INTRODUZIONE Nella realtà attuale vengono posti alla pedagogia una serie di problemi formativi (relativi sia all’individuo che al gruppo) ai quali è possibile trovare una soluzione partendo dal presupposto che la conoscenza del passato è essenziale per comprendere e agire sul presente. Proprio per questo motivo è importante individuare il percorso effettuato dalla pedagogia prima verso l’acquisizione di un autonomo statuto epistemologico a carattere scientifico, il quale ha posto la formazione come categoria reggente del mondo attuale dominato dalla complessità. Il termine pedagogia deriva dal greco pais, paidos (= fanciullo) e ha un duplice significato: - Pais, paidos + ago= condurre il soggetto verso l’acquisizione di una propria autonomia; - pais, paidos + logos= riflessione teorica su quelle che sono le finalità dell’educazione. il 1600 è stato un secolo molto importante perché l’avvento di una nuova scienza e di una nuova filosofia hanno contribuito a modificare il modo di procedere della conoscenza il quale – in campo scientifico- è stato esemplificato dalla fisica di Galileo Galilei; in ambito filosofico dalle idee di Bacone, Cartesio e Locke. Questi cambiamenti hanno avuto delle ripercussioni anche sulla pedagogia in quanto ebbe inizio il declino del paradigma metafisico-religioso mediante il quale era stata interpretata e classificata la conoscenza fino a quel momento; ci fu un declino dell’intellettuale rinascimentale; si affermarono nuovi modelli (come quello di Galilei nell’ambito della matematica e di Cartesio nell’ambito logico) e – infine- ci fu la specializzazione dei saperi. La pedagogia- che era sempre stata ancella della filosofia- nel momento in cui è stata travolta da questi cambiamenti ha abbandonato il suo percorso tradizionale e ha intrapreso due strade: una di natura sociale e una di natura scientifica, le quali sono confluite in due paradigmi: il paradigma scientifico e il paradigma socio-politico che hanno consentito alla pedagogia di diventare un sapere autonomo. Con il termine paradigma si intende una costruzione teorica attraverso la quale è possibile interpretare il mondo. Da ciò si evince che – da un lato- si è data molta importanza alla dimensione sociale dell’educazione, favorendo la costruzione di un paradigma socio-politico il quale intendeva la pedagogia come una disciplina legata alla filosofia politica. E a tale paradigma si sono ancorate le pedagogie di Marx, Rousseau, Kant, Gentile, Gramsci, i quali si proponevano tutti dei fini sociali. Dall’altro lato si delineò, prima con Comenio e dopo con Cartesio, un paradigma scientifico il quale ha assunto maggiore spessore con Locke, che ha eliminato l’influenza della predestinazione e aperto la strada all’acquisizione di una metodologia scientifica. Inoltre, il paradigma scientifico è stato molto importante perché ha permesso di costruire una nuova metodica di indagine dei fenomeni educativi e ha concorso a determinare un nuovo assetto del sapere pedagogico, articolato in più discipline definite scienze dell’educazione alle quali si è affiancata la filosofia dell’educazione che si connota come il pensiero critico sul senso di questo sapere e sul suo universo di valori. Il principio regolatore della pedagogia è l’emancipazione del soggetto, il quale tende alla formazione che Cambi ha definito il “volano di senso” della pedagogia. Per formazione si intende il processo attraverso il quale il soggetto scegli autonomamente il percorso da seguire, nonché la sintesi dell’aspetto sociale e scientifico della pedagogia. Infatti, non si può pensare alla pedagogia senza pensare alla formazione che ne ha accompagnato la storia, assumendo – di volta in volta- connotazioni aderenti ai contesti culturali delle varie epoche e dando vita a modelli come quello della paideia e della Bildung. La paideia, che intendeva la formazione come un processo culturale, è stata il principio regolatore della pedagogia occidentale sino all’avvento dell’età moderna, durante la quale c’è stata la nascita di una nuova cultura fondata sull’empirismo filosofico e sul mito della scienza. Tuttavia il declineo della paideia è durato poco in quanto nel 1700 Kant ha affermato la posizione di un nuovo umanesimo e ha avviato alla Bildung, modello formativo di stampo idealistico. In questa prospettiva la formazione resta, quindi, come categoria reggente del discorso pedagogico anche se appartiene ad altre scienza umane, quali: la psicologia, la sociologia e l’antropologia per ciascuna delle quali assume connotati e accezioni diverse. Inoltre, in un mondo complesso come quello attuale la ricerca ha individuato per la formazione un ruolo decisivo, ossia quello di regolatore pedagogico in grado di portare ad una diffusa presa di coscienza. In più la formazione è utile anche per comprendere le decifrare a complessità che – nella società modernasi sta affermando come un paradigma epistemico valido per tutte le discipline. Pertanto non ci si avvale più della distinzione tra scienze pure e scienze umane in quanto l’imprevedibile, il caso, sono riusciti a penetrare anche nella fisica classica. In riferimento alla complessità, molto importante è stata la riflessione di Prigogine e di Morin in quanto il primo ha preso in considerazione la complessità nell’ambito della natura; il secondo nell’ambito delle scienze umane. Prigogine ha messo in evidenza che nel momento in cui si manifestano delle situazioni di non equilibrio, la materia si organizza in strutture complesse che sembrano obbedire a proprietà sconosciute e che – in questo modo. L’universo tende ad assumere una complessità paragonabile a quella che c’è dentro di noi. Morin – invece- ha affermato che la complessità non è legata solo a fenomeni empirici, ma anche a problemi di ordine concettuale inerenti l’impossibilità di stabilire una connessione tra il tutto e la parte. In questa società dominata dalla complessità, i problemi che vengono presentati alla pedagogia sono di diversa natura. Un primo problema che si intende risolvere è quello relativo alla promozione e attuazione più pregnante della formazione permanente in quanto la società moderna si sta trasformando, passando da società fondata sulla forza lavoro a società fondata sulla conoscenza, di cui sono protagonisti i “knowledge worker” ossia i lavoratori in possesso di specifiche competenze e capaci di svolgere lavori di alta qualificazione. Tale processo ha generato un’emergenza formativa sia per i giovani che si affacciano al mondo del lavoro; sia per gli adulti che rischiano di essere messi da parte perché carenti delle competenze richieste. Proprio per questi motivi la necessità di promuovere politiche mirate a sostenere e diffondere progetti di educazione permanente è diventata sempre più incombente e – accanto a ciò- si sono aggiunti il problema di attuare progetti a medio-lungo periodo mirati a rafforzare l’apprendimento come potenzialità individuale e il problema di dare risposte immediate ad emergenze importanti come quella dell’alfabetizzazione, della disoccupazione, dell’emarginazione e dell’esclusione. In questo contesto è importante riorganizzare i sistemi di istruzione, valorizzando oltre che l’istruzione formale anche quella informale e non-formale ; e puntare verso una formazione che non sia più intesa come sinonimo di scuola, alfabetizzazione e scolarizzazione, bensì come capacità di apprendere ad apprendere, nonché come la capacità di acquisire conoscenze di base che possono essere spese nelle varie esperienze di vita istituzionali e non. La società attuale è poi caratterizzata da una serie di differenze che hanno provocato una serie di disordini. Quelle sulle quali si è concentrata particolarmente la pedagogia sono state la differenza di genere e la differenza culturale. La prima ha comportato una critica nei confronti del mondo culturale e familiare centrato sul predominio maschile e ha spinto la pedagogia a dare importanza al tema relativo all’educazione femminile, il quale è stato affrontato sia come ricerca storica, sia come elaborazione teorica di un modello di società in cui siano rappresentati i valori del mondo femminile che cerca una conciliazione tra mente e affetti. In questo modo si è potuta affermare – anche – una pedagogia degli affetti la quale si muove verso una formazione intesa in un’accezione più ampia la quale comprende, insieme all’intelletto, anche la sfera emotiva. La differenza culturale spinge la pedagogia a promuovere una cultura che rispetti le differenze etniche e capace di favorire un clima di scambio e di comprensione. Per questo motivo appare necessario avviare una riflessione pedagogica intorno alle problematiche connesse al confronto tra culture diverse, nonché l’elaborazione di un modello formativo che possa contribuire alla nascita di una reale e moderna società interculturale, in grado di accogliere ogni differenza come un valore o come una risorsa. L’ITINERARIO DELLA PEDAGOGIA SCIENTIFICA 1.1 IL DECLINO DEL PARADIGMA METAFISICO-RELIGIOSO Il 1600 è stato un secolo importante perché in esso sono giunti a compimento i fermenti rivoluzionari dell’Umanesimo e del Rinascimento che, associandosi alla nascita di una nuova scienza e di una nuova filosofia, hanno segnato una svolta epocale nella storia del pensiero dell’uomo. Infatti la sistemazione tradizionale del sapere, la quale era di tipo enciclopedico e – quindi- procedeva per accumulazione, si presentò come inadeguata nei confronti delle nuove conoscenze che richiedevano l’individuazione di un metodo di analisi e di studio della realtà. Pertanto, avvenne – nell’ambito della conoscenza umana- quella che Khun definisce una “rivoluzione scientifica” consistente nell’abbandono del vecchio paradigma (ossia quello aristotelico-tolemaico) e nell’assunzione di un nuovo paradigma, e cioè di un nuovo costrutto teorico attraverso il quale interpretare il mondo. Secondo Khun, nel momento in cui si passa da un paradigma ad un altro gli scienziati modificano il loro modo di osservare il mondo in quanto si aprono verso nuovi orizzonti, cominciano a porsi domande più complesse e danno un’interpretazione diversa a ciò che hanno visto in precedenza. Un elemento peculiare del cambiamento che stava attraversando il XVII secolo è stato la frammentazione e la diversificazione dei saperi. A ciò si è aggiunto anche la scomparsa della figura dell’intellettuale rinascimentale (il quale riassumeva in sé tutti i saperi); la diversificazione delle competenze e degli interessi e – infine- l’accentuazione del rigore specialistico. Mentre in campo scientifico Galileo ha impresso una svolta radicale allo sviluppo della fisica, in ambito filosofico si sono affermate idee completamente nuove rispetto al passato. I max esponenti di questa nuova corrente filosofica sono stati: Bacone, Cartesio e Locke i quali hanno superato la filosofia aristotelica mediante l’uso di un metodo razionale del pensiero che per Bacone si fondava sull’induzione e sull’esperienza; per Cartesio sulla logica e per Locke sulla rivalutazione della conoscenza sensibile i cui prodotti sono poi elaborati dalla riflessione. La filosofia di Cartesio è stata dirompente nel ‘600 in quanto ha messo in evidenza che la realtà così come viene percepita attraverso i sensi non è veritiera, ma è caratterizzata da una serie di contraddizioni e inganni. Il pensiero di Cartesio si sviluppò parallelamente alla teoria copernicana, la quale ha sostituito alla realtà di un universo percepibile con l’esperienza quotidiana una realtà ottenuta attraverso il pensiero matematico, la quale si differenzia dalla prima (infatti non è il sole che ruota intorno la terra, ma il contrario). Alla luce di queste scoperte scientifiche e filosofiche, Cartesio ha affermato – in primo luogo- di non accettare nulla per vero se questo non si presenta in modo chiaro alla ragione; in secondo luogo di risolvere un problema suddividendolo in tante parti minori ciascuna delle quali devono essere studiata in modo approfondito; infine che è importante condurre i propri pensieri partendo dal concetto più semplice per poi giungere – progressivamente- a quello più complesso. Come Cartesio, anche Galileo (nell’ambito della fisica) ha dato una svolta in quanto ha sostituito alla realtà così come essa appare, una realtà ottenuta applicando allo studio dei fenomeni il razionalismo matematico. Secondo Amsterdamski (filosofo della scienza) l’affermazione di un nuovo ideale di scienza, che ha caratterizzato il 1600, è stato possibile grazie ad un cambiamento della concezione del mondo, concepito non più come un sistema finito, ordinato e gerarchicamente differenziato, ma come un sistema aperto, infinito e regolato da leggi universali. Da ciò s evince che nel mondo moderno non c’era più spazio per la perfezione, l’armonia e la predestinazione e che – di conseguenza- la conoscenza immediata (che precedentemente era l’unica alla quale si rifacevano gli uomini) cominciò ad essere ritenuta ingannevole in quanto l’uomo non aveva più un’estrema fiducia su ciò che percepiva mediante i sensi. Inoltre – in quest’ambito- è stata superata anche la concezione aristotelica secondo la quale la spiegazione scientifica serve a ridurre ciò che ignoto in ciò che è noto. Infatti essa è stata sostituita con un’altra concezione la quale ha messo in evidenza che la scienza si propone di spiegare ciò che è noto mediante ciò che è ignoto. Per quanto riguarda la pedagogia, che ancora non aveva acquisito un proprio statuto epistemologico, vediamo che tutti gli eventi del 1600 hanno contribuito al declino del paradigma metafisico-religioso il quale non era più adeguato ad inquadrare correttamente le coordinate del pensiero di quel periodo. In questo clima il discorso pedagogico ha assunto finalità politiche e sociali in quanto cominciò ad essere molto attento alla realizzazione di un uomo pienamente inserito nel contesto del suo tempo. La tradizione metafisico-religiosa ha dominato il sapere pedagogico x lungo tempo, ma l’irrompere di un nuovo tipo di intellettuale (nato con l’Umanesimo e il Rinascimento) immerso nei problemi del suo tempo e interessato a discutere questioni giuridiche e politiche, ha sconvolto un sistema ben organizzato. In aggiunta a ciò c’è stato un cambiamento dei punti di riferimento, la nascita di un nuovo paradigma (di tipo sociopolitico), l’emergere di un nuovo modo di organizzare le conoscenze e di un diverso schema interpretativo della realtà. La pedagogia, che si è sempre configurata come la disciplina che codifica e trasmette i comportamenti richiesti dal modello socio-culturale è stata investita dall’onda di cambiamenti che hanno caratterizzato il XVII secolo e – di conseguenza- si è ritrovata a teorizzare un nuovo ideale educativo concentrato sulla formazione di un uomo capace di partecipare attivamente e coscientemente alla vita politica e sociale. Questa nuova pedagogia cominciò a costruire la propria identità seguendo le idee di Moro, Campanella e Bacone il quale concepiva l’educazione come lo sviluppo delle facoltà mentali, aspetto – questo – che veniva preso in considerazione molto poco dai pedagogisti suoi contemporanei. Inoltre, questa esigenza della pedagogia di puntare verso una formazione civile fu così forte che fu posta sia dagli ambienti della Riforma calvinista, sia da quelli della Controriforma. In questo modo la dimensione sociale dell’educazione è diventato il nodo centrale della pedagogia non solo del 1660, ma anche di quella del Settecento sino al 1900. Durante questo periodo il paradigma socio-politico della pedagogia si è sviluppato e affermato sempre di più anche grazie a diverse correnti di pensiero, come quella romantica, positivistica e pragmatista. Infine anche grandi personaggi della filosofia quali: Hegel, Marx, Comte e Dewey hanno dato un grande input alla crescita del paradigma socio-politico della pedagogia. 1.2 LO SVILUPPO DEL PARADIGMA SOCIO-POLITICO Il cambiamento della visione del mondo e del modo di intendere la conoscenza – avvenuto nel 1700- è stato possibile grazie alla diffusione di un atteggiamento laico. Mentre nel 1600 si è data importanza all’identificazione della scienza con il metodo matematico; nel 1700 si è valorizzato il sapere empirico, tanto è vero che il nesso ragione-esperienza è diventato un carattere peculiare del pensiero illuministico. Questa nuova apertura metodologica ha giovato – in particolar modo- tutte quelle scienze che indagano sullo sviluppo delle facoltà umane e – quindi- sull’evoluzione dell’individuo. Tali scienze sono: la medicina, l’etnologia, la pedagogia; e uno scritto molto importante- all’interno del quale si pone molta attenzione alla dimensione sociale dell’educazione- è il manuale del medico Jean Itard, in cui viene descritta la sua esperienza di educazione di un giovane ritrovato in una foresta e che viveva allo stato animale. In questo modo, il paradigma socio-politico cominciò a svilupparsi sempre di più e a porsi come modello educativo dominante non solo nel 1700, ma anche nei due secoli successivi. Infatti, Rousseau e Kant hanno posto al centro del discorso pedagogico la funzione politica; Hegel ha fatto lo stesso puntando sulla dimensione sociale dell’educazione; Marx ha declinato il paradigma evidenziandone l’aspetto politico. Per quest’ultimo l’educazione è sempre educazione di massa, finalizzata a trasmettere ai giovani l’ideologia della classe dominante all’interno della società. erede delle grandi idee espresse nell’800 è stato Dewey, il quale ha elaborato un modello educativo che ha orientato per lungo tempo le scelte della pedagogia del 1900. Dewey si proponeva di dar vita ad una società democratica, all’interno della quale tutti dovevano avere le stesse possibilità per realizzare le proprie potenzialità e le stesse opportunità di crescita intellettuale. Per realizzare ciò c’era bisogno di un’educazione adeguata in quanto un governo che dipende dal suffragio universale non può crescere se coloro che eleggono e seguono i loro governanti non sono ben educati; inoltre, siccome la democrazia non accetta forme di autorità esterna, l’educazione rappresenta l’unico mezzo per dare delle regole. Tuttavia questa devozione della democrazia nei confronti dell’educazione viene spiegata in modo ancora più approfondito. La democrazia non può essere considerata solo una forma di governo, ma anche un tipo di vita associata in cui l’azione del singolo dipende da quella degli altri e viceversa perché tutti si propongono di raggiungere determinati obiettivi. Una società di questo tipo -e cioè ricca, mobile e in cui non ci sono barriere di razza, di classe e di territorio nazionale- deve valutare e attuare l’educazione dei cittadini all’adattabilità e all’iniziativa personale in quanto essi correrebbero il rischio di essere sopraffatti dai cambiamenti. Oltre all’elaborazione del suo modello di società e di educazione, Dewey ha fatto un’analisi compiuta di tre filosofie dell’educazione le quali, anche se si sono sviluppate in epoche diverse, hanno dato una grande importanza al significato sociale dell’educazione. Esse sono la filosofia di Platone, l’individualismo illuministico e le filosofie idealistiche classiche, di cui Dewey ha messo in luce i caratteri innovativi, ma – nello stesso tempo- anche quegli aspetti che non le rendevano attuabili. Per quanto riguarda Platone, egli ha affermato che questo filosofo ha elaborato una filosofia molto vicina a quella proposta da lui stesso, ma sbagliata nel funzionamento in quanto considerava unità sociale la classe piuttosto che l’individuo. L’individualismo illuministico ha proposto l’idea di una società vasta quanto l’umanità, ma non ha messo ben in chiaro l’istituzione in cui doveva realizzarsi concretamente tale comunità. Infine, le filosofie idealistiche classiche hanno individuato nello stato nazionale l’istituzione nella quale realizzare il processo educativo, ma hanno limitato – in questo modo - la concezione dello scopo sociale ai soli membri della politica e reintrodotto l’idea della subordinazione dell’individuo all’istituzione. Il paradigma socio-politico è stato interpretato dai singoli autori in maniera diversa, ma – nonostante ciò- esso presentava delle caratteristiche peculiari, come quella secondo la quale alla base del paradigma c’era la concezione di una pedagogia strettamente legata alla filosofia politica la quale indica i fini da perseguire (che dovevano essere dei pini sociali e politici) e il percorso da compiere. Autori che, con le loro pedagogie, hanno rispettato tali caratteristiche sono stati Gramsci, Gentile, Hegel, Marz e Kant. Nel 1700 il declino del paradigma metafisico-religioso non è stato accompagnato solo dalla nascita del paradigma socio-politico, ma anche da quella del paradigma scientifico (sviluppatosi nel corso dell’800 con il Positivismo) e quello antropologico-filosofico, il quale coincideva con una concezione pedagogica centrata sulla Bildung (= formazione dell’uomo integrale, fatto di cuore e ragione) e si costruiva tutto intorno all’uomo e alle sue esperienze spirituali. 1.3 IL PARADIGMA SCIENTIFICO Nel 1800 l’affermazione del Positivismo ha contribuito allo sviluppo del paradigma scientifico nell’ambito della pedagogia. Tale paradigma già cominciò ad essere promosso da Comenio, il quale era convinto che l’apprendimento doveva fondarsi sull’osservazione e sulla ricerca delle leggi regolatrici della natura umana. In seguito, la filosofia di Cartesio ha spinto la pedagogia ad acquisire un approccio di tipo razionale al problema educativo, ma è stato con Locke (verso la fine del secolo) che la pedagogia si è avviata verso l’acquisizione di una metodologia di tipo scientifico, determinando – in questo modo- l’inizio del suo rapporto conflittuale con le scienze sperimentali. Locke era un empirista che puntava sull’esperienza e sull’intelligenza i quali sono stati i due fattori su cui si è costruita gran parte della pedagogia scientifica contemporanea. Inoltre, l’empirismo di Locke ha eliminato l’influenza della predestinazione nell’ambito filosofico e ha favorito lo sviluppo di una cultura diversa e la creazione di una società rinnovata, dinamica, in cui l’iniziativa del singolo individuo e l’intelligenza dovevano essere decisivi per lo sviluppo della sua condizione economica e sociale. La posizione di Locke era quella del protestantesimo liberale, il quale riconosceva all’uomo una libertà che lo rendeva responsabile delle proprie azioni. Questa posizione di Locke riprendeva quella di Pelagio (un teologo inglese) che – opponendosi a Sant’Agostino- sosteneva che il peccato originale ha determinato la condanna di Adamo ma non dell’intera umanità in quanto l’uomo è titolare di una libertà la cui esistenza salva il destino dell’azione morale. La tesi di Pelagio fu condannata dalla Chiesa, ma in seguito ha trovato dei sostenitori in Rousseau e in Locke i quali sono andati contro Sant’Agostino che riteneva che il fanciullo non può apprendere nulla oltre a ciò che già sa, pertanto l’educazione non è altro che la rivelazione di una sapere innato. Secondo Locke – invece- gli uomini si distinguono l’uno dall’altro per una serie di caratteristiche imputabili all’educazione ricevuta; di conseguenza i genitori devono essere molto attenti nella formazione della mente del bambino in quanto sin dal principio devono trasmettergli quell’impronta che avrà un’influenza su tutta la sua vita. Le idee di Locke furono così innovative e brillanti che catturarono l’attenzione anche di alcuni settori della cultura cattolica, come quello dei gesuiti i quali avevano fiducia nell’istruzione che intendevano come uno strumento di libertà perché consente all’uomo di operare scelte consapevoli. Questa loro concezione li pose contro i giansenisti, i quali furono subito pronti ad accusarli. Nel secolo successivo Rousseau ha delineato le coordinate della pedagogia scientifica e ha scritto l’Emilio, il primo romanzo pedagogico il quale ha segnato l’inizio della pedagogia moderna e contemporanea. Vis alberghi, invece, in riferimento al discorso relativo alla scientificità della pedagogia ha affermato che le caratteristiche principali per riconoscere una disciplina scientifica sono due: una natura empirico-sperimentale e una salda struttura di tipo ipotetico-deduttivoe a ciò ha aggiunto che si può parlare di scienza anche se è presente una sola di queste caratteristiche. Nel momento in cui si parla di scienza in riferimento alla pedagogia o alla filosofia, con il termine “scienza” si intende una forma di conoscenza particolarmente garantita, ma non esclusiva. Inoltre, il carattere scientifico di una disciplina lo si può dedurre se sono presenti due elementi: il primo è metodologico, la scienza si basa su esperienze replicabili le quali autorizzano a fare delle previsioni; uno logico-strutturale: una scienza è costituito da un insieme ordinato e coerente di concetti ben definiti connessi in proposizioni fondamentali da cui altre sono deducibili secondo regole ben definite. All’inizio del secolo si è cominciato a parlare di scienze dell’educazione in quanto sotto la spinta delle scienze sociali – che si fecero interpreti dei cambiamenti sociali- si è capito che la pedagogia non poteva indagare – da sola- in un campo così composito come la formazione dell’individuo. Per questo motivo sono nate le scienze dell’educazione, intendendo con esse un ambito complessivo di discipline che studiano il funzionamento educativo da diversi punti di vista. Tra le diverse scienze dell’educazione, alcune sono considerate scienze anche se hanno una struttura teorica molto carente; e ciò è possibile perché esse si avvalgono di un approccio metodologico di tipo empirico-sperimentale. Visalberghi ha riconosciuto – poi- a Rousseau il merito di avere indicato per primo l’oggetto della pedagogia: ossia lo studio dell’allievo e lo ha considerato come uno dei precursori della pedagogia scientifica insieme a Pestalozzi, il quale ha sottolineato che è importante per il docente possedere gli strumenti metodologici finalizzati all’ottimizzazione dell’intervento educativo e tener presente la condizione sociale di partenza del soggetto sui risultati dell’apprendimento. Tuttavia, è stato con il Positivismo che è nata la vera pedagogia scientifica,capace di avviare processi di analisi sperimentale dei modelli educativi proposti. Il processo di rinnovamento che attraversò la pedagogia in questo periodo consistette nell’applicazione di un metodo d’indagine, e cioè il metodo galileano che si articola in 4 punti: osservazione di un fenomeno, formulazione di un ipotesi, sperimentazione e verifica. Il paradigma scientifico è stato molto importante per la pedagogia in quanto, anche se esso presentava dei limiti, ha alimentato un vasto movimento di idee e ha consentito di costruire una metodica di indagine dei fenomeni educativi che ormai è stata pienamente acquisita. Inoltre il sapere pedagogico, in questo periodo, è stato articolato in più discipline: le scienze dell’educazione le quali si proponevano di studiare e trovare delle soluzioni ai vari problemi educativi che sorgevano da una società in rapida evoluzione e caratterizzata da numerose innovazioni tecnologiche che richiedevano un ampliamento di conoscenze in ambiti nuovi e inducevano a cambiamenti profondi nella condizione dell’uomo. In questo contesto, alla pedagogia si sono affiancati una serie di saperi specializzati che –inizialmente- si sono soffermati soprattutto sull’analisi degli aspetti e dei settori diversi dei fenomeni che hanno innervato la società complessa; e che – in secondo luogo- si sono suddivisi in settori sempre più specifici (ad es. la psicologia si è distinta in psicologia sociale, psicologia dell’età evolutiva, ecc.) in modo da poter indagare un problema in tutti i suoi aspetti. In questo scenario rinnovato delle scienze dell’educazione, alla pedagogia è stato assegnato il ruolo di riflessione filosofica (ed è per questo essa è giunta a coincidere con la filosofia dell’educazione) che come epistemologia (ossia riorganizzazione logico-scientifica e filosofica del discorso) e come axiologia (ossia scelta dei valori-guida per l’elaborazione pedagogica) che è risultata imprescindibile in ogni esercizio o comprensione del discorso pedagogico. Tuttavia l’articolazione della pedagogia in scienze dell’educazione è avvenuta con difficoltà a causa di una serie di timori e critiche esposte dai settori più tradizionali della disciplina stessa. Infatti le scienze dell’educazione, prese in considerazione nel modo in cui sono nate, hanno portato nella direzione della proliferazione delle discipline che se, da un lato, potevano portare ad un arricchimento della conoscenza, dall’altro hanno condotto solo verso la confusione e una crisi di identità. Ciò non significa che bisognava ritornare ad un sapere pedagogico chiuso rispetto agli altri saperi, ma dar vita ad un sapere pedagogico capace di creare un rapporto critico e dialettico con gli altri saperi e di mettere a confronto criticamente assunti teorici, approcci metodologici e ricadute pratiche, senza accontentarsi di essere la dimensione applicativa di teorie elaborate altrove. Il nuovo assetto delle scienze dell’educazione è stato l’evento epocale della pedagogia contemporanea in quanto ha mutato l’identità e la portata della pedagogia e ne ha caratterizzato la crescita e l’autocomprensione come sapere teorico e pratico. La nuova pedagogia, infatti, ha assunto connotazioni più legate all’esperienza che viene ritenuta (dalla Frauenfelder) lo strumento di raccordo tra condizionamento biologico e flessibilità appprenditiva in quanto essa consente al soggetto di mettere in atto le proprie potenzialità neuronali possedute già geneticamente; e – in più si è aperta al contributo delle altre scienze. In sintonia con la prassi pedagogica di tipo scientifico si è sviluppata – nell’ambito della filosofia dell’educazione- una corrente che si è proposta di trovare il fondamento scientifico della pedagogia. Uno dei max esponenti di questa corrente è stato Dewey, il quale sosteneva che la scienza dell’educazione non poteva essere costruita prendendo in prestito le tecniche di sperimentazione e di misura che si trovano nella scienza fisica. Le fonti della scienza dell’educazione sono costituite da porzioni di conoscenza accertata che vengono prese in considerazione dagli educatori e sono utili perché migliorano l’esplicazione della funzione dell’educazione. Tuttavia, la pecca delle scienze dell’educazione è quella che non si giunge mai ad una soluzione e/o conclusione definitiva, ma essa è sempre in corso in quanto l’educazione può essere paragonata ad una spirale: essa è un’attività che include in sé la scienza; è un’attività che nel suo processo pone continuamente problemi che richiedono ulteriori studi per essere risolti; questi studi – a loro volta- reagiscono sul processo educativo per modificarlo, richiedendo – così- maggior pensiero, più vasta scienza e così via. Una soluzione immediata ai problemi potrebbe essere trovata al di fuori dell’educazione, ma questo segnerebbe la sua resa. Le fonti scientifiche dell’educazione – è ovvio- che non possono essere paragonate a quelle di una scienza esatta come la matematica in quanto esse seguono un ‘evolversi dell’individuo e – di conseguenza- appaiono sempre più arretrate. Per questo motivo molti studiosi delle discipline sociali si sono allontanati dagli avvenimenti che si verificavano nelle scuole, determinando la diffusione – all’interno delle scuole- del convenzionalismo e dell’abitudinarietà delle opinioni contingenti. Dall’analisi di ciò si può dedurre il perché i sistemi educativi più che essere la sede del contenuto vero e proprio della scienza dell’educazione, si sono rivelati come la fonte sei suoi principali problemi. Analizzando il cammino del paradigma scientifico della pedagogia si è emersa la difficoltà che c’è stata e che c’è per l’affermazione della sua scientificità. Tale difficoltà è determinata dal fatto che il discorso pedagogico è molto complesso ed è caratterizzato da una molteplicità di aspetti che non lo permettono di essere inquadrato in un modello interpretativo globale (come quelli tipici delle scienze sperimentali). La crescita scientifica della pedagogia ha avuto un andamento definiblie “schizoide” in quanto essa – da un lato-i è proposta di aderire ai principi delle scienze naturali (sia per ragioni intrinseche che per ragioni estrinseche); dall’altro non voleva ridursi a sapere estremamente scientifico, e cioè non voleva perdere la sua identità e la sua autonomia. Infine bisogna dire che la nascita e lo sviluppo del paradigma scientifico è stato importante perché ha permesso alla pedagogia di acquisire un metodo di analisi improntata sul rigore sperimentale e la cosapevolezza della sua capacità di risolvere i problemi. LA FORMAZIONE COME CATEGORIA CENTRALE Nel corso degli ulitmi 20 anni è stata compiuta una riflessione teorica sulla struttura del discorso pedagogico e sui suoi elementi costitutivi, anche se la pedagogia stava vivendo un momento di crisi d’identità perché sempre in bilico tra scienza e filosofia. Da questa riflessione è scaturito un paradigma epistemologico-metateorico il quale – rileggendo e compiendo una sistemazione organicca del sapere pedagogico- sembra aver risposto all’esigenza di fornire una base solida ad una disciplina così frammentata come la pedagogia. Tuttavia questo paradigma non è giunto a compimento, ma è in fieri in quanto la riflessione pedagogica comporto molte più problematiche rispetto alla riflessione compiuta su una scienza empirica e naturale in quanto l’oggetto della pedagogia (ossia la formazione) è molto complesso e problematico. Attualmente, nell’ambito degli studi pedagogici, ci snon diversi gruppi di studiosi che puntano verso l’individuazione –per la pedagogia- di uno statuto di una scienza empirica dell’educazione le cui caratteristiche devono essere : l’interdisciplinairetà (nel senso che la ped. deve collegarsi e stabilire un rapporto con le altre scienze umane); la sperimentazione e il controllo metoodologico. Questa ricerca segue, un po’, la direzione proposta da Piaget il quale ha affermato che lo sviluppo e l’evoluzione della pedagogia è parallelo a quello della psicologia dello sviluppo e della sociologia. Questo rapporto che la pedagogia stabilisce con le altre scienze umane è duplice in quanto – da un lato- essa trae da queste i suoi materiali di lavoro; dall’altro, nel momento in cui c’è bisogno di verificare un’ipotesi, manda le proprie a queste scienze. Analizzando questo rapporto che la pedagogia ha con le atre discipline, molti hanno messo in discussione la sua autonomia e – in seguito- la sua identità in quanto hanno affermato che è difficile definire se la pedagogia è una vera forma di ricerca empirica o una teoria dell’educazione a casua della sua dipendenza dalle altre discipline. Contro queto dubbio è stato messo in evidenza che le scienze umane, prese indipendentemente, non sono in grado di risolvere empiricamente i problemi educativi, ed è per questo che è necessaria questa loro relazione di cui fa parte la pedagogia, la quale si afferma sempre di più come una disciplina scientifica e come ricerca. L’ideale di una pedagogia sperimentale è nato già alla fine dell’800 ma solo verso la fine del 1900 ha subito una forte accellerazione e un’affermazione universale. Oggi – infatti- buona parte della pedagogia si risolve in una ricerca educativa, in indagini sperimentali su problemi specifici, dalla soluzione dei quali si tende a fissare una scienza dell’educazione capace di investire l’apprendimento e i duoi fattori costitutivi. All’elaborazione di una scienza empirica hanno contribuito diversi autori, quali: Brezinka, Visalberghi, De Bartolomeis, Laporta il quale ha affermato che la pedagogia deve stabilire un rapporto anche con le scienze comportamentali nel momento in cui esse trattano di problemi educativi, stabilendo – in questo caso- la propria area di competenza senza limitarsi ad una sola lettura in chiave ideologica in quanto essa non è più solo teoria ma scienza empirica, che si fonda- quindi- sul rapporto tra teoria e prassi. Berzinka, sostenendo l’idea che possono essere accettate come conoscenza scientifica quelle asserzioni che possono essere valutate e confutate nella realtà empirica, ha affermato che la pedagogia trova difficoltà nell’affermarsi come scienza perché essa ha in sé inglobata un’ideologia, una specifica concezione del mondo che la spingono a formulare giudizi; carattere – questo- estraneo ai saperi scientifici. Allora Berzinka ha proposto di scindere la pedagogia tradizionale in 3 discipline: la scienza empirica dell’educazione; la filosofia dell’educazione e la pedagogia pratica, ciascuna con un proprio metodo di indagine e con uno specifico campo di azione. La scienza empirica dell’educazione si fonda – da un punto di vista metodologico- sulla ricerca sperimentale e sull’elaborazione di teorie dell’educazione capaci di guidare un progetto educativo fondato sulle teorie dell’apprendimento e su quelle tese all’individuazione degli aspetti motivazionali del comportamento. Inoltre, tale disciplina ha come caratteristica principale il controllo dei suoi metodi, delle sue procedure, dei suoi scopo che sono sottoposti a numerose critiche e rivalutazioni. La filosofia dell’educazione può essere definita come una riflessione approfondita sulla struttura, sui fini e sulla fenomenologia del sapere pedagogico. Una filosofia del genere si connota –quindi- come pensiero critico sull’oggetto della pedagogia, sulla sua strutturazione logica, sul suo linguaggio e sui modelli che adotta tesi a ricercarne il senso. Da ciò si evince che la condizione di possibilità della fondazione del sapere pedagogico si basa sull’accettazione che l’educazione non è solo l’oggetto di identificazione della pedagogia, ma anche l’ipotesi dalla quale partire per fondare una pedagogia che è scienza, ma critica e progettuale. Critica nel senso di autocritica; progettuale nel senso di proiettata verso il futuro mediante la costruzione di modelli nuovi di uomo, cultura e società. La filosofia dell’educazione è – poi- impegnata sul fronte dell’axiologia della pedagogia, e cioè essa si propone di definire l’universo di valori che la connotano e che contribuiscono a stabilirne il senso. Il percorso della pedagogia – infattti- converge in specifici valori-guida che riguardano il soggetto e la sua formazione sia individuale che come essere sociale. Tali valori sono: la libertà, l’eguaglianza, la comunicazione, la responsabilità e l’emancipazione la quale -con Habermas -è stata riconosciuta come il ruolo-guida delle scienze umane che cercano di far superare all’uomo (fornendogli gli strumenti necessari) dai condizionamenti posti da se stesso e dalla società. La pedagogia, tra le diverse scienze umane, è quella con maggiore valenza emancipativa: infatti se per le scienze umane l’emancipazione è un valore-guida, per il sapere pedagogico essa è un principio regolatore capace di mettere al centro della sua prassi il rapporto educativo il quale tende alla formazione dell’individuo, nonché alla sua emancipazione. Molto importante è la riflessione di Cambi sulla filosofia dell’educazione. Egli sostiene che essa funziona da dispositivo di controllo sui saperi della pedagogia, fissandone lo stemma epistemico e ponendolo nella complessità del suo discorso; complessità che fissa anche gli ambiti in cui si articola il processo di interpretazione e riorganizzazione del sapere pedagogico. Una caratteristica peculiare della filosofia dell’educazione – secondo Cambi- è che essa compie una riflessione sulla pedagogia in funzione della formazione (intesa come categoria reggente e come volano di senso della ped). La formazione è un elemento indispensabile del sapere pedagogico (che senza di essa non può essere pensato) in quanto essa le è strettamente connessa e ne ha accompagnato la storia assumendo – di volta in volta- connotazioni diverse, modellate sui contesti storici e sociali. Al giorno d’oggi il concetto di formazione assume un’importanza sempre maggiore in quanto la società moderna è molto complessa e caratterizzata dalla tecnologia avanzata. Di conseguenza, la pedagogia si è ritrovata dinanzi a nuovi problemi legati sia allo snaturamento del concetto di formazione da parte del mondo del lavoro, sia alla nascita di ulteriori temi di riflessione aperti dall’estensione della pedagogia in un ambito più scientifico e pragmatico. LA CENTRALITA’ DELLA CATEGORIA “FORMAZIONE”OGGI La formazione rappresenta l’oggetto della pedagogia ed è sempre stata la categoria reggente di tale disciplina, sin dall’antica Grecia. La paideia parlava di formazione dell’uomo, intendendo questo processo come assimilazione di cultura; concetto – questo- che è durato nel tempo. La formazione umana può essere concepita in due modi: sia come un processo di oggettivazione del proprio sè nella cultura; sia come un processo mediante il quale riportare a sé tutta questa produzione dell’uomo, in modo da riviverla ed operare su di essa una sintesi vitale che diviene la forma del soggetto. Al giorno d’oggi la categoria della formazione si trva sottoposta ad una serie di cambiamenti semantici i quali stanno inquietando la riflessione pedagogica. Infatti, la categoria della formazione ha vissuto e sta vivendo un forte rilancio che però non interessano le vie pedagogiche, ma quella economica-sociologica in quanto per formazione si intende la formazione professionale, nuova, aperta, più colta, ma pensata da e per il mercato del lavoro. Ciò non può essere considerato un risultato positivo per la pedagogia perché essa – in qualche modo- è stata de-pedagogizzata ed espropriata dai suoi significati più alti e nobili. CAPITOLO II IL PERCORSO DELLA FORMAZIONE 2.1 IL MODELLA DELLA PAIDEIA E QUELLO DELLA BILDUNG Ogni attività educativa è; educazione, istruzione e formazione. Il termine educazione deriva dal latino educere, che significa tirar fuori ciò che nel soggetto è in potenza. L’educazione si configura come un processo intenzionale che tiene sempre presente un quadro di riferimento (in quanto l’educazione non può essere pensata come scissa dal mondo sociale e politico) e che mira alla modifica di un comportamento più o meno stabile. L’istruzione viene concepita come un trasferimento di tecniche e anch’essa è importante perché rappresenta un bisogno sia per le società, in quanto è funzionale al loro sviluppo, che per l’individuo che da essa trae quelle competenze per affermarsi nel contesto sociale. La formazione è il concetto più importante della pedagogia che comprende – in sé- sia l’istruzione che l’educazione. Essa è un processo di crescita costante che ha come protagonista l’individuo, il quale può formarsi in qualsiasi ambiente e scegliere autonomamente il percorso da seguire nel corso della sua vita. Formazione è un termine antico perché affonda le proprie radici nell’antica Grecia, dove fu formulato il concetto di paideia, inteso come processo di formazione dell’uomo ideale capace di realizzare la propria umanità secondo valori universali. Anche se il concetto di paideia affondo le proprie radici nella Grecia più antica, in realtà essa si è affermata in modo organico e dispiegato solo con la filosofia dei Sofisti e di Socrate, segnando – in questo modo- il passaggio dall’educazione alla pedagogia. Da ciò si evince che è stato in questo periodo che la pedagogia si è affermata come sapere autonomo, rigoroso, sistematico il quale ha segnato una svolta nella cultura occidentale che ha rielaborato – ad un livello più alto e complesso - i problemi dell’educazione, affrontandoli oltre ogni localismo e determinismo ambientale e culturale. Nell’antica Grecia si sono alternate diverse forme di paideia: in Omero troviamo una paideia aristocratico-guerriera, finalizzata alla formazione degli aristoi o dei guerrieri; i Sofisti si fecero promotori di una paideia capace di realizzare una formazione politica mediante il possesso e il controllo della dialettica intesa come arte del ben parlare. Nella civiltà ellenistica – invece- è emerso il nesso uomo-cultura come elemento fondante della paideia la quale veniva concepita come formazione di un uomo completo e che tendeva ad un ideale di uomo de-storicizzato, de-politicizzato e alla ricerca di un equilibrio spirituale interiore che trova la sua piena universalizzazione nella cultura. Anche se queste forme di paideia sono state diverse, avevano tutte una caratteristica in comune: l’idea della formazione come processo aperto a cui l’uomo doveva tendere con un atteggiamento attivo, il quale richiedeva grande disciplina interiore sorretta dall’intelligenza e dalla volontà. La riflessione dei greci sulla paideia ci ha consegnato l’idea di formazione come processo culturale condotto dall’uomo mediante l’esercizio del pensiero che riflette su se stesso e su se stesso nel mondo. Dall’analisi di ciò si evince che la paideia classica ha pensato l’educazione dell’uomo come un processo, sempre aperto, di costruzione di un uomo sempre più universalizzato e immerso nella cultura del suo tempo, dalla quale raccoglie gli stimoli per il suo sviluppo interiore e per la costruzione piena di sé nel mondo. Questo concetto di paideia è rimasto vivo a lungo nel corso della storia, anche se ha subito una serie di modifiche soprattutto da parte del Cristianesimo e del Rinascimento. Con il termine paideia si indica la formazione dell’uomo basata su un’idea che tendeva a de-storicizzarlo e ad universalizzarlo,rendendolo sintesi di tutto un universo di cultura. La paideia è nata per opera dei Greci, i quali l’hanno diffusa in tutto l’occidente come idea di uomo che si modella su di un ideale che coglieva il proprio senso e il proprio valore in un processo di universalizzazione. Pertanto la paideia è stata una nozione greca la quale si è posta come punto di intersezione tra due domini, nonché come processo di educazione che si compie nello spazio, nel tempo, nella società e nelle sue istituzioni. Tuttavia, la paideia cominciò ad entrare in crisi nel Seicento, durante il quale si è diffuso il mito della scienza e dell’empirismo in campo filosofico e la società si è aperta ai traffici e al commercio. Da ciò si evince che il modello pedagogico classico non poteva essere più attuato in una società così cambiata ed è per questo che nacque una nuova pedagogia promossa da Locke. Nel 1700 la crisi dei valori umanistici continua a farsi sentire in quanto il sistema di valori illuministi non poteva accettare un ideale pedagogico come quello tradizionale, ma puntava verso la formazione di cittadini capaci di contribuire al progresso della società. Pertanto, è proprio per questo motivo che in questo periodo è nata l’esigenza di integrare il discorso pedagogico nell’ambito della vita sociale, di promuovere un programma di istruzione pubblica generalizzata e di formazione civile, tesa saldare il rapporto tra la società e le istituzioni. Tuttavia, nel corso di questo secolo, emerse la figura di Kant il quale ha affermato che l’educazione del cittadino di una nazione doveva essere anche educazione dell’uomo, inteso come membro della comunità umana. In questo modo egli ha dato vita ad un nuovo umanesimo – attento alla formazione dell’uomo- che, in seguito, ha trovato l’appoggio di molti altri autori. Più tardi Shiller si è fatto promotore di una concezione pedagogica anticipatrice dell’idealismo e ha dato vita alla Bildung: un nuovo modello di paideia, ossia di formazione dell’uomo che coincide con lo Statoil quale rappresentava – secondo tale concezione- la forma in cui tendeva a riunificarsi la varietà dei soggetti. La Bildung è stato un modello di formazione dell’uomo di stampo neoumanistico, nato come reazione alla visione illuministica dell’uomo e basato su una matrice filosofica di stampo idealistico (infatti Hegel è stato colui che ha compiuto la sua elaborazione più completa). La Bildung è stata un modello per pensare la formazione, ma – nello stesso tempo- è stata complessa, sfuggente e soggetta ad una serie di amputazioni. Nonostante ciò essa si è affermata come un modello articolato che ha operato in profondità nella pedagogia contemporanea andando contro tutte le pedagogie tecniche, parziali, separate dall’antropologia e risolte in chiave sociologica, scientifica o politica. Inoltre, la Bildung, ha dato alla pedagogia un modello per pensare la formazione la quale doveva concentrarsi sul soggetto e sull’oggetto, nonché sul loro rapporto dinamico. Dall’analisi di ciò si evince che la Bildung ha riattivato – rinnovandola- la categoria della paideia che, però, vale nel mondo classico ma è obsoleta e tramontata nelle società moderne le quali si propongono altre direttive. La formazione va intesa come un processo che dura tutta la vita del soggetto . Al giorno d’oggi con il termine informazione si fa riferimento alle prime fasi di tale processo, ai saperi connessi al processo formativo, ai contesti di vita e ai vissuti individuali e collettivi. Pertanto il termine indica i momenti di ingresso del processo, quelli processuali e quelli finali. La società del terzo millennio sarà una società all’interno del quale gli specialisti e i tecnocratici conteranno di più, mentre gli altri svolgeranno compiti adeguati al tempo storico. Essi non saranno abbandonati a sé stessi, ma svolgeranno una serie di attività ludiche e creative in grado di coprire il tempo che precedentemente veniva impegnato dal facchinaggio delle attività lavorative e liberarlo da peso della sopravvivenza per far durare le istituzioni della società. per questo motivo la formazione non sarà più sinonimo di alfabetizzazione o di scuola, piuttosto capacità di apprendere ad apprendere, ossia di acquisire conoscenze di base spendibili nel corso dell’esperienza. NUOVE IPOTESI INTERPRETATIVE Nell’odierna società ci sono stati processi di suddivisione sociale e culturale i quali hanno coinvolto il soggetto che, ricoprendo una pluralità di ruoli, ha perso la sua unità. In questo contesto sono nate nuove posizione filosofiche le quali hanno abbandonato il concetto di Bildung e hanno elaborato nuove categorie per pensare il presente. Una posizione interessante è stata quella di Luhmann che- mettendo a confronto la nuova e vecchia società- ha affermato che alla categoria della formazione bisogna sostituire la capacità di apprendere. Inoltre, egli ha fatto una distinzione tra società stratificate e società funzionalmente differenziate in relazione alla loro differenzazione interna . le società del passato erano stratificate in quanto presentavano una scarsa differenziazione interna e consideravano l’educazione come uno strumento per superare problemi di comunicazione degli strati sociali più alti. Con l’inizio del XIX secolo la società cominciò a differenziarsi in sottoinsiemi con funzioni specifiche. La differenziazione funzionale della società ha determinato il fenomeno dell’inclusione il quale ha fatto si che ogni soggetto accedesse in un sistema funzionale, al quale corrisponde un ruolo funzionale e un certo numero di ruoli complementari . Inoltre tale differenziazione ha determinato per ciascuna funzione, non solo l’interazione con il proprio ambito funzionale ma anche con altri ambiti definiti ambiti di coincidenza. Ad esempio : la scuola rappresentava (nel XIX secolo) l’ambito funzionale, mentre la famiglia ,l’azienda e l’università gli ambiti di coincidenza. Nel momento in cui nasce- all’interno della società- un nuovo sistema funzionale, è importante mettere in relazione la sua funzione con l’ambiente sociale; da ciò deriva la necessità di creare strutture simboliche mirate a risolvere i problemi posti. Tali strutture vengono definite: formule di contingenza. Il sistema educativo ha riformulato più volte la sua formula di contingenza che – progressivamente- è stata: perfezione umana, formazione e capacità di apprendere, le quali non si escludono l’una con l’altra, ma l’una prevale sull’altra. Il concetto di formazione- alimentato dalla filosofia trascendentale, ha riformulato il concetto di perfezione e, dando molta importanza all’acquisizione del metodo, ha anticipato l’idea di apprendere per un nuovo apprendimento. Tuttavia la crisi della filosofia del soggetto e della razionalità illuministica ha determinato la perdita di senso del rapporto individuo – universo e, di conseguenza, il termine formazione è stato utilizzato in modo più generale ed esteso intendendolo come sinonimo di educazione in tutti i campi in cui manca l’orientamento verso un valore. Nel momento in cui si parla di apprendimento è necessario sottolineare che esso avviene solo mediante l’insegnamento, il quale comporta – da un lato- la pianificazione del lavoro e – in particolare- la scelta di quegli argomenti che portano l’individuo ad acquisire non tanto i contenuti ma la capacità di saper apprendere; dall’altro costringe ad esercitare l’apprendimento con intensità adeguata allo scopo. Con l’apprendimento dell’apprendere, il processo educativo conclude se stesso poiché pone l’apprendimento su di un piano stabile. Il concetto di saper apprendere si inserisce in una società complessa ed è per questo che esso assume il carattere di una competenza permanente che consiste nell’andare incontro a dei nuovi saperi modificando i modelli noti di decodifica e interpretazione della realtà. Da ciò si evince che la capacità di apprendere, la quale si realizza mediante l’educazione, non è solo la finalità del sistema educativo ma anche la sua premessa di funzionamento. Habermas ha criticato la teoria sistemica della società di Luhmann in quanto ha affermato che quest’ultimo ha sostituito al rapporto interno -esterno quello di sistema – ambiente. Tale trasposizione ha comportato un cambiamento del problema di riferimento: infatti si è passato dalla conoscenza del mondo e del sé al mantenimento e all’ampliamento della stabilità del sistema. Tuttavia, trasferendo al sistema il ruolo che – precedentemente- era del soggetto si è persa la possibilità di autoconoscenza nella forma dell’autocoscienza e al concetto di coscienza è stato sostituito quello di senso; pertanto il sistema capace di elaborare il senso ha preso il posto del soggetto capace di coscienza. L’impossibilità di autoriferirsi si è riflessa all’interno della società in cui non è possibile individuare un punto stabile dal quale poter osservare tutto in modo corretto. Inoltre, se gli individui vengono subordinati come parti ad un soggetto più grande – che è la società intesa come il tutto- il loro spazio di movimento e la loro libertà vengono completamente azzerati. Infatti i processi di formazione dell’opinione e della volontà mostrano l’intreccio che c’è tra socializzazione e individuazione il quale viene spiegato da Lhumann con il modello di inclusione delle parti (ossia i singoli individui) con il tutto (e cioè la società). Nella concezione di Lhumann la coscienza sociale e quella individuale rappresentano due sistemi indipendenti e capaci di fungere da ambiente mediante delle relazioni esterne; e –partendo da tale presupposto (ossia che sistema psichico e sistema sociale sono indipendenti)- ha affermato che la socializzazione è una prestazione propria del sistema psichico in qualità di autosocializzazione; mentre l’individualità è una modalità di auto descrizione. Infine, Habermas ha criticato anche questa posizione di Luhmann e in più l’ha inserita in una tradizione che riflette il modello selettivo del razionalismo occidentale, teso a raggiungere un’autocomprensione obbiettiva sia dell’uomo che del suo mondo. 2.3 LA FORMAZIONE COME FONDAMENTO DELLA PEDAGOGIA Al giorno d’oggi assistiamo – sempre di più- al mutamento del concetto di formazione e al declino di quell’ambito del sapere deputato (da un punto di vista istituzionale) a farsi carico del problema legato alla formazione dell’uomo. Per quanto riguarda il concetto di formazione, esso viene utilizzato per rappresentare cose diverse tra loro e – perlopiù- legate al mondo del lavoro e lontane dal controllo della pedagogia. Per andare incontro ad un miglioramento della situazione, il primo passo da compiere è quello di riappropriarsi della categoria della formazione, assumendola come categoria-cardine della pedagogia e di disporsi in una posizione aperta nei confronti del suo oggetto, del suo metodo e delle sue categorie. Ma per far ciò è importante tener presente che la categoria della formazione si trova – molto spesso- coinvolta in diversi ambiti del sapere che sono sia codificati disciplinarmente; sia frutto di una serie di teorizzazioni tese a fornire sintesi che infrangono i confini delle discipline per risolvere dei problemi che non accettano più le specializzazioni disciplinari e che richiedono nuove alleanze. Un esempio possono essere le teorie sistemiche, che tendono a dar conto dei problemi relativi alla realtà nel suo insieme; o le teorie della complessità. Infine, la pedagogia – per poter crescere ulteriormente all’interno della moderna società- dovrebbe essere in grado di stabilire dei rapporti con questi saperi e rendere espliciti i concetti di formazione in essi presenti. Le scienze umane, ciascuna nel proprio ambito, si impegnano a mettere a punto il concetto di formazione e a progettare delle modalità specifiche di intervento. La sociologia e la psicologia sociale attribuiscono alla formazione il significato di socializzazione; infatti – in questa prospettiva- formare significa trasmettere, attraverso le generazioni, le competenze necessarie al mantenimento delle diverse funzioni costitutive dell’organizzazione sociale, le norme che regolano le interazioni sociali e i valori che sostengono il patto sociale. Le istituzioni che trasmettono la socializzazione sono la famiglia e la scuola, alle quali si aggiungono: i media e la partecipazione a frequenti occasioni di contatto con la realtà esterna da parte dei giovani. Queste due discipline, quindi, analizzano la formazione prendendo in considerazione il rapporto società- individuo il quale prevede la trasmissioneda parte del gruppo sociale- di norme e valori di addestramento alle competenze richieste dai diversi ruoli sociali e – dall’altro lato- la capacità dell’individuo di creare un legame stabile con la società mediante due strumenti: il linguaggio e l’identificazione con i valori fondanti. In aggiunta alla socializzazione primaria, il gruppo sociale promuove anche una socializzazione secondaria la quale si propone come un processo di formazione continua – rivolta agli adulti- teso a stabilizzare e ad estendere l’interiorizzazione dei valori già acquisiti. Per l’antropologia il concetto di formazione coincide con quello di interculturazione, la quale non rappresenta solo la trasmissione dei saperi e dei vari saper-fare, bensì quella del sentimento di appartenenza e del sentimento d’identità che si costruiscono tramandando la conoscenza della storia del proprio gruppo sociale di generazione in generazione. La cultura è costituita da un doppio capitale: 1) un capitale tecnico e cognitivo che può essere trasmesso ad ogni società; 2) un capitale specifico che costituisce i tratti dell’identità di una comunità. A tal proposito è importante sottolineare che non esistono gruppi umani privi di un legame forte con le loro origini in quanto esso è necessario perché alimenta il senso di filiazione; è rassicurante perché trasmette una visione del mondo e fornisce un senso alla vita umana. Pertanto ogni cultura influisce sullo sviluppo della personalità dell’individuo. Un tratto caratteristico dell’interculturazione è l’accettazione sia delle regole che fissano i rapporti sociali sia delle responsabilità attribuite ai ruoli sociali. La psicologia ha per oggetto di studio la mente umana che studia attraverso una serie di strumenti di mediazione perché non si può accedere ad essa in modo diretto. Per quanto riguarda il concetto di formazione, esso no è chiarito in modo dettagliato da questa disciplina perché essa si articola in diverse branche specializzate. Tuttavia è possibile individuare 4 tematiche intorno alla quale ruota la riflessione psicologica: 1) la prima tematica si sofferma sullo studio dell’apprendimento di condotte; 2) la seconda è relativa allo studio delle funzioni psichiche (come immaginazione, intuizione, sentimento);3) la terza si concentra sullo studio di istanze psichiche come istinti, desideri, complessi; 4) la quarta è legata alla comprensione della capacità adattiva e creatrice e privilegia lo studio della persona che sta attualizzando una sua intenzionalità. PIAGET: Piaget intende l’organismo come unità psico-somatica che vive un rapporto dialettico costante con l’ambiente esterno; rapporto che si articola in fasi di assimilazione e di accomodamento. L’assimilazione è quel processo mediante il quale il soggetto acquisisce nuove conoscenze e risolve nuovi problemi utilizzando gli schemi mentali che già possiede; l’accomodamento è – invece- quel processo mediante il quale l’individuo fa proprie nuove nozioni e risolve nuove problematiche mediante la costruzione di nuovi schemi mentali, prodotti dall’associazione di ciò che già si possiede e ciò che è nuovo. L’assimilazione e l’accomodamento costituiscono i due processi fondamentali della formazione che, Piaget, considera quel processo continuo di auto-regolazione di un organismo in costante interazione con l’ambiente. L’energia che spinge il soggetto ad autoregolarsi e a formarsi è l’interesse, il quale è un estensione del bisogno che – articolandosi in diverse forme- costituisce un sistema di valori che definiscono gli scopi dell’azione. Nell’interazione con l’ambiente, l’uomo ha una duplice funzione: da un lato egli effettua le operazioni di assimilazione e accomodamento; dall’altro si orienta in funzione dell’interesse. Infine, anche se Piaget sostiene che le radici della conoscenza sono di ordine biologico e che essa si costruisce in base a delle potenzialità neuro-psicologiche, l’interazione – da parte dell’individuo- con l’ambiente è importante perché permette a questo di acquisire quelle capacità utili per creare dei rapporti con gli altri e, quindi, dar vita alla socializzazione. DELPIERRE: Delpierre considera la formazione come un processo di emancipazione dell’uomo nei confronti dei propri automatismi e conformismi. Questo studioso parte dallo studio degli effetti prodotti da una forte emozione (come la paura) per giungere alla conclusione che le limitazioni prodotte sui nostri comportamenti da parte di queste forte emozioni possono essere superate attraverso la presa di coscienza di esse. Pertanto la formazione – in tale prospettiva- è un processo mediante il quale il soggetto cerca di superare i propri limiti partendo da un livello istintivo e affettivo, per poi giungere ad un livello cosciente. JUNG: Jung considera la formazione come il risultato della tensione dialettica tra conscio e inconscio. Per questo studioso, la psicologia a livello cosciente è costituita da 2 atteggiamenti fondamentali (estroversione e introversione) e da due coppie di funzioni: le funzioni razionali e le funzioni irrazionali; e tutto ciò conduce alla costruzione di “tipi” psicologici in base ai quali è possibile distinguere i diversi tipi di comportamenti umani e i vari modi di orientamento nella realtà. La psicologia dell’inconscio – invece- poggia su archetipi e complessi individuali che rappresentano gli indicatori di una dinamica interna non regolata dalla volontà. In quest’ottica, la formazione viene considerata come un processo di individuazione (ossia di affermazione della propria autonomia) al quale si contrappongono gli stereotipi culturali in cui il soggetto è immerso e con cui si identifica (almeno in parte). Pertanto l’individuazione è un processo di differenziazione dal collettivo che –però- non sfocia nell’individualismo. Infine Jung mette in evidenza che è molto importante l’inconscio in quanto esso svolge una funzione di riequilibrio e induce alla autoregolazione. ROGER: Roger ha affermato che la maturazione psicologica è vincolata dalla tensione verso l’autorealizzazione, ossia verso l’attualizzazione delle proprie potenzialità sotto la spinta di un’energia- presente nell’organismo umano- rivolta alla crescita, all’ampliamento e non solo alla conservazione. La presa di coscienza, da parte dell’essere umano, del funzionamento del proprio organismo lo aiuta ad autoregolarsi, rifiutando l’intervento di forze esterne. Tuttavia – a volte- si produce una spaccatura tra il sé e l’esperienza vissuta e si produce un fenomeno di dissociazione che provoca la messa in atto di un comportamento cosciente riguardo i rigidi modelli sociali e di un comportamento non cosciente riguardo la propria tendenza a realizzarsi. Roger ritiene importante ascoltare gli orientamenti interni in quanto la formazione viene intesa proprio come la capacità di apprendere dalle esperienze vissute (superando la dissociazione tra il sé e l’esterno); di saper rivisitare le proprie scelte alla ricerca di un ordine e di un senso, di riorganizzare la propria visione della realtà. Infine, per la pedagogia è fondamentale compiere una riflessione sul significato globale di formazione, in quanto – al giorno d’oggi- essa si manifesta in una società molto complessa e flessibile, erede del Moderno ma – nello stesso tempo- suo superamento, rispetto alla quale bisogna attrezzarsi cognitivamente ed eticamente. In questo contesto, l’azione formativa perché possa definirsi “educativa” (nel senso che mira alla crescita dell’individuo) non può che essere scientifica e partire da dati certi. In questo ideale di formazione non è importante la finalità verso la quale si protende, bensì il percorso in sé per se in quanto esso deve rispettare lo specifico aprendosi al generale; deve abituare il soggetto a trasferire l’idea particolare e il suo vissuto in contesti di vita più ampi e articolati; e – infine- deve spingere l’individuo a vivere non solo per se stesso, ma anche per l’altro. In questa società complessa, problematica e mutata un’influenza particolare è stata avvertita nella famiglia, la quale è sempre stata l’istituzione portante di ogni assetto sociale e il nucleo primario di socializzazione. Con la trasformazione della società anche la famiglia è cambiata in quanto si incammina verso la perdita della propria identità e verso l’articolazione in diverse forme. Tale trasformazione richiederebbe la presenza- all’interno del corpo sociale- di istituzioni capaci di sostenere le difficoltà che derivano da tali mutamenti e di offrire un valido aiuto educativo ai giovani. Invece la mancanza di tali istituzioni ha – come conseguenza- la manifestazione di una serie di problemi sociali (devianza, droga, criminalità minorile, ecc.). il cambiamento della società ha influenzato, non solo la famiglia, ma anche l’individuo stesso ed è proprio per questo motivo che chi si interessa di educazione non può sottrarsi al compito di osservare i cambiamenti che avvengono nel mondo e nella comunità. Nella società moderna si sta verificando uno slittamento delle fasi della vita che Petr Altheit ha definito drammatico: infatti, mentre la durata della vita è in aumento, si sono allungate l’età della giovinezza e la old age (ossia l’età della pensione). Inoltre, rispetto alla lunghezza del corso della vita, è diminuito il tempo in cui si è genitori e cresciuto quello in cui si è figli. A ciò si è aggiunto anche una modifica strutturale nelle biografie lavorative, al giorno d’oggi – infatti- è sempre più rara la successione: periodo di formazione, fase dell’attività lavorativa, periodo di riposto; in quanto i periodi di formazione si innestano su quelli di occupazione che diventano frammentati e interrotti. Per questo motivo – e in particolar modo perché i periodi di formazione tendono ad essere maggiori rispetto a quelli dedicati all’attività professionale- è nata l’esigenza di ripensare alla formazione, cercando di adeguare gli obiettivi e le modalità attuative alle esigenze di una realtà la cui caratteristica dominante sembra essere la fluidità. Dall’analisi di ciò si evince che tutto è in movimento, tutto cambia e nell’ambito lavorativo le richieste diventano sempre più specifiche ed esigenti, mentre i posti di lavoro diminuiscono a causa dei tagli economici. In un mondo così articolato, complesso e articolato, il singolo rischia di essere schiacciato ed è per questo che la formazione è fondamentale in quanto essa spinge il soggetto a prendere coscienza dell’azione conformista promossa dai mass-media e dai personal-media (in particolare) che puntano alla creazione di un soggetto di massa, e – alla luce di ciò- ad allontanarsi, ad emanciparsi. 2.4 L’ORIZZONTE DELLA COMPLESSITA’ Nel mondo moderno affiora il problema di stabilire le coordinate di senso della formazione in quanto essa non è importante solo per il singolo, ma anche per la sopravvivenza della società. in una comunità così complessa (come quella moderna) e inserita nell’era della complessità l’individuo rischia di trovare difficoltà nell’orientarsi se privo di un bagaglio formativo che gli fornisca le coordinate necessarie a governare razionalmente gli eventi e a vivere senza angoscia l’incertezza e la provvisorietà, caratteristiche tipo della complessità. Da un punto di vista gnoseologico (ossia relativo alla conoscenza) la complessità ha segnato il declino dell’onniscienza, ossia di quella tendenza a problematizzare e ad approfondire. A tal proposito, la ragione ha cominciato a tener presente anche il frutto dell’irrazionale, i diversi punti di vista esistenti e ad accettare la singolarità e la particolarità. Tuttavia non è stato mai messo in discussione il ruolo della scienza, che è sempre capace di fornire una chiave di lettura della realtà e di offrire un modello rappresentativo che viene accettato in senso probabilistico. Quando si parla di complessità, è fondamentale citare Edgar Moren (citato anche da Cives) il quale sostiene che l’aspirazione verso totalità chiuse, complete, non favorisce la crescita nella società moderna in cui – invece- bisogna imparare a convivere con la complessità e civilizzare la propria mente in direzione di questa. Infine Moren ha sottolineato che la democrazia non è altro che una forma di governo che tende a salvaguardare la complessità. La complessità comporta l’acquisizione di un atteggiamento mentale duttile, ossia aperto alle varie dimensioni del reale e capace di cogliere razionalmente la realtà senza trascurarne gli elementi di incertezza e di variabilità. Visalberghi ha affermato che nella società moderna e complessa, adottare il principio di semplificazione(che in precedenza ha portato a grandi risultati) non è più utile per affrontare i problemi che si pongono di fronte all’uomo. A tal proposito è importante far riferimento a Cives, il quale ha affermato che l’uomo può vincere la sfida della complessità attraverso il disincanto, e cioè mediante la capacità di interpretare la realtà senza farsi condizionare dall’ideologia dominante della società e dalle illusioni della sicurezza e dell’onniscenza. Il disincanto permette all’uomo di aprirsi nei confronti del mondo con disponibilità al confronto e alla conoscenza e, a tal proposito, è fondamentale sottolineare che è compito dell’educazione democratica fornire all’individuo gli strumenti necessari per vivere in una realtà del genere. In questa prospettiva, l’educazione non deve essere addestramento, ma quel processo mediante il quale il soggetto acquisisce la capacità di adeguarsi a molteplici esigenze e di affrontare situazioni nuove, trovando nel proprio bagaglio di conoscenze la soluzione più adatta al problema. Tuttavia, la realizzazione di un’educazione democratica non è molto semplice in quanto non bastano le capacità, ma c’è bisogno di una tensione ideale e della consapevolezza di partecipare ad un qualcosa di veramente importante. Già nel 1917, Dewey scrisse che il compito di una società mobile deve essere quello di far si che i propri membri siano educati all’iniziativa personale e all’adattabilità in modo da poter evitare la loro sopraffazione da parte dei problemi, di cui non capirebbero il significato. L’educazione democratica è nata da una rivoluzione copernicana, che alimentata da un approccio scientifico e dalla tendenza a sviluppare la società in senso democratico. Ha provocato un ribaltamento nell’ambito dell’insegnamento: al centro di questo non è stato più messo il docente che aveva il compito di trasferire i propri saperi ai discenti; bensì l’alunno il quale doveva essere aiutato a costruirsi armonicamente come persona nella sua interezza, fatta di sentimenti e di intelletto, educato ai valori della solidarietà, dell’uguaglianza e ai rapporti interpersonali, rispettando gli altri e la capacità di affermare le proprie idee. Un progetto educativo del genere può essere svolto solo in una scuola aperta alla società, e cioè capace di cogliere i fermenti sociali e di valorizzare i cambiamenti che avvengono all’interno della comunità. Di conseguenza, anche la didattica si è ritrovata a dover cambiare: essa deve puntare sulla ricerca, sull’indagine e – infine- deve stimolare l’interesse dell’allievo, fornendogli anche gli strumenti necessari per interpretare la realtà. In tale prospettiva, il compito dello Stato è quello di garantire la libertà dell’insegnamento all’interno della scuola, la quale è diversa dalla libertà della scuola che consiste nell’apertura (da parte delle istituzioni) di scuole ispirate ai loro orientamenti ideologici. Remo Fornaca considera la complessità come uno strumento metodologico attraverso il quale interpretare la realtà, che non si presta mai ad una razionalizzazione, né può essere inquadrata in degli schemi semplicistici. La società attuale, poi, si presenta molto più complessa rispetto a quella del passato in quanto oltre agli effetti che hanno investito da sempre la comunità, essa è dominata anche da quelli innescati dal progresso scientifico e dal conseguente progresso tecnologico il quale ha alimentato – in tutti- l’illusione di vivere in un villaggio globale. Da ciò si evince che scienza, tecnica e informazione sono strumenti capaci di indurre dei cambiamenti nella società e sui modelli educativi, nonché di porre il problema del controllo e della gestione di queste risorse per indirizzarle verso un uso che ne impedisca processi di emarginazione e di esclusione dei più deboli. In particolare, Foranca si è soffermato sulla gestione dei modelli educativi e della scuola e – a tal proposito- ha affermato che se attualmente viene riconosciuto il ruolo centrale della scuola e dell’educazione, è importante – nello stesso tempo- sottolineare che all’interno della comunità ci sono una serie di discrepanze che colpiscono il mondo scolastico. Infine Fornaca ha colto una differenziazione sociale in atto tra i gruppi economicamente e culturalmente più deboli, i quali si affidano alla scuola pubblica e alle classi sociali più egemoni il cui compito dovrebbe essere quello di rendere meno ampia questa differenziazione mediante l’offerta di garanzie culturali – da un lato; e dall’altro integrando i percorsi scolastici con attività nel tempo libero mirate a fornire – ai bambini- strumenti idonei all’inserimento adeguato in un certo mondo. Da ciò si evince che si sta svolgendo un processo di divaricazione sociale che tende ad allargare sempre di più la forbice tra i soggetti socialmente e culturalmente più deboli e quelli più forti. Tale divaricazione è agevolata dal disgregarsi di un tessuto sociale solidaristico e dal prevalere della competizione che spinge verso il pragmatismo e l’individualismo; e prenderne atto è il primo compito della pedagogia. La nuova era tecnologica richiede delle competenze sempre più specializzate, che – peròla società non riesce a fornire, alimentando – in questo modo- il processo di emarginazione. Per risolvere tale questione, alcuni propongono di puntare su modelli formativi tesi a fornire strumenti logici di base che possano favorire l’acquisizione di linguaggi anche formali. Tuttavia tale posizione è dannosa perché è unilaterale e perché pretende di rappresentare la complessità dell’uomo schiacciandolo sulle sue funzioni razionali di tipo logico-scientifico. Inoltre un’impostazione formativa del genere (che è lontana dalla razionalità vissuta)alimenta il distacco che esiste tra scuola e società e darebbe vita ad una comunità in cui sarebbe possibili distinguere isole tecnicamente avanzate in un mare di irrazionalità ed emarginazione. Proprio per questo motivo è importante puntare su una nuova educazione, la quale abbia la capacità di formare un soggetto in grado di rispondere alle esigenze poste dal corpo sociale ma che – nello stesso tempo- non trascura la propria dimensione esistenziale, storica e sociale. All’interno di società complesse come quelle attuali o come quelle che stanno emergendo, è importante che ci sia e si sviluppi una cultura pedagogica capace di prendere coscienza dei problemi vigenti e di rispondere alle istanze di apprendimento teorico e di ricerca scientifica. La formazione e la diffusione di una nuova pedagogia è fondamentale in quanto il grado di civiltà di una società viene misurato prendendo in considerazione proprio la qualità dei costumi educativi e della cultura pedagogica, la quale deve proporre apporti conoscitivi e metodologie differenziate in rapporto ai problemi da affrontare e convergenti rispetto ai fini da raggiungere. Gli elementi che stanno alla base di questo nuovo progetto educativo sono: 1) l’uso di una didattica moderna, ossia coinvolgente, concentrata sull’alunno, aperta alle nuove tecnologie; 2) il riferimento ad una formazione scientifica. Cambi ha parlato di complessità e – a tal proposito- ha affermato che la complessità è diventata un principio educativo di riferimento che la pedagogia deve costruire e valorizzare. Per questo motivo, il compito della pedagogia è quello di: 1) evidenziare il ruolo formativo; 2) di fissare le nuove competenze cognitive e formae mentis richieste; 3) e – infine- di contrassegnare il nuovo tipo di socializzazione. Da ciò si evince che il compito della pedagogia è quello di farci entrare nel parallelismo/simbiosi che si è creato – al giorno d’oggi- tra complessità e formazione. Una riflessione molto particolare sulla moderna società è stata quella dell’economista Polanyi, il quale sostiene che la nascita e lo sviluppo della società tecnologica ha sottratto all’uomo la libertà, in quanto esso ha prodotto un conformismo mentale. Polanyi ha messo – poi- in risalto la relazione esistente tra complessità sociale e perdita di libertà dell’uomo, causata dalla dipendenza nei confronti delle nuove tecnologie. Queste macchine- infatti- se da un lato hanno agevolato la vita dell’individuo perché gli hanno consentito di possedere strumenti per dominare la natura e di non svolgere più lavori pesanti da un punto di vista fisico; dall’altro hanno indotto la nascita di una nuova paura: quella di essere distrutti da chi gestisce queste macchine, in poche parole di chi comanda. Secondo l’economista Polanyi, per impedire la scomparsa della libertà è necessario intervenire mediante: 1) un’educazione che incoraggi l’indipendenza del pensiero, la quale è fondamentale per padroneggiare gli aspetti della vita sociale; 2) gli interventi legislativi, i quali devono sancire il diritto all’obiezione e tutelare i diritti delle minoranze che sono quelle più colpite all’interno della società. 2.5 I MODELLI DELLA COMPLESSITA’ Cambi sostiene che il modello della complessità si afferma come un paradigma epistemico generale, nonché come un ideale operativo-regolativo e descrittivo dell’identità dei saperi contemporanei i quali sono legati sia alle scienze della natura sia alle scienze umane e richiedono un approccio sistemico capace di cogliere le interconnessioni reciproche. Ciò comporta la ricerca di un modello interpretativo attento alla specificità e non linearità di ogni sapere, nonché svincolato dalla ricerca di leggi universali. La pedagogia, che è alla ricerca della sua autonomia, ha trovato nel paradigma della complessità il suo fondamento in quanto in esso ha la possibilità di condurre ad unità le sue antinomie e di affermarsi come autonoma da quei saperi che – per secoli- hanno cercato di assorbirla. Due studiosi che hanno compiuto una riflessione sul modello della complessità sono stati Prigogine e Morin; il primo nell’ambito delle scienze naturali, il secondo il quello delle scienze umane. Prigogine ha affrontato il tema della complessità dal punto di vista delle scienze fisiche e ha messo in discussione molti punti della fisica classica partendo dallo studio di situazioni di non-equilibrio in cui la materia assume proprietà diverse. A tal proposito, egli ha fatto riferimento al fenomeno di instabilità di Bernard, il quale ha dimostrato che là dove ci si aspettava la comparsa di strutture caotiche e disordinate sono venute fuori dalle strutture coerenti e ordinate. Dall’analisi di ciò si è dedotto che dal non-equilibrio possono venire fuori delle strutture complesse e impensabili all’interno di una situazione ordinata come quella descritta dalle leggi della fisica classica, le quali sono legate al concetto di reversibilità. Tale concetto indica che un fenomeno può essere ripercorso nuovamente più volte senza che nulla cambi; ed è proprio contro questo concetto che Pregogine propone quello di irreversibilità secondo il quale non c’è possibilità di ripercorrere le stesse fasi e – di conseguenza- giungere alle stesse conclusioni. Un altro problema legato alla reversibilità è quello che essa non ha mai permesso di distinguere il prima e il dopo del tempo; mentre l’irreversibilità ha consentito di concepire una storia naturale del tempo. Inoltre la fisica contemporanea è giunta alla conclusione che la maggior parte dei sistemi dinamici sono instabili e che tale instabilità è associata a nuovi concetti, come quello di tempo interno dei sistemi che si distingue completamente dal tempo astronomico. Prigogine ha – poi – affermato che il mondo moderno è caratterizzato dall’instabilità dei sistemi e per nulla dalla ripetitività e dalla stabilità. Per la fisica classica, la materia è simmetrica rispetto sia al passato che al futuro ( i quali si equivalgono); ma il secondo principio della termodinamica, che ha sottolineato l’aumento della entropia (ossia il disordine dell’universo), ha rotto tale simmetria e – di conseguenza- ha messo fine alla divisione tra scienze dure e scienze umane. Partendo da ciò Pregogine ha proposto – infine- un progetto teso a stabilire un legame più stretto tra cultura delle scienze fisiche e cultura delle scienze umane. Oltre a Prigogine, anche Morin ha fatto una riflessione sulla complessità partendo proprio dalla distinzione – che è sempre stata portata avanti- tra scienze umane e scienze fisiche. Le prime sono state messe su di un gradino inferiore rispetto alle seconde perché si ritrovavano coinvolte nella complessità dei fenomeni oggetto del loro studio. In seguito la situazione è cambiata e – di conseguenza- tutti gli aspetti considerati non-scientifici sono stati presi in considerazione e il termine “complessità” è risultato essere quello più adeguato per descrivere la realtà. Per Morin, la complessità non può essere studiata e spiegata; ed è proprio per questo motivo che egli ha cercato di soffermarsi sugli aspetti più particolari di essa. Innanzitutto egli ha parlato di “caos e disordine”, mettendo in evidenza che essi sono presenti nell’universo e nel suo sviluppo, ma – nonostante tutto- non è possibile dare una spiegazione chiara su questo punto perché resta ancora il dubbio che il caso ci appaia tale solo per la nostra ignoranza. La complessità può essere – poi- approcciata mediante la complicazione legata alle interazioni che legano i fenomeni biologici e sociali; e attraverso una relazione esistente tra ordine, disordine e organizzazione la quale può essere sintetizzata mediante il principio che sottolinea che dalla turbolenza possono nascere fenomeni organizzati. Alla complessità si può giungere anche attraverso il concetto di organizzazione, il quale può essere definito il collante che consente ad elementi singoli di diventare sistema. Il sistema creato dall’organizzazione è una struttura unitaria e molteplice insieme e, per questo, complessa; ed essa si differenzia dalla somma delle parti in quanto – in quest’ultimo caso- le parti perdono la loro autonomia facendosi assorbire dal tutto di cui prende in considerazione le qualità emergenti (ossia quelle qualità che esistono solo a livello del sistema). Esempi di qualità emergenti in un sistema sociale sono: la cultura, il linguaggio, l’educazione le quali sono proprietà del tutto e non del singolo ma che – nello stesso temo- contribuiscono a sviluppare nei soggetti capacità mentali e intellettive. Un altro elemento importante della complessità è il principio ologrammatico, il quale mette in evidenza che il tutto è compreso nelle parti e che le parti nel tutto. Ad esempio, l’individuo che entra nella società non mette da parte la sua individualità ma si pone nella condizione in cui essa possa essere arricchita dai diversi elementi che fanno parte del sistema. Al principio ologrammatico si associa il principio dell’organizzazione ricorsiva e ciò mette in evidenza che la complessità non è legata solo a fenomeni empirici (come il caso, il disordine, ecc.) ma anche a problemi di ordine concettuale inerenti all’impossibilità di stabilire un limite tra il tutto e la parte. Di conseguenza la complessità deve essere fissata come una struttura portante e pensata non in modo semplice e lineare, ma come un intreccio, un insieme di nessi o come una rete di reti. Inoltre la complessità va studiata nelle sue logiche, che sono diverse, plurali e dismorfiche e pensata in relazione ai fenomeni. Infine bisogna sottolineare che la complessità ha funzioni epistemologiche ( a livello metateorico e teorico), abiologiche e prassiche ed è proprio su questi piani che va illuminata e potenziata. Un altro elemento della complessità è la perturbazione provocata dalla presenza dell’osservatore, la quale viene riconosciuta sia a livello delle scienze fisiche che a livello delle scienze umane. Alla luce di ciò Morin ha affermato che ogni teoria scientifica contiene un nucleo non scientifico in quanto la complessità è alla base sia delle teorie scientifiche che di quelle più semplici. Inoltre lo studioso ha affermato che la complessità è costituita da una componente negativa e una positiva: la prima coincide con l’introduzione dell’incertezza nel processo conoscitivo; la seconda con la spinta verso lo sviluppo di un pensiero multidimensionale. La complessità induce a rinunciare al mito della chiarificazione totale dell’universo, ma nello stesso tempo - incoraggia proseguire verso il cammino della conoscenza. Per molto tempo si è creduto che bisognava eliminare tutto ciò che fosse irrazionalizzabile per poi chiudere tutte le strutture del reale in una struttura di idee coerenti o in un’ideologia. Ma nel tempo si è costatato che la realtà oltrepassa le nostre strutture mentali e che il fine della nostra conoscenza non è quello di chiudere il dialogo nei confronti dell’universo, bensì di aprirlo. Il metodo della complessità punta proprio su questo: ossia pensare senza chiudere mai i concetti, di spezzare le sfere chiuse, si sforzarsi nel comprendere la multidimensionalità, di pensare con singolarità, ecc. l’imperativo della complessità consiste – poi- nel capire anche che l’organizzazione non si risolve in poche leggi in quanto essa ha bisogno di un pensiero estremamente elaborato. Pertanto, dall’analisi di tutto ciò, è possibile dedurre che la distruzione di quel falso infinito che pretendeva di attribuire poteri illimitati alla ragione ci ha aperti – oggi- verso un nuovo infinito: la conoscenza che non giunge mai a compimento. CAPITOLO 3 I NUOVI MODELLI DELLA SOCIETA’ COMPLESSA 3.1 LA FORMAZIONE NELLA SOCIETA’ DELLA CONOSCENZA Nella moderna e complessa società lo sviluppo tecnologico ha determinato una dematerializzazione del lavoro e la richiesta – da parte delle imprese- di competenze professionali sempre più specifiche e legate alla capacità di acquisire conoscenza. In questo contesto – infatti- sono nati e sono richiesti i knowledge workers, ossia i lavoratori della conoscenza i quali devono essere capaci di approcciarsi ai vari aspetti della conoscenza. In questo modo si è passati da una società fondata sul lavoro ad una società che apprende, all’interno della quale il sapere rappresenta lo strumento principale per entrare nel mondo del lavoro e nell’ambito sociale. Questa trasformazione – che ha investito il mondo del lavoro- ha determinato la scomparsa dell’operaio-massa e l’aumento dei lavoratori di alta qualificazione; il cambiamento del volto delle imprese e della Pubblica Amministrazione e – infine- ha messo in il sistema educativo il quale non riesce ad adeguarsi in modo repentino alle esigenze culturali emergenti dalla società. Una ricerca condotta da Butera e Donati ha messo in evidenza che negli ultimi anni il numero di lavoratori di alta qualificazione in tutti i campi dell’attività di impresa è aumentato notevolmente (nonostante questi non abbiano una rappresentanza sindacale) e la conseguenza di ciò è stata una grande trasformazione della struttura dei sistemi di lavoro. Da questa ricerca è – poi- emerso che all’interno delle aziende esiste una categoria di lavoratori culturalmente trainante: essi sono i professionisti d’azienda o professionisti che operano nelle organizzazioni, i quali hanno dei ruoli specifici che – però- non ne fissano in modo rigido le loro competenze, i loro compiti e la loro organizzazione del lavoro. Da ciò si evince che il ruolo non è una gabbia in cui è costretto il lavoro delle persone, ma una sorta di copione che si evolve in parallelo con le capacità e le competenze individuali e, in particolare, mano a mano che si modificano le esigenze produttive. Pertanto i curricula di studio e la formazione continua rappresentano una componente fondamentale nella vita dei professionisti d’azienda ed è proprio per questo motivo che si sono instaurati dei rapporti tra Università e aziende. Inoltre dalla ricerca è emerso – ancora- che la società moderna è dominata da una vera e propria emergenza formativa sia per i giovani che devono acquisire quelle formae mentis adeguate ad affrontate le nuove esigenze del mercato del lavoro, sia degli adulti che rischiano di essere espulsi dal mondo del lavoro perché privi di tali capacità mentali. A tal proposito Gelpi ha affermato che nonostante si continuino a proporre politiche di sviluppo e di educazione per poter combattere la crisi dei lavoratori e risolvere i problemi economici presenti in tale realtà, la formazione resta – ancora- uno strumento tendente a sottolineare, ulteriormente, le differenza tra i lavoratori. Infatti l’investimento nella formazione tende ad avvantaggiare i lavoratori salariati e quelli indipendenti, mentre i lavoratori giovani e adulti economicamente non vantaggiosi vengono dimenticati o ricevono una formazione limitata, al fine di limitare i danni sociali. La soluzione migliore, invece, non è quella di proporre degli stage che producono risultati per gli educatori e non per i lavoratori in formazione, bensì quella d: 1) organizzare lunghi percorsi formativi per colmare le lacune di quei lavoratori che non hanno una adeguata formazione iniziale; 2) dar vita a formazioni integrate con i lavoratori in attività. Per quanto riguarda i giovani esclusi dal mercato di lavoro è necessaria una revisione del sistema educativo per impedirne la futura esclusione. Sulla futura società – dominata dalla presenza dei knowledge workers- sono nate due posizioni dialetticamente diverse: una sostiene che nella comunità futura ci saranno – da un lato- un gruppo ristretto ed elitario di lavoratori che deterrà una serie di conoscenze specifiche e il potere economico e sociale; dall’altro una moltitudine di lavoratori precari con una scarsa istruzione e continuamente a rischio di disoccupazione. L’altra posizione considera la diffusione delle nuove tecnologie nel mondo del lavoro come un elemento che possa garantire la diffusione del sapere, il quale deve passare attraverso delle politiche di riforma e di qualificazione dei sistemi formativi. Nel marzo del 2000 il Consiglio europeo ha sottolineato la necessità di applicare una strategia comune tesa a sviluppare progetti di formazione permanente ed istruzione aventi come obiettivi: 1) ampliare i sistemi di istruzione e formazione; 2) fornire a tutti la possibilità di accesso alla formazione; 3) promuovere il diritto di una cittadinanza attiva. In questo contesto è nato, accanto al concetto di lifelong learning che riguarda la formazione, quello di lifewide learning che estende la formazione ad una molteplicità di ambiti e di aspetti della vita e ai diversi tipi di apprendimenti, da quello scolastico a quello lavorativo a quello esperienziale. Il concetto di lifelong learning è molto importante ed è legato ad una visione della società in cui l’istruzione, l’educazione e la formazione sono gli elementi fondanti di essa. Inoltre in tale comunità gli individui entrano continuamente in contatto con i prodotti di una conoscenza in continua evoluzione ed è per questo motivo che la capacità ad apprendere rappresenta – per i singoli individui- la condizione indispensabile per autodeterminarsi e per conservare la propria autonomia e libertà. La società moderna è – quindi- una learning society; espressione che ci rimanda ad un’immagine di comunità fondata sulla conoscenza e all’interno della quale l’apprendimento è indispensabile. Aureliana Alberici ha disegnato il percorso storico del concetto di learning society e ha affermato che esso è nato già negli anni ’60 per opera di Hutchins, il quale l’ha immaginata come la società del futuro in cui le istituzioni dovevano favorire la crescita delle potenzialità umane attraverso l’apprendimento, che rappresenta l’obiettivo comune degli individui e della società. Nel 1994 Ranson ha ipotizzato una società che ritenesse prioritaria la promozione dei valori dell’educazione e dei processi di apprendimento in quanto essi sono elementi indispensabili per la formazione di cittadini capaci di partecipare alla vita sociale in modo responsabile. Altri studiosi hanno elaborato un’immagine della società futura come comunità fondata sull’educazione perché considerata – quest’ultima- come condizione necessaria per una crescita democratica. Un’analisi particolare è stata quella di Schwartz, il quale ha individuato nelle società europee i tratti tipici di una learning society. Tali tratti sono: l’aumento del tempo libero, una grande flessibilità dei percorsi di vita, la moltiplicazione delle informazioni e una crescente domanda di educazione. Partendo da questa sua analisi S. sostiene che il futuro sarà caratterizzato da un notevole sviluppo dei media e da una crescita qualitativa dei sistemi educativi. 3.2 LA FORRMAZIONE PERMANENTE COME SFIDA PEDAGOGICA In una società complessa e articolata come quella moderna, è indispensabile promuovere una serie di iniziative che mirino allo sviluppo della formazione permanente. Tale questione, a partire dal 2000, è diventata di importanza sovrannazionale in quanto in questo stesso anno il Consiglio Europeo di Lisbona ha affermato – nelle sue conclusioni- che il buon esito della transizione ad un’economia e una società basate sulla conoscenza si ha solo nel momento in cui c’è la promozione e la diffusione della formazione permanente. Il successivo Consiglio Europeo (tenutosi a Feira nel giugno 2000) ha sottolineato l’importanza di favorire la formazione permanente per tutti e in risposta a ciò la Commissione Europea ha elaborato un “Memorandum sull’istruzione e la formazione permanente”. Il Memorandum si articolava intorno a sei messaggi chiave in ciascuno dei quali erano formulate una serie di questioni; e dopo la sua diffusione la Commissione europea ha redatto un rapporto sotto il nome di “Comunicazione della Commissione” all’interno della è stato messo in evidenza: l’ampiezza della consultazione sul Memorandum il quale ha coinvolto diverse istituzioni e organizzazioni; le iniziative dell’agenda sociale europea finalizzate a ridurre le disuguaglianze e a promuovere la coesione sociale; il compito affidato agli stati membri di elaborare e attuare strategie coerenti con l’apprendimento permanente i cui obiettivi sono 1) l’autorealizzazione; 2) la cittadinanza attiva; 3) l’inclusione sociale; 4 ) l’occupabilità; 5) l’adattabilità professionale. In questo documento l’attenzione è caduta, poi, sulle attività di apprendimento da utilizzare (formale, informale o non-formale); sull’alta qualità di esso e sulla sua pertinenza. Inoltre il documento traccia le linee d’azione di una corretta strategia formativa e ne delinea i punti nodali che sono 5: 1) la base dalla quale bisogna partire è la conoscenza della domanda di apprendimento. Ciò significa che prima di attuare qualsiasi strategia di apprendimento bisogna conoscere i bisogni educativi dei singoli e della collettività, nonchè le richieste che provengono dal mondo del lavoro. 2) il secondo punto coincide con il determinare le risorse adeguate. Ciò indica che ogni azione di apprendimento permanente richiede un aumento dei livelli di investimento che può essere attuato; destinando maggiori risorse; ottimizzando la distribuzione delle risorse esistenti ed assicurando la trasparenza della loro allocazione; studiando nuove forme di investimento. 3) Facilitare l’accesso alle opportunità esistenti, fornendo – da un lato- degli strumenti flessibili, integrati ed efficaci; e – dall’altro- promuovendo nuovi processi di apprendimento cercando di eliminare tutti quegli ostacoli che impediscono a gruppi marginali di accedere alle risorse formative. 4) Creare una cultura di apprendimento attraverso: la promozione di una percezione positivo dell’apprendimento in modo da sensibilizzare i cittadini ai vantaggi e ai diritti offerti da esso; la promozione del ruolo dei fornitori di informazione e di orientamento allo scopo di sensibilizzare gli individui ai vantaggi economici, sociali, politici offerti dall’apprendimento; l’incoraggiamento delle imprese a diventare organizzazioni che apprendono; l’incoraggiamento dei prestatori di lavoro, delle associazioni di volontariato, delle organizzazioni sindacali a promuovere offerte di lavoro adatte ai bisogni dei gruppi di cui si occupano; la valorizzazione dell’apprendimento in generale, ma – in particolar modo- di quello non-formale e informale. 5) Aspirare all’eccellenza, e cioè ideare meccanismo volti a massimizzare la qualità dei processi attuativi e dei servizi correlati all’apprendimento in quanto la qualità non è solo un obbligo, ma un fattori di motivazione. Il documento mette in evidenza l’importanza di dar vita a strategie pedagogiche che puntano su di una didattica la quale mette al centro il discente e che è caratterizzata da un’elevata flessibilità e adattabilità a contesti non necessariamente formali. Da ciò è nata anche l’esigenza di provvedere ad una specifica formazione x i mediatori culturali i quali devono essere preparati per poter affrontare situazioni formative diverse. L’idea di lifelong learning può realizzarsi nel momento in cui viene promossa una politica tesa a realizzare progetti di formazione permanente, il che significa partire da una riflessione sull’organizzazione della formazione formale e trasformarla rendendo – da un lato- i percorsi scolastici più flessibili e reversibili; dall’altro facilitando i passaggi tra i vari indirizzi di studio e adottando strategie finalizzate alla promozione di una formazione che duri tutta la vita. Tuttavia, riuscire a dare delle risposte adeguate a questi bisogni formativi così diffusi e complessi non è molto semplice in quanto accanto ad essi si presentano – nell’ambito della società- una serie di problemi che vanno affrontati e risolti in tempi più ridotti (come l’analfabetismo, la disoccupazione, l’emarginazione). Per superare queste emergenze – legate particolarmente all’educazione e alla formazione degli adulti – e rendere concreta la formazione permanente è necessario adottare una serie di strategie. Una strategia possibile per concretizzare una politica di lifelong learning è stata indicata dall’OECE-OCDE il quale ha messo in evidenza che l’azione (finalizzata a rendere effettiva l’educazione permanente) deve seguire tre direttrici: 1) migliorare le basi di apprendimento per tutti; 2) agevolare le transizioni in ogni fase della vita (quindi sia nel mondo della scuola che in quello lavorativo); 3) ripensare ai ruoli e alle responsabilità delle istituzioni formative e dei loro partners. Da ciò risulta evidente che è necessario riorganizzare i sistemi di istruzione attuali in modo da offrire agli adulti una molteplicità di occasioni di formazione e di istruzione. La formazione continua va ripensata per adeguarla al cambiamento dei partecipanti al processo formativo; ai sistemi di istruzione e all’educazione degli adulti. Al giorno d’oggi gli educatori non si trovano di fronte a dei soggetti usciti precocemente dall’istruzione formale, ma di fronte a degli individui che vogliono formarsi per un nuovo lavoro e che stanno uscendo da periodi di apprendimento molto lunghi. Da ciò si evince che il percorso di vita di un uomo di oggi è diverso rispetto a quello di un uomo di ieri: infatti prima si seguiva la scansione scuola-lavoro-finelavoro; oggi il tempo dell’apprendimento e quello del lavoro possono anche intersecarsi. In una situazione così complessa viene fuori la dimensione individuale dell’apprendimento la quale punta sullo sviluppo di percorsi individualizzati di istruzione e sul riconoscimento di ogni forma di apprendimento; inoltre, per rendere praticabile una formazione permanente all’interno di una società così complessa, è necessaria un’azione sinergica tra soggetti, agenzie formative istituzionali e gruppi che condividono gli stessi obiettivi. Tali obiettivi sono: 1) reperire le risorse economiche; 2) trovare un punto di convergenza tra i bisogni individuali e gli interessi specifici della comunità; 3) realizzare una attività di orientamento continuo la quale deve coinvolgere le istituzioni, le agenzie formative e i soggetti sia economici che professionali. MEMORANDUM SULL’ISTRUZIONE E LA FORMAZIONE PERMANENTE La trasformazione che sta attraversano l’Europa oggi può essere comparata a quella della rivoluzione industriale in quanto la tecnologia digitale sta cambiando la nostra vita e la biotecnologia cambierà – probabilmente- la vita stessa. A tutto ciò si aggiunge il fatto che di fronte agli uomini si aprono diverse possibilità, ma aumentano i rischi e le incertezze; che il mondo del lavoro richiede personale sempre più specializzato e formato e mette da parte coloro che hanno qualifiche sufficienti; che la popolazione sta invecchiando molto velocemente. Infine, le società europee si presentano come mosaici pluriculturali, ossia come luoghi in cui più culture si mescolano tra loro il modo da dare libero spazio alla creatività e all’innovazione. Tutti i cambiamenti che stanno attraversando il nostro continente e il nostro paese costituiscono una parte integrante del processo di transizione verso la società della conoscenza,in cui ciò che conta maggiormente è la capacità umana di creare e usare conoscenze in maniera efficace e intelligente perché solo in questo modo è possibile affrontare la sfida del cambiamento. La formazione permanente non si costruisce solo sulla base della formazione avvenuta in famiglia e a scuola, ma va consolidata con un apprendimento più solido da attuare nella vita adulta in quanto per lifelong learning si intende un apprendimento che non si pone dei limiti di tempo ma che – nello stesso tempo- ha bisogno di una base solida per esistere: tale base è data da un’istruzione elementare di qualità la quale deve consentire a tutti i giovani di acquisire le competenze di base richieste da un economia fondata sulla conoscenza e deve insegnare ad apprendere, facendo si che tutti assumono un atteggiamento positivo nei confronti dell’apprendimento. Infatti la formazione permanente potrà concretizzarsi solo nel momento in cui ci sarà – nei soggetti- un’adeguata motivazione nei confronti dell’apprendimento in quanto quest’ultima insieme con la diversità dell’offerta rappresentano le condizioni necessarie per la riuscita della formazione e dell’istruzione permanente. Per incentivare un atteggiamento positivo e motivato da parte dei soggetti nei confronti dell’apprendimento, i sistemi di formazione e di istruzione devono adattarsi ai bisogni dell’individuo e non viceversa. Al giorno d’oggi è possibile distinguere tre tipologie di apprendimento finalizzato: - l’apprendimento formale, il quale è quello che si svolge negli istituti d’istruzione e formazione e che porta (alla fine di un percorso) all’ottenimento di diplomi e titoli riconosciuti e validi per entrare nel mondo del lavoro. - l’apprendimento non formale, il quale avviene al di fuori delle strutture dedicate all’istruzione e alla formazione e non rilascia certificati riconosciuti. Tuttavia questo apprendimento – molto spesso- avviene in agenzie ed istituti in cui le attività proposte vanno ad integrare o rappresentano un continuo di quelle svolte all’interno della scuola. - l’apprendimento informale, il quale è quello che avviene in modo non intenzionale perché coincide con tutto ciò che noi apprendiamo vivendo la quotidianità. Fino a questo momento si è data molta importanza all’apprendimento formale e questo tipo di atteggiamento ha influenzato sia l’impostazione dei modelli di istruzione e formazione sia la percezione generale dell’apprendimento. Infatti l’apprendimento non formale è stato sempre sottostimato, mentre quello informale completamente trascurato nonostante esso rappresenta la prima forma di apprendimento e la base dello stesso sviluppo infantile. Tuttavia, con la nascita e lo sviluppo della concezione che sottolinea l’importanza della formazione permanente anche questi due tipi di apprendimento sono stati presi in considerazione in modo diverso. Il concetto di lifelong learning indica che la formazione segue un processo continuo o ad intervalli regolari e ad esso si associa il concetto di lifewide learning il quale sottolinea la dimensione orizzontale della formazione che – in questo senso- può avere luogo in tutti gli ambiti e in tutti i momenti della vita. Tuttavia ancora non c’è una definizione chiara e precisa di formazione e istruzione permanente in quanto essa si diversifica a seconda dei contesti nazionali che sono attraversati da una serie di cambiamenti e dal desiderio di andare sempre più incontro a quelle che sono le esigenze dei cittadini, in modo da favorire una loro partecipazione attiva nella realtà sociale. Per questo motivo l’istruzione e la formazione hanno assunto un’importanza fondamentale; infatti – grazie ad esse- le possibilità di inserimento sul mercato del lavoro e quelle relative ad un successo nella vita aumentano. Dall’analisi di ciò si evince che l’occupabilità è uno dei risultati fondamentali di una formazione riuscita; mentre l’inserimento sociale richiede qualcosa in più di un lavoro retribuito. Infine è importante sottolineare che per mettere in pratica l’istruzione e la formazione permanente è necessario incentivare la collaborazione e la cooperazione tra i ministeri, i poteri pubblici e la parti sociali, proponendosi come obiettivo quello di dar vita a dei partenariati (ossia collaborazioni) in grado di rispondere alle esigenze e ai bisogni della comunità. L’istruzione e la formazione permanenti devono essere abbinate alla collaborazione tra livelli di istruzione e formazione diversi, e cioè tra ambiti formali, informali e non formali. Attraverso questa collaborazione efficiente tra i diversi sistemi educativi – i quali vogliono rispondere a quelle che sono le esigenze dell’utenza- si crea l’immagine di una fusione progressiva tra le diverse strutture dell’offerta che , ancora oggi, sono isolate e si ha la possibilità di valutare la complementarietà dei sistemi di apprendimento e di costruire ulteriori reti di offerte formative. AGIRE PER L’ISTRUZIONE E LA FORMAZIONE PERMANENTE: 6 MESSAGGI CHIAVE Intorno all’istruzione e alla formazione permanente sono stati elaborati sei messaggi chiave i quali indicano il percorso da seguire per poter agire in questo senso. Il primo messaggio evidenza che bisogna dare la possibilità a tutti di acquisire nuove competenze di base in quanto l’obiettivo da raggiungere è quello di garantire a tutti una partecipazione attiva nella società della conoscenza. La realizzazione di tale obiettivo rappresenta la premessa di una cittadinanza attiva e dell’occupabilità nell’Europa del XXI secolo in quanto i cambiamenti economici e sociali hanno comportato un’evoluzione e un’elevazione delle competenze di base di cui ciascuno deve disporre per partecipare alla vita professionale. Queste nuove competenze sono legate alle tecnologie dell’informazione, alla conoscenza delle lingue straniere, al possesso di una cultura tecnologica e di uno spirito d’impresa; ed esse si affiancano alle qualifiche di base tradizionali: leggere, scrivere e far di conto. Il Momorandum definisce queste nuove competenze come lo strumento necessario per poter partecipare in modo attivo a tutto quello che accade nella moderna società della conoscenza e mentre alcune di queste competenze (come l’alfabetizzazione digitale) sono del tutto nuove, altre (come la conoscenza delle lingue straniere) hanno acquisito una maggiore importanza rispetto al passato. In questo contesto anche le competenze sociali sono molto importanti in quanto si presuppone che le persone devono essere più autonome, più sicure di se stesse e più determinate rispetto al passato. Inoltre un’importanza rilevante è data alle competenze relative allo spirito imprenditoriale, il quale si traduce nella capacità dell’individuo di migliorare la sua prestazione sul campo professionale e nella capacità di utilizzare le conoscenze acquisite in diversi contesti. La capacità di apprendere,quella di assimilare rapidamente e di adattarsi alle nuove situazioni sono i requisiti richiesti oggi dal mondo del lavoro. La padronanza di tali competenze rappresenta solo una prima tappa di un lungo percorso di formazione, il quale deve durare tutta la vita e deve essere arricchito costantemente da ogni esperienza ritenuta importante, in quanto il mercato di lavoro è caratterizzato dalla continua evoluzione dei profili professionali. Pertanto, al fine di evitare l’esclusione, bisogna mantenere sempre alto il proprio livello, alimentando nel corso della propria vita il processo di formazione. Il secondo messaggio sottolinea che bisogna investire maggiormente nelle risorse umane in modo da rendere prioritaria la gente, che rappresenta la più importante risorsa per l’Europa. L’investimento attuale nelle risorse umane risulta essere insufficiente e, nello stesso tempo, si sente il bisogno di riflettere su ciò che si intende con il termine investimento. Tale questione viene affrontata in modo diverso in ciascun Stato membro e le soluzioni proposte mirano verso lo sviluppo di misure di incentivo su scala individuale, le quali hanno spinto le imprese a concedere delle opportunità di formazione ai dipendenti. Questo perché investire nelle risorse umane significa consentire alle persone di gestire personalmente la pianificazione della propria vita e del proprio tempo, tenendo sempre presente il traguardo della formazione. Infine è importante incentivare l’investimento nelle risorse umane perché ciò implica anche un riorientamento verso una cultura basata sulla responsabilità comune e su modalità chiare di finanziamento per la partecipazione all’istruzione e alla formazione permanente. Il terzo messaggio mette in evidenza che è necessario puntare sull’innovazione delle tecniche di insegnamento e di apprendimento in modo da poter sviluppare dei contesti e dei metodi efficaci per un’offerta formativa ininterrotta, e cioè che duri per tutta la vita e che mette in gioco i diversi aspetti di essa. Con l’entrata nell’era della conoscenza è cambiato e sta cambiando anche il modo di intendere l’apprendimento, in quanto si parte dal presupposto che non bisogna prendere in considerazione solo i bisogni, i requisiti e gli interessi del singolo, ma anche quelli delle categorie specifiche delle nostre società europee le quali si presentano come comunità pluriculturali. In questo contesto così complesso, l’apprendimento può essere definito attivo se punta – da un latoal miglioramento delle pratiche esistenti e – dall’altro- sullo sviluppo di nuovi metodi capaci di sfruttare le offerte delle TIC e dei diversi contesti di apprendimento. Tuttavia, il cambiamento e l’innovazione degli strumenti e dei metodi di apprendimento è possibile solo in parte se manca l’impegno attivo dei professionisti del settore, i quali sono più vicini ai cittadini nel ruolo di allievi e conoscono maggiormente la diversità dei bisogni e dei processi di formazione. Un esempio di tecniche capaci di fornire un grande potenziale di innovazione per i metodi di insegnamento e di apprendimento sono quelle basate sulle TIC, in riferimento alle quali i pedagogisti affermano che sarebbe opportuno integrarle in precisi contesti e in una relazione insegnante/allievo per renderle efficaci. Nonostante tutto, al giorno d’oggi, la maggior parte di ciò che viene offerto dai sistemi di istruzione e formazione si presenta come se fosse stato organizzato e pianificato circa ’50 anni fa, dando così l’impressione dell’assenza di qualsiasi mutamento sociale. In antitesi a ciò è opportuno sottolineare che nella società sono avvenuti dei cambiamenti radicale ed è per questo che risulta necessario modificare i sistemi di apprendimento, i quali devono adattarsi agli odierni stili di vita e alla nuova impostazione dell’esistenza. Adesso si conosce ancora poco su come realizzare un apprendimento indipendente e produttivo, (anche se non va dimenticato che esso è un processo sociale); sul modo migliore per le persone anziane di apprendere e sui mezzi necessari per adattare l’ambiente all’integrazione dei disabili; ma – nonostante ciò- ci si propone di migliorare la qualità dei metodi e dei contesti dell’insegnamento e dell’apprendimento avvalendosi dei diversi investimenti fatti dagli Stati membri e migliorando le competenze degli operatori del settore dell’apprendimento. Nella prospettiva di tali cambiamenti anche il profilo professionale del docente cambierà: egli – infatti- non sarà più un detentore di saperi da trasferire passivamente, ma il suo ruolo sarà quello di guidare e assistere gli allievi che dovranno farsi carico della loro formazione. La capacità di definire e mettere in pratica metodi di insegnamento e di apprendimento aperti e partecipativi dovrà essere una delle competenze fondamentali dell’insegnante, il quale – nello stesso tempo- deve essere in grado di istituire nella persona la capacità di creare e utilizzare il sapere a proprio vantaggio. Il quarto messaggio mette in evidenza che è opportuno migliorare il modo di valutazione e giudizio della partecipazione all’azione formativa e dei risultati che da essa giungono, in particolare nell’ambito dell’apprendimento non formale e informale. Nella moderna società della conoscenza la domanda di un riconoscimento della formazione acquisita sta diventando molto insistente perché – da un lato- ci sono i datori di lavoro che richiedono una manodopera sempre più qualificata; dall’altro c’è un’intensificazione della concorrenza. Inoltre la valorizzazione delle risorse umane è molto importante perché mantiene alta la competitività tra i lavoratori, i quali tendono a fare meglio se sanno di poter essere superati e sostituiti da qualcun altro. Alla luce di ciò si evince che il problema fondamentale dell’Europa (da questo punto di vista) è quello di modernizzare al meglio le pratiche e i sistemi nazionali di certificazione, adattandoli alle nuove condizioni socioeconomiche. Notevoli progressi sono stati fatti nella scuola superiore e in alcune professioni regolamentate, ma il problema relativo alla trasparenza e alla trasferibilità delle qualifiche (che attestano le conoscenze, le competenze e le abilità di un soggetto in un determinato settore) è ancora molto vivo. Tuttavia è fondamentale risolverlo in quanto un riconoscimento esplicito costituisce una motivazione efficace per coloro che non sono molto abituati alla formazione. Inoltre è importante introdurre forme innovative di certificazione dell’apprendimento non formale (in modo da allargare lo spettro) ed elaborare sistemi di alta qualità per la convalida dell’esperienza precedente, i quali possono rivelare delle competenze e delle abilità di cui l’individuo è spesso inconsapevole e il cui valore può essere anche non riconosciuto. Dall’analisi di ciò si evince che una soluzione è necessaria, anche se difficile perché la diversità delle terminologie nazionali e i presupposti culturali rendono difficile qualsiasi tentativo di trasparenza e di riconoscimento reciproco delle qualifiche. Per questo motivo è fondamentale ricorrere all’aiuto degli esperti, e cioè di coloro che sono capaci di convalidare le esperienze dei soggetti in pratica e di capire come queste esperienze (sia da parte degli individui che da parte delle imprese) vengono utilizzate nella vita quotidiana. Al giorno d’oggi, avvalendosi dell’aiuto di programmi comunitari in materia di educazione, formazione e gioventù, sono stati elaborati strumenti comuni di valutazione e di riconoscimento delle competenze, come: l’ECTS, l’EUROPASSFormazione, ecc. Accanto a tali sistemi sarà istituito un diploma europeo finalizzato alla valutazione delle competenze di base nelle tecnologie dell’informazione. A questo punto la questione fondamentale è quella di diffondere questi nuovi strumenti in tutti i paesi membri e una proposta interessante è stata quella degli Orientamenti per l’occupazione del 2001 i quali hanno invitato gli stati membri a migliorare il riconoscimento delle conoscenze, delle qualifiche e delle competenze al fine di facilitare la mobilità, l’istruzione e la formazione permanente. Il quinto messaggio propone di ripensare l’orientamento, in modo da garantire a tutti un facile accesso ad informazioni e ad un orientamento di qualità sulle opportunità di istruzione e formazione in tutta l’Europa e durante tutta la vita. Mentre in passato il passaggio dal mondo dell’istruzione e della formazione a quello del lavoro segnava un certo periodo della vita di un individuo, oggi la situazione è diversa. Infatti, un soggetto può aver bisogno di informazioni e consigli sulla strada da intraprendere in qualsiasi momento della sua vita ed è per questo che il cambiamento deve essere considerato come una parte integrante della pianificazione e dell’attuazione permanente di un progetto di vita. In questa nuova prospettiva il servizio di orientamento si è ritrovato “costretto” a modificare la propria identità: oggi, infatti, non si distingue più l’orientamento scolastico, quello professionale e personale, ma esso si presenta come un servizio accessibile a tutti in qualsiasi momento. Far parte della società della conoscenza significa essere cittadini attivi e capaci di gestire autonomamente il loro percorso professionale e personale. In questo caso il compito dell’orientatore è quello di accompagnare il soggetto in questo suo percorso di vita, fornendogli delle informazioni giuste e facilitando le sue scelte. Questo tipo di approccio implica un atteggiamento diverso da parte dell’orientatore, il quale non deve aspettare che un soggetto vada a chiedergli un consiglio, ma deve presentarsi lui stesso all’individuo. Dall’analisi di ciò si evince che il ruolo futuro degli operatori è quello di fare da mediatore tra quelli che sono gli interessi dell’individuo e le diverse informazioni vigenti, nonché le diverse opportunità. Al giorno d’oggi, importanti fonti di informazioni sono rappresentate dagli strumenti diagnostici basati sulle TIC e su Internet. Esse sono importanti perché possono rafforzare il ruolo dell’operatore, ma non sostituirlo anche perché queste nuove tecnologie possono provocare anche dei problemi. Nella moderna società i servizi di orientamento e consulenza devono essere olistici (ossia globali) e in grado di soddisfare le diverse esigenze del pubblico. Gli specialisti dell’orientamento devono conoscere – da un lato- la situazione personale e sociale delle persone alle quali forniscono informazioni e – dall’altro- devono conoscere il profilo del mercato di lavoro e le richieste dei datori di lavoro. Inoltre, i servizi di orientamento devono essere integrati in reti di servizi sociali, personali, pedagogici tra loro correlati e dalle ricerche condotte negli ultimi anni è emerso che buona parte dei consigli e delle informazioni è stata data mediante dei canali non formali e informali. Infine bisogna dire che se prima l’ orientamento era un servizio pubblico e concepito per agevolare il passaggio dal mondo della scuola a quello del lavoro; oggi ( o meglio dagli ultimi 30 anni) esso ha cominciato a presentarsi come un servizio privato e come un settore in cui le stesse imprese hanno investito a favore dei loro dipendenti. Il sesto messaggio mette in evidenza che è molto importante offrire opportunità di apprendimento sempre più vicine all’utenza, ossia all’interno delle stesse comunità e avvalendosi – nel caso in cui risulti necessario- del supporto dato dalle infrastrutture basate sulle TIC. La gestione regionale o locale ha acquisito – in questi ultimi anni- un’importanza sempre maggiore in tutti i settori, ma in particolar modo in quello dell’istruzione e della formazione permanente verso le quali tutti tendono. Infatti, sono proprio le autorità regionali e locali ad offrire i servizi legati all’istruzione e alla formazione permanente e – inoltre- è proprio a livello locale che sono insediate le organizzazioni della società civile e le associazioni le quali hanno accumulato una serie di conoscenze ed esperienze sulle comunità in cui sono insediate. La promozione e la diffusione di queste azioni locali e diversificate di formazione permanente sono importanti perché fanno si che le persone non siano obbligate a lasciare la loro regione per formarsi, pur non impedendolo in quanto la mobilità è un’esperienza positiva di per sé. Tuttavia, all’interno di una comunità, ci sono dei disabili che non hanno la possibilità di spostarsi fisicamente; ed è per questo che in vista del raggiungimento della parità di accesso all’istruzione e alla formazione non si può che non avvicinare l’offerta all’utenza. Le TIC rappresentano un mezzo formidabile per raggiungere popolazioni isolate e sparpagliate a costi contenuti e – in più- esse danno a tutti la possibilità di apprendere cercando di sfruttare al meglio il tempo di cui dispongono. Le zone urbane, oltre che le TIC, possono riunire le componenti della loro diversità in più partenariati in cui la formazione e l’istruzione permanente costituiscono la forza motrice della rigenerazione regionale, in quanto l’agglomerazione è sempre stata una calamita per l’innovazione e per gli scambi di opinione. Inoltre, all’interno dell’ambiente urbano ci sono diverse possibilità di formazione e tra queste, molto importanti, sono le attività di gemellaggio che alcuni paesi intraprendono con altri mediante il finanziamento da parte della Comunità. A tali attività viene riconosciuto un grande valore perché esse costituiscono la base della cooperazione transnazionale e dello scambio di informazioni transnazionali tra comuni che presentano caratteristiche simili ed affrontano problemi analoghi. Un contributo a tutto questo viene dato dalle TIC, le quali aprono la strada alle comunicazioni virtuali tra collettività locali distanti tra di loro da un punto di vista geografico. Infine, per avvicinare l’offerta formativa all’utenza, non bisogna solo puntare su degli strumenti nuovi, ma è opportuno riorganizzare e ridistribuire le risorse esistenti al fine di creare dei centri appropriati per acquisire nuove conoscenze all’interno degli ambienti della vita quotidiana. LA DIFFERENZA COME PROBLEMA E COME VALORE La pedagogia, al giorno d’oggi, si ritrova a dover affrontare una serie di problematiche legate alla complessità, la quale non deriva esclusivamente dalla elevata richiesta di istruzione e formazione, ma anche dall’emergere della differenza che è sia un elemento che caratterizza la società attuale; sia un elemento che si contrappone al concetto di identità che – per molti secoli- è stato il fondamento della cultura occidentale. Alla luce di ciò, il compito della pedagogia è quello di promuovere un pensiero capace di decentrarsi per conoscere a fondo quello dell’altro e – in seguito- in grado di tornare su se stesso arricchito ed accresciuto dal confronto, valorizzando le differenze. Tale valorizzazione non deve essere frutto di un perbenismo ipocrita, ma deve basarsi su un sistema di valori che si collocano in un quadro globale e che siano capaci di promuovere e favorire una completa e totale integrazione, la quale possa consentire di accogliere i singoli soggetti rispettando i caratteri che li differenziano. Tuttavia ciò è possibile solo attraverso un consapevole riconoscimento dei bisogni di ciascuno i quali devono essere precisati e definiti dalla pedagogia che – in seguito- deve fornire delle risposte formative altamente rispettose delle esigenze altrui. Solo se il tema della differenza smette di essere materia di dibattito teorico e comincia a trasformarsi in questione della prassi educativa, allora esso si collocherà all’interno dell’intreccio complesso del mondo della scuola e dell’educazione. Per Cambi la valorizzazione della differenza è entrata a far parte della cultura occidentale con l’Illuminismo, per poi svilupparsi sempre di più con il Romanticismo, la filosofia di Hegel, Marx Kierkegaard, Shopenhauer, Nietzsche ed Heidegger; sino a giungere ai giorni nostri dove la differenza (in tutte le sue forme) innerva il nostro mondo provocando numerose domande, contraddizioni e risposte che non sempre sono indolori. Ad esempio, la differenza di genere (voluta fortemente dalle donne) ha modificato la società nelle sue strutture portanti come la famiglia, la quale si è riorganizzata basandosi su nuovi valori, su una nuova educazione in quanto il modello centrato sul predominio maschile è stato messo da parte completamente. A ciò si è aggiunta la presenza di etnie e culture diverse, la quale ha fatto emergere nuovi problemi. Di fronte a tutto ciò, Cambi ha affermato che la categoria-chiave per vivere nel presente è quella del disincanto, con il quale egli intende una modalità con cui il soggetto si inoltra in questo mondo vivendo tutto come un’avventura e una possibilità perché egli è libero di compiere qualsiasi scelta, ma – nello stesso tempo- non ha nessuna certezza e nessun sostegno. LA DIFFERENZA DI GENERE Una delle caratteristiche principali e più importanti della società moderna coincide con l’emergere – sempre più insistente- delle istanze poste dall’universo femminile, le quali hanno comportato delle profonde modifiche nell’assetto della comunità provocate sia da una maggiore scolarizzazione delle donne, sia dalla loro entrata nel mondo del lavoro. Il processo di liberazione del mondo femminile – che negli ultimi anni è diventato inarrestabile- è iniziato con la diffusione delle idee illuministe e grandi figure – legate a tale processo- sono Olympe Gonges e Mary Wollstonecraft. La prima è stata una giornalista francese che ha riscritto la Dichiarazione dei diritti dell’uomo declinandola al femminile; in questo modo ha dato vita ad un nuovo testo che metteva in luce come la Dichiarazione dei diritti dell’uomo proponeva dei valori universali e validi per tutti, ma escludeva le donne. La seconda, invece, è stata la promotrice del movimento delle Sufffraggette e ha scritto un altro testo in cui ha rivendicato i diritti delle donne. La rivendicazione femminile – dedita ad estendere i diritti naturali dell’uomo anche alle donne- è nata in questo periodo perché dopo la Rivoluzione francese tutti gli status personali su cui si fondava l’ancien regime erano stati aboliti, tranne quello fondato sul sesso. Questa decisione risultò coerente con le idee dei giuristi prerivoluzionari i quali fecero una distinzione tra le disuguaglianze: per loro esistevano le disuguaglianze artificiali che andavano abolite e le disuguaglianze naturali che non potevano essere abolite (proprio come quella del sesso). In Italia la situazione fu analoga: il primo Codice civile dell’Italia Unita sanciva l’inferiorità giuridica delle donne e un primo passo avanti si è avuto nel 1946, quando fu riconosciuto alle donne il diritto di voto. In questo stesso anno furono elette delle donne all’Assemblea Costituente e ciò è stato molto importante perché proprio queste donne hanno partecipato all’elaborazione della Costituzione, la quale risultò essere così moderna - rispetto ai suoi tempi – perché queste donne si impegnarono a fondo per affermare l’uguaglianza per tutti (esplicitata nell’art.3). Tuttavia la strada per la parità, dal 1948 ad oggi, è stata tutta in salita per le donne in quanto si sono ritrovate a dover combattere contro una classe politica e una magistratura di merito che hanno cercato di impedire l’attuazione delle norme costituzionali. Nonostante ciò grazie ad una legge di iniziativa parlamentare del 9 febbraio 1963 le donne hanno visto riconosciuto il loro diritto ad accedere alla magistratura. Un altro passo avanti è stato fatto nel 1968, anno di contestazioni, durante il quale le donne cominciarono a scardinare la struttura familiare arcaica e centrata sulla figura dell’uomo; cominciarono a creare gruppi di studio sull’identità femminile e di analisi dei propri vissuti quotidiani in modo da poter prendere coscienza dei condizionamenti sociali, delle violenze subite dalle istituzioni e – nello stesso tempo- elaborare iniziative di lotta per modificare l’esistente. Questo nuovo atteggiamento delle donne era stato alimentato anche dalle vicende che seguirono i due conflitti mondiali ed esso può essere definito giusto perché ha dato la forza alle donne di portare le proprie istanze riformatrici anche all’interno dei partiti politici. Infatti, a partire dagli anni ’70, si è avviata – in campo legislativo- un’attività riformatrice che ha modificato la struttura familiare e il ruolo della donna all’interno della comunità. Delle leggi molto importanti sono state quella del divorzio, quella del diritto di famiglia, la legge sulla parità e quella per l’aborto. Con queste misure legislative si è completata – almeno da un punto di vista giuridico- l’emancipazione delle donne alle quali è stato dato lo strumento necessario per attuare una trasformazione delle istituzioni, dei valori e dei rapporti dominanti all’interno della società. tale trasformazione può essere definita radicale in quanto, come afferma la Rossanda, la cultura del femminismo è negatrice della cultura maschile, nel senso che non tende ad integrarla ma a sostituirla. In questo contesto le donne hanno iniziato una riflessione approfondita sul proprio universo e sul proprio stato, evidenziando costantemente il valore della differenza di genere e stabilendo un legame dialettico con la modernizzazione che se – da un lato- ha favorito la loro emancipazione, dall’altro ha ricevuto da questo processo un impulso innovatore. Ma la pedagogia italiana è rimasta per molto tempo indifferente alla riflessione relativa al problema della differenza di genere in quanto molti pedagogisti (come Borghi) ritenevano che tale questione non fosse di competenza pedagogica nonostante fosse presente nella coscienza degli intellettuali. La pedagogia italiana ha cominciato ad occuparsi dell’educazione femminile solo a partire dagli anni ’80, affrontandola sia come ricerca storica sul passato in modo da individuare le radici e le modalità dell’esclusione; sia come elaborazione teorica di un modello di società alternativa a quella attuale e fondata su valori tipici del mondo femminile. Un lavoro molto importante è quello di una psicoanalista belga (Luce Irigaray) la quale ha affermato che la noistra società ha una struttura esclusivamente maschile e in cui non trova spazio il femminile. Per questo motivo le donne hanno acquisito la consapevolezza che è necessario recperare la differenza in quanto solo in questo modo ci si può aprire verso una realtà diversa, aperta alle esigenze intellettive e affettive delle donne. Attualmente, nel dibattito pedagogico sono presenti due posizioni diverse: la prima tende a completare il processo di emancipazione della donna, puntando verso una società in cui l’affermazione dei diritti e dei valori femminili possa coesistere con un mondo maschile capace di adeguarsi alle richieste provenienti dal mondo delle donne. La seconda, che è più radicale, è centrata sulla valorizzazione della differenza di genere e rifiuta l’emancipazionismo. Inoltre, quest’ultima teoria ritiene che all’interno della società bisogna introdurre il dualismo dei generi e affermare la cultura femminile la quale è più attenta a conciliare la mente e gli affetti, il logos e il pathos. La cultura al femminile, oggi, rivendica la differenza di genere e compie riflessioni autonome anche nel campo della formazione affermandosi come pedagogia della differenza. La seconda posizione è quella che prevale maggiormente nel dibattito pedagogico in quanto una serie di studi, tra i quali quello di Simonetta Ulivieri, dimostrano che in ogni sistema sociale le bambine e i bambini ricevono un’educazione diversa (sia in ambito familiare che in altre strutture formative) in modo da orientare nella direzione giusta il loro comportamento futuro. Un ordine sociale fondato sulla differenza di genere comporta anche una rivisitazione dell’universo formativo, in quanto accanto al logos deve essere preso in considerazione il pathos, accogliendo – in questo modo- il contributo offerto da Freud e dalla psicoanalisi che hanno evidenziato l’importanza centrale della sfera emotiva nel pensiero e nel percorso formativo. La formazione, in questo senso, viene intesa come un percorso che privilegia – rispetto all’istruzione- il piano dell’educazione vista come opportunità di crescita integrale dell’individuo. Ciò significa che la formazione non va intesa come un processo in cui entra in gioco solo l’intelletto, ma come un percorso durante il quale entrano in gioco le qualità umane del soggetto di cui la nostra mente coglie la dialettica emozionale interno. Da questo pensiero si sviluppa – da un lato- la pedagogia degli affetti, la quale si muove verso un modello capace di dare importanza all’affettività nella prospettiva dell’ideale uomo integrale; dall’altro una riflessione sul ruolo che la scuola può svolgere nel senso di una formazione integrale. Tale istituzione può optar per una didattica tesa a suscitare l’emozione per la conoscenza in quanto l’apprendimento legato ad un emozione è quello che rimane impresso nella memoria. LE DIFFERENZE CULTURALI Le differenze culturali, insieme a quelle di genere, alimentano la complessità del nostro tempo; infatti la crescita costante della presenza di immigrati stranieri sul nostro territorio ha dato vita ad un discorso pedagogico teso a promuovere una cultura fondata sul rispetto delle differenze etniche e religiose e capace di favorire un clima di interscambio dialettico e di reciproca comprensione. Questo discorso si fa più insidioso in ambito religioso in quanto ogni religione tende a considerarsi come l’unica vera e giudica le altre non come religioni ma come culture. Il dialogo interreligioso, che si propone all’interno di una società così complessa, presuppone un riconoscimento reciproco delle religioni in quanto tali perché questo riconoscimento nobilita le stesse identità culturali e le rende più resistenti all’assimilazione. Inoltre bisogna dire che in una società multiculturale le culture che la abitano tendono a potenziare la loro anima religiosa per poter conservare la propria identità: per questo motivo le identità che sopraggiungono si presentano più aggressive rispetto a quelle locali e a ciò bisogna aggiungere che la religione si rivitalizza nel momento in cui viene minacciata, mentre si intiepidisce nel momento in cui non viene ostacolata o perseguitata. in riferimento a tale discorso, l’obiettivo che si vuole raggiungere oggi è quello di dar vita ad una società in cui soggetti aventi origini, cultura,religione e lingua diversi possono vivere in modo coeso e pacifico, rispettando i diritti di tutti. Il passaggio da una società multiculturale costituita da gruppi di persone diversi e che non comunicano tra loro, ad una società interculturale in cui i vari gruppi etnici si aprono ad uno scambio e ad una comunicazione si può realizzare mediante un progetto pedagogico che mira al confronto e alla riflessione sull’alterità. Ciò significa che bisogna sforzarsi di conoscere l’altro, rispettato nei modi e nelle credenze e discutere quegli atteggiamenti che sono considerati non accettabili. Il primo passo verso la promozione del rispetto della diversità culturale consiste nella lotta contro il pregiudizio, il quale può essere sradicato attraverso lo sviluppo dell’abitudine ad esercitare la mente, ad approfondire i problemi, a porsi domande, ad afferrare l’essenza di un problema; averecioè - un pensiero sistematico. Il pensiero sistematico si apre alla complessità, rifiuta il conformismo, accetta tutte le differenze, apprende secondo modalità e codici diversi e costruisce dei modelli interpretativi della realtà adatti a quella attuale. Esso è un pensiero che permette di vivere serenamente in una società interculturale in quanto si apre agli altri senza pretendere di omologarli a sé e senza perdere la propria autonomia intellettuale. Tuttavia è bene prendere coscienza del fatto che la promozione di una educazione interculturale richiede di rivedere il nostro modello culturale e modificarlo in quanto esso si basa sull’esaltazione della nostra civiltà e della nostra storia. L’esigenza di modificare il proprio modello educativo, proponendo il riconoscimento dei diritti delle minoranze, è nata già nel XX secolo negli Stati Uniti. Essa ha dato vita ad un discorso pedagogico il cui max esponente è stato Dewey il quale ha proposto un’educazione pubblica capace di conciliare un’identità nazionale unitaria con il pluralismo di culture, lingue e religioni del Paese. Egli ha – poi- affermato che la scuola pubblica deve avere il compito di educare alla democrazia attraverso un insegnamento nuovo da un punto di vista metodologico, perché rispettoso delle differenze culturali e sociali le quali devono essere considerate un fattore di arricchimento della società. queste idee di Dewey si sono sviluppate immediatamente negli ambienti più progressisti dell’America, ma non sono diventate patrimonio di tutti così repentinamente. Infatti la realtà educativa degli USA si è affermata in diverse parti del mondo (diventando oggetto di un dibattito pedagogico e socio-politico) solo dopo essere stata attraversata da una didattica di tipo compensativo e spinta dal movimento afro-americano. La società complessa – secondo Deweydeve trasmettere e conservare non tutto ciò a cui ha dato vita, ma solo quello che contribuisce al suo miglioramento. E il compito fondamentale è quello della scuola, la quale deve equilibrare i diversi elementi dell’ambiente sociale e dare la possibilità – a ciascun individuo- di sfuggire dalle limitazioni del gruppo sociale nel quale è inserito e venire in contatto con un ambiente più vasto. L’ambiente scolastico è quello su cui max punta Dewey perché è proprio qui che si mescolano culture, razze e religioni diverse che – però- sono legate da un elemento: lo studio, il quale alimenta lo svilupparsi di una visione più larga e di un’apertura mentale. Nella situazione attuale il discorso pedagogico si ritrova a dover affrontare una duplice sfida: da un lato bisogna elaborare delle strategie utili a promuovere nei giovani la capacità di accogliere e rispettare le differenze; dall’altro è importante elaborare delle metodologie efficaci per l’educazione e la formazione degli stranieri i quali si ritrovano a vivere una situazione di dolorosa scissione tra quelli che sono realmente e quelli che appaiono agli occhi della gente. Ciò li fa stare sempre in bilico tra la difesa dell’appartenenza (finalizzata a non perdere la propria identità) e la necessità di integrarsi ai nuovi contesti di vita. L’intercultura non si propone come obiettivo quello di cancellare la diversità, ma di promuovere una riflessione sull’alterità la quale favorisce l’integrazione e la convivenza e permette di riconoscere l’altro – dapprima- come un soggetto appartenente al genere umano, poi come soggetto portatore di cultura e quindi degno di rispetto e attenzione. Da ciò si evince che l’intercultura è una forma di pensiero che si conquista mano a mano. Questo pensiero viene definito “problematico” in quanto permette di pensare la complessità e di muoversi dialetticamente tra i molteplici piani esistenziali e culturali del reale. Pertanto educare al pensiero problematico e complesso significa educare a pensare in maniera complessa, ossia sviluppare una conoscenza della conoscenza. Una conoscenza che guarda se stessa mentre conosce e agisce esercita un’azione di auto riflessività su quel sistema di presupposizioni che costituisce il patrimonio profondo dal quale la nostra mente attinge le soluzioni ai diversi problemi che le si pongono. L’educazione interculturale deve partire dalla scuola in quanto essa non è deputata solo all’istruzione, ma anche alla trasmissione di comportamenti e alla formazione del cittadino. In questa prospettiva, il compito della scuola è quello di formare delle menti aperte al cambiamento e - riprendendo le parole di Demetrio- l’educazione deve mirare alla transività o mobilità emotiva, e cioè verso la capacità di passare da una forma mentis all’altra in quanto solo una mentre aperta può accettare la diversità culturale, nonchè rispettare e comprendere l’altro. Tutto ciò – peròimplica anche un cambiamento dell’identità della scuola, la quale da si è ritrovata a trasformarsi da luogo di trasmissione e di assimilazione culturale a spazio di confronti e di elaborazione inter-transculturale. La sperimentazione di un’educazione interculturale può partire dalla scuola dell’infanzia – a prescindere dalla presenza fisica di bambini stranieri- e continuare per tutto il percorso scolastico. Infatti da alcuni anni la normativa scolastica del nostro paese ha maturato un corretto approccio interculturale, il quale emerge dagli Orientamenti per la scuola materna del 1991 in cui il processo di formazione appare fondato sul principio di alterità e sulla relazione con l’altro. In questo modo l’intercultura non è entrata nella prassi educativa come un problema, bensì come un elemento qualificante della formazione del soggetto. Tuttavia nell’ambito scolastico – molto spessogli insegnanti trovano delle serie difficoltà nel favorire l’integrazione del bambino straniero, e questo succede perché non hanno gli strumenti culturali adeguati. Per questo motivo il compito della pedagogia interculturale è quello di istituire un progetto globale di formazione per gli insegnanti , in modo da diffondere un atteggiamento positivo nei confronti dell’altro e giungere al pieno riconoscimento dell’alterità in quanto ciò rappresenta quel passo avanti decisivo per istaurare una relazione capace di produrre un intervento educativo efficace (e cioè capace di modificare il modo di pensare delle persone). A tal proposito molto importante è la riflessione di Matilde Callari Galli, la quale ha affermato che “ se la formazione vuole assumere le nuove interdipendenze che caratterizzano l’attuale commercio tra culture deve abbandonare i suoi percorsi tradizionali e porre al centro della sua riflessione le nuove culture; scegliere come luogo al quale prestare attenzione le aree di confine e trovare nei luoghi labili, nei popoli dell’esilio le sue nuove parole”. La riflessione pedagogica in ambito interculturale deve, quindi, trovare degli approcci che possono generare un mutamento non traumatico nel sistema relazionale dell’immigrato e che gli consentano di compiere un percorso formativo e di integrazione senza che ciò comporti la perdita dei propri valori. Da un punto di vista pratico è importante individuare una nuova didattica la quale – da un lato- deve provocare l’accettazione e l’accoglienza della diversità; dall’altro deve individuare le modalità adatte per favorire l’apprendimento dei bambini stranieri. Per raggiungere tale obiettivo bisogna puntare su di un approccio didattico che valorizza i diversi stili cognitivi e relazionali, in modo da formare un pensiero aperto e pronto a cogliere la diversità perché consapevole di diverse rappresentazioni della realtà. Tuttavia, nella prassi, è molto difficile edificare una società interculturale in quanto – prima di tutto- la nostra cultura non tende a valorizzare le differenze, ma talvolta a soffocarle; in secondo luogo, nella pratica educativa gli insegnanti – anche se impostano il loro lavoro nel rispetto della dignità culturale dei bambini immigrati- tendono a trascurare le loro conoscenze pregresse e a valutarli secondo i nostri parametri. Ciò comporta dei problemi alquanto notevoli i quali si legano soprattutto alla lingua, strumento di comunicazione, comprensione e apprendimento. Alla luce di quanto detto è possibile concludere dicendo che non è sufficiente riconoscere formalmente le diversità culturali nella scuola se poi esse sono considerate inadeguate rispetto alle esigenze scolastiche secondo un atteggiamento etnocentrico il quale può sfociare nell’assimilazionismo e – addirittura- nel razzismo.