè la
democrazia rappresentativa di rilievo costituzionale) si oppone una fumosa democrazia “reale” o
“partecipativa”, emblematizzata da internet, ma che alla prova dei fatti si riduce spesso a
manifestazioni di gradimento, di sapore plebiscitario, verso il capopopolo di turno.
LA CITTADINANZA DEL XXI SECOLO: IL RUOLO DI UNA GENERAZIONE
POLITICA
“È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la
libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva
partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” Art.3
Costituzione della Repubblica Italiana
PREMESSE

All’Italia ed all’Europa spetta oggi fare scelte di fondo che chiudano questo ciclo quarantennale e
ne aprano un altro. Queste scelte determineranno verso quale modello di società il nostro paese
vuole tendere. Non bisognerà fare lo stesso errore del 2008, quando si pensava, di fronte alla
catastrofe della crisi economica, che fosse sufficiente l’evoluzione naturale degli eventi per
sconfessare un pensiero trentennale: un nuovo corso non sorgerà automaticamente dal fallimento
del vecchio, ma c’è bisogno di una visione politica di fondo che guidi coscientemente i processi
politici ed economici. Ma, per questo, è necessario in primo luogo recuperare una concezione di
politica come il compito storico che abbiamo davanti, rigettando quella visione che riduce la
politica ad ordinaria amministrazione.
Noi siamo dentro la storia e rifiutiamo il massimalismo e l’antagonismo: siamo figli dello storicismo
e del materialismo storico, dell'idealismo crociano, del pensiero cattolico democratico, dell'etica
kantiana della responsabilità, dell'illuminismo repubblicano. I nostri punti di riferimento sono
l'antifascismo e la Costituzione repubblicana. Solo così, con il recupero della responsabilità morale
e delle radici storiche della politica, è possibile chiudere questo ciclo quarantennale e porre le basi
per un mondo più giusto, più equilibrato. Riscopriamo quindi i motivi per una rinnovata militanza in
un’organizzazione giovanile: il ruolo generazionale come ruolo storico, perché noi vogliamo
cambiare il mondo. E proprio per poter svolgere questo ruolo, nella società odierna, abbiamo
bisogno dei Giovani Democratici come organizzazione giovanile di massa, capace di penetrare in
ogni piega della società e di esercitare una direzione politica dei processi.

Al comunitarismo e all'individualismo contrapponiamo la società plurale e solidale e
l'emancipazione della persona nelle sue relazioni sociali. Società plurale e solidale vuol dire
riconoscere il valore delle differenze religiose, culturali, di genere, proprie dell'individuo, nel nome
di principi etici condivisi e del metodo democratico, propri di una società. E si deve accompagnare
allo sforzo collettivo della società e delle istituzioni per mettere ognuno nelle condizioni di
esprimere la sua libertà senza soggezioni: la dignità dell’uomo conosce continuamente nuove sfide
e continuamente è messa in pericolo in forme inedite. Oggi si rischia, ad esempio, una nuova
profonda frattura sociale tra chi è padrone di un sapere e chi ne è succube, tra chi è incluso in un
processo di apprendimento e chi ne è escluso, con un ampliamento delle disuguaglianze di reddito,
giacché la quantità del lavoro è sempre meno misura della sua remunerazione, che viene
maggiormente a dipendere dalla qualità, dalla qualificazione e dalla responsabilità nel processo
produttivo. Libertà ed emancipazione sono l'unico modo per permettere all'uomo di sviluppare la
propria soggettività in costante relazione con gli altri.
LA CITTADINANZA DEL XXI SECOLO FRA EUROPA E ITALIA

Noi siamo la polis, e siamo cittadini di questo mondo, anche se cittadini “incompiuti” a causa di
una rappresentanza politica privata di mediazioni e ridotta al populismo, di un patto sociale rotto
dalla precarietà e dalla disoccupazione senza opportunità e diritti, dell'istruzione statale indebolita
dai continui tagli, non adeguata al suo ruolo nella società. Il ruolo di supplenza, spesso svolto, in
Italia, da famiglie, partiti, comunità locali, Chiesa, non è più sufficiente, perché anche quelle
istituzioni sono parzialmente in crisi, indebolite da questo ciclo storico-politico. Affermare la
cittadinanza del XXI secolo è quindi il compito di una generazione politica, perché è passaggio
necessario per ricreare quel rapporto fra individuo e società che consenta al più debole di uscire da
una condizione di subalternità, per affermare le possibilità di sviluppo della persona umana e
l’effettività e la pienezza della partecipazione democratica. Servono istituzioni nuove e modelli di
sviluppo adeguati alle sfide della globalizzazione e della società odierna, e per affermarli non basta
un programma, ma serve la capacità collettiva di aprire un terreno di riflessione e di azione politica
che coinvolga direttamente la mappa dei poteri italiana, stimolando processi di cambiamento in
tutti gli spazi democratici del vivere civile. Significa disegnare il perimetro di una battaglia politica
che tenga assieme una costante tensione alla democrazia con la sfida per uno sviluppo
economico-sociale equo e sostenibile, in cui società della conoscenza, welfare universalistico,
riforma dell’istruzione siano aspetti strettamente intrecciati che non possono camminare
disgiuntamente. Su queste basi possiamo essere in grado di mobilitare un paese intero verso una
riscossa civile e offrire una piattaforma credibile per una generazione che deve pensare e mettere
in moto una politica diversa da quella egemonizzata dal berlusconismo.

La prima questione per ripensare la cittadinanza del XXI secolo è interrogarci su dove risieda la
sovranità oggi e sulla legittimità democratica delle decisioni politiche. Il processo di declino degli
Stati-nazione, privi della possibilità di fare guerre e di conquistare colonie, non ha parallelamente
lasciato spazio ad altri luoghi sovrani per risolvere i conflitti e pianificare il futuro. La sovranità
europea è l'obiettivo, che deve essere raggiunto favorendo opportunità d'accesso indiscriminate
alla dimensione europea e integrando i sistemi politici, economici, sociali e culturali. L’Europa non
deve più essere, com’è stato nella logica neoliberista che l’ha guidata negli anni ’90-‘00, solo il
luogo delle elites economiche e politiche, il luogo della negoziazione intergovernativa, ma deve
essere sempre più uno spazio comune, dove far sviluppare nell’opinione pubblica un’agenda
politica condivisa sul futuro dei paesi UE e sul ruolo che essi devono svolgere nel mondo, dove si
devono intrecciare sempre di più sensibilità culturali, processi economici, esperienze di vita. E’
l’unico modo per evitare il risorgere di nazionalismi o pericolose derive xenofobe, come sta invece
accadendo in Ungheria o come lasciano presupporre le inquietanti reti di complicità dietro
l’attentato in Norvegia. Sul terreno strettamente politico, la questione è superare la dimensione
intergovernativa del governo dell'Unione Europea e rafforzare i partiti europei e il loro luogo di
confronto, il parlamento.

Il dibattito ad oggi in Europa è tutto incentrato sull'agenda imposta dai conservatori, sul falso
dilemma fra stabilità e crescita, sull’austerità fiscale come panacea a tutti i mali. La spinta verso
riforme internazionali incisive della regolamentazione finanziaria, che era forte al sorgere della crisi,
va via via indebolendosi man mano che il comparto finanziario sembra riacquistare profili di
maggiore stabilità, e i risultati del G20 rimangono deludenti. Infine, di fronte alle prime difficoltà di
bilancio derivanti dall’aumento dei deficit pubblici e dall’arresto della crescita, l’Europa si è
arroccata nuovamente in una visione monetarista: stabilità monetaria e tagli. Visione che non fa
che alimentare la spirale recessiva. Il punto dovrebbe essere, invece, la costruzione del modello
sociale europeo, nell'ottica non solo dell’apertura dei mercati, ma della convergenza dei sistemi
economici e dell'armonizzazione delle politiche economiche e sociali attraverso una governance
economica europea, a partire dalla gestione comune del debito e da investimenti comuni
(eurobond, riforma della BCE), per una cittadinanza veramente europea. Deve essere fondato su
politiche pubbliche per uno spazio europeo della ricerca e dell'innovazione, e portare ad uno
sviluppo incentrato sulla domanda e sulla riduzione degli attuali squilibri fra paesi e dentro i paesi.
CRISI DELLE ISTITUZIONI E CRISI ECONOMICA

Riforma delle istituzioni, elemento necessario per affermare una rinnovata cittadinanza, significa
ripensare lo spazio democratico, e definire ruolo, regole e confini dello Stato, degli enti locali, del
mercato, dei partiti, della società intesa nei suoi mille rivoli diversi. Non possiamo disgiungere
l'obiettivo di una nuova legge elettorale, che faccia ritrovare una capacità di rappresentanza dei
partiti in Parlamento e assicuri la governabilità, o il diritto di voto da attribuire ai residenti stranieri
in Italia, da liberalizzazioni che amplino gli spazi del mercato in settori non caratterizzati da
monopoli naturali o da un sistema fiscale che sposti il peso della tassazione sulle rendite finanziarie
e immobiliari, o altri esempi similari, perché la questione è come orientare sempre più in chiave
democratica la mappa dei poteri italiana nell'ottica della capacità del sistema di assumere un ruolo
nel contesto europeo e mondiale. Efficienza, equità e democrazia vanno di pari passo per creare
una società più giusta e ridare all'Italia una spinta propulsiva di cui le giovani generazioni hanno
bisogno.

Negli anni '90 e 2000 la forbice delle disuguaglianze è cresciuta enormemente, e la crisi ha
impattato su una situazione già socialmente difficile, costringendo alla chiusura migliaia di imprese
e aumentando vertiginosamente le ore di cassa integrazione e i licenziamenti. I risparmi delle
famiglie, in Italia consistenti, si stanno assottigliando e rischiano nei prossimi anni di non riuscire
più a svolgere quella funzione di ancora di salvataggio rispetto a un welfare strutturalmente
inadeguato. I più penalizzati, da questo punto di vista, sono i giovani e le donne. Questa è
l'emergenza: misure di protezione sociale, lavoro e piccole opere, sostegno ai consumi per le fasce
deboli, per far ripartire la domanda interna, senza la quale non vi è una crescita endogena.
SOCIETA’ DELLA CONOSCENZA E WELFARE UNIVERSALE

Davanti ai cambiamenti nel sistema economico mondiale degli ultimi decenni, i paesi europei
possono scegliere tra due vie: lo sfruttamento del lavoro, in un processo di ricambio sempre più
frequente della forza lavoro occupata, mirando ad una competizione di prezzo sui mercati
internazionali, oppure l’arricchimento e la riqualificazione continua del lavoro, interpretando la
flessibilità come mobilità sostenuta da un elevato patrimonio professionale e mirando ad una
competizione internazionale basata sull’innovazione. Puntare sull'innovazione di prodotto e di
processo, che poi vuol dire creare la società della conoscenza. Non basta investire su scuola,
università e ricerca (che pure è indispensabile), ma attrezzare un contesto complessivo favorevole a
questa trasformazione del sistema produttivo italiano, compresa la valorizzazione del lavoro, la
formazione, le infrastrutture, amministrazioni trasparenti ed efficienti, un sistema finanziario
efficiente. Il corollario è favorire una nuova imprenditorialità e l’apertura di una pagina più
avanzata del capitalismo italiano, che coniughi territorio, vocazione sociale, apertura
internazionale, capacità di fare rete, rapporti con gli enti di ricerca, e consideri il lavoro come snodo
fra queste relazioni. Quindi, per fare due esempi di cui si discute molto, a cambiare deve essere non
solo il diritto del lavoro o il sistema d’istruzione, perché la scelta rispetto a quale modello di
sviluppo tendere non è una questione tecnica o economicista e che consegna alla politica solo una
parzialità di problemi separati da affrontare e risolvere rispetto a interessi contrapposti. La scelta
sul modello di sviluppo è, invece, il crinale sul quale passa la differenza fra reazione e democrazia,
fra chi vuole mantenere il potere concentrato in una mappa predefinita ed esclusiva di relazioni e
chi pensa, nell’incessante movimento della storia, ad un’evoluzione democratica delle relazioni
politiche all’insegna dell’inclusione sociale. In questo senso la società della conoscenza può essere,
prima di tutto, la forma di un nuovo compromesso fra capitale e lavoro, in cui il rapporto non sia
più quello di dipendenza del lavoro dal capitale in cambio di una serie di diritti.

Esiste quindi una tendenza potenziale, consistente nella possibilità di superare il lavoro “astratto”, il
lavoro meramente esecutivo, con il lavoro come espressione della creatività e delle qualità della
persona. Questa tendenza si scontra da un lato con le contraddizioni presenti nella gestione
d’impresa, in molti casi ancora legata ad un’organizzazione del lavoro di tipo tayloristico, e dall’altro
con una ideologia della flessibilità che ha portato alla moltiplicazione delle forme contrattuali e ai
tentativi di competere esclusivamente sul costo del lavoro. Il lavoro oggi, invece, non può più
essere inteso solo come fonte di reddito per consumi, ma come realizzazione della personalità e
contributo alla società. Il paradigma della società dei consumi sta crollando con il lento assottigliarsi
in questi anni della classe media, che sta perdendo la funzione di classe generale e vede messa in
crisi la sua stessa identità, ma ancora permangono le contraddizioni esplicitate sopra. Il
riconoscimento di questo valore sociale del lavoro deve essere fondamento del patto sociale di
diritti e doveri della cittadinanza moderna. Vuol dire abbandonare il dualismo del mondo del
lavoro, a cui si aggiunge la posizione peculiare dei lavoratori stranieri, confermare il contratto unico
nazionale, riportare il lavoro flessibile ad una dimensione interna alle imprese, affrontare la
questione di un nuovo welfare che accompagni i percorsi lavorativi individuali, ripensare l’impresa
e le forme di distribuzione del profitto.

Il PD e i GD hanno cominciato da tempo a dare risposte chiare su alcuni dei problemi legati alla
società della conoscenza: l’urgenza sociale di un forte investimento in istruzione che garantisca
l’effettività del diritto allo studio, la necessità che un’ora di lavoro flessibile costi più di un’ora di
lavoro stabile, ecc. Si tratta di capire che tutto ciò ha un senso solo se l’uniamo ad una riflessione
sulla rinascita del sistema di welfare, abbandonando l’assetto laburistico-corporativistico per una
complessiva evoluzione in senso universalistico.
In particolare, a causa delle mutazione del mondo del lavoro, all’interno del sistema di welfare è
assolutamente prioritario riorganizzare il sistema degli ammortizzatori sociali. L’affermazione di
schemi di ammortizzatori sociali universalistici significa, nel concreto: scollegare la titolarità dei
diritti delle prestazioni del sistema di welfare sia dalle appartenenze lavorative, che oggi rischiano
di rivelarsi sempre più instabili, sia dalle diverse posizione contributive, che divengono prive di
senso ove si consideri l’estensione del lavoro parasubordinato; in un’ottica di solidarietà, significa
finanziare le prestazioni tramite la fiscalità generale; significa strutturare un sistema di politiche
attive del lavoro, da affiancare alla tradizionali prestazioni monetarie a titolo di sostegno al reddito
o a copertura del rischio di disoccupazione, di modo da consentire una continua riqualificazione
della forza lavoro e da incrementarne la possibilità di essere nuovamente occupati (quest’ultimo
aspetto fa tutt’uno con la costruzione di un sistema di formazione continua).
L’ISTRUZIONE NEL DOPO QUARANTENNIO

Per costruire la cittadinanza del XXI secolo non si può prescindere da un ripensamento del sistema
d’istruzione italiano. In particolare, la scuola italiana è ancora una scuola profondamente classista,
sia perché l’impianto fondamentale gentiliano ha resistito ai successivi interventi sulla scuola, sia
perché risulta profondamente inadeguata a rispondere ai mutamenti negli assetti economici e
sociali intervenuti nell’ultimo quarantennio. Il riferimento fondamentale è allora ancora all’Art. 3,
co. II, Cost. Se con questo articolo si riconosce l’esistenza di situazioni di diseguaglianza di fatto e se
si assegna alle istituzioni il compito di rimuovere tali situazioni, allora il sistema d’istruzione diviene
una delle principali forme concrete con cui le istituzioni provvedono allo sviluppo della persona e
alla creazione del legame di cittadinanza che è al centro del rapporto fra individuo e società.
In particolare vanno assolutamente innalzati a 10 gli anni d’istruzione uguali per tutti. Non si può
pensare, infatti, ad un’istruzione limitata alla formazione professionale, sia pure intesa in senso
ampio come preparazione del lavoratore ad un certo ruolo lavorativo. L’istruzione deve andare
oltre, e questo è il primo motivo per cui deve essere pubblica, poiché il mercato favorirebbe
soprattutto la formazione professionale. L’istruzione ha poi la funzione perequativa di limitare il
rischio che la differenziazione delle qualifiche lavorative, e la stratificazione sociale che ne deriva,
tendano a cristallizzarsi. È dunque fondamentale un periodo iniziale il più lungo possibile (al limite
coincidente con la scuola dell’obbligo) di istruzione generale, prima che le strade formative si
separino a seconda degli indirizzi professionali prescelti. Non si possono disgiungere questi
necessari provvedimenti da una urgente riforma dei contenuti dell’insegnamento volta ad un
integrazione (e non ad una separazione) dei saperi, all’interdisciplinarità, a far maturare
competenze più che a trasmettere conoscenze. Ma non si può prescindere neanche da un serio
sistema di valutazione del sistema d’istruzione, degli istituti e della classe docente.

Bisogna, inoltre, rimettere al centro la ricerca e l’università italiana mediante il recupero della sua
funzione pubblica ed istituzionale, intesa come principale fonte di sviluppo sociale, culturale ed
economico del paese e di costruzione delle opportunità per la realizzazione del principio di equità e
di mobilità sociale. Non siamo ancora arrivati cioè a costruire l’università di massa, al tempo stesso
guida e servizio del proprio territorio e laboratorio funzionale ad un modello di sviluppo incentrato
sull’innovazione.
Le risposte date negli ultimi anni si collocano in totale controtendenza rispetto alla necessità di un
aumento delle opportunità; infatti le risorse per il diritto allo studio sono diminuite in modo
drammatico: il governo uscente ha previsto un taglio del 95% al fondo integrativo per il diritto allo
studio, le cui risorse dal 2010 al 2013 passeranno da 150 milioni di euro a poco più di 10 milioni.
Oggi l’Italia continua a gestire il sistema universitario seguendo logiche burocratiche che lo hanno
svuotato di gran parte della propria autonomia e funzione. Il potere centrale, negli ultimi anni, ha
avviato un processo di centralizzazione che ha ottenuto come unico risultato un conflitto perenne
con il mondo accademico, senza peraltro riuscire a riformarlo ed a limitarne i vizi; l’università è
stata governata male e le esigenze della formazione sono passate in secondo piano rispetto alle
necessità di controllo della spesa. Il disegno di legge Gelmini rappresenta l’esasperazione di queste
logiche burocratiche, senza puntare, piuttosto, a “forme evolute di autonomia”, che possano
rendere effettivo un percorso di sviluppo dell’università e della ricerca pubblica in Italia da
realizzarsi all’insegna del principio di “autonomia e responsabilità”.
Bisognerebbe, infatti,
introdurre una seria valutazione, come uno dei criteri per l’assegnazione delle risorse, che dovrà
riguardare tanto la ricerca scientifica quanto i servizi ed il sostegno agli studenti.
Una vera riforma dell’università deve puntare alla valorizzazione dei saperi acquisiti e deve
consentire a ciascuno, al di là delle condizioni socio-economiche di partenza, di realizzarsi e di
sprigionare le proprie energie: una riforma fondata sulla “libertà dal bisogno”, in cui i capaci e
meritevoli, anche se privi di mezzi, possano raggiungere i massimi obiettivi e realizzarsi nel mondo
del lavoro mediante l’opportunità di svolgere un lavoro qualificato. La politica deve farsi carico di
un’inversione di tendenza, promuovendo delle politiche pubbliche che, a partire da un adeguato
investimento finanziario e senza intaccare l’autonomia e strangolare l’università italiana, riescano
ad incentivare l’università ad investire nel welfare studentesco, sulla qualità dell’offerta formativa e
sulla valorizzazione delle menti migliori, assicurando così un ricambio generazionale in grado di
sostenere il carico di responsabilità della costruzione di un futuro migliore per il nostro paese.
CONCLUSIONI
L’AZIONE DEI GIOVANI DEMOCRATICI
Se interpretiamo come ruolo storico la nostra funzione di organizzazione giovanile, e i ragionamenti
proposti in quest’elaborato vanno esattamente nella direzione di aprire un confronto su quale sia il ruolo di
una generazione politica, allora è chiaro che dobbiamo mettere in campo anzitutto una battaglia culturale e
politica capace di far maturare nelle giovani generazione quella “coscienza”, visione più profonda di scopi e
di fini, che non è solamente esperienza di rivendicazione di interessi contingenti o di amministrazione del
quotidiano.
Il senso di un'organizzazione giovanile, che la distingue rispetto a un semplice dipartimento giovani del
partito, in fondo è questo: non semplicemente una struttura, in cui l'iniziativa si costruisce rispetto a
un'agenda imposta dal partito o dalla politica quotidiana e che vive come somma di singole esperienze, ma
un corpo collettivo che si mobilita organicamente rispetto a un obbiettivo comune. Ogni iscritto, ogni
dirigente, si deve sentire soggetto attivo e protagonista della sfida politica dei Giovani Democratici e deve
vivere la propria militanza all’insegna dei principi e degli obbiettivi che l’organizzazione vuole
rappresentare; dentro una discussione collettiva contribuisce a determinarne la linea politica e deve
incarnarla poi nell’iniziativa politica nei GD, nel PD e nella società. Ognuno di noi si deve sentire
responsabile rispetto al progetto politico dei Giovani Democratici, come spazio comune di rappresentanza
politica di una generazione e come soggetto che vogliamo investire di un ruolo centrale nella vita politica
italiana. I Giovani Democratici siamo noi.
Il congresso, in questo percorso, sarà un momento di crescita collettiva importante, perché ci permetterà di
mettere a sistema le cose fatte in questi anni e ci aiuterà a rafforzare il profilo e a definire meglio il ruolo
dei Giovani Democratici.
Dovrà vivere nell’attuale fase di grande cambiamenti politici, a partire dal cambio di governo e di
maggioranza parlamentare in Italia. Il crollo del governo Berlusconi e la formazione del governo Monti
hanno determinato sicuramente un quadro diverso della politica nazionale col quale doverci confrontare,
ben sapendo che le questioni di fondo, anche per la natura strettamente parlamentare dell’attuale
governo, rimangono, perché riguardano elementi che permeano profondamente la nostra società.
Allo stesso modo, non potremo non interrogarci sul movimento del 15 ottobre. Sbaglieremmo a darlo
prematuramente per morto dal momento che gli argomenti di quella protesta rimangono validi e che, negli
USA, si agitano ancora movimenti gemelli. Nel riconoscerne l’importanza e gli elementi innovativi, non
dobbiamo però nasconderci i suoi limiti, fra i quali, oltre alla presenza di quelle frange più violente che
hanno infiammato p.za S.Giovanni il giorno della manifestazione, una diffusa tendenza all’antagonismo e
alla delegittimazione dei partiti. Dobbiamo, però, comunque confrontarci con le istanze e i problemi che
quel movimento ci sottopone e con le realtà politiche che lo animano, partendo da un nostro punto di vista,
e i ragionamenti che abbiamo voluto affrontare nel documento e che andranno arricchiti e sviluppati in una
discussione congressuale sono un buon punto d’inizio.
Partiremo dalla cose fatte in questi anni, come la costituzione dei soggetti studenteschi nazionali, RUN e
FdS, per affrontare un dibattito che stia nella vita e nei problemi di una generazione. Un dibattito che ritrovi
le giuste categorie d’analisi per un confronto democratico. In questi anni, dentro il Partito Democratico, in
particolare nel Lazio, ne abbiamo sentite di tutti i colori, e troppo spesso ci si è soffermati su questioni
marginali, che poi hanno impedito al partito di svolgere fino in fondo il suo ruolo. Non dovremo
commettere lo stesso errore: partiamo dalle questioni che riguardano il paese e la nostra generazione, e
non sbaglieremo.
I circoli sono il primo soggetto dei Giovani Democratici, e il luogo dove vivono le sue politiche. La
piattaforma, le battaglie politiche, i principi, devono vivere dal livello nazionale fino al territorio, in un
continuo interscambio di idee e progetti, nella consapevolezza però che i GD sono un'unica organizzazione,
dalla Valle d'Aosta alla Sicilia, e che questo carattere nazionale è il suo principale valore. I circoli hanno il
compito primario di riportare le battaglie politiche nazionali dentro le diverse realtà territoriali, costruendo
iniziative politiche che vadano nella giusta direzione, perché se non faremo vivere la riflessione sulla
cittadinanza del XXI secolo a partire da ogni territorio non riusciremo mai a consolidarne la prospettiva
politica. In questo è importante il ruolo di un livello nazionale che sia di continuo stimolo e supporto
formativo, ma anche avere dei circoli ricettivi, presenti nel territorio in cui operano e partecipi della vita
interna dei GD. Le nostre sezioni, inoltre, devono sempre più tornare ad essere un punto di riferimento,
dove, in un momento di crisi sociale, poter fare un’aggregazione giovanile aperta anche a stimoli diversi,
culturali, sociali, di volontariato, e dove poter offrire servizi di cui c’è necessità, che non vengono erogati sul
mercato, se non magari a prezzi per molti inaccessibili, o ai quali il pubblico non provvede a sufficienza.
Ciò significa valorizzare l’esperienza della militanza, impiantandola su basi politiche più profonde, dandosi
come obiettivo operativo immediato quello di aderire ad ogni piega della società. È in questo modo che noi
portiamo dal cielo alla terra il “radicamento”, attraverso la militanza cosciente e una presenza nella società
ad ogni livello.
Ciò significa in termini molto pratici anche tornare ai fondamentali della politica: i volantinaggi, i porta a
porta, le feste in piazza, il contatto diretto e costante con i cittadini, la presenza nei luoghi di studio e di
lavoro, sono, prese singolarmente, piccole cose, ma che nell’insieme danno la misura di un’organizzazione
che ha il cuore pulsante della sua attività in una militanza che vuole intraprendere con la società
un’interlocuzione su questioni più ampie della miseria quotidiana, sui nostri destini comuni, segnando il
passo rispetto ad un partito ancora troppo spesso ripiegato su se stesso. Il radicamento politico può essere
quindi il criterio metodologico con il quale misuriamo la nostra iniziativa; un’iniziativa potrà dirsi riuscita se
sarà servita ad accrescere iI nostro radicamento, aiutandoci a penetrare in profondità nelle realtà
territoriali, a diffondere un messaggio nei luoghi della nostra generazione, ad intrecciare rapporti politici
con realtà attive dei nostri comuni, a creare partecipazione.
È in questo senso che assumono un ruolo rilevante le nostre associazioni studentesche ed universitarie.
LA FEDERAZIONE DEGLI STUDENTI
Il nostro punto di partenza per definire un lavoro da fare nelle scuole deve essere la funzione della scuola in
quanto palestra di democrazia, cioè luogo dove gli studenti diventano cittadini, dove si forma in nuce la
coscienza politica di ognuno. E allora il nostro lavoro nelle scuole deve essere tarato proprio su questa
funzione politica del luogo-scuola: non solo sensibilizzare, non solo agitare, non solo rivendicare, ma
politicizzare, favorire la partecipazione degli studenti alla vita democratica del paese, forgiare la coscienza
civile, politica e generazionale.
Di fronte ad un berlusconismo strisciante, di fronte all’identitarismo goliardico dei neofascisti, di fronte
all’offensiva culturale leghista, di fronte all’indifferenza e alla cultura dell’opportunismo, il nostro compito
nelle scuole sarà quelle di creare una mobilitazione culturale permanente, che sia il terreno fertile su cui
possa crescere una generazione che sceglie la via dell’impegno.
È su queste basi che abbiamo impostato la nostra associazione studentesca, la Federazione degli Studenti,
come associazione politica di sinistra degli studenti. Proprio per questa sua natura, essa non rivolgersi solo
agli studenti che hanno già fatto una scelta di campo, ma vuole politicizzarne di nuovi. Allo stesso modo un
partito politico come il nostro non parla solo alla platea dei suoi elettori, ma parla al paese tutto, perché il
suo obiettivo è creare consenso crescente. Ma nel parlare al paese, il Partito Democratico non rinuncia alla
sua identità. Allo stesso modo i GD, tramite FdS, possono rivolgersi a tutti gli studenti, senza per questo
rinunciare alla loro identità. Ma, anzi, facendone un punto di forza. La Federazione degli Studenti vuole
essere, quindi, lo strumento con cui lavoriamo quotidianamente nelle scuole, con cui aderiamo ad una
piega rilevante della nostra società.
Un soggetto che recupera la dimensione di associazione di istituto, senza per questo rinunciare ad un
deciso profilo politico di carattere nazionale. Un soggetto che non è un think-tank esistente solo al livello
“dirigenziale” o una struttura ipertrofica e burocratizzata, ma che, al contrario, fa della rappresentanza
studentesca uno dei momenti più importanti della sua attività, non per fare il risiko sulle postazioni,
giocando a contarsi, ma perché gli studenti devono sentirsi parte attiva del funzionamento del sistema
scuola, tanto più in quella scuola dell’autonomia che ha sempre avuto in mente il centrosinistra.
LA RETE UNIVERSITARIA NAZIONALE
L’ università è uno dei luoghi privilegiati dell’aggregazione giovanile e fucina nella quale si forgia il futuro
delle generazioni più giovani ed una coscienza politica e sociale. L’agire politico nei luoghi del sapere è
un’opportunità di crescita collettiva che ha una funzione importante, sia dal punto di vista interno
all’organizzazione giovanile sia dal punto di vista del rapporto tra politica e società. Affrontare le politiche
universitarie, andando oltre la logica sindacale della pur giusta difesa dei diritti degli studenti, consente di
costruire un’idea di società e di conoscenza più generale e sistemica. Per di più, farlo in forma organizzata
consente di realizzare un’azione condivisa, incisiva ed efficace, che permetta ai Giovani Democratici di
portare i propri contenuti in uno dei principali luoghi della nostra generazione.
La costituzione della Rete universitaria nazionale è stata una scelta significativa a livello nazionale dei
Giovani Democratici, perché mette in rete in un unico contenitore le differenti realtà studentesche che
fanno riferimento alla nostra organizzazione. È un soggetto in grado di raccogliere le istanze studentesche
attraverso il radicamento nelle singole realtà universitarie e la rappresentanza studentesca. Da queste
istanze, può fare elaborazione politica e mettere a sistema le varie esperienze. Riportare da un piano
particolare a uno più generale le politiche universitarie, in una chiave di confronto e dialogo con le
istituzioni, è un approccio completo, che contribuisce a fare dei Giovani Democratici un soggetto attivo di
cambiamento e di crescita a partire dai luoghi della formazione. Rappresenta una sfida importante che ha
contribuito a mettere in relazione sempre più stretta la nostra organizzazione con l’universo studentesco e
con i movimenti, con cui in questi anni si è riusciti a costruire alcuni percorsi condivisi.
La frammentazione e la disomogeneità di azione delle associazioni universitarie vicine ai GD, negli anni
passati, è stato uno degli aspetti deficitari della nostra organizzazione; la RUN, mettendo in rete i soggetti
già presenti negli atenei italiani, e creandone di nuovi, ha contribuito a generare le giuste sinergie e a
garantire coerenza e continuità all’azione.
La conoscenza è uno dei pilastri fondamentali dell’avanzamento sociale, culturale ed economico, e
l’università pubblica è il luogo di costruzione delle opportunità; dotarci degli strumenti necessari per
realizzare la nostra missione nei luoghi del sapere costituisce un mezzo per realizzare una società più giusta
ed un nuovo modello di sviluppo fondato sulla conoscenza.
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