Rassegna stampa 23 giugno 2015 - WebDiocesi

RASSEGNA STAMPA di martedì 23 giugno 2015
SOMMARIO
Riprendiamo oggi alcuni passaggi dell’enciclica “Laudato si’” di Papa Francesco che
trattano, in particolare, di un tema centrale in tutto il testo: la “globalizzazione del
paradigma tecnocratico”. Scrive il Papa (nn. 106 e seguenti): “Il problema
fondamentale è un altro, ancora più profondo: il modo in cui di fatto l’umanità ha
assunto la tecnologia e il suo sviluppoinsieme ad un paradigma omogeneo e
unidimensionale. In tale paradigma risalta una concezione del soggetto che
progressivamente, nel processo logico-razionale, comprende e in tal modo possiede
l’oggetto che si trova all’esterno. Tale soggetto si esplica nello stabilire il metodo
scientifico con la sua sperimentazione, che è già esplicitamente una tecnica di
possesso, dominio e trasformazione. È come se il soggetto si trovasse di fronte alla
realtà informe totalmente disponibile alla sua manipolazione. L’intervento dell’essere
umano sulla natura si è sempre verificato, ma per molto tempo ha avuto la
caratteristica di accompagnare, di assecondare le possibilità offerte dalle cose stesse.
Si trattava di ricevere quello che la realtà naturale da sé permette, come tendendo la
mano. Viceversa, ora ciò che interessa è estrarre tutto quanto è possibile dalle cose
attraverso l’imposizione della mano umana, che tende ad ignorare o a dimenticare la
realtà stessa di ciò che ha dinanzi. Per questo l’essere umano e le cose hanno cessato
di darsi amichevolmente la mano, diventando invece dei contendenti. Da qui si passa
facilmente all’idea di una crescita infinita o illimitata, che ha tanto entusiasmato gli
economisti, i teorici della finanza e della tecnologia. Ciò suppone la menzogna circa la
disponibilità infinita dei beni del pianeta, che conduce a “spremerlo” fino al limite e
oltre il limite. Si tratta del falso presupposto che « esiste una quantità illimitata di
energia e di mezzi utilizzabili, che la loro immediata rigenerazione è possibile e che
gli effetti negativi. Possiamo perciò affermare che all’origine di molte difficoltà del
mondo attuale vi è anzitutto la tendenza, non sempre cosciente, a impostare la
metodologia e gli obiettivi della tecno scienza secondo un paradigma di comprensione
che condiziona la vita delle persone e il funzionamento della società. Gli effetti
dell’applicazione di questo modello a tutta la realtà, umana e sociale, si
constatano nel degrado dell’ambiente, ma questo è solo un segno del riduzionismo
che colpisce la vita umana e la società in tutte le loro dimensioni. Occorre riconoscere
che i prodotti della tecnica non sono neutri, perché creano una trama che finisce per
condizionare gli stili di vita e orientano le possibilità sociali nella direzione degli
interessi di determinati gruppi di potere. Certe scelte che sembrano puramente
strumentali, in realtà sono scelte attinenti al tipo di vita sociale che si intende
sviluppare. Non si può pensare di sostenere un altro paradigma culturale e servirsi
della tecnica come di un mero strumento, perché oggi il paradigma tecnocratico è
diventato così dominante, che è molto difficile prescindere dalle sue risorse, e ancora
più difficile è utilizzare le sue risorse senza essere dominati dalla sua logica. È
diventato contro-culturale scegliere uno stile di vita con obiettivi che almeno in parte
possano essere indipendenti dalla tecnica, dai suoi costi e dal suo potere globalizzante
e massificante. Di fatto la tecnica ha una tendenza a far sì che nulla rimanga fuori
dalla sua ferrea logica, e «l’uomo che ne è il protagonista sa che, in ultima analisi,
non si tratta né di utilità, né di benessere, ma di dominio; dominio nel senso estremo
della parola». Per questo «cerca di afferrare gli elementi della natura ed insieme
quelli dell’esistenza umana». Si riducono così la capacità di decisione, la libertà più
autentica e lo spazio per la creatività alternativa degli individui. Il paradigma
tecnocratico tende ad esercitare il proprio dominio anche sull’economia e sulla
politica. L’economia assume ogni sviluppo tecnologico in funzione del profitto, senza
prestare attenzione a eventuali conseguenze negative per l’essere umano. La finanza
soffoca l’economia reale. Non si è imparata la lezione della crisi finanziaria mondiale
e con molta lentezza si impara quella del deterioramento ambientale. In alcuni circoli
si sostiene che l’economia attuale e la tecnologia risolveranno tutti i problemi
ambientali, allo stesso modo in cui si afferma, con un linguaggio non accademico, che
i problemi della fame e della miseria nel mondo si risolveranno semplicemente con la
crescita del mercato. Non è una questione di teorie economiche, che forse nessuno
oggi osa difendere, bensì del loro insediamento nello sviluppo fattuale dell’economia.
Coloro che non lo affermano con le parole lo sostengono con i fatti, quando non
sembrano preoccuparsi per un giusto livello della produzione, una migliore
distribuzione della ricchezza, una cura responsabile dell’ambiente o i diritti delle
generazioni future. Con il loro comportamento affermano che l’obiettivo della
massimizzazione dei profitti è sufficiente. Il mercato da solo però non garantisce lo
sviluppo umano integrale e l’inclusione sociale. Nel frattempo, abbiamo una «sorta di
supersviluppo dissipatore e consumistico che contrasta in modo inaccettabile con
perduranti situazioni di miseria disumanizzante», mentre non si mettono a punto con
sufficiente celerità istituzioni economiche e programmi sociali che permettano ai più
poveri di accedere in modo regolare alle risorse di base. Non ci si rende conto a
sufficienza di quali sono le radici più profonde degli squilibri attuali, che hanno a che
vedere con l’orientamento, i fini, il senso e il contesto sociale della crescita
tecnologica ed economica. (…) La cultura ecologica non si può ridurre a una serie di
risposte urgenti e parziali ai problemi che si presentano riguardo al degrado
ambientale, all’esaurimento delle riserve naturali e all’inquinamento. Dovrebbe
essere uno sguardo diverso, un pensiero, una politica, un programma educativo, uno
stile di vita e una spiritualità che diano forma ad una resistenza di fronte all’avanzare
del paradigma tecnocratico. Diversamente, anche le migliori iniziative ecologiste
possono finire rinchiuse nella stessa logica globalizzata. Cercare solamente un rimedio
tecnico per ogni problema ambientale che si presenta, significa isolare cose che nella
realtà sono connesse, e nascondere i veri e più profondi problemi del sistema
mondiale. È possibile, tuttavia, allargare nuovamente lo sguardo, e la libertà umana è
capace di limitare la tecnica, di orientarla, e di metterla al servizio di un altro tipo di
progresso, più sano, più umano, più sociale e più integrale” (a.p.)
2 – DIOCESI E PARROCCHIE
AVVENIRE
Pag 28 Tutti per la Carità del Papa. Eraclea: “Proposta efficace”. E la gente si fa
coinvolgere di Francesco Dal Mas
3 – VITA DELLA CHIESA
WWW.CHIESA.ESPRESSONLINE.IT
L'altro Francesco: quello che predica la castità prima del matrimonio di Sandro
Magister
Anche l'enciclica "Laudato si'" è stata letta in forma selettiva, ignorando i passaggi
scomodi sulla "salute riproduttiva" e le differenze sessuali. Analisi di un oscuramento
che falsifica l'immagine di questo pontificato
L’OSSERVATORE ROMANO
Pag 1 Dalle radici al futuro di g.m.v.
Pag 4 Questione di dignità
Centralità del lavoro e dramma dei migranti nel primo discorso del Papa a Torino
Pag 4 Liberi e testardi
All’omelia della messa Francesco paragona l’amore di Dio a una roccia e cita la poesia
piemontese “Razza nostrana”
Pag 4 Il volto nei volti
Alla preghiera dell’Angelus
Pag 5 Anticorpi contro lo scarto
Durante la visita al Cottolengo l’appello per l’accoglienza di poveri, anziani e disabili
Pag 6 Con forte mitezza
Nel discorso a Valdocco l’attualità del metodo educativo di don Bosco
Pag 7 Vivere, non vivacchiare
Ai giovani il Pontefice chiede castità e il coraggio di andare controcorrente
Pag 8 L’unità si fa in cammino
Nel tempio valdese di Torino il Pontefice chiede perdono per tutti i comportamenti non
cristiani e non umani
AVVENIRE
Pag 1 Il volto e i gesti di Mimmo Muolo
L’intensa visita del Papa a Torino
Pag 3 L’indirizzo missionario della “Laudato si’” di Giulio Albanese
Passare dai buoni propositi ai fatti, coniugando spirito e vita
Pag 19 Mattiazzo: guidato da carità e missione di Sara Melchiori
Il saluto a Padova
CORRIERE DELLA SERA
Pagg 12 – 13 Le scuse del Papa ai valdesi: inizia il dialogo di Gian Guido Vecchi,
Luigi Accattoli e Marco Imarisio
La storia: villaggi incendiati, stragi, torture. Una persecuzione durata secoli. Il ritorno a
casa del cugino Giorgio: in 32 per il pranzo
LA REPUBBLICA
Pag 30 L’impatto politico dell’enciclica verde di Agostino Giovagnoli
LA STAMPA
Lezione di pluralismo anche per i non credenti di Vladimiro Zagrebelsky
Un nuovo modo di camminare insieme di Enzo Bianchi
IL FOGLIO
Pag 1 La pietra tombale sulla stagione dei vescovi-pilota di Matteo Matzuzzi
In piazza solo con il Papa: è questa la linea della Cei. Ma tanti vescovi non ci stanno: “E’
ora di mobilitarsi”
5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
Pag 26 Spreco. La mia giornata a “impatto meno” per ridurre consumi e
inquinanti di Riccardo Bruno
Pag 27 Il vero scandalo è che ciascuno di noi getta via 149 chili di cibo di
Susanna Tamaro
7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA
LA NUOVA
Pag 17 Niente pappa al ristorante ebraico: “Mai negare il cibo a un bambino” di
Nadia De Lazzari
Il rabbino capo Scialom Bahbout si dissocia dal comportamento tenuto dal personale del
“Gam Gam”. La famiglia invitata all’inaugurazione del nuovo locale al Ghetto
IL GAZZETTINO DI VENEZIA
Pag IV La chiesa perde pezzi, vigili del fuoco in azione
Carmini
Pag VI Ghetto, la “guerra” del kosher tra ortodossi e Comunità ebraica di Vettor
Maria Corsetti
8 – VENETO / NORDEST
CORRIERE DEL VENETO
Pagg 2 – 3 In arrivo una nuova ondata di profughi. L’ipotesi: aprire le palestre
delle scuole di Andrea Priante e Mauro Pigozzo
Vertice ad Eraclea: i sindaci del litorale riuniti scrivono una lettera a Renzi. “I turisti
scappano, bisogna cambiare rotta”. Otto impiegati e tremila casi, passano anni per
distinguere tra rifugiati e clandestini
IL GAZZETTINO
Pagg 14 – 15 All’estero per fare carriera, il Nordest dà meno speranze di Natascia
Porcellato e Annamaria Bacchin
Il 63% degli intervistati ritiene che le opportunità per i giovani siano migliori fuori
dall’Italia
Pag 21 Giovani con la valigia, ricchezza del Nordest dispersa in Europa di Adriano
Favaro
… ed inoltre oggi segnaliamo…
CORRIERE DELLA SERA
Pag 6 Il rischio che il caso Roma logori anche il governo di Massimo Franco
Pag 32 Un’idea forte di Paese per far ripartire il Pd di Paolo Franchi
LA REPUBBLICA
Pag 1 Lo straniero interiore che preme alle frontiere di Massimo Recalcati
Pag 4 “Basta con le banche, il destino dell’Unione lo scelgano i popoli” di Jürgen
Habermas
Pag 13 Il “contenitore” del Cavaliere che sta stretto all’altro Matteo di Stefano
Folli
LA STAMPA
L’ideologia che condiziona i risultati di Mario Deaglio
IL FOGLIO
Pag 1 La fuffa del pensiero unico, dal sesso al riscaldamento globale di Giuliano
Ferrara
Dietro le reazioni intolleranti al Family day c’è una nuova religiosità politicamente
corretta. E la chiesa ne è complice
IL GAZZETTINO
Pag 1 La svolta Ue per disinnescare la bomba di Giulio Sapelli
LA NUOVA
Pag 1 L’infinita questione ateniese di Gilberto Muraro
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2 – DIOCESI E PARROCCHIE
AVVENIRE
Pag 28 Tutti per la Carità del Papa. Eraclea: “Proposta efficace”. E la gente si fa
coinvolgere di Francesco Dal Mas
Da queste parti si vive già la piena stagione estiva (cielo permettendo), con la massima
occupazione da parte delle famiglie. Ma le comunità parrocchiali continuano compatte la
loro missione. Ed ecco chye per la Giornata della Carità del Papa don Angelo Munaretto,
il parroco di Eraclea ( Venezia), e l’Azione Cattolica rilanciano l’esperienza di
sensibilizzazione dell’anno scorso. Hanno infatti prenotato un numero consistente di
copie del giornale da diffondere alle Messe del 28 giugno, nelle chiese di Santa Maria
Goretti e di San Gabriele dell’Addolorata. «L’anno scorso la presenza di Avvenire pr
questa finalità solidaristica ha riscontrato parecchio interesse – testimonia Antonella
Bortoluzzo, presidente di Ac –, per la Carità del Papa ma anche per il giornale in sé.
Francesco è popolarissimo, e la sua sensibilità ha conquistato tutti». La crisi martella
anche le famiglie e le imprese di Eraclea e dintorni, ma il valore della solidarietà è
ancora profondamente radicato e, nonostante il lavoro stagionale sia molto impegnativo
– anche in termini di orario – le relazioni non si interrompono mai. Antonella tiene a
sottolineare che un giornale dai contenuti forti e originali come Avvenire aiuta queste
relazioni come un punto di riferimento. L’Azione Cattolica conta su un gruppo di adulti
ma anche su numerosi giovani e ragazzi: quelli liberi da impegni lavorativi assicurano,
ad esempio, il Grest estivo, tanto più necessario perché le famiglie sono occupate nelle
attività stagionali. «Quest’idea di Avvenire a sostegno di Papa Francesco – conclude
Antonella – crea davvero una proposta indovinatissima».
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3 – VITA DELLA CHIESA
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L'altro Francesco: quello che predica la castità prima del matrimonio di Sandro
Magister
Anche l'enciclica "Laudato si'" è stata letta in forma selettiva, ignorando i passaggi
scomodi sulla "salute riproduttiva" e le differenze sessuali. Analisi di un oscuramento che
falsifica l'immagine di questo pontificato
L'enciclica "Laudato si'" ha avuto su scala planetaria una risonanza enorme ma anche
molto selettiva. La proposta complessiva dell'enciclica è quella di una ecologia
"integrale". E infatti nelle sue quasi duecento pagine c'è di tutto, dai massimi destini
dell'universo alle piccole cose della vita quotidiana. Ma proprio questa sua esuberanza
enciclopedica, onnicomprensiva più che unitaria, ha indotto molti a pescare dal testo
solo ciò che trovano più vicino alle proprie attese. Un'interessante rivelazione sulla
genesi dell'enciclica è stata fatta dal vescovo che ha lavorato più di altri alla sua stesura:
Mario Toso, oggi alla guida della diocesi di Faenza, ma fino allo scorso gennaio
segretario del pontifico consiglio della giustizia e della pace. Ha detto in un'intervista al
vaticanista svizzero Giuseppe Rusconi: "L’enciclica, così come ci viene presentata oggi,
mostra un volto diverso rispetto a quello della prima bozza, che prevedeva una lunga
introduzione di carattere teologico, liturgico e sacramentale, spirituale. Se fosse rimasta
l’impostazione iniziale, l’enciclica si sarebbe indirizzata più immediatamente al mondo
cattolico. Papa Francesco, invece, ha preferito cambiare tale impostazione, spostando al
centro e alla fine la parte teologica, nonché quella relativa alla spiritualità e
all’educazione. In tal modo, ha ristrutturato il materiale messogli a disposizione,
disponendolo secondo un metodo di analisi e di discernimento, implicante la
considerazione della situazione, una sua valutazione e la prefigurazione di indicazioni
pratiche di avvio alla soluzione dei problemi. Ha così desiderato coinvolgere il maggior
numero di lettori, anche i non credenti, in un ragionamento in larga parte condivisibile
da tutti". Un'altra interessante osservazione è venuta da un economista che ha
contribuito alla stesura non di questa enciclica ma della "Caritas in veritate" di Benedetto
XVI, l'ex presidente dello IOR Ettore Gotti Tedeschi. In un'intervista a "la Repubblica" e
in un commento su "Il Foglio", ha detto che il senso profondo dell'enciclica lo si coglie
solo quando a "Laudato si'" si aggiunge "mi' Signore". Perché la causa ultima del
comportamento che porta al degrado ambientale "è il peccato, la perdita di Dio", mentre
la causa prossima "è il consumismo esagerato indotto per compensare il crollo delle
nascite nei paesi occidentali". Di questa causa prossima – ha aggiunto – "nell'enciclica
non ho trovato spiegazioni soddisfacenti, probabilmente perché l'ho letta in fretta".
Veramente, a leggere con pazienza la "Laudato si'", un passaggio che coincide con le tesi
di Gotti Tedeschi c'è, al paragrafo 50: "Invece di risolvere i problemi dei poveri e
pensare a un mondo diverso, alcuni si limitano a proporre una riduzione della natalità.
Non mancano pressioni internazionali sui Paesi in via di sviluppo che condizionano gli
aiuti economici a determinate politiche di 'salute riproduttiva'… Incolpare l’incremento
demografico e non il consumismo estremo e selettivo di alcuni, è un modo per non
affrontare i problemi". Ma questo passaggio è stato trascurato da quasi tutti i media. E
la stessa trascuratezza è caduta sugli altri passaggi dell'enciclica in cui papa Francesco
condanna l'aborto, nel paragrafo 120, le sperimentazioni sugli embrioni, nel paragrafo
136, la cancellazione delle differenze sessuali, nel paragrafo 155. Va detto però che il
quasi universale oscuramento di questi passaggi non può essere imputato alla loro poca
evidenza nell'insieme sovrabbondante della "Laudato si'". Perché lo stesso silenzio ha
finora punito anche tutte le altre prese di posizione di papa Francesco su questi
argomenti. La riprova è che l'unica grossa polemica di dimensione mondiale
recentemente scoppiata su materie del genere ha avuto per oggetto un'affermazione
non del papa, ma del suo segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin. È stata la
polemica accesa dal suo lapidario giudizio sulla vittoria del "sì" nel referendum irlandese
sul matrimonio omosessuale: "Una sconfitta dell'umanità". Era martedì 26 maggio e il
cardinale Parolin era stato in udienza dal papa la sera prima, quando il risultato del
referendum era in testa a tutti i notiziari. Che il giudizio di Parolin fosse lo stesso del
papa era al di là di ogni dubbio. "Parola per parola", ha confermato padre Federico
Lombardi. Ma nella narrazione di papa Francesco che continua a dominare nei media,
simili giudizi non devono aver posto. Sono tabù. Il marchio indelebile del pontificato
deve continuare ad essere: "Chi sono io per giudicare?". E questo nonostante
l'ininterrotto fluire di severi giudizi papali su aborto, divorzio, omosessualità,
contraccezione, tutti in perfetta continuità con il precedente magistero della Chiesa.
Forse, ciò che facilita l'oscuramento mediatico di questi giudizi del papa è anche la cura
con cui egli evita di far coincidere temporalmente le sue prese di posizione con
accadimenti di forte impatto politico, come un referendum o l'approvazione di una legge,
oppure di grande mobilitazione sociale, come a Parigi un corteo della "Manif pour tous" o
a Roma l'imponente "Family Day" del 20 giugno. Su accadimenti del genere Francesco
tace del tutto o quasi. Per dire a voce alta ciò che gli sta a cuore egli sceglie altri
momenti, più distanziati dalla pressione dei fatti. E infatti sul referendum dell'Irlanda,
come s'è visto, a parlare non è stato lui ma il suo segretario di Stato, contro il quale – e
non contro il papa – si sono poi concentrate le critiche. Questo sito ha già pubblicato due
raccolte di tutti gli interventi di papa Francesco su aborto, divorzio, contraccezione,
omosessualità, dalla fine di ottobre del 2014 – cioè dalla fine della prima sessione del
sinodo sulla famiglia – all'11 maggio di quest'anno. Ed erano in tutto 39 interventi. Ed
ecco qui il seguito, dalla metà di maggio fino al viaggio di due giorni fa a Torino, dove il
papa ha esortato i giovani alla castità prima del matrimonio. E sono altri 14 interventi,
che diventano 15 con l'enciclica. Un'ultima notazione. Da dopo il sinodo dello scorso
ottobre Francesco non ha più detto una sola parola, su questi temi, a sostegno dei
cambiamenti di dottrina e di prassi propugnati dai novatori.
PAPA
FRANCESCO
SU
ABORTO,
DIVORZIO,
OMOSESSUALITÀ
Tutti i suoi interventi dalla metà di maggio a oggi
CASTITÀ,
CONTRACCEZIONE,
1. Dal discorso del 15 maggio 2015 ai vescovi della Repubblica Centroafricana:
Non posso non incoraggiarvi a prestare alla pastorale del matrimonio tutta l’attenzione
che merita, e a non scoraggiarvi di fronte alle resistenze provocate dalle tradizioni
culturali, dalla debolezza umana o dalle colonizzazioni ideologiche nuove che si stanno
diffondendo ovunque. Vi ringrazio anche per la vostra partecipazione ai lavori del Sinodo
che si terrà a Roma a ottobre prossimo.
2. Dall'udienza generale di mercoledì 20 maggio 2015:
Si sono moltiplicati i cosiddetti “esperti”, che hanno occupato il ruolo dei genitori anche
negli aspetti più intimi dell’educazione. Sulla vita affettiva, sulla personalità e lo
sviluppo, sui diritti e sui doveri, gli “esperti” sanno tutto: obiettivi, motivazioni, tecniche.
E i genitori devono solo ascoltare, imparare e adeguarsi. Privati del loro ruolo… tendono
ad affidarli sempre più agli “esperti”, anche per gli aspetti più delicati e personali della
loro vita, mettendosi nell’angolo da soli; e così i genitori oggi corrono il rischio di
autoescludersi dalla vita dei loro figli. E questo è gravissimo!
3. Dall'intervista del 24 maggio 2015 al giornale argentino "La Voz del Pueblo":
Dico sempre: "Mai dare una sberla in faccia a un bambino, perché la faccia è sacra, però
due o tre scapaccioni sul sedere non vanno male". Una volta dissi questo in un'udienza e
alcuni paesi mi criticarono. Sono paesi che hanno leggi di protezione del minore molto
strette… per cui il papa non può dire tali cose. Però curiosamente questi paesi, che pur
sanzionano il padre o la madre che picchiano i minori, hanno leggi che permettono di
uccidere i bambini prima che nascano. Queste sono le contraddizioni che viviamo oggi.
4. Dall'udienza generale di mercoledì 27 maggio:
La Chiesa, nella sua saggezza, custodisce la distinzione tra l’essere fidanzati e l’essere
sposi – non è lo stesso – proprio in vista della delicatezza e della profondità di questa
verifica. Stiamo attenti a non disprezzare a cuor leggero questo saggio insegnamento,
che si nutre anche dell’esperienza dell’amore coniugale felicemente vissuto. I simboli
forti del corpo detengono le chiavi dell’anima: non possiamo trattare i legami della carne
con leggerezza, senza aprire qualche durevole ferita nello spirito… Dovremo forse
impegnarci di più su questo punto, perché le nostre “coordinate sentimentali” sono
andate un po’ in confusione. Chi pretende di volere tutto e subito, poi cede anche su
tutto – e subito – alla prima difficoltà o alla prima occasione.
5. Dal discorso del 28 maggio 2015 ai vescovi della Repubblica Dominicana:
Il matrimonio e la famiglia attraversano una seria crisi culturale. Ciò non vuol dire che
hanno perso importanza, ma che il loro bisogno si sente di più… Continuiamo a
presentare la bellezza del matrimonio cristiano: “sposarsi nel Signore” è un atto di fede
e di amore, nel quale gli sposi, mediante il loro libero consenso, diventano trasmettitori
della benedizione e della grazia di Dio per la Chiesa e la società.
6. Dall'incontro del 29 maggio 2015 con alcuni bambini malati e i loro genitori:
Ho tanta ammirazione per la vostra fortezza, per il vostro coraggio. Tu hai detto che ti
hanno consigliato l’aborto. Hai detto: “No, che venga, ha diritto a vivere”. Mai, mai si
risolve un problema facendo fuori una persona. Mai. Questo è il regolamento dei mafiosi:
“C’è un problema, facciamo fuori questo…”. Mai.
7. Dal discorso del 30 maggio 2015 all'associazione "Scienza e Vita":
Il grado di progresso di una civiltà si misura proprio dalla capacità di custodire la vita,
soprattutto nelle sue fasi più fragili, più che dalla diffusione di strumenti tecnologici.
Quando parliamo dell’uomo, non dimentichiamo mai tutti gli attentati alla sacralità della
vita umana. È attentato alla vita la piaga dell’aborto. È attentato alla vita lasciar morire i
nostri fratelli sui barconi nel canale di Sicilia. È attentato alla vita la morte sul lavoro
perché non si rispettano le minime condizioni di sicurezza. È attentato alla vita la morte
per denutrizione. È attentato alla vita il terrorismo, la guerra, la violenza; ma anche
l’eutanasia.
8. Dall'udienza generale di mercoledì 3 giugno 2015:
È quasi un miracolo che, anche nella povertà, la famiglia continui a formarsi, e persino a
conservare – come può – la speciale umanità dei suoi legami. Il fatto irrita quei
pianificatori del benessere che considerano gli affetti, la generazione, i legami famigliari,
come una variabile secondaria della qualità della vita. Non capiscono niente! Invece, noi
dovremmo inginocchiarci davanti a queste famiglie, che sono una vera scuola di umanità
che salva le società dalla barbarie… A questi fattori materiali si aggiunge il danno
causato alla famiglia da pseudo-modelli, diffusi dai mass-media basati sul consumismo e
il culto dell’apparire, che influenzano i ceti sociali più poveri e incrementano la
disgregazione dei legami familiari.
9. Dal comunicato dell'udienza del 5 giugno 2015 alla presidente del Cile Michelle
Bachelet:
Nel corso dei cordiali colloqui… sono stati affrontati temi di comune interesse, come la
salvaguardia della vita umana, l’educazione e la pace sociale. In tale contesto, si è
ribadito il ruolo e il contributo positivo delle istituzioni cattoliche nella società cilena.
10. Dal discorso dell'8 giugno ai vescovi di Porto Rico:
La complementarità tra l’uomo e la donna, vertice della creazione divina, è oggi messa
in discussione dalla cosiddetta ideologia di genere, in nome di una società più libera e
più giusta. Le differenze tra uomo e donna non sono per la contrapposizione o la
subordinazione, ma per la comunione e la generazione, sempre a “immagine e
somiglianza” di Dio. Senza la reciproca dedizione, nessuno dei due può comprendere
nemmeno se stesso in profondità.
11. Dal discorso dell'11 giugno 2015 ai vescovi di Lettonia ed Estonia:
Oggi il matrimonio è spesso considerato una forma di gratificazione affettiva che può
costituirsi in qualsiasi modo e modificarsi secondo la sensibilità di ognuno. Purtroppo tale
concezione riduttiva influisce anche sulla mentalità dei cristiani, causando una facilità nel
ricorrere al divorzio o alla separazione di fatto. Noi Pastori siamo chiamati a interrogarci
sulla preparazione al matrimonio dei giovani fidanzati e anche su come assistere quanti
vivono queste situazioni, affinché i figli non ne diventino le prime vittime e i coniugi non
si sentano esclusi dalla misericordia di Dio e dalla sollecitudine della Chiesa, ma siano
aiutati nel cammino della fede e dell’educazione cristiana dei figli.
12. Dal discorso del 13 giugno 2015 al consiglio superiore della magistratura italiana:
La stessa globalizzazione – come è stato opportunamente richiamato – porta infatti con
sé anche aspetti di possibile confusione e disorientamento, come quando diventa veicolo
per introdurre usanze, concezioni, persino norme, estranee ad un tessuto sociale con
conseguente deterioramento delle radici culturali di realtà che vanno invece rispettate; e
ciò per effetto di tendenze appartenenti ad altre culture, economicamente sviluppate ma
eticamente indebolite. Tante volte io ho parlato delle colonizzazioni ideologiche quando
mi riferisco a questo problema.
13. Dal discorso del 14 giugno 2015 alla diocesi di Roma:
I nostri ragazzi, i ragazzini, che incominciano a sentire queste idee strane, queste
colonizzazioni ideologiche che avvelenano l’anima e la famiglia: si deve agire contro
questo. Mi diceva, due settimane fa, una persona, un uomo molto cattolico, bravo,
giovane, che i suoi ragazzini andavano in prima e seconda elementare e che la sera, lui
e sua moglie tante volte dovevano “ri-catechizzare” i bambini, i ragazzi, per quello che
riportavano da alcuni professori della scuola o per quello che dicevano i libri che davano
lì. Queste colonizzazioni ideologiche, che fanno tanto male e distruggono una società, un
Paese, una famiglia. E per questo abbiamo bisogno di una vera e propria rinascita
morale e spirituale. A ottobre celebreremo un Sinodo sulla famiglia, per aiutare le
famiglie a riscoprire la bellezza della loro vocazione e a esserle fedeli.
14. Dall'enciclica "Laudato si'" resa pubblica il 18 giugno 2015:
Invece di risolvere i problemi dei poveri e pensare a un mondo diverso, alcuni si limitano
a proporre una riduzione della natalità. Non mancano pressioni internazionali sui Paesi in
via di sviluppo che condizionano gli aiuti economici a determinate politiche di “salute
riproduttiva”… Incolpare l’incremento demografico e non il consumismo estremo e
selettivo di alcuni, è un modo per non affrontare i problemi. (50) Dal momento che tutto
è in relazione, non è neppure compatibile la difesa della natura con la giustificazione
dell’aborto. Non appare praticabile un cammino educativo per l’accoglienza degli esseri
deboli che ci circondano, che a volte sono molesti o importuni, quando non si dà
protezione a un embrione umano benché il suo arrivo sia causa di disagi e difficoltà.
(120) Non è la stessa logica relativista quella che giustifica l’acquisto di organi dei poveri
allo scopo di venderli o di utilizzarli per la sperimentazione, o lo scarto di bambini perché
non rispondono al desiderio dei loro genitori? (123) È preoccupante il fatto che alcuni
movimenti ecologisti difendano l’integrità dell’ambiente, e con ragione reclamino dei
limiti alla ricerca scientifica, mentre a volte non applicano questi medesimi princìpi alla
vita umana. Spesso si giustifica che si oltrepassino tutti i limiti quando si fanno
esperimenti con embrioni umani vivi. Si dimentica che il valore inalienabile di un essere
umano va molto oltre il grado del suo sviluppo. (136) Apprezzare il proprio corpo nella
sua femminilità o mascolinità è necessario per poter riconoscere sé stessi nell’incontro
con l’altro diverso da sé. In tal modo è possibile accettare con gioia il dono specifico
dell’altro o dell’altra, opera di Dio creatore, e arricchirsi reciprocamente. Pertanto, non è
sano un atteggiamento che pretenda di "cancellare la differenza sessuale perché non sa
più confrontarsi con essa". (155) Desidero sottolineare l’importanza centrale della
famiglia, perché è il luogo in cui la vita, dono di Dio, può essere adeguatamente accolta
e protetta contro i molteplici attacchi a cui è esposta, e può svilupparsi secondo le
esigenze di un’autentica crescita umana. Contro la cosiddetta cultura della morte, la
famiglia costituisce la sede della cultura della vita. (213)
15. Dall'incontro del 21 giugno 2015 con i giovani a Torino:
Anche il papa alcune volte deve rischiare sulle cose per dire la verità. L’amore è nelle
opere, nel comunicare, ma l’amore è molto rispettoso delle persone, non usa le persone
e cioè l’amore è casto. E a voi giovani in questo mondo, in questo mondo edonista, in
questo mondo dove soltanto ha pubblicità il piacere, passarsela bene, fare la bella vita,
io vi dico: siate casti, siate casti. Tutti noi nella vita siamo passati per momenti in cui
questa virtù è molto difficile, ma è proprio la via di un amore genuino, di un amore che
sa dare la vita, che non cerca di usare l’altro per il proprio piacere. È un amore che
considera sacra la vita dell’altra persona: io ti rispetto, io non voglio usarti. Non è facile.
Tutti sappiamo le difficoltà per superare questa concezione “facilista” ed edonista
dell’amore. Perdonatemi se dico una cosa che voi non vi aspettavate, ma vi chiedo: fate
lo sforzo di vivere l’amore castamente… Stiamo vivendo nella cultura dello scarto.
Perché quello che non è di utilità economica, si scarta. Si scartano i bambini, perché non
si fanno, o perché si uccidono prima che nascano; si scartano gli anziani, perché non
servono e si lasciano lì, a morire, una sorta di eutanasia nascosta.
L’OSSERVATORE ROMANO
Pag 1 Dalle radici al futuro di g.m.v.
La preghiera silenziosa davanti alla sindone e il ricordo della lezione di don Bosco sono i
primi motivi della visita a Torino di Bergoglio, che da Pontefice è tornato nella terra di
cui si è dichiarato «nipote». Per due giorni, densi di memorie familiari e di appuntamenti
che hanno colpito e commosso non solo i torinesi e i piemontesi: dall’incontro con i
valdesi - davvero storico perché senza precedenti e fraterno - a quello con i giovani, e
prima con i malati del Cottolengo, la famiglia salesiana, il mondo del lavoro, parlando
come sempre a tutti. E come sempre la gente ha capito le parole del Papa, la sua
preoccupazione per la crisi che ancora grava su moltissime persone e che «non è solo
torinese, italiana», ma globale e complessa, la denuncia accorata della guerra «a pezzi»,
che accentua il dramma delle migrazioni forzate e rese più atroci dal cinismo e
dall’indifferenza di troppi: «Fa piangere vedere lo spettacolo di questi giorni in cui esseri
umani vengono trattati come merce» ha esclamato Francesco. Di fronte allo
smarrimento diffuso il Pontefice ha ancora una volta indicato la via della solidarietà tra
generazioni, che si realizza innanzi tutto nella famiglia: quelle degli anziani e quelle dei
giovani, che sono ricchezza della memoria e promessa di futuro. E quanto Bergoglio
faccia affidamento sulla famiglia si è colto da un gesto - non previsto e toccante - che ha
voluto compiere visitando la piccola chiesa di Santa Teresa, dove si sposarono i suoi
nonni e fu battezzato suo padre. In questo luogo carico di memorie familiari il Papa come aveva fatto davanti alla sindone, nel santuario, torinese per eccellenza, della
Consolata e poi al Cottolengo - ha pregato in silenzio, consegnando a una dedica scritta
le sue intenzioni per il prossimo sinodo sulla famiglia. E della sua famiglia, soprattutto,
ha parlato a Valdocco, quando improvvisando ha rievocato a lungo i propri ricordi
salesiani e tratteggiando con vivacità la parte che i seguaci di don Bosco hanno avuto
sulla sua formazione umana e cristiana. Dalle proprie radici piemontesi e dalla memoria
storica del secolo scorso il Pontefice ha saputo trarre, durante l’incontro con i giovani e
rispondendo a braccio alle loro domande, parole efficaci e - come ha sottolineato scomode, quando ha additato l’amore casto e la necessità di andare controcorrente in
contesti difficili per la fede come quelli del Piemonte ottocentesco, come hanno fatto i
suoi santi. Per guardare avanti senza soccombere all’idolatria del denaro e senza
distogliere lo sguardo dalle necessità di oggi, come appunto tante volte è accaduto nel
Novecento. E aperto al futuro è stato l’incontro semplice e festoso nel tempio valdese,
anche in questo caso fondato sulle esperienze vissute da Bergoglio con «gli amici della
Chiesa evangelica valdese del Río de la Plata, di cui - ha detto - ho potuto apprezzare la
spiritualità e la fede, e imparare tante cose buone». È l’ecumenismo «in cammino», che
già unisce, malgrado le differenze e che ha portato il Papa a chiedere perdono per gli
atteggiamenti e i comportamenti non cristiani e non umani nei confronti dei valdesi. Per
camminare insieme e insieme testimoniare il Vangelo nel mondo.
Pag 4 Questione di dignità
Centralità del lavoro e dramma dei migranti nel primo discorso del Papa a Torino
La visita pastorale di Papa Francesco a Torino è iniziata domenica mattina, 21 giugno,
nella piazzetta Reale, dove ha incontrato il mondo del lavoro. Ecco il suo discorso.
Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Saluto tutti voi, lavoratori, imprenditori, Autorità,
giovani e famiglie presenti a questo incontro, e vi ringrazio per i vostri interventi, da cui
emerge il senso di responsabilità di fronte ai problemi causati dalla crisi economica, e
per aver testimoniato che la fede nel Signore e l’unità della famiglia vi sono di grande
aiuto e sostegno. La mia visita a Torino inizia con voi. E anzitutto esprimo la mia
vicinanza ai giovani disoccupati, alle persone in cassa-integrazione o precarie; ma anche
agli imprenditori, agli artigiani e a tutti i lavoratori dei vari settori, soprattutto a quelli
che fanno più fatica ad andare avanti. Il lavoro non è necessario solo per l’economia, ma
per la persona umana, per la sua dignità, per la sua cittadinanza e anche per l’inclusione
sociale. Torino è storicamente un polo di attrazione lavorativa, ma oggi risente
fortemente della crisi: il lavoro manca, sono aumentate le disuguaglianze economiche e
sociali, tante persone si sono impoverite e hanno problemi con la casa, la salute,
l’istruzione e altri beni primari. L’immigrazione aumenta la competizione, ma i migranti
non vanno colpevolizzati, perché essi sono vittime dell’iniquità, di questa economia che
scarta e delle guerre. Fa piangere vedere lo spettacolo di questi giorni, in cui esseri
umani vengono trattati come merce! In questa situazione siamo chiamati a ribadire il
“no” a un’economia dello scarto, che chiede di rassegnarsi all’esclusione di coloro che
vivono in povertà assoluta - a Torino circa un decimo della popolazione. Si escludono i
bambini (natalità zero!), si escludono gli anziani, e adesso si escludono i giovani (più del
40 per cento di giovani disoccupati)! Quello che non produce si esclude a modo di “usa e
getta”. Siamo chiamati a ribadire il “no” all’idolatria del denaro, che spinge ad entrare a
tutti i costi nel numero dei pochi che, malgrado la crisi, si arricchiscono, senza curarsi
dei tanti che si impoveriscono, a volte fino alla fame. Siamo chiamati a dire “no” alla
corruzione, tanto diffusa che sembra essere un atteggiamento, un comportamento
normale. Ma non a parole, con i fatti. “No” alle collusioni mafiose, alle truffe, alle
tangenti, e cose del genere. E solo così, unendo le forze, possiamo dire “no” all’iniquità
che genera violenza. Don Bosco ci insegna che il metodo migliore è quello preventivo:
anche il conflitto sociale va prevenuto, e questo si fa con la giustizia. In questa
situazione, che non è solo torinese, italiana, è globale e complessa, non si può solo
aspettare la “ripresa” - “aspettiamo la ripresa...” -. Il lavoro è fondamentale - lo dichiara
fin dall’inizio la Costituzione Italiana - ed è necessario che l’intera società, in tutte le sue
componenti, collabori perché esso ci sia per tutti e sia un lavoro degno dell’uomo e della
donna. Questo richiede un modello economico che non sia organizzato in funzione del
capitale e della produzione ma piuttosto in funzione del bene comune. E, a proposito
delle donne - ne ha parlato lei [la lavoratrice che è intervenuta] -, i loro diritti vanno
tutelati con forza, perché le donne, che pure portano il maggior peso nella cura della
casa, dei figli e degli anziani, sono ancora discriminate, anche nel lavoro. È una sfida
molto impegnativa, da affrontare con solidarietà e sguardo ampio; e Torino è chiamata
ad essere ancora una volta protagonista di una nuova stagione di sviluppo economico e
sociale, con la sua tradizione manifatturiera e artigianale - pensiamo, nel racconto
biblico, che Dio ha fatto proprio l’artigiano... Voi siete chiamati a questo: manifatturiera
ed artigianale - e nello stesso tempo con la ricerca e l’innovazione. Per questo bisogna
investire con coraggio nella formazione, cercando di invertire la tendenza che ha visto
calare negli ultimi tempi il livello medio di istruzione, e molti ragazzi abbandonare la
scuola. Lei [sempre la lavoratrice] andava la sera a scuola, per poter andare avanti...
Oggi vorrei unire la mia voce a quella di tanti lavoratori e imprenditori nel chiedere che
possa attuarsi anche un “patto sociale e generazionale”, come ha indicato l’esperienza
dell’“Agorà”, che state portando avanti nel territorio della diocesi. Mettere a disposizione
dati e risorse, nella prospettiva del “fare insieme”, è condizione preliminare per superare
l’attuale difficile situazione e per costruire un’identità nuova e adeguata ai tempi e alle
esigenze del territorio. È giunto il tempo di riattivare una solidarietà tra le generazioni,
di recuperare la fiducia tra giovani e adulti. Questo implica anche aprire concrete
possibilità di credito per nuove iniziative, attivare un costante orientamento e
accompagnamento al lavoro, sostenere l’apprendistato e il raccordo tra le imprese, la
scuola professionale e l’Università. Mi è piaciuto tanto che voi tre abbiate parlato della
famiglia, dei figli e dei nonni. Non dimenticare questa ricchezza! I figli sono la promessa
da portare avanti: questo lavoro che voi avete segnalato, che avete ricevuto dai vostri
antenati. E gli anziani sono la ricchezza della memoria. Una crisi non può essere
superata, noi non possiamo uscire dalla crisi senza i giovani, i ragazzi, i figli e i nonni.
Forza per il futuro, e memoria del passato che ci indica dove si deve andare. Non
trascurare questo, per favore. I figli e i nonni sono la ricchezza e la promessa di un
popolo. A Torino e nel suo territorio esistono ancora notevoli potenzialità da investire per
la creazione di lavoro: l’assistenza è necessaria, ma non basta: ci vuole promozione, che
rigeneri fiducia nel futuro. Ecco alcune cose principali che volevo dirvi. Aggiungo una
parola che non vorrei che fosse retorica, per favore: coraggio!. Non significa: pazienza,
rassegnatevi. No, no, non significa questo. Ma al contrario, significa: osate, siate
coraggiosi, andate avanti, siate creativi, siate “artigiani” tutti i giorni, artigiani del
futuro! Con la forza di quella speranza che ci dà il Signore e non delude mai. Ma che ha
anche bisogno del nostro lavoro. Per questo prego e vi accompagno con tutto il cuore. Il
Signore vi benedica tutti e la Madonna vi protegga. E, per favore, vi chiedo di pregare
per me! Grazie!
Pag 4 Liberi e testardi
All’omelia della messa Francesco paragona l’amore di Dio a una roccia e cita la poesia
piemontese “Razza nostrana”
Una folla immensa di fedeli ha partecipato alla messa celebrata da Papa Francesco in
piazza Vittorio a Torino. Dopo la proclamazione delle letture della dodicesima domenica
del tempo ordinario, il Pontefice ha pronunciato la seguente omelia.
Nell’Orazione Colletta abbiamo pregato: «Dona al tuo popolo, o Padre, di vivere sempre
nella venerazione e nell’amore per il tuo santo nome, poiché tu non privi mai della tua
grazia coloro che hai stabilito sulla roccia del tuo amore». E le Letture che abbiamo
ascoltato ci mostrano come è questo amore di Dio verso di noi: è un amore fedele, un
amore che ricrea tutto, un amore stabile e sicuro. Il Salmo ci ha invitato a ringraziare il
Signore perché «il suo amore è per sempre». Ecco l’amore fedele, la fedeltà: è un amore
che non delude, non viene mai meno. Gesù incarna questo amore, ne è il Testimone. Lui
non si stanca mai di volerci bene, di sopportarci, di perdonarci, e così ci accompagna nel
cammino della vita, secondo la promessa che fece ai discepoli: «Io sono con voi tutti i
giorni, sino alla fine del mondo» (Mt 28, 20). Per amore si è fatto uomo, per amore è
morto e risorto, e per amore è sempre al nostro fianco, nei momenti belli e in quelli
difficili. Gesù ci ama sempre, sino alla fine, senza limiti e senza misura. E ci ama tutti, al
punto che ognuno di noi può dire: «Ha dato la vita per me». Per me! La fedeltà di Gesù
non si arrende nemmeno davanti alla nostra infedeltà. Ce lo ricorda san Paolo: «Se
siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare sé stesso» (2 Tm 2, 13).
Gesù rimane fedele, anche quando abbiamo sbagliato, e ci aspetta per perdonarci: Lui è
il volto del Padre misericordioso. Ecco l’amore fedele. Il secondo aspetto: l’amore di Dio
ri-crea tutto, cioè fa nuove tutte le cose, come ci ha ricordato la seconda Lettura.
Riconoscere i propri limiti, le proprie debolezze, è la porta che apre al perdono di Gesù,
al suo amore che può rinnovarci nel profondo, che può ri-crearci. La salvezza può
entrare nel cuore quando noi ci apriamo alla verità e riconosciamo i nostri sbagli, i nostri
peccati; allora facciamo esperienza, quella bella esperienza di Colui che è venuto non
per i sani, ma per i malati, non per i giusti, ma per i peccatori (cfr. Mt 9, 12-13);
sperimentiamo la sua pazienza - ne ha tanta! - la sua tenerezza, la sua volontà di
salvare tutti. E quale è il segno? Il segno che siamo diventati “nuovi” e siamo stati
trasformati dall’amore di Dio è il sapersi spogliare delle vesti logore e vecchie dei rancori
e delle inimicizie per indossare la tunica pulita della mansuetudine, della benevolenza,
del servizio agli altri, della pace del cuore, propria dei figli di Dio. Lo spirito del mondo è
sempre alla ricerca di novità, ma soltanto la fedeltà di Gesù è capace della vera novità,
di farci uomini nuovi, di ri-crearci. Infine, l’amore di Dio è stabile e sicuro, come gli
scogli rocciosi che riparano dalla violenza delle onde. Gesù lo manifesta nel miracolo
narrato dal Vangelo, quando placa la tempesta, comandando al vento e al mare (cfr. Mc
4, 41). I discepoli hanno paura perché si accorgono di non farcela, ma Egli apre il loro
cuore al coraggio della fede. Di fronte all’uomo che grida: «Non ce la faccio più», il
Signore gli va incontro, offre la roccia del suo amore, a cui ognuno può aggrapparsi
sicuro di non cadere. Quante volte noi sentiamo di non farcela più! Ma Lui è accanto a
noi con la mano tesa e il cuore aperto. Cari fratelli e sorelle torinesi e piemontesi, i
nostri antenati sapevano bene che cosa vuol dire essere “roccia”, cosa vuol dire
“solidità”. Ne dà una bella testimonianza un famoso poeta nostro: «Dritti e sinceri, quel
che sono, appaiono: / teste quadre, polso fermo e fegato sano, / parlano poco ma sanno
quel che dicono, / anche se camminano adagio, vanno lontano. / Gente che non
risparmia tempo e sudore / - razza nostrana libera e testarda -. / Tutto il mondo
conosce chi sono / e, quando passano... tutto il mondo li guarda». Possiamo chiederci se
oggi siamo saldi su questa roccia che è l’amore di Dio. Come viviamo l’amore fedele di
Dio verso di noi. Sempre c’è il rischio di dimenticare quell’amore grande che il Signore ci
ha mostrato. Anche noi cristiani corriamo il rischio di lasciarci paralizzare dalle paure del
futuro e cercare sicurezze in cose che passano, o in un modello di società chiusa che
tende ad escludere più che a includere. In questa terra sono cresciuti tanti Santi e Beati
che hanno accolto l’amore di Dio e lo hanno diffuso nel mondo, santi liberi e testardi.
Sulle orme di questi testimoni, anche noi possiamo vivere la gioia del Vangelo praticando
la misericordia; possiamo condividere le difficoltà di tanta gente, delle famiglie,
specialmente quelle più fragili e segnate dalla crisi economica. Le famiglie hanno bisogno
di sentire la carezza materna della Chiesa per andare avanti nella vita coniugale,
nell’educazione dei figli, nella cura degli anziani e anche nella trasmissione della fede alle
giovani generazioni. Crediamo che il Signore è fedele? Come viviamo la novità di Dio che
tutti i giorni ci trasforma? Come viviamo l’amore saldo del Signore, che si pone come
una barriera sicura contro le onde dell’orgoglio e delle false novità? Lo Spirito Santo ci
aiuti a essere sempre consapevoli di questo amore “roccioso” che ci rende stabili e forti
nelle piccole o grandi sofferenze, ci rende capaci di non chiuderci di fronte alla difficoltà,
di affrontare la vita con coraggio e guardare al futuro con speranza. Come allora sul lago
di Galilea, anche oggi nel mare della nostra esistenza Gesù è Colui che vince le forze del
male e le minacce della disperazione. La pace che Lui ci dona è per tutti; anche per tanti
fratelli e sorelle che fuggono da guerre e persecuzioni in cerca di pace e libertà.
Carissimi, ieri avete festeggiato la Beata Vergine Consolata, la Consola’, che «è lì: bassa
e massiccia, senza sfarzo: come una buona madre». Affidiamo alla nostra Madre il
cammino ecclesiale e civile di questa terra: Lei ci aiuti a seguire il Signore per essere
fedeli, per lasciarci rinnovare tutti i giorni e rimanere saldi nell’amore. Così sia.
Pag 4 Il volto nei volti
Alla preghiera dell’Angelus
Al termine della messa Papa Francesco ha guidato la recita dell’Angelus. Ecco la
meditazione pronunciata prima della preghiera mariana.
Al termine di questa celebrazione, il nostro pensiero va alla Vergine Maria, madre
amorosa e premurosa verso tutti i suoi figli, che Gesù le ha affidato dalla croce, mentre
offriva Sé stesso nel gesto di amore più grande. Icona di questo amore è la Sindone, che
anche questa volta ha attirato tanta gente qui a Torino. La Sindone attira verso il volto e
il corpo martoriato di Gesù e, nello stesso tempo, spinge verso il volto di ogni persona
sofferente e ingiustamente perseguitata. Ci spinge nella stessa direzione del dono di
amore di Gesù. “L’amore di Cristo ci spinge”: questa parola di san Paolo era il motto di
san Giuseppe Benedetto Cottolengo. Richiamando l’ardore apostolico dei tanti sacerdoti
santi di questa terra, a partire da Don Bosco, di cui ricordiamo il bicentenario della
nascita, saluto con gratitudine voi, sacerdoti e religiosi. Voi vi dedicate con impegno al
lavoro pastorale e siete vicini alla gente e ai suoi problemi. Vi incoraggio a portare avanti
con gioia il vostro ministero, puntando sempre su ciò che è essenziale nell’annuncio del
Vangelo. E mentre ringrazio voi, fratelli Vescovi del Piemonte e della Valle d’Aosta, per la
vostra presenza, vi esorto a stare accanto ai vostri preti con affetto paterno e calorosa
vicinanza. Alla Vergine Santa affido questa città e il suo territorio e coloro che vi abitano,
perché possano vivere nella giustizia, nella pace e nella fraternità. In particolare affido le
famiglie, i giovani, gli anziani, i carcerati e tutti i sofferenti, con un pensiero speciale per
i malati di leucemia nell’odierna Giornata Nazionale contro leucemie, linfomi e mieloma.
Maria Consolata, regina di Torino e del Piemonte, renda salda la vostra fede, sicura la
vostra speranza e feconda la vostra carità, per essere “sale e luce” di questa terra
benedetta, della quale io sono nipote.
Pag 5 Anticorpi contro lo scarto
Durante la visita al Cottolengo l’appello per l’accoglienza di poveri, anziani e disabili
Nel pomeriggio di domenica 21 giugno il Papa si è recato in visita alla Piccola Casa della
Divina provvidenza nel quartiere torinese di Borgo Dora. Agli ospiti dell’opera fondata dal
Cottolengo ha rivolto il seguente discorso.
Cari fratelli e sorelle, non potevo venire a Torino senza fermarmi in questa casa: la
Piccola Casa della Divina Provvidenza, fondata quasi due secoli fa da san Giuseppe
Benedetto Cottolengo. Ispirato dall’amore misericordioso di Dio Padre e confidando
totalmente nella sua Provvidenza, egli accolse persone povere, abbandonate e ammalate
che non potevano essere accolte negli ospedali di quel tempo. L’esclusione dei poveri e
la difficoltà per gli indigenti a ricevere l’assistenza e le cure necessarie, è una situazione
che purtroppo è presente ancora oggi. Sono stati fatti grandi progressi nella medicina e
nell’assistenza sociale, ma si è diffusa anche una cultura dello scarto, come conseguenza
di una crisi antropologica che non pone più l’uomo al centro, ma il consumo e gli
interessi economici (cfr. Esort. ap. Evangelii gaudium, 52-53). Tra le vittime di questa
cultura dello scarto vorrei qui ricordare in particolare gli anziani, che sono accolti
numerosi in questa casa; gli anziani che sono la memoria e la saggezza dei popoli. La
loro longevità non sempre viene vista come un dono di Dio, ma a volte come un peso
difficile da sostenere, soprattutto quando la salute è fortemente compromessa. Questa
mentalità non fa bene alla società, ed è nostro compito sviluppare degli “anticorpi”
contro questo modo di considerare gli anziani, o le persone con disabilità, quasi fossero
vite non più degne di essere vissute. Questo è peccato, è un peccato sociale grave. Con
che tenerezza invece il Cottolengo ha amato queste persone! Qui possiamo imparare un
altro sguardo sulla vita e sulla persona umana! Il Cottolengo ha meditato a lungo la
pagina evangelica del giudizio finale di Gesù, al capitolo 25 di Matteo. E non è rimasto
sordo all’appello di Gesù che chiede di essere sfamato, dissetato, vestito e visitato.
Spinto dalla carità di Cristo ha dato inizio ad un’Opera di carità nella quale la Parola di
Dio ha dimostrato tutta la sua fecondità (cfr. Esort. ap. Evangelii gaudium, 233). Da lui
possiamo imparare la concretezza dell’amore evangelico, perché molti poveri e malati
possano trovare una “casa”, vivere come in una famiglia, sentirsi appartenenti alla
comunità e non esclusi e sopportati. Cari fratelli ammalati, voi siete membra preziose
della Chiesa, voi siete la carne di Cristo crocifisso che abbiamo l’onore di toccare e di
servire con amore. Con la grazia di Gesù voi potete essere testimoni e apostoli della
divina misericordia che salva il mondo. Guardando a Cristo crocifisso, pieno di amore per
noi, e anche con l’aiuto di quanti si prendono cura di voi, trovate forza e consolazione
per portare ogni giorno la vostra croce. La ragion d’essere di questa Piccola Casa non è
l’assistenzialismo, o la filantropia, ma il Vangelo: il Vangelo dell’amore di Cristo è la
forza che l’ha fatta nascere e che la fa andare avanti: l’amore di predilezione di Gesù per
i più fragili e i più deboli. Questo è al centro. E per questo un’opera come questa non va
avanti senza la preghiera, che è il primo e più importante lavoro della Piccola Casa,
come amava ripetere il vostro Fondatore (cfr. Detti e pensieri, n. 24), e come
dimostrano i sei monasteri di Suore di vita contemplativa che sono legati alla stessa
Opera. Voglio ringraziare le Suore, i Fratelli consacrati e i Sacerdoti presenti qui a Torino
e nelle vostre case sparse nel mondo. Insieme con i molti operatori laici, i volontari e gli
“Amici del Cottolengo”, siete chiamati a continuare, con fedeltà creativa, la missione di
questo grande Santo della carità. Il suo carisma è fecondo, come dimostrano anche i
beati don Francesco Paleari e fratel Luigi Bordino, come pure la serva di Dio suor Maria
Carola Cecchin, missionaria. Lo Spirito Santo vi doni sempre la forza e il coraggio di
seguire il loro esempio e di testimoniare con gioia la carità di Cristo che spinge a servire
i più deboli, contribuendo così alla crescita del Regno di Dio e di un mondo più
accogliente e fraterno. Vi benedico tutti. La Madonna vi protegga. E, per favore, non
dimenticatevi di pregare per me.
Pag 6 Con forte mitezza
Nel discorso a Valdocco l’attualità del metodo educativo di don Bosco
Dopo una sosta di preghiera al santuario della Consolata, il Pontefice ha raggiunto
Valdocco per celebrare con la famiglia salesiana il bicentenario della nascita di san
Giovanni Bosco. Ecco il discorso consegnato ai partecipanti all’incontro nel piazzale
antistante la basilica di Santa Maria Ausiliatrice.
Cari fratelli e sorelle, in questo mio pellegrinaggio dedicato alla venerazione di Gesù
crocifisso nel segno della santa Sindone, ho scelto di venire in questo luogo che
rappresenta il cuore della vita e dell’opera di san Giovanni Bosco, per celebrare con voi il
secondo centenario della sua nascita. Con voi ringrazio il Signore per avere donato alla
sua Chiesa questo Santo, che assieme a tanti altri Santi e Sante di questa regione,
costituiscono un onore e una benedizione per la Chiesa e la società di Torino e del
Piemonte, dell’Italia e del mondo intero, in particolare a motivo della cura avuta verso i
giovani poveri ed emarginati. Non si può parlare oggi di Don Bosco senza vederlo
circondato da tante persone: la Famiglia salesiana da lui fondata, gli educatori che a lui
si ispirano, e naturalmente tanti giovani, ragazzi e ragazze, di tutte le parti della terra
che acclamano Don Bosco quale “padre e maestro”. Di Don Bosco si può dire tanto! Ma
oggi vorrei rimarcare solo tre lineamenti: la fiducia nella divina Provvidenza; la
vocazione a essere prete dei giovani specialmente i più poveri; il servizio leale e operoso
alla Chiesa, segnatamente alla persona del Successore di Pietro. Don Bosco ha svolto la
sua missione sacerdotale fino all’ultimo respiro, sostenuto da una incrollabile fiducia in
Dio e nel suo amore, per questo ha fatto grandi cose. Questo rapporto di fiducia con il
Signore è anche la sostanza della vita consacrata, affinché il servizio al Vangelo e ai
fratelli non sia un rimanere prigionieri delle nostre visuali, delle realtà di questo mondo
che passano, ma un continuo superare noi stessi, ancorandoci alle realtà eterne e
inabissandoci nel Signore, nostra forza e nostra speranza. E questa sarà anche la nostra
fecondità. Possiamo oggi interrogarci su questa fecondità, e - mi permetto di dire - sulla
tanto “brava” fecondità salesiana. Ne siamo all’altezza? L’altro aspetto importante della
vita di Don Bosco è il servizio ai giovani. Lo realizzò con fermezza e costanza, fra
ostacoli e fatiche, con la sensibilità di un cuore generoso. «Non diede passo, non
pronunciò parola, non mise mano ad impresa che non avesse di mira la salvezza della
gioventù... Realmente non ebbe a cuore altro che le anime» (Costituzioni Salesiane, n.
21). Il carisma di Don Bosco ci porta ad essere educatori dei giovani attuando quella
pedagogia della fede che si riassume così: «evangelizzare educando ed educare
evangelizzando» (Direttorio Generale per la Catechesi, 147). Evangelizzare i giovani,
educare a tempo pieno i giovani, a partire dai più fragili e abbandonati, proponendo uno
stile educativo fatto di ragione, religione e amorevolezza, universalmente apprezzato
come “sistema preventivo”. Quella mitezza tanto forte di Don Bosco, che certamente
aveva imparato da mamma Margherita. Mitezza e tenerezza forte! Vi incoraggio a
proseguire con generosità e fiducia le molteplici attività in favore delle nuove
generazioni: oratori, centri giovanili, istituti professionali, scuole e collegi. Ma senza
dimenticare quelli che Don Bosco chiamava i “ragazzi di strada”: questi hanno tanto
bisogno di speranza, di essere formati alla gioia della vita cristiana. Don Bosco è sempre
stato docile e fedele alla Chiesa e al Papa, seguendone i suggerimenti e le indicazioni
pastorali. Oggi la Chiesa si rivolge a voi, figli e figlie spirituali di questo grande Santo, e
in modo concreto vi invita ad uscire, ad andare sempre di nuovo per trovare i ragazzi e i
giovani là dove vivono: nelle periferie delle metropoli, nelle aree di pericolo fisico e
morale, nei contesti sociali dove mancano tante cose materiali, ma soprattutto manca
l’amore, la comprensione, la tenerezza, la speranza. Andare verso di loro con la
traboccante paternità di Don Bosco. L’oratorio di Don Bosco è nato dall’incontro con i
ragazzi di strada e per un certo tempo è stato itinerante tra i quartieri di Torino. Possiate
annunciare a tutti la misericordia di Gesù, facendo “oratorio” in ogni luogo, specie i più
impervi; portando nel cuore lo stile oratoriano di Don Bosco e mirando a orizzonti
apostolici sempre più larghi. Dalla solida radice che egli ha posto duecento anni fa nel
terreno della Chiesa e della società sono spuntati tanti rami: trenta istituzioni religiose
ne vivono il carisma per condividere la missione di portare il Vangelo fino ai confini delle
periferie. Il Signore ha poi benedetto questo servizio suscitando tra voi, lungo questi due
secoli, una larga schiera di persone che la Chiesa ha proclamato santi e beati. Vi
incoraggio a proseguire su questa strada, imitando la fede di quanti vi hanno preceduto.
In questa Basilica, così cara a voi e a tutto il popolo di Dio, invochiamo Maria Ausiliatrice
perché benedica ogni membro della Famiglia Salesiana; benedica i genitori e gli
educatori che spendono la loro vita per la crescita dei giovani; benedica ogni giovane
che si trova nelle opere di Don Bosco, specie quelle dedicate ai più poveri, affinché,
grazie alla gioventù bene accolta e educata, sia data alla Chiesa e al mondo la gioia di
una nuova umanità.
Pag 7 Vivere, non vivacchiare
Ai giovani il Pontefice chiede castità e il coraggio di andare controcorrente
Amore, vita, amici. Sono i temi affrontati da Francesco rispondendo a braccio alle
domande rivoltegli da tre giovani durante l’incontro con le nuove generazioni in piazza
Vittorio, con cui si è conclusa la prima giornata della visita pastorale a Torino.
Grazie a Chiara, Sara e Luigi. Grazie perché le domande sono sul tema delle tre parole
del Vangelo di Giovanni che abbiamo sentito: amore, vita, amici. Tre parole che nel testo
di Giovanni si incrociano, e una spiega l’altra: non si può parlare della vita nel Vangelo
senza parlare d’amore, - se parliamo della vera vita - e non si può parlare dell’amore
senza questa trasformazione da servi ad amici. E queste tre parole sono tanto importanti
per la vita ma tutte e tre hanno una radice comune: la voglia di vivere. E qui mi
permetto di ricordare le parole del beato Pier Giorgio Frassati, un giovane come voi:
«Vivere, non vivacchiare!». Vivere! Voi sapete che è brutto vedere un giovane “fermo”,
che vive, ma vive come - permettetemi la parola - come un vegetale: fa le cose, ma la
vita non è una vita che si muove, è ferma. Ma sapete che a me danno tanta tristezza al
cuore i giovani che vanno in pensione a venti anni! Sì, sono invecchiati presto... Per
questo, quando Chiara faceva quella domanda sull’amore: quello che fa che un giovane
non vada in pensione è la voglia di amare, la voglia di dare quello che ha di più bello
l’uomo, e che ha di più bello Dio, perché la definizione che Giovanni dà di Dio è “Dio è
amore”. E quando il giovane ama, vive, cresce, non va in pensione. Cresce, cresce,
cresce e dà. Ma che cos’è l’amore? «È la telenovela, padre? Quello che vediamo nei
teleromanzi?». Alcuni pensano che sia quello l’amore. Parlare dell’amore è tanto bello, si
possono dire cose belle, belle, belle. Ma l’amore ha due assi su cui si muove, e se una
persona, un giovane non ha questi due assi, queste due dimensioni dell’amore, non è
amore. Prima di tutto, l’amore è più nelle opere che nelle parole: l’amore è concreto.
Alla Famiglia salesiana, due ore fa, parlavo della concretezza della loro vocazione... - E
vedo che si sentono giovani perché sono qui davanti! Si sentono giovani! - L’amore è
concreto, è più nelle opere che nelle parole. Non è amore soltanto dire: «Io ti amo, io
amo tutta la gente». No. Cosa fai per amore? L’amore si dà. Pensate che Dio ha
incominciato a parlare dell’amore quando si è coinvolto con il suo popolo, quando ha
scelto il suo popolo, ha fatto alleanza con il suo popolo, ha salvato il suo popolo, ha
perdonato tante volte: - tanta pazienza ha Dio! - ha fatto, ha fatto gesti di amore, opere
di amore. E la seconda dimensione, il secondo asse sul quale gira l’amore è che l’amore
sempre si comunica, cioè l’amore ascolta e risponde, l’amore si fa nel dialogo, nella
comunione: si comunica. L’amore non è né sordo né muto, si comunica. Queste due
dimensioni sono molto utili per capire cosa è l’amore, che non è un sentimento
romantico del momento o una storia, no, è concreto, è nelle opere. E si comunica, cioè è
nel dialogo, sempre. Così Chiara, risponderò a quella tua domanda: «Spesso ci sentiamo
delusi proprio nell’amore. In che cosa consiste la grandezza dell’amore di Gesù? Come
possiamo sperimentare il suo amore?». E adesso, io so che voi siete buoni e mi
permetterete di parlare con sincerità. Io non vorrei fare il moralista ma vorrei dire una
parola che non piace, una parola impopolare. Anche il Papa alcune volte deve rischiare
sulle cose per dire la verità. L’amore è nelle opere, nel comunicare, ma l’amore è molto
rispettoso delle persone, non usa le persone e cioè l’amore è casto. E a voi giovani in
questo mondo, in questo mondo edonista, in questo mondo dove soltanto ha pubblicità il
piacere, passarsela bene, fare la bella vita, io vi dico: siate casti, siate casti. Tutti noi
nella vita siamo passati per momenti in cui questa virtù è molto difficile, ma è proprio la
via di un amore genuino, di un amore che sa dare la vita, che non cerca di usare l’altro
per il proprio piacere. È un amore che considera sacra la vita dell’altra persona: io ti
rispetto, io non voglio usarti, io non voglio usarti. Non è facile. Tutti sappiamo le
difficoltà per superare questa concezione “facilista” ed edonista dell’amore. Perdonatemi
se dico una cosa che voi non vi aspettavate, ma vi chiedo: fate lo sforzo di vivere
l’amore castamente. E da questo ricaviamo una conseguenza: se l’amore è rispettoso, se
l’amore è nelle opere, se l’amore è nel comunicare, l’amore si sacrifica per gli altri.
Guardate l’amore dei genitori, di tante mamme, di tanti papà che al mattino arrivano al
lavoro stanchi perché non hanno dormito bene per curare il proprio figlio ammalato,
questo è amore! Questo è rispetto. Questo non è passarsela bene. Questo è - andiamo
su un’altra parola chiave - questo è “servizio”. L’amore è servizio. È servire gli altri.
Quando Gesù dopo la lavanda dei piedi ha spiegato il gesto agli Apostoli, ha insegnato
che noi siamo fatti per servirci l’uno all’altro, e se io dico che amo e non servo l’altro,
non aiuto l’altro, non lo faccio andare avanti, non mi sacrifico per l’altro, questo non è
amore. Avete portato la Croce [la Croce delle Gmg]: lì è il segno dell’amore. Quella
storia di amore di Dio coinvolto con le opere e con il dialogo, con il rispetto, col perdono,
con la pazienza durante tanti secoli di storia col suo popolo, finisce lì: suo Figlio sulla
croce, il servizio più grande, che è dare la vita, sacrificarsi, aiutare gli altri. Non è facile
parlare d’amore, non è facile vivere l’amore. Ma con queste cose che ho risposto, Chiara,
credo che ti ho aiutato in qualcosa, nelle domande che tu mi facevi. Non so, spero che ti
siano di utilità. E grazie a te, Sara, appassionata di teatro. Grazie. «Penso alle parole di
Gesù: Dare la vita». Ne abbiamo parlato adesso. «Spesso respiriamo un senso di
sfiducia nella vita». Sì, perché ci sono situazioni che ci fanno pensare: «Ma, vale la pena
vivere così? Cosa posso aspettarmi da questa vita?». Pensiamo, in questo mondo, alle
guerre. Alcune volte ho detto che noi stiamo vivendo la terza guerra mondiale, ma a
pezzi. A pezzi: in Europa c’è la guerra, in Africa c’è la guerra, in Medio Oriente c’è la
guerra, in altri Paesi c’è la guerra... Ma io posso avere fiducia in una vita così? Posso
fidarmi dei dirigenti mondiali? Io, quando vado a dare il voto per un candidato, mi posso
fidare che non porterà il mio Paese alla guerra? Se tu ti fidi soltanto degli uomini, hai
perso! A me fa pensare una cosa: gente, dirigenti, imprenditori che si dicono cristiani, e
fabbricano armi! Questo dà un po’ di sfiducia: si dicono cristiani! «No, no, Padre, io non
fabbrico, no, no... Soltanto ho i miei risparmi, i miei investimenti nelle fabbriche di
armi». Ah! E perché? «Perché gli interessi sono un po’ più alti...». E anche la doppia
faccia è moneta corrente, oggi: dire una cosa e farne un’altra. L’ipocrisia... Ma vediamo
cosa è successo nel secolo scorso: nel ’14, ’15, nel ’15 propriamente. C’è stata quella
grande tragedia dell’Armenia. Tanti sono morti. Non so la cifra: più di un milione
certamente. Ma dove erano le grandi potenze di allora? Guardavano da un’altra parte.
Perché? Perché erano interessate alla guerra: la loro guerra! E questi che muoiono, sono
persone, esseri umani di seconda classe. Poi, negli anni Trenta-Quaranta, la tragedia
della Shoah. Le grandi potenze avevano le fotografie delle linee ferroviarie che
portavano i treni ai campi di concentramento, come Auschwitz, per uccidere gli ebrei, e
anche i cristiani, anche i rom, anche gli omosessuali, per ucciderli lì. Ma dimmi, perché
non hanno bombardato quello? L’interesse! E un po’ dopo, quasi contemporaneamente,
c’erano i lager in Russia: Stalin... Quanti cristiani hanno sofferto, sono stati uccisi! Le
grandi potenze si dividevano l’Europa come una torta. Sono dovuti passare tanti anni
prima di arrivare a una “certa” libertà. C’è quell’ipocrisia di parlare di pace e fabbricare
armi, e persino vendere le armi a questo che è in guerra con quello, e a quello che è in
guerra con questo! Io capisco quello che tu dici della sfiducia nella vita; anche oggi che
stiamo vivendo nella cultura dello scarto. Perché quello che non è di utilità economica, si
scarta. Si scartano i bambini, perché non si fanno, o perché si uccidono prima che
nascano; si scartano gli anziani, perché non servono e si lasciano lì, a morire, una sorta
di eutanasia nascosta, e non si aiutano a vivere; e adesso si scartano i giovani: pensa a
quel quaranta per cento di giovani, qui, senza lavoro. È proprio uno scarto! Ma perché?
Perché nel sistema economico mondiale non è l’uomo e la donna al centro, come vuole
Dio, ma il dio denaro. E tutto si fa per denaro. In spagnolo c’è un bel detto che dice: Por
la plata baila el mono. Traduco: «Per i soldi, anche la scimmia balla». E così, con questa
cultura dello scarto, ci si può fidare della vita?, con quel senso di sfida [che] si allarga, si
allarga, si allarga? Un giovane che non può studiare, che non ha lavoro, che ha la
vergogna di non sentirsi degno perché non ha lavoro, non si guadagna la vita. Ma
quante volte questi giovani finiscono nelle dipendenze? Quante volte si suicidano? Le
statistiche dei suicidi dei giovani non si conoscono bene. O quante volte questi giovani
vanno a lottare con i terroristi, almeno per fare qualcosa, per un ideale. Io capisco
questa sfida. E per questo Gesù ci diceva di non riporre le nostre sicurezze nelle
ricchezze, nei poteri mondani. Come mi posso fidare della vita? Come posso fare, come
posso vivere una vita che non distrugga, che non sia una vita di distruzione, una vita
che non scarti le persone? Come posso vivere una vita che non mi deluda? E passo a
dare la risposta alla domanda di Luigi: lui parlava di un progetto di condivisione, cioè di
collegamento, di costruzione. Noi dobbiamo andare avanti con i nostri progetti di
costruzione, e questa vita non delude. Se tu ti coinvolgi lì, in un progetto di costruzione,
di aiuto - pensiamo ai bambini di strada, ai migranti, a tanti che hanno bisogno, ma non
soltanto per dar loro da mangiare un giorno, due giorni, ma per promuoverli con
l’educazione, con l’unità nella gioia degli Oratori e tante cose, ma cose che costruiscono,
allora quel senso di sfiducia nella vita si allontana, se ne va. Cosa devo fare per questo?
Non andare in pensione troppo presto: fare. Fare. E dirò una parola: fare controcorrente.
Fare controcorrente. Per voi giovani che vivete questa situazione economica, anche
culturale, edonista, consumista con i valori da “bolle di sapone”, con questi valori non si
va avanti. Fare cose costruttive, anche se piccole, ma che ci riuniscano, ci uniscano tra
noi, con i nostri ideali: questo è il migliore antidoto contro questa sfiducia della vita,
contro questa cultura che ti offre soltanto il piacere: passarsela bene, avere i soldi e non
pensare ad altre cose. Grazie per le domande. A te, Luigi, in parte ho risposto, no? Fare
controcorrente, cioè essere coraggiosi e creativi, essere creativi. L’estate scorsa ho
ricevuto, un pomeriggio; - era agosto... Roma era morta - mi aveva parlato al telefono
un gruppo di ragazzi e ragazze che facevano un campeggio in varie città d’Italia, e sono
venuti da me, - ho detto loro di venire - ma poveretti, tutti sporchi, stanchi... ma gioiosi!
Perché avevano fatto qualcosa “controcorrente”! Tante volte, le pubblicità vogliono
convincerci che questo è bello, che questo è buono, e ci fanno credere che sono
“diamanti”; ma, guardate, ci vendono vetro! E noi dobbiamo andare contro questo, non
essere ingenui. Non comprare sporcizie che ci dicono essere diamanti. E per finire, vorrei
ripetere la parola di Pier Giorgio Frassati: se volete fare qualcosa di buono nella vita,
vivete, non vivacchiate. Vivete!
Ma voi siete intelligenti e sicuramente mi direte: «Ma, padre, lei parla così perché è in
Vaticano, ha tanti monsignori lì che le fanno il lavoro, lei è tranquillo e non sa cosa è la
vita di ogni giorno...». Ma sì, qualcuno può pensare così. Il segreto è capire bene dove si
vive. In questa terra - e questo ho detto anche alla Famiglia salesiana - alla fine
dell’Ottocento c’erano le condizioni più cattive per la crescita della gioventù: c’era la
massoneria in pieno, anche la Chiesa non poteva fare nulla, c’erano i mangiapreti,
c’erano anche i satanisti... Era uno dei momenti più brutti e dei posti più brutti della
storia d’Italia. Ma se voi volete fare un bel compito a casa, andate a cercare quanti santi
e quante sante sono nati in quel tempo! Perché? Perché si sono accorti che dovevano
andare controcorrente rispetto a quella cultura, a quel modo di vivere. La realtà, vivere
la realtà. E se questa realtà è vetro e non diamante, io cerco la realtà controcorrente e
faccio la mia realtà, ma una cosa che sia servizio per gli altri. Pensate ai vostri santi di
questa terra, che cosa hanno fatto! E grazie, grazie, grazie tante! Sempre amore, vita,
amici. Ma si possono vivere queste parole soltanto “in uscita”: uscendo sempre per
portare qualcosa. Se tu rimani fermo non farai niente nella vita e rovinerai la tua. Ho
dimenticato di dirvi che adesso consegnerò il discorso scritto. Io conoscevo le vostre
domande, e ho scritto qualcosa sulle vostre domande; ma non è quello che ho detto,
questo mi è venuto dal cuore; e consegno all’incaricato il discorso, e tu lo rendi pubblico
[consegna i fogli al sacerdote incaricato della pastorale giovanile]. Qui voi siete tanti
universitari, ma guardatevi dal credere che l’università sia soltanto studiare con la testa:
essere universitario significa anche uscire, uscire nel servizio, con i poveri, soprattutto!
Grazie.
Di seguito il testo consegnato al termine dell’incontro.
Cari giovani, vi ringrazio di questa accoglienza calorosa! E grazie per le vostre domande,
che ci portano al cuore del Vangelo. La prima, sull’amore, ci interroga sul senso
profondo dell’amore di Dio, offerto a noi dal Signore Gesù. Egli ci mostra fin dove arriva
l’amore: fino al dono totale di sé stessi, fino a dare la propria vita, come contempliamo
nel mistero della Sindone, quando in essa riconosciamo l’icona dell’«amore più grande».
Ma questo dono di noi stessi non deve essere immaginato come un raro gesto eroico o
riservato a qualche occasione eccezionale. Potremmo infatti correre il rischio di cantare
l’amore, di sognare l’amore, di applaudire l’amore... senza lasciarci toccare e coinvolgere
da esso! La grandezza dell’amore si rivela nel prendersi cura di chi ha bisogno, con
fedeltà e pazienza; per cui è grande nell’amore chi sa farsi piccolo per gli altri, come
Gesù, che si è fatto servo. Amare è farsi prossimo, toccare la carne di Cristo nei poveri e
negli ultimi, aprire alla grazia di Dio le necessità, gli appelli, le solitudini delle persone
che ci circondano. L’amore di Dio allora entra, trasforma e rende grandi le piccole cose,
le rende segno della sua presenza. San Giovanni Bosco ci è maestro proprio per la sua
capacità di amare e educare a partire dalla prossimità, che lui viveva con i ragazzi e i
giovani. Alla luce di questa trasformazione, frutto dell’amore, possiamo rispondere alla
seconda domanda, sulla sfiducia nella vita. La mancanza di lavoro e di prospettive per il
futuro certamente contribuisce a frenare il movimento stesso della vita, ponendo molti
sulla difensiva: pensare a sé stessi, gestire tempo e risorse in funzione del proprio bene,
limitare i rischi di qualsiasi generosità... Sono tutti sintomi di una vita trattenuta,
conservata a tutti i costi e che, alla fine, può portare anche alla rassegnazione e al
cinismo. Gesù ci insegna invece a percorrere la via opposta: «Chi vuole salvare la
propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà» (Lc 9,
24). Ciò significa che non dobbiamo attendere circostanze esterne favorevoli per
metterci davvero in gioco, ma che, al contrario, solo impegnando la vita - consapevoli di
perderla! - creiamo per gli altri e per noi le condizioni di una fiducia nuova nel futuro. E
qui il pensiero va spontaneamente a un giovane che ha davvero speso così la sua vita,
tanto da diventare un modello di fiducia e di audacia evangelica per le giovani
generazioni d’Italia e del mondo: il beato Pier Giorgio Frassati. Un suo motto era:
«Vivere, non vivacchiare!». Questa è la strada per sperimentare in pienezza la forza e la
gioia del Vangelo. Così non solo ritroverete fiducia nel futuro, ma riuscirete a generare
speranza tra i vostri amici e negli ambienti in cui vivete. Una grande passione di Pier
Giorgio Frassati era l’amicizia. E la vostra terza domanda diceva proprio: come vivere
l’amicizia in modo aperto, capace di trasmettere la gioia del Vangelo? Ho saputo che
questa piazza in cui ci troviamo, nelle sere di venerdì e sabato, è molto frequentata da
giovani. Succede così in tutte le nostre città e paesi. Penso che anche alcuni di voi vi
ritroviate qui o in altre piazze con i vostri amici. E allora vi faccio una domanda: ciascuno ci pensi e risponda dentro di sé - in quei momenti, quando siete in compagnia,
riuscite a far “trasparire” la vostra amicizia con Gesù negli atteggiamenti, nel modo di
comportarvi? Pensate qualche volta, anche nel tempo libero, nello svago, che siete dei
piccoli tralci attaccati alla Vite che è Gesù? Vi assicuro che pensando con fede a questa
realtà, sentirete scorrere in voi la “linfa” dello Spirito Santo, e porterete frutto, quasi
senza accorgervene: saprete essere coraggiosi, pazienti, umili, capaci di condividere ma
anche di differenziarvi, di gioire con chi gioisce e di piangere con chi piangere, saprete
voler bene a chi non vi vuole bene, rispondere al male con il bene. E così annuncerete il
Vangelo! I Santi e le Sante di Torino ci insegnano che ogni rinnovamento, anche quello
della Chiesa, passa attraverso la nostra conversione personale, attraverso quella
apertura di cuore che accoglie e riconosce le sorprese di Dio, sospinti dall’amore più
grande (cfr. 2 Cor 5, 14), che ci rende amici anche delle persone sole, sofferenti ed
emarginate. Cari giovani, insieme con questi fratelli e sorelle maggiori che sono i Santi,
nella famiglia della Chiesa noi abbiamo una Madre, non dimentichiamolo! Vi auguro di
affidarvi pienamente a questa tenera Madre, che indicò la presenza dell’«amore più
grande» proprio in mezzo ai giovani, in una festa di nozze. La Madonna «è l’amica
sempre attenta perché non venga a mancare il vino nella nostra vita» (Esort. ap.
Evangelii gaudium, 286). Preghiamo perché non ci lasci mancare il vino della gioia!
Grazie a tutti voi! Dio vi benedica tutti. E per favore, pregate per me.
Pag 8 L’unità si fa in cammino
Nel tempio valdese di Torino il Pontefice chiede perdono per tutti i comportamenti non
cristiani e non umani
Nella mattina di lunedì 22 Papa Francesco si è recato in visita al tempio valdese di Torino
in corso Vittorio Emanuele. Ecco il testo del discorso pronunciato durante l’incontro
ecumenico.
Cari fratelli e sorelle, con grande gioia mi trovo oggi tra voi. Vi saluto tutti con le parole
dell’apostolo Paolo: «A voi, che siete di Dio Padre e del Signore Gesù Cristo, noi
auguriamo grazia e pace» (1 Ts 1, 1 - Traduzione interconfessionale in lingua corrente).
Saluto in particolare il Moderatore della Tavola Valdese, Reverendo Pastore Eugenio
Bernardini, e il Pastore di questa comunità di Torino, Reverendo Paolo Ribet, ai quali va
il mio sentito ringraziamento per l’invito che così gentilmente mi hanno fatto. La cordiale
accoglienza che oggi mi riservate mi fa pensare agli incontri con gli amici della Chiesa
Evangelica Valdese del Rio della Plata, di cui ho potuto apprezzare la spiritualità e la
fede, e imparare tante cose buone. Uno dei principali frutti che il movimento ecumenico
ha già permesso di raccogliere in questi anni è la riscoperta della fraternità che unisce
tutti coloro che credono in Gesù Cristo e sono stati battezzati nel suo nome. Questo
legame non è basato su criteri semplicemente umani, ma sulla radicale condivisione
dell’esperienza fondante della vita cristiana: l’incontro con l’amore di Dio che si rivela a
noi in Gesù Cristo e l’azione trasformante dello Spirito Santo che ci assiste nel cammino
della vita. La riscoperta di tale fraternità ci consente di cogliere il profondo legame che
già ci unisce, malgrado le nostre differenze. Si tratta di una comunione ancora in
cammino - e l’unità si fa in cammino - una comunione che, con la preghiera, con la
continua conversione personale e comunitaria e con l’aiuto dei teologi, noi speriamo,
fiduciosi nell’azione dello Spirito Santo, possa diventare piena e visibile comunione nella
verità e nella carità. L’unità che è frutto dello Spirito Santo non significa uniformità. I
fratelli infatti sono accomunati da una stessa origine ma non sono identici tra di loro. Ciò
è ben chiaro nel Nuovo Testamento, dove, pur essendo chiamati fratelli tutti coloro che
condividevano la stessa fede in Gesù Cristo, si intuisce che non tutte le comunità
cristiane, di cui essi erano parte, avevano lo stesso stile, né un’identica organizzazione
interna. Addirittura, all’interno della stessa piccola comunità si potevano scorgere diversi
carismi (cfr. 1 Cor 12-14) e perfino nell’annuncio del Vangelo vi erano diversità e talora
contrasti (cfr. At 15, 36-40). Purtroppo, è successo e continua ad accadere che i fratelli
non accettino la loro diversità e finiscano per farsi la guerra l’uno contro l’altro.
Riflettendo sulla storia delle nostre relazioni, non possiamo che rattristarci di fronte alle
contese e alle violenze commesse in nome della propria fede, e chiedo al Signore che ci
dia la grazia di riconoscerci tutti peccatori e di saperci perdonare gli uni gli altri. È per
iniziativa di Dio, il quale non si rassegna mai di fronte al peccato dell’uomo, che si
aprono nuove strade per vivere la nostra fraternità, e a questo non possiamo sottrarci.
Da parte della Chiesa Cattolica vi chiedo perdono. Vi chiedo perdono per gli
atteggiamenti e i comportamenti non cristiani, persino non umani che, nella storia,
abbiamo avuto contro di voi. In nome del Signore Gesù Cristo, perdonateci! Perciò siamo
profondamente grati al Signore nel constatare che le relazioni tra cattolici e valdesi oggi
sono sempre più fondate sul mutuo rispetto e sulla carità fraterna. Non sono poche le
occasioni che hanno contribuito a rendere più saldi tali rapporti. Penso, solo per citare
alcuni esempi - anche il reverendo Bernardini lo ha fatto - alla collaborazione per la
pubblicazione in italiano di una traduzione interconfessionale della Bibbia, alle intese
pastorali per la celebrazione del matrimonio e, più recentemente, alla redazione di un
appello congiunto contro la violenza alle donne. Tra i molti contatti cordiali in diversi
contesti locali, dove si condividono la preghiera e lo studio delle Scritture, vorrei
ricordare lo scambio ecumenico di doni compiuto, in occasione della Pasqua, a Pinerolo,
dalla Chiesa valdese di Pinerolo e dalla Diocesi. La Chiesa valdese ha offerto ai cattolici il
vino per la celebrazione della Veglia di Pasqua e la Diocesi cattolica ha offerto ai fratelli
valdesi il pane per la Santa Cena della Domenica di Pasqua. Si tratta di un gesto fra le
due Chiese che va ben oltre la semplice cortesia e che fa pregustare, per certi versi pregustare, per certi versi - quell’unità della mensa eucaristica alla quale aneliamo.
Incoraggiati da questi passi, siamo chiamati a continuare a camminare insieme. Un
ambito nel quale si aprono ampie possibilità di collaborazione tra valdesi e cattolici è
quello dell’evangelizzazione. Consapevoli che il Signore ci ha preceduti e sempre ci
precede nell’amore (cfr. 1 Gv 4, 10), andiamo insieme incontro agli uomini e alle donne
di oggi, che a volte sembrano così distratti e indifferenti, per trasmettere loro il cuore del
Vangelo ossia «la bellezza dell’amore salvifico di Dio manifestato in Gesù Cristo morto e
risorto» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 36). Un altro ambito in cui possiamo lavorare
sempre di più uniti è quello del servizio all’umanità che soffre, ai poveri, agli ammalati,
ai migranti. Grazie per quello che Lei ha detto sui migranti. Dall’opera liberatrice della
grazia in ciascuno di noi deriva l’esigenza di testimoniare il volto misericordioso di Dio
che si prende cura di tutti e, in particolare, di chi si trova nel bisogno. La scelta dei
poveri, degli ultimi, di coloro che la società esclude, ci avvicina al cuore stesso di Dio,
che si è fatto povero per arricchirci con la sua povertà (cfr. 2 Cor 8, 9), e, di
conseguenza, ci avvicina di più gli uni agli altri. Le differenze su importanti questioni
antropologiche ed etiche, che continuano ad esistere tra cattolici e valdesi, non ci
impediscano di trovare forme di collaborazione in questi ed altri campi. Se camminiamo
insieme, il Signore ci aiuta a vivere quella comunione che precede ogni contrasto. Cari
fratelli e sorelle, vi ringrazio nuovamente per questo incontro, che vorrei ci confermasse
in un nuovo modo di essere gli uni con gli altri: guardando prima di tutto la grandezza
della nostra fede comune e della nostra vita in Cristo e nello Spirito Santo, e, soltanto
dopo, le divergenze che ancora sussistono. Vi assicuro del mio ricordo nella preghiera e
vi chiedo per favore di pregare per me: ne ho bisogno. Il Signore conceda a tutti noi la
sua misericordia e la sua pace.
AVVENIRE
Pag 1 Il volto e i gesti di Mimmo Muolo
L’intensa visita del Papa a Torino
Spinto da quell’Amore che ricrea e «fa nuove tutte le cose», compresi i rapporti
ecumenici, il Papa ha compiuto ieri a Torino un gesto storico assimilabile ai grandi mea
culpa con cui san Giovanni Paolo II aveva scandito il percorso di avvicinamento al
grande Giubileo del 2000. Anche in questi mesi un Anno Santo si profila all’orizzonte
della Chiesa, e proprio per volere di Francesco. E perciò la prima volta di un Vescovo di
Roma in un tempio valdese, l’ammissione dei «comportamenti non cristiani, persino non
umani» tenuti dai cattolici verso gli stessi valdesi e la conseguente richiesta di perdono –
notazioni che hanno profondamente commosso i suoi ospiti – appaiono perfettamente
coerenti con il messaggio di misericordia e riconciliazione che è al cuore di questo
Pontificato e che hanno illuminato anche la visita nel capoluogo piemontese in occasione
dell’ostensione della Sindone. Sono stati due giorni densi di appuntamenti e di temi dai
quali non una sola parola o un singolo gesto possono essere tenuti in minor conto o
addirittura scartati. E tuttavia la sosta nel tempio di Corso Vittorio Emanuele II – il più
antico tra quelli costruiti al di fuori delle Valli Valdesi, dopo la concessione dei diritti civili
da parte di Carlo Alberto nel 1848 – viene a incastonarsi come una gemma di
inestimabile valore nel già preziosissimo diadema del viaggio. Al significato del gesto in
sé, al nuovo traguardo che Francesco ha fatto toccare al movimento ecumenico post-
conciliare, viene infatti ad aggiungersi il senso profondo di un itinerario che ha toccato
praticamente tutte le dimensioni dell’umano e che ha avuto come filo conduttore proprio
quell’amore rigenerante proclamato domenica nella liturgia della Parola. Il mea culpa
davanti ai fratelli valdesi, da questo punto di vista, ne è un aspetto, la dimostrazione
pratica di un fondamentale passaggio dell’omelia festiva, quella in cui Francesco aveva
ricordato che per aprirsi al Dioamore l’uomo deve riconoscere i propri limiti. Anche in
campo ecumenico. Ma la visita di Torino è stata tanto altro. Un crocevia, uno snodo tra i
grandi temi del pontificato, collocata anche cronologicamente a metà strada tra la
pubblicazione dell’enciclica (giovedì scorso) e dell’Instrumentum laboris del Sinodo
(oggi), con un occhio rivolto al Giubileo, come abbiamo già ricordato, e soprattutto con
l’indicazione di un nuovo umanesimo in Cristo, tema che fa pensare al convegno
decennale della Chiesa italiana, a Firenze in novembre, dove il Papa sarà presente e il
suo magistero è punto di riferimento. Chi è, infatti, capace di «fare nuove tutte le cose
», se non Gesù morto e risorto del quale la Sindone è testimone muta e 'parlante' al
tempo stesso? Ecco dunque che il senso del viaggio torinese di Francesco sta proprio
nell’accento posto, sia pure in maniera diversa a seconda delle circostanze, sulla
Risurrezione, cioè in definitiva sul principio 'ecologico' di un’umanità finalmente libera
dalle scorie del peccato e perciò capace di rigenerare l’ambiente, invocare la dignità dei
lavoratori, difendere «ogni persona sofferente e ingiustamente perseguitata », prendersi
cura degli ammalati e dei rifugiati, non scartare gli anziani, promuovere la bellezza della
famiglia fondata sul matrimonio e chiamare i giovani all’amore vero, «casto », sempre
oblativo, anche a costo di sfidare, come ha detto il Papa senza mezzi termini,
l’impopolarità e l’accusa di moralismo. Sono non a caso i temi che hanno trovato spazio
nel denso programma della visita. E Francesco li ha potuti declinare senza venire meno
al motivo ispiratore della presenza in quella che è anche la terra delle sue radici familiari
(ieri ha visto alcuni parenti), perché quel Volto, rimasto misteriosamente impresso sul
lino, lo ha accompagnato in tutti gli incontri. Volto che attira a sé, ma nello stesso tempo
spinge verso gli altri. Volto che in definitiva è l’icona dell’amore di Dio per gli uomini.
Cioè del principio che «ricrea e fa nuove tutte le cose».
Pag 3 L’indirizzo missionario della “Laudato si’” di Giulio Albanese
Passare dai buoni propositi ai fatti, coniugando spirito e vita
L’enciclica di papa Francesco Laudato si’ rappresenta anche uno straordinario contributo
in favore dell’impegno ad gentes dei nostri missionari che svolgono il loro apostolato
nelle periferie del mondo. Questa lettera, rivolta a credenti e non credenti, non solo
rispetta fedelmente lo spirito del Concilio Vaticano II, interpretando i segni dei tempi alla
luce della Parola di Dio, ma contrasta profeticamente il pensiero debole della postmodernità. Prendendo lo spunto dall’invocazione di san Francesco d’Assisi, «Laudato si’,
mi’ Signore», papa Bergoglio mette in evidenza le questioni cruciali del nostro tempo,
quali, ad esempio «l’intima relazione tra i poveri e la fragilità del pianeta; la convinzione
che tutto nel mondo è intimamente connesso; la critica al nuovo paradigma e alle forme
di potere che derivano dalla tecnologia; l’invito a cercare altri modi di intendere
l’economia e il progresso; il valore proprio di ogni creatura; il senso umano dell’ecologia;
la necessità di dibattiti sinceri e onesti; la grave responsabilità della politica
internazionale e locale; la cultura dello scarto e la proposta di un nuovo stile di vita»
(16). Si tratta di temi interconnessi che stanno a cuore al mondo missionario, in prima
linea nel denunciare gli effetti disumanizzanti di certa globalizzazione. In questa
prospettiva, possiamo dire che Papa Francesco ha avuto la perspicacia di cogliere la
sfida della complessità. Noi stessi «siamo terra (cfr Gen 2,7). Il nostro stesso corpo è
costituito dagli elementi del pianeta, la sua aria è quella che ci dà il respiro e la sua
acqua ci vivifica e ristora» (2). Il termine complesso deriva dal latino cum-plectere, che
significa letteralmente, «con intrecci», sottintendendo l’estrema difficoltà nel
comprendere, ad esempio, la complessità dell’eco-sistema, senza scadere in banali
semplificazioni. Per affrontare correttamente un fenomeno complesso, occorre
conoscerlo nei dettagli, negli effetti, nelle cause e non solo come semplice analisi delle
parti, perché il risultato finale non è la semplice somma delle componenti. Questo
significa, guardando per esempio alla scottante questione migratoria, che questa, se
opportunamente valutata, non può prescindere dalle cause che la generano (guerre,
sfruttamento brutale delle risorse da parte delle multinazionali, inquinamento,
povertà...) e dalle difficoltà sociali, politiche, legislative ed economiche dei Paesi di
accoglienza. Tutti questi fattori, interagiscono tra loro, a volte rendendo la matassa
estremamente intricata e difficile da dirimere. Per questi motivi occorre essere pensanti,
operando un sano discernimento se vogliamo, come credenti, segnare la svolta, quella
dell’agognato cambiamento. A questo proposito, Papa Francesco dimostra di essere –
inutile nasconderselo – l’unico vero 'statista' sulla scena internazionale in grado di
leggere i fatti e gli accadimenti contemporanei con la preoccupazione di affermare la res
publica dei popoli. Le analisi, naturalmente, da sole non possono bastare: ci vogliono
proposte «di dialogo e di azione che coinvolgano sia ognuno di noi, sia la politica
internazionale» (15), e «che ci aiutino a uscire dalla spirale di autodistruzione in cui
stiamo affondando» (163). Ogni anno vengono pubblicate pile di rapporti sullo stato del
nostro pianeta, ma purtroppo tutto poi sembra dissolversi in bolle di sapone. Comunque,
è anche evidente, leggendo l’Enciclica, l’invito rivolto alle nostre comunità a evitare la
tentazione, sempre in agguato, dell’intimismo. Dobbiamo trovare il coraggio di
confessare i nostri 'peccati' contro il Creato, passando dai buoni propositi ai fatti,
coniugando spirito e vita. Questo indirizzo, autenticamente missionario, deve trasparire
nei piani pastorali, ma anche nel nostro modo di concepire, come cattolici, la politica,
l’economia, la vita sociale, il proprio modus vivendi. D’altronde, abbiamo tutti, come ci
rammenta lo stesso il Papa, una grande responsabilità rispetto al futuro delle giovani
generazioni.
Pag 19 Mattiazzo: guidato da carità e missione di Sara Melchiori
Il saluto a Padova
La Chiesa di Padova e le istituzioni si sono strette attorno all’arcivescovo Antonio
Mattiazzo, domenica, per quella che è stata la celebrazione di saluto e ringraziamento
reciproco: della diocesi al suo vescovo che si appresta a lasciare il ministero episcopale a
Padova dopo 26 anni (non appena saranno recepite le sue dimissioni e nominato il
successore), e del vescovo alla sua Chiesa. Non poteva mancare un lunghissimo, intenso
e commosso applauso al termine dell’omelia quando Mattiazzo, ispirandosi ad Abramo
che, «chiamato da Dio, partì dalla sua terra a 75 anni», ha salutato dicendo «andrò
come semplice missionario in Etiopia, in una zona poverissima e di primissima
evangelizzazione. Figlio di questa terra e di questa diocesi e dopo tanti anni vissuti con
voi intessendo relazioni di amicizia, certamente non potrò dimenticarvi. Siate certi che vi
porterò tutti nel mio cuore». L’arcivescovo ha fatto sintesi del ministero episcopale, del
percorso di crescita e maturazione reciproca: «A voi ho cercato di donare il meglio di me
stesso e da voi, dal vostro esempio, dalla vostra grande collaborazione ho tanto
ricevuto». L’esercizio del ministero di vescovo in una diocesi così complessa «mi ha
provato e saggiato, obbligandomi a prendere più viva coscienza del mio temperamento e
dei miei difetti. Ma ho anche maturato la forte convinzione che il Signore è stato sempre
con me». Mattiazzo ha poi sottolineato tre piste su cui la Chiesa padovana è maturata in
questi decenni: la sinodalità nella comunione tra vescovo, presbiteri, laici e consacrati; il
nuovo percorso di iniziazione cristiana, «scelta strategica della nostra diocesi in risposta
all’esigenza di trasmissione ed educazione della fede nel nostro tempo»; e soprattutto la
carità, che è «il tratto più bello ed attraente della Chiesa di Cristo». Una carità che nella
diocesi di Padova ha anche nomi molto concreti: Cucine economiche, Opera della
Provvidenza Sant’Antonio, Casa Madre Teresa di Calcutta per i malati di Alzheimer, Pane
dei poveri, senza dimenticare Giovanni Nervo e Giuseppe Benvegnù Pasini, grandi
testimoni per la Chiesa. Carità e missione sono i due poli su cui Mattiazzo ha basato il
suo ministero; ma accanto a questo, ricordando la forza dello Spirito Santo, ha
sollecitato a tener sempre presente due luoghi: il Cenacolo e la piazza. Ossia una Chiesa
unita in preghiera ma in uscita verso tutti gli uomini e tutti gli ambienti di vita.
CORRIERE DELLA SERA
Pagg 12 – 13 Le scuse del Papa ai valdesi: inizia il dialogo di Gian Guido Vecchi,
Luigi Accattoli e Marco Imarisio
La storia: villaggi incendiati, stragi, torture. Una persecuzione durata secoli. Il ritorno a
casa del cugino Giorgio: in 32 per il pranzo
Torino. L’ultima parola è di una donna, Alessandra Trotta leva le mani al cielo per «la
preghiera di benedizione di San Paolo ai Colossesi» e il Papa si alza assieme ai valdesi e
a tutti i fedeli mentre la pastora metodista sillaba: «La pace di Cristo regni nei vostri
cuori... e siate riconoscenti». Ci sono momenti che segnano la storia. Sono passati 841
anni da quando il mercante Valdo fondò il movimento dei «poveri di Lione», i pauperisti
che da cristiani laici predicavano il Vangelo in lingua volgare e furono per questo
accusati di eresia nel 1184 da Papa Lucio III e scomunicati, il resto sono secoli di dolore
e stragi, persecuzioni ripetute dopo l’adesione alla Riforma calvinista, ghetti nelle valli
subalpine. Alle 9 del mattino Francesco è il primo Pontefice ad entrare in un Tempio dei
valdesi, lo costruirono a Torino dopo che Carlo Alberto nel 1848 riconobbe loro i diritti
civili. Applausi, abbracci, baci arriveranno alla fine, come il Padre Nostro recitato
insieme. Ma è in un silenzio perfetto, mentre si vedono sguardi intenti e occhi lucidi, che
Francesco mormora tra le architetture spoglie: «Da parte della Chiesa Cattolica vi chiedo
perdono per gli atteggiamenti e i comportamenti non cristiani, persino non umani che,
nella storia, abbiamo avuto contro di voi. In nome del Signore Gesù Cristo,
perdonateci!». Il canto in spagnolo che lo accoglie è quello che i valdesi rifugiati nel Rio
de la Plata ricavarono dall’Ecclesiaste, «insegnami a vivere l’oggi / così che domani non
mi debba rimproverare il passato». Il pastore Paolo Ribet è emozionato, «leggo, che è
meglio», e sillaba: «Mi sono più volte interrogato su quale fosse il modo corretto di
rivolgermi a lei e ho trovato la risposta nella parola che il Signore Gesù Cristo ci ha
insegnato per designare i suoi discepoli: fratello. Ecco. Caro fratello Francesco…». Lo
saluta così anche Eugenio Bernardini, moderatore della Tavola valdese: «Caro papa
Francesco, caro fratello in Cristo… Lei ha varcato una soglia storica, quella di un muro
alzatosi oltre otto secoli fa». Francesco è anche il primo Papa ad essere invitato.
L’«affinità» tra Valdo e Francesco d’Assisi, spiegano. E poi le parole del pontefice, l’idea
di unità come «diversità riconciliata». L’assemblea si scioglie in una risata quando il
pastore cita Francesco: «L’unità dei cristiani non sarà il frutto di raffinate discussioni
teoriche. Verrà il Figlio dell’Uomo e ci troverà ancora nelle discussioni». Bernardini
chiede due cose: «superare» la definizione del Concilio che definisce i valdesi «comunità
ecclesiale» e non chiesa, e la «ospitalità eucaristica», poter fare la comunione assieme.
A Pinerolo cattolici e valdesi si sono donati pane e vino per la pasqua, Francesco parla di
un gesto che «fa pregustare, per certi versi, quell’unità della mensa cui aneliamo». Del
resto «l’unità si fa in cammino», spiega: «testimoniare il volto misericordioso di Dio nella
cura dei poveri, gli ultimi, coloro che la società esclude». Il pastore parla in favore dei
«profughi che bussano alla nostra porta», Francesco lo ringrazia. Prima di tornare a
Roma, il Papa incontrerà per venti minuti un gruppo di rifugiati africani. Ora, dice ai
valdesi, nonostante «le differenze su importanti questioni antropologiche ed etiche» si
tratta di camminare insieme: «Chiedo al Signore che ci dia la grazia di riconoscerci tutti
peccatori e di saperci perdonare gli uni gli altri».
Francesco chiede perdono a Valdo: si può forse dire così, per nomi e simboli, quanto è
avvenuto ieri nel Tempio valdese di Torino, dove papa Bergoglio ha pronunciato un
«mea culpa» inedito, che mai era stato formulato neanche da papa Wojtyla, che fu
maestro di richieste di perdono e che andò quattro volte pellegrino a Torino e nel suo
territorio. Valdo (1140-1206 circa), iniziatore del movimento ereticale che poi dà luogo
alla Chiesa valdese, è un contemporaneo di Francesco d’Assisi (1181 -1226): ambedue
professano la povertà evangelica e la predicazione itinerante. Ma Francesco resta nella
Chiesa di Roma mentre Valdo ne viene cacciato e oggi un Papa di nome Francesco
chiede scusa ai suoi discepoli. Chiede cioè perdono per una persecuzione durata secoli e
condotta con metodi - ha detto il Papa - «non cristiani, persino non umani». Villaggi
incendiati, stragi collettive, imprigionamenti, deportazioni, conversioni forzate, tortura e
roghi fanno parte di quei metodi. Infine la chiusura nel ghetto delle Valli Valdesi. Metodi
posti in atto da re e imperatori, ma comandati da Papi e da Congregazioni romane. La
prima condanna è emanata da Papa Lucio III nel 1184: i Valdesi, che allora erano detti
«Poveri di Lione», vengono colpiti da «anatema perpetuo». Poco dopo la morte di Valdo,
sarà la Crociata contro gli Albigesi a coinvolgere massivamente i seguaci di Valdo che
intanto si sono diffusi dalla Francia meridionale verso l’Italia. Nel 1215 arriva la
condanna definitiva, per eresia, dal Concilio Lateranense IV. Le condanne al rogo erano
pronunciate «per valdesia». I sopravvissuti nel 1532 aderiscono alla Riforma di Calvino e
da allora costituiscono una Chiesa riformata evangelica. Dopo l’adesione alla Riforma
svizzera realizzano la prima traduzione della Bibbia in francese, che era la lingua parlata
nelle Valli: ieri hanno donato al Papa una riproduzione della prima edizione di quella
Bibbia. Mentre successive spedizioni militari annientano le comunità valdesi della Francia
e della Calabria (dove gruppi provenienti dalle Valli si erano diffusi a partire dal 1215),
una guerriglia contadina costringe i Savoia a concedere una parziale libertà di culto ai
valdesi delle tre Valli delle Alpi Cozie dove si trovavano i loro maggiori insediamenti:
Pellice, Angrogna e Germanasca (Accordo di Cavour, 1561). Ma da Roma premono per
una soluzione finale e dopo un secolo di tolleranza, un’offensiva condotta da Vittorio
Amedeo II dà luogo a un vasto massacro che costringe i superstiti a fuggire in Svizzera,
da cui torneranno nel 1688. La vera libertà arriva nel 1848 con le Lettere Patenti di Carlo
Alberto che riconosce ai Valdesi i diritti civili. L’avversione della Chiesa Cattolica ai
Valdesi resta tenace anche dopo quel riconoscimento. Giovanni Bosco, fondatore dei
Salesiani, non perdonò mai ai Savoia le Lettere Patenti e nella sua polemica con autori
valdesi usa espressioni di estrema violenza: «Intelletto oscurato», «cuore indurito»,
«uomo in delirio che parla». Il mea culpa di Francesco presenta una singolarità rispetto
a quelli che Giovanni Paolo II aveva rivolto in più occasioni a Luterani, Calvinisti,
Ugonotti: in quei casi si trattava della grande Riforma protestante, mentre con i Valdesi
Francesco si rapporta alla «prima Riforma», cioè ai movimenti ereticali del Medioevo. È
la seconda volta che papa Bergoglio riconosce un torto ecumenico compiuto dalla Chiesa
di Roma: l’aveva già fatto con i Pentecostali il 28 luglio dell’anno scorso, durante una
«visita privata» a una loro comunità di Caserta. In ambedue i casi si tratta di comunità
minori del mondo protestante, delle quali nessun Papa fino a Francesco aveva avuto
occasione di occuparsi se non per combatterle.
Torino. «Giorgio, mangia!» La signora Carla ha le carte in regola per il rimbrotto e non
solo per i suoi 83 anni che ne fanno la decana del gruppo. Quando arrivava in città, il
cuginetto argentino dormiva sempre nella stanzetta degli ospiti del suo appartamento
nel quartiere di Santa Rita. Ogni volta, dal 1960 fino a quella sera in piazza San Pietro
del 13 marzo 2013 che in effetti ha reso più complicati gli spostamenti del parente, nel
frattempo assurto al soglio pontificio e di conseguenza a una certa notorietà. Giorgio,
ovvero Jorge, ovvero papa Francesco, ha dovuto giustificare la sua inappetenza davanti
ai commensali, che alla fine non erano pochi, 32 tra cugini di secondo grado e i loro
familiari. «Va bene così» ha risposto. «Mi devo tenere, faccio molta attenzione». Non
doma, Carla ha replicato andando all’attacco. «Ma di cosa vivi? Non mangi niente». Il
Pontefice ha sorriso. Ma non ha comunque terminato la pietanza che aveva nel piatto,
per lo sconforto della cugina torinese. «E dire che ci hanno preparato un pranzo da mille
e una notte. Noi pensavamo che fosse un pane e salame veloce, tanti saluti che poi lui
ha impegni, invece no. Quasi non ci voleva lasciar andar via». D’accordo, sono dettagli
da Casa Vianello, scene domestiche di poca importanza estrapolate da una rimpatriata
così annunciata e desiderata da chiunque avesse un lontano legame parentale che la
Santa Sede ha sentito il bisogno di circoscrivere l’invito ai soli «cugini carnali», onde
evitare quella proliferazione dei cugini di ogni ordine e grado che il giorno dopo il
Conclave sembrò il primo miracolo compiuto dal successore di Benedetto XVI. Ma
siccome è del Papa che si parla, di un Papa in età avanzata che mai come in questo
ritorno a casa è sembrato molto affaticato, diventa quasi un obbligo soppesare ogni
segno. L’affetto non fa velo alla signora Rita, che parla con una certa riluttanza
dell’impressione che le ha fatto un incontro ravvicinato durato quasi sei ore, alle 10
l’ingresso della comitiva all’Arcivescovado, poi messa privata, poi pranzo, infine una
lunga chiacchierata fuori programma decisa dal Pontefice, che ha rinunciato al riposo
pomeridiano. «Erano quattro anni che non lo vedevo e purtroppo mi è sembrato davvero
stanco. Lui mi ha risposto che la scorsa mattina si è svegliato alle 4 per partire alle 6 da
Roma, poi ha dovuto fare tutti quei giri... Io gli ho consigliato di prenderla un po’ più
bassa, non è più un bambino, ma lui ha scosso la testa. Mi ha detto che non è possibile,
con tutto quello che ha da fare». Al mattino papa Francesco ha trovato il tempo di
entrare nella chiesa di Santa Teresa, dove nel 1907 si erano sposati i suoi nonni, Rosa
Vassallo e Giovanni Bergoglio, baciando il fonte battesimale dove l’anno seguente venne
battezzato suo padre Mario. I sei cugini carnali sono i nipoti del fratello di Giovanni, tre
residenti a Torino, gli altri giunti da Vaglierano, una frazione di Asti. Al di là della sua
importanza storica, anche l’incontro con i valdesi ha avuto il sapore della vacanza in un
luogo conosciuto, per un uomo che ancora oggi tiene molto alla qualità del suo dialetto
piemontese. «Finalmente posso rilassarmi un po’...». Il Papa lo ha ripetuto spesso
durante l’incontro con i parenti. Carla e anche il cugino Elio negano che ci sia stato un
velo di malinconia. «Stanco, ma non triste. Abbiamo finito a raccontarci vecchie
barzellette e ricordi di famiglia. Quando veniva a stare da noi si alzava sempre presto, e
aveva imparato a uscire senza fare alcun rumore. Lo chiamavamo il silenzioso. Oggi gli
abbiamo rivelato il soprannome e si è fatto una risata. Ci ha detto che non gli capita
spesso di ridere, e abbiamo avuto la sensazione che fatichi ad accettare tutte le regole
che gli vengono imposte». Fuori, le voci sull’unico appuntamento privato del Papa
durante la sua visita torinese correvano all’impazzata. Sembrava addirittura che il
pranzo in corso fosse a base di bagna cauda su apposita richiesta dei cugini, che
ricordavano come «Giorgio» amasse questo piatto tipico piemontese, consigliato
soprattutto d’inverno e non certo in una giornata estiva e afosa come quella di ieri.
All’uscita i diretti interessati, felici ed emozionati, hanno sentito il bisogno di smentire,
anche per evitare una probabile accusa di tentato omicidio.
LA REPUBBLICA
Pag 30 L’impatto politico dell’enciclica verde di Agostino Giovagnoli
Avrà un impatto anche politico la prima enciclica interamente attribuibile a papa
Francesco, Laudato si' . Sembra confermarlo la diffusione anticipata a pochi giorni dalla
sua presentazione pubblica, per alimentare le polemiche e ridurne l'impatto. Ma sarebbe
sbagliato pensare che il testo condanni la proprietà privata o neghi la libertà della
scienza. Lo caratterizza, invece, la scelta - che supera in audacia quella di Giovanni
XXIII, la cui Pacem in terris era indirizzata a "tutti gli uomini di buona volontà" - di
rivolgersi a tutti gli abitanti della Terra, di affrontare problemi che riguardano l'intero
genere umano e di tracciare proposte di portata globale. Laudato si' , insomma, è un
Manifesto per l'umanità del XXI secolo a rischio di restare senza futuro. È la prima volta
che un papa parla con tanta autorevolezza al mondo intero, non su questioni religiose
ma su così tanti problemi di comune interesse. Francesco, infatti, presenta l'ecologia
come un problema che ne contiene molti altri e parla in questo senso di "ecologia
integrale". Ma segue una bussola che gli impedisce di disperdersi: insieme ai gemiti di
sorella Terra, occorre ascoltare anche quelli dei fratelli poveri. Sono infatti questi che più
subiscono le conseguenze più pesante della crisi ecologica, dall' uso distorto delle risorse
idriche alle disuguaglianze crescenti, della mancanza di lavoro agli universi artificiosi
creati dai mass media. Le grandi città del mondo sono ormai divise in aree nettamente
separate, anche sotto il profilo ambientale, e coloro che abitano nell' area dei ricchi non
sono in grado i capire veramente la portata della crisi ecologica attuale, di cui
costituiscono una manifestazione impressionante le montagne di spazzatura dove vivono
tanti poveri delle megalopoli extraeuropee. Ecco perché nei grandi incontri internazionali
le questioni che li riguardano non vanno trattate come un'appendice dopo che sono stati
affrontati tutti gli altri problemi: solo assumendo la prospettiva dei poveri si trovano le
chiavi per risolverli. Come si è detto, il papa si rivolge a tutti. Ma l'enciclica presenta un
forte nucleo religioso. Francesco non lo colloca in apertura e non lo propone come la
premessa da cui far discendere in via deduttiva le diverse argomentazioni. Lo inserisce
piuttosto nel cuore dei problemi sottolineando che i cristiani - e in parte anche i credenti
di altre religioni - hanno motivazioni forti per contrastare la crisi ecologica. Ciò in cui essi
credono costituisce perciò - insieme ad altri apporti - una risorsa preziosa per tutti, nella
resistenza contro quell'ideologia del dominio assoluto dell'uomo sull'ambiente che si
ritorce contro l'uomo stesso. Ispirandosi a Romano Guardini, Francesco critica quell' idea
di verità da cui è scaturito il mito di un progresso senza limiti e che egli ha spesso
contrastato con lo slogan: "la realtà è superiore all'idea". Nella corsa verso il dominio
sulle cose, infatti, si è perso di vista il limite costituito dalla realtà: è ciò che definisce
"relativismo pratico, ancora più pericoloso di quello teorico". Nell'enciclica, però,
Francesco non contrappone natura e cultura: insiste invece sulla necessità di un
rapporto armonioso tra l'iniziativa dell'uomo e la realtà della creazione, tra l'umanità e
l'ambiente. Francesco non ruba il mestiere né agli intellettuali né ai politici. Ma nel vuoto
che avverte intorno a sé rilancia vigorosamente l'esigenza espressa dalla Veritas in
caritate di Benedetto XVI di intraprendere la strada di "un impegno inedito e creativo"
per "conoscere ed orientare le imponenti nuove dinamiche" del mondo globalizzato. Il
suo è un appello preoccupato. «Non disponiamo ancora della cultura necessaria per
affrontare questa crisi e c'è bisogno di costruire leadership che indichino strade» per
rispondere alle necessità delle generazioni presenti senza compromettere quelle future.
Ancora oggi la politica si sviluppa nell'orizzonte degli Stati nazionali o al massimo della
loro proiezione transnazionale. Ma oggi i problemi sono globali, come conferma il
dramma dell' immigrazione, uno dei problemi chiave di un' ecologia veramente umana.
Ponendo la questione ecologica in termini tanto ampi, Francesco chiama tutti gli abitanti
della Terra a sentirsi cittadini dello stesso spazio politico e le classi dirigenti di tutto il
mondo ad assumersi responsabilità sconosciute ad altre epoche.
LA STAMPA
Lezione di pluralismo anche per i non credenti di Vladimiro Zagrebelsky
Basterebbe la cordialità con cui il Papa Francesco e il pastore valdese si sono abbracciati
nel Tempio di Torino per giustificare un gesto di sollievo e speranza in questi tempi di
disincanto e barbarie montanti. Ma non c’è solo questo naturalmente nella visita del
Papa nella chiesa valdese, che il Piemonte sabaudo permise di costruire solo dopo le
rivoluzioni europee del 1848 e la concessione dei diritti civili e politici ai Valdesi e dello
Statuto del Regno. Ciò avvenne nel Piemonte del “Libera chiesa in libero stato”, a
conclusione di secolari, inumane persecuzioni che pesano nella storia dello Stato e della
Chiesa cattolica, a lungo uniti in una causa odiosa. L’abbraccio ha fisicamente sanzionato
la comunanza di spirito che ha sostenuto il senso di un incontro storico: un voltar pagina
definitivo, che lascia aperte diversità teologiche tra le due chiese cristiane, ma certifica
un atteggiamento di rispetto reciproco in una “diversità riconciliata”. Essa offre a
ciascuno l’opportunità di imparare dall’altro, tanto più quando ciò avviene nella Torino
che conosce il valore civile, e non solo religioso, dei Valdesi e ha visto e vede le
prodigiose realizzazioni dei preti che hanno dato vita al cattolicesimo sociale. Il Papa
Francesco, in uno dei suoi primi discorsi, nella visita in Brasile, ha richiamato “il
contributo delle grandi tradizioni religiose, che svolgono un fecondo ruolo di lievito della
vita sociale e di animazione della democrazia” e ha aggiunto che “favorevole alla pacifica
convivenza tra religioni diverse è la laicità dello Stato, che, senza assumere come
propria nessuna posizione confessionale, rispetta e valorizza la presenza della
dimensione religiosa nella società, favorendone le sue espressioni più concrete”. La
neutralità dello Stato libera le energie positive nelle loro “espressioni più concrete”,
abbiano esse fondamento religioso oppure no. Il rispetto reciproco, nella visione del
Papa, si allontana quindi dalla semplice tolleranza per il diverso, che evita la guerra, ma
non costruisce nulla di comune. Questo atteggiamento che univa tutti nel Tempio
Valdese, non ha nulla a che vedere con un radicale relativismo che impedisce forti
convincimenti religiosi e etici, o civili e politici (la sintonia espressa ieri sul modo di
ricevere i migranti ne è esempio inequivoco). In ogni caso non rappresenta un passo
indietro da parte di una Chiesa cattolica che a lungo ha voluto essere chiesa di Stato; è
anzi il segno della capacità di far da soli, tutti insieme, ciascuno con la sua specificità,
nella libertà. Dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, da cui nel dopoguerra è
partito il movimento di unificazione dell’Europa, traiamo l’indicazione fondamentale che
la libertà di pensiero e di religione rappresenta un pilastro della società democratica.
“Nella sua dimensione religiosa essa costituisce elemento tra i più essenziali dell’identità
dei credenti e della loro concezione della vita, ma essa è anche un bene prezioso per gli
atei, gli agnostici, gli scettici. Ciò che è in gioco è il pluralismo, a caro prezzo conquistato
nel corso dei secoli, intrinseco alla società democratica”. La vita delle chiese e eventi
come quelli cui abbiamo ieri assistito, non dovrebbero quindi lasciare indifferenti anche i
non credenti. Anche da parte loro deve riconoscersi che il pluralismo è fonte di
arricchimento reciproco, in cui tutti danno e ricevono. Le parole pronunciate nell’incontro
del Papa con le Chiese metodista e valdese vengono da uomini di chiesa, che parlavano
in quella loro qualità. Lo Stato, la Repubblica, resta ancora indietro. Non ostante la
Costituzione, di cui la laicità è principio fondamentale, ancora non c’è una generale legge
sulla libertà religiosa. Della sua necessità, fin dal 1990, parlò un democristiano come De
Mita. Ma non se ne è ancora fatto nulla ed è tuttora in vigore una legge del 1929 (anno
del concordato con la Chiesa cattolica), che regola i “culti ammessi”. La Chiesa valdese,
come alcune altre, ha concluso con lo Stato una intesa, come previsto dalla Costituzione
e ha quindi superato lo stato di culto puramente “ammesso”, in cui sono ancora la gran
parte delle religioni praticate in Italia. Da eretica e perseguitata ha potuto passare nella
categoria dei tollerati e poi in quella degli ammessi, per poi essere riconosciuta
contraendo un’intesa con lo Stato. Ma, fuori del caso di singole intese, il fenomeno
religioso in Italia continua a vivere nel quadro della legge del 1929. Dei diritti civili ora si
parla molto in Italia e si legifera poco. Minoranze agguerrite si confrontano con chi
pretende che sui diritti fondamentali altrui si debba decidere “a maggioranza”. Ma
nemmeno si parla più di una legge in materia di libertà religiosa, che sia aggiornata,
civile, rispettosa delle diversità. E così si mantiene fragile il terreno su cui –storicamente
proprio sulla libertà religiosa - si sono costruite le condizioni per assicurare, in tutti i suoi
aspetti, la libertà di tutti.
Un nuovo modo di camminare insieme di Enzo Bianchi
A poche centinaia di metri dal tempio valdese che ieri ha accolto il «caro fratello
Francesco» una lapide deposta una quindicina d'anni fa dalla città di Torino ricorda il
pastore valdese Goffredo Varaglia, bruciato sul rogo per eresia il 29 marzo 1558.
Bisognerebbe percorrerlo in preghiera silenziosa quel tratto di strada che separa corso
Vittorio da piazza Castello. Forse così si capirebbe meglio la portata del gesto avvenuto
ieri tra le mura della chiesa valdese, quando il moderatore Eugenio Bernardini ha accolto
a nome di tutti i suoi fratelli e sorelle valdesi e metodisti il «caro fratello Francesco».
Appellativo tutt'altro che riduttivo e che il papa ha visibilmente mostrato di apprezzare,
cogliendolo in tutta la sua portata evangelica. E da fratello papa Francesco ha risposto a
quel caloroso abbraccio che colmava secoli di incomprensioni, lontananze, diffidenze,
ingiustizie e anche violenze sanguinarie. Certo, come ricordato durante l'incontro, è da
almeno una cinquantina d'anni che i rapporti tra cattolici e valdesi, in Italia come nella
regione del Rio de la Plata, sono improntati non solo al rispetto, ma anche al reciproco
riconoscimento della comune ricerca della sequela cristiana: grazie anche alla diocesi di
Pinerolo e ai suoi ultimi vescovi, erano caduti pregiudizi e iniziati dialoghi e accordi
perfino sui matrimoni misti cattolici-protestanti. Eppure, vedere papa Francesco accolto
all' entrata del tempio valdese da alcune persone inferme sulle loro carrozzelle è stato
davvero aver visto «varcare un muro eretto otto secoli fa». I protagonisti di ieri ne erano
consapevoli e lo si percepiva dalla gioia intrisa di commozione nella quale le parole si
succedevano ai canti, i discorsi ufficiali alle frasi sussurrate e ai sorrisi scambiati durante
gli abbracci per nulla formali. In questa consapevolezza condivisa sono risuonate con
forza le parole di papa Francesco: «Da parte della chiesa cattolica vi chiedo perdono. Vi
chiedo perdono per gli atteggiamenti e i comportamenti non cristiani, persino non umani
che, nella storia, abbiamo avuto contro di voi. In nome del Signore Gesù Cristo,
perdonateci!». Una triplice richiesta di perdono che conferma «un nuovo modo di essere
gli uni con gli altri», che detta il passo al «camminare insieme verso quella comunione
che precede ogni contrasto» e che lo può trasformare in quella «diversità riconciliata»
evocata dal pastore Bernardini citando la «Evangelii gaudium» di papa Francesco. In
questo senso va colto anche l'appello valdese in merito a due questioni teologiche
particolari ancora aperte: l'essere chiamati con il termine neotestamentario di «chiesa»
(anche se non nello stesso senso inteso dalla chiesa cattolica) e non con la parafrasi
«comunità ecclesiale» e la possibilità di praticare «l'ospitalità eucaristica», tuttora non
ammessa per la chiesa cattolica e quelle ortodosse a causa della diversa comprensione
teologica del ministero e dell'eucaristia stessa. Solo la franchezza e la fiducia di chi sente
di essere di fronte a un fratello permette di affrontare tematiche così delicate in una
simile occasione e solo la fraternità che nasce dal Vangelo ha permesso al papa di non
lasciar cadere gli interrogativi ma di accoglierli in profondità. Così nel suo discorso papa
Francesco ha sempre chiamato i fratelli e le sorelle valdesi «chiesa» e ha evocato lo
scambio di doni - il pane e il vino per le rispettive celebrazioni eucaristiche pasquali avvenuto tra la diocesi di Pinerolo e la locale comunità valdese parlando di «un gesto tra
le due chiese che fa pregustare, per certi versi, quell'unità della mensa eucaristica alla
quale aneliamo». E qui non posso tacere ciò che questo evento storico ha evocato in me
che fin dagli anni universitari e prima di iniziare a vivere a Bose ho intessuto fraterni
legami con diversi valdesi di Torino: ieri, ascoltando i membri della chiesa valdese e
papa Francesco mi sono visto ripassare davanti il professor Subilia e i pastori Conte e
Ricca - che venivano a guidare gli studi biblici per il nostro gruppo ecumenico di via
Piave e che dialogavano con la prima commissione ecumenica regionale voluta dal
cardinale Michele Pellegrino negli anni del postconcilio, di cui ero membro - il pastore
Gay che aveva voluto essere presente a Bose per la professione monastica dei primi
sette fratelli sorelle di Bose, Tullio Vinay e la sua profetica parabola di Agape. In realtà il
carissimo amico Paolo Ricca, grande teologo e maestro della fede, non avevo bisogno di
immaginarmelo: lo vedevo lì, nelle prime file del tempio valdese, felice di ascoltare e
vedere parole e gesti che tanti prima di lui e di me, e tanti assieme a lui e a me, hanno
desiderato vedere. Non prendete queste ultime note come le confessioni di un vecchio
nostalgico: sono solo un tributo alla memoria e una conferma che ieri papa Francesco e i
fratelli e le sorelle valdesi che lo hanno accolto ci hanno ricordato che «ciò che tarda
avverrà» e che a noi spetta affrettare il giorno della piena e visibile unità dei cristiani. È
un debito che abbiamo verso la volontà del Signore ma anche verso tutti gli uomini e le
donne del nostro tempo, nostri compagni di umanità.
IL FOGLIO
Pag 1 La pietra tombale sulla stagione dei vescovi-pilota di Matteo Matzuzzi
In piazza solo con il Papa: è questa la linea della Cei. Ma tanti vescovi non ci stanno: “E’
ora di mobilitarsi”
Roma. Alla fine, anche senza vescovi-pilota, definizione recente di Papa Francesco, la
mobilitazione di piazza contro l'inculcamento a scuola dell'ideologia gender è riuscita.
Mezzo milione di persone a San Giovanni, senza il sostegno manifesto della Conferenza
episcopale italiana la possibilità, comunque, non è stata neppure presa in considerazione
che da tempo ha messo in disarmo la logica della calata in piazza per difendere i valori
cosiddetti non negoziabili. Il segretario generale della Cei, Nunzio Galantino, dopotutto,
era stato chiaro: il gender da lui definito una polpetta avvelenata lo si combatte con la
formazione culturale, con la testa, in modo razionale. E questo perché la semplificazione
è veramente una brutta bestia. Alla fine finisce col far affrontare temi seri, gravidi di
conseguenze, in maniera poveramente e disperatamente ideologica. La cifra di questa
stagione è chiara a tutti, e lo è da tempo: in piazza, sotto i vessilli della Conferenza
episcopale italiana, si va solo per pregare con il Papa, in determinati momenti. Si
organizza la grande veglia sul sagrato di San Pietro alla vigilia dell'apertura Sinodo
straordinario (esperienza che sarà ripetuta il prossimo 3 ottobre), si prepara un raduno
di massa per far incontrare Francesco con il mondo della scuola. Ma su tutto il resto,
ognuno è libero di fare come meglio crede. La linea è netta: i vescovi possono aderire a
manifestazioni, marce e sit-in (e ci mancherebbe altro), ma il marchio ufficiale non ci
sarà più. L'epoca della mobilitazione benedetta dall'alto è tramontata. Anche perché, si
fa notare, il metodo ha avuto scarsi risultati in paesi come Spagna e Francia, dove pure
l'episcopato si era schierato in modo (quasi) compatto. Lo scorso 18 maggio, aprendo
l'assemblea primaverile della Conferenza episcopale, il Pontefice era stato chiaro: La
sensibilità ecclesiale e pastorale si concretizza anche nel rinforzare l'indispensabile ruolo
di laici disposti ad assumersi le responsabilità che a loro competono. In realtà, i laici che
hanno una formazione cristiana autentica, non dovrebbero aver bisogno del vescovopilota, o del monsignore-pilota o di un input clericale per assumersi le proprie
responsabilità a tutti i livelli, da quello politico a quello sociale, da quello economico a
quello legislativo! Hanno invece tutti la necessità del Vescovo Pastore!. Insomma, la
massima che va di moda ora dicono da Via Aurelia è che c'è un tempo per pregare e uno
per impegnarsi secondo coscienza. Un elemento, questo, che ha alimentato
l'impressione in molti osservatori che la Cei sia una sorta di barca in balìa dei marosi e in
qualche modo ancora disorientata dal nuovo corso impresso da Francesco. Così, nessun
presule in piazza ma tanti inviti sparsi qua e là affinché i fedeli calassero su Roma. Il
cardinale arcivescovo di Perugia (porpora consegnatagli da Bergoglio), mons. Gualtiero
Bassetti, faceva mettere online sul sito della diocesi un comunicato in cui esprimeva il
proprio compiacimento per la manifestazione di sabato 20 giugno. Condividendone gli
obiettivi di difesa dei diritti dei minori e di tutela della famiglia come società naturale
fondata sul matrimonio', incoraggia la partecipazione delle famiglie e delle persone di
buona volontà. Il cardinale Carlo Caffarra, da Bologna, citava le Scritture: Guai se il
Signore ci rimproverasse con le parole del profeta, cani che non avete abbaiato'. Da
Trieste, gli faceva eco l'arcivescovo Giampaolo Crepaldi, presidente dell'Osservatorio
internazionale cardinale Van Thuân: E' ora di scendere in piazza, non si può più
attendere oltre. E così i vescovi di Ascoli, Ferrara, Foligno, Campobasso. Senza
dimenticare la mobilitazione imponente a livello di parrocchie messa in campo dal
cardinale vicario, Agostino Vallini. E c'è anche chi ricorda che, se bisogna andare a
leggere i segnali e le prese di posizione dei singoli presuli, uno degli organizzatori
dell'evento del 20 giugno scorso, il professor Massimo Gandolfini, era stato invitato
direttamente dal cardinale Angelo Bagnasco che della Cei è presidente a tenere una
lezione sul gender nella cattedrale di San Lorenzo, a Genova.
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5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
Pag 26 Spreco. La mia giornata a “impatto meno” per ridurre consumi e
inquinanti di Riccardo Bruno
La giornata inizia bene. Splende il sole, non fa troppo caldo: giornata ideale per lasciare
ferma l’auto e muoversi in bicicletta. Prima di andare a letto, mi sono ricordato di
spegnere il cellulare, tv e stereo, niente lucciole dello standby in giro per la casa. Adesso
mi aspetta una sana colazione, una doccia e via. Un inizio virtuoso. La bici e
un’alimentazione corretta, da sole, non mi aiuteranno a salvare il pianeta, ma almeno
farò in modo di inquinarlo il meno possibile. Ogni attività, ogni prodotto comprato e
usato, comporta una scelta, non solo personale ma anche in termini di impatto sulla
natura: dal consumo d’acqua all’emissione di gas serra. Utopico pensare di vivere a
«impatto zero», almeno proviamo a cercare un «impatto meno», di sicuro a essere
maggiormente consapevoli dei nostri comportamenti. L’elenco dei possibili gesti virtuosi
è sterminato, ma sono tre gli ambiti in cui possiamo ottenere gli effetti più consistenti:
l’alimentazione, i trasporti, l’energia. E ora dopo ora, nell’arco della giornata, riusciremo
a evitare una gran quantità di sprechi.
Al mattino attenzione all’acqua - Torniamo all’inizio della giornata. Soprattutto in bagno
posso evitare di far scorrere acqua inutilmente. Non serve tenere il rubinetto aperto per
tutti i due minuti di pulizia dei denti: nello scarico finiranno fino a 10 litri d’acqua,
quando me ne basta solo uno. Diventano addirittura 23 i litri (2 invece che 25)
«guadagnati» se ci si rade la barba aprendo il flusso quando occorre. E lo sciacquone
con doppio pulsante mi consente di risparmiare 5/6 litri ogni volta. E poi c’è la colazione.
Meglio frutta fresca, più cereali e meno biscotti, e questa mattina preferisco lo yogurt al
latte.
L’impronta nel piatto - L’alimentazione, come detto, è uno dei pilastri della giornata a
«impatto meno». Anche un ricercatore come Stefano Caserini, docente di Mitigazione dei
cambiamenti climatici al Politecnico di Milano, che è cauto nel non «enfatizzare troppo il
ruolo delle azioni dal basso», riconosce il valore dei cibi e la «differenza tra le diverse
diete». Insieme ai colleghi Tagliabue e Zanchi ha calcolato l’impatto carbonico (in inglese
carbon footprint , espresso in chili di CO2, l’anidride carbonica generata dalla produzione
al consumo) tra quattro diversi regimi alimentari (a parità di calorie, 2.500, e di apporto
di proteine). La dieta attuale ci «costa» 7,5 chili di CO2 al giorno a testa, una dieta
senza carne rossa scende a 6,5, quella mediterranea a 6,1, una scelta vegetariana a 5,8
chili. Una bistecca di manzo soddisfa il palato, molto meno l’ambiente: i ruminanti
emettono grandi quantità di metano durante la digestione e più della metà del
fabbisogno energetico alimentare è legato al loro mantenimento. Tanto per capirci: un
hamburger «pesa» 2 chili e mezzo di emissioni di CO2, una porzione di gamberetti
scongelati 1 chilo, la stessa quantità di merluzzo solo 300 grammi. In cima alle liste con
i più alti valori di anidride carbonica troviamo anche carne d’agnello, formaggio e
patatine fritte. In basso ortaggi, frutta fresca, legumi, miele e cereali. Scegliere il piatto
giusto è fondamentale, ma n on è l’unica variabile da tenere in considerazione. Per
esempio, c’è il trasporto, oppure la cottura. Due esempi: non mettete più acqua del
dovuto a bollire per la pasta (due litri in più equivalgono a 100 grammi di CO2); e non
riscaldate il forno troppo presto: 10 minuti a temperatura senza niente dentro si
traducono in 200 grammi di immissioni di gas serra (e una bolletta più pesante).
Muoversi (con i muscoli) - È arrivato il momento di andare in ufficio. La gran parte dei
nostri spostamenti sono di pochi chilometri, solo la nostra pigrizia e le cattive abitudini ci
spingono spesso a prendere l’automobile. Per fortuna il mio ufficio è distante appena 5
chilometri da casa, come detto la giornata è bella, e ho la fortuna di vivere a Milano
dove qualche pista ciclabile c’è. Dunque, opto per una pedalata e sfrutto il bike sharing
dell’azienda dei trasporti. Da qualche settimana, dopo la consegna della bicicletta alla
stazione di destinazione, una mail riepiloga i dati del tragitto, durata e anche CO2
risparmiata: 5 chilometri equivalgono a circa 750 grammi di immissioni evitate, tenendo
conto del ritorno, fanno un bel chilo e mezzo.
I vantaggi della bicicletta (o di muoversi a piedi) sono indiscutibili: meno inquinamento,
niente soldi per la benzina, rapidità (nei percorsi brevi è più veloce degli altri mezzi), un
po’ di attività fisica che non guasta (e che mi fa risparmiare l’impronta carbonica del
dietologo). Certo, non è sempre facile, bisogna fare i conti con la realtà delle nostre
città. Senza percorsi dedicati, senza la possibilità di muoversi in sicurezza, è
sicuramente preferibile salvare la pelle e immettere qualche etto di gas serra in più
nell’ambiente. La domanda che però devo sempre pormi è: posso evitare di prendere
l’auto e utilizzare i mezzi pubblici? E se proprio non riesco a fare a meno delle quattro
ruote, almeno cercherò di usarle con intelligenza: in un viaggio in autostrada di un’ora,
andando a 110 chilometri all’ora invece che a 130, risparmio il 25% di carburante e
arrivo appena 11 minuti dopo.
Dentro con un maglioncino - Insieme all’alimentazione e ai trasporti, la terza colonna
dell’anti-spreco è data dall’energia. È ovvio che, in questo campo, contano enormemente
le scelte degli Stati. «Mediamente l’Italia non sfigura rispetto agli altri nel settore delle
rinnovabili, dal fotovoltaico all’eolico - aggiunge il professor Caserini -. Ma si può fare
molto di più. È importante che a livello delle scelte politiche e degli investimenti, si punti
sul disinvestimento dalle fonti fossili. E come cittadini possiamo impegnarci in campagne
che spingano a cambiare direzione». Nella mia giornata a «impatto meno» devo
insomma trovare spazio da dedicare a una maggiore consapevolezza che mi porti a
essere più responsabile nei confronti dell’ambiente. Più difficile che chiudere il rubinetto
mentre ci si lava i denti, ma ugualmente necessario. Intanto, qualche piccolo gesto,
anche su questo fronte, posso farlo anch’io. L’esempio classico è quello di abbassare di
un grado il riscaldamento in casa o in ufficio (praticamente non si avverte la differenza,
al massimo indosso una felpa). Risultato: quasi un chilo in meno di CO2 al giorno.
Oppure posso sostituire con una lampadina a risparmio energetico - che produce 200
grammi di CO2 - quella vecchia a incandescenza che ne immette sei volte di più. Quanto
allo standby, tenere la tv in questa modalità per tutto il giorno equivale al consumo di
tre ore di visione.
Virtuosi in ufficio - Intanto adopero carta riciclata e quando posso riutilizzo i fogli
sfruttando la facciata bianca. Metto il pc e la fotocopiatrice in risparmio energetico,
scollego la stampante quando non la utilizzo. Invece che passare un’ora al cellulare, me
la sono cavata con uno scambio di mail, 10 per l’esattezza. Un miracolo: invece che 3
chili di CO2 ne ho prodotta di 40 grammi.
Di nuovo a casa - È già sera, ma posso fare ancora molto. Ieri non ho fatto partire la
lavatrice, lo faccio oggi che è piena così «guadagno» un po’ di CO2 (100 grammi) e
risparmio soprattutto luce e acqua. Stendo i panni all’aria e non con l’asciugatrice, e
questa invece è una botta di 3 chili di CO2 in meno. Non lavo i piatti a mano, ma in
lavastoviglie, così salvo più di 15 litri d’acqua. E mi dedico a una corretta raccolta
differenziata. Due scatole di cartone al giorno, un giornale, il 40% degli scarti organici in
cucina, 3 bottiglie di plastica, 3 vasetti di vetro e una lattina a settimana si traducono in
mezzo chilo di CO2 in meno al giorno. Andrea Poggio, vice direttore di Legambiente, è
un ricercatore instancabile di buone pratiche che poi elenca nel sito «Vivi con stile». «È
un lavoro continuo, a volte pioneristico - spiega -. Gesti quotidiani che non sono
utilissimi. L’ultimo rapporto dell’Agenzia europea dell’ambiente indica un carico di CO2
annuale di 12 tonnellate a testa, mentre finora si stimava fossero intorno a 8. Bisogna
agire subito, dobbiamo cambiare il nostro stile vita. Questa è la più grande sfida del
futuro». Al termine della giornata, le mie buone azioni mi hanno fatto risparmiare litri di
acqua e chili di CO2 (nel grafico della pagina a fianco, abbiamo giocato a calcolare il
risultato di fare alcune scelte piuttosto che altre). Il bello è, quasi sempre, che ho anche
speso meno, mi sono mosso di più e ho anche mangiato in modo sano. Insomma, se
rientrando a casa salirò dalle scale e non con l’ascensore, non devo avere l’illusione che
ciò mi basterà a salvare il mondo, ma intanto inizierò a cambiare me stesso.
Pag 27 Il vero scandalo è che ciascuno di noi getta via 149 chili di cibo di
Susanna Tamaro
Ormai da tempo sui giornali veniamo informati, con cifre sempre più impressionanti,
sull’inarrestabile scandalo dello spreco alimentare. Ogni anno nel mondo, ci viene
ripetuto, vengono gettati miliardi di tonnellate di cibo. Dopo reiterati inviti e appelli, pare
che finalmente anche le istituzioni del nostro Paese stiano cominciando a porre in atto
delle modifiche legislative per permettere al cibo invenduto di venir equamente
redistribuito. Ma un fenomeno forse più inquietante avviene tra le mura domestiche. I
dati ci dicono che gli italiani sprecano 149 chili di cibo a testa all’anno, un po’ meno della
media europea, che è di 180 kg. Cibo che dal frigorifero o dalla dispensa vola
direttamente nella spazzatura. Per le persone della mia generazione, quelle nate negli
anni Cinquanta, è molto difficile capire come possa accadere. Cresciuti da genitori e
nonni sopravvissuti a due guerre, incalzati dagli occhi sgranati e dai ventri deformi dei
bambini del Biafra, siamo stati forse l’ultima generazione educata anche con la
coercizione a non lasciare nulla sul piatto. Il «mi piace», «non mi piace», non era
contemplato. Il cibo era considerato comunque una benedizione e nessuno di noi si
sarebbe sognato di gettare anche solo mezzo panino nella spazzatura. Ma poi, in tempi
rapidissimi, le cose sono drammaticamente cambiate. Il discrimine non sono stati più gli
sguardi disperati degli affamati d’Africa, ma l’assoluta arbitrarietà dei gusti sempre più
difficili e sofisticati di intere generazioni, le quali, ignare della fatica, dei sacrifici e del
lavoro che sta a monte di ogni prodotto alimentare, hanno iniziato a considerare il cibo
una merce pari alle altre, da accumulare ed eliminare secondo i propri capricci. Si ritiene
che sia compito esclusivo dei Grandi della terra, delle organizzazioni e della politica
risolvere questo scandalo. Fino a poco tempo fa, erano rare le persone che si sentivano
responsabili di questa deriva suicida. Produrre cibo e gettarlo vuole dire, oltre allo spreco
economico, consumare le materie prime - l’acqua soprattutto. Materie che non hanno il
dono dell’illimitatezza. Da dove cominciare dunque per invertire la rotta? La Francia sta
varando delle leggi per punire le aziende che sprecano. Ma è davvero la punizione la via
per uscire da questo impasse, in un Paese come il nostro che ha impiegato ben 21 anni
per approvare la legge sui crimini ambientali? Penso piuttosto che, per modificare
l’orizzonte, sia necessario come sempre iniziare dalla persona. E questo vuol dire
impegnarsi a tappeto in tutte le scuole. I bambini sono straordinariamente aperti e
pronti a recepire questo tipo di educazione, che per altro viene già fatto in molte realtà
scolastiche, basandosi sull’entusiasmo e la passione dei singoli insegnanti. Perché non
prevedere, dunque, che i ministeri dell’Agricoltura, dell’Ambiente e dell’Istruzione
comincino a parlarsi in modo agile e preparino in tempi brevi, anzi brevissimi, un piano
nazionale di educazione alimentare? Tutte le scuole, dov’è possibile, dovrebbero aderire
al progetto «Un orto per ogni scuola», perché coltivare cibo fa capire ai bambini quanta
fatica e attenzione siano necessarie per produrre nutrimento. E oltre a ciò,
permetterebbe loro di accedere a una categoria molto negata di questi tempi, quella
dello stupore. «Oh, da quel seme così piccolo è venuta fuori una zucca così grande!». In
un mondo in cui tutto è ovvio, tutto è riproducibile e ripetibile, lo stupore è il vero
antidoto alla sciatteria imperante. Infatti solo la meraviglia rende preziose le cose,
strappandole alla cupa routine del consumo di massa.
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7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA
LA NUOVA
Pag 17 Niente pappa al ristorante ebraico: “Mai negare il cibo a un bambino” di
Nadia De Lazzari
Il rabbino capo Scialom Bahbout si dissocia dal comportamento tenuto dal personale del
“Gam Gam”. La famiglia invitata all’inaugurazione del nuovo locale al Ghetto
Sarà inaugurato domani alle 12.30 il ristorante ebraico Ghimel Kosher. L’annuncio arriva
dal rabbino capo Scialom Bahbout: «Il locale sarà denominato Ghimel. È una lettera
dell’alfabeto ebraico. Inoltre corrisponde alle iniziali delle parole Ghetto e gondola. Il mio
intervento verterà sulla Kasherùt, la normativa ebraica sul cibo. La novità di questo
locale è che sarà proposta una particolare gastronomia. In questo panorama si
aggiungeranno i piatti simbolo della cucina ebraico–veneziana, varia e ricca anche per
l’aspetto cosmopolita caratterizzato da sempre dalla Comunità e da Venezia». Il rabbino
capo continua: «In questo giorno di festa invito la famiglia con la piccola Ester. Siete i
benvenuti tra noi». Mamma Elisabetta De Sandre, papà Antonello Scarpa e la piccola
Ester hanno accettato con grande gioia l’invito del rabbino capo e ringraziano. All’evento
sarà presente il papà di Ester, mentre la mamma per motivi di lavoro sarà a Parigi.
«Grazie di cuore per l’invito. Ben volentieri vorremmo incontrare nei giorni successivi il
rabbino capo», dicono. Il nuovo ristorante ebraico Ghimel Kosher sarà gestito da Bruno
Santi e da Sylvie Menascè. Il locale si trova nell’esteso e animato Campo del Ghetto
Nuovo.
«È la benvenuta tra tutti noi la famiglia di Noale con la bimba Ester di otto mesi. Nella
nostra comunità ebraica e nel nuovo ristorante ebraico Ghimel Kosher, che inaugurerò
domani mattina, ogni bambino di qualunque religione e cultura è ben accolto. Come
accogliente, da sempre, è la Città di Venezia. Lo è per vocazione. La sua antica storia ce
lo ricorda ogni giorno». Sulla spiacevole avventura vissuta al Gam Gam Bar Ristorante
Ebraico Kosher da Antonello Scarpa ed Elisabetta De Sandre e dalla loro piccina, alla
quale è stata negata la pappa non kosher, si leva forte in laguna la voce chiara,
semplice, determinata, del rabbino capo della Comunità Ebraica, Scialom Bahbout. È la
massima autorità religiosa ebraica in città. Il suo è un grido, un monito, un
insegnamento da far crescere e fiorire. Il rabbino capo invita all’accoglienza, quella che
si costruisce giorno per giorno, quella che declina con sensibilità, dialogo, mente, cuore.
Spiega il rabbino Bahbout: «È vero, la religione ebraica ha regole che governano la
nutrizione fondata sulla Torah. La normativa sul cibo si chiama kasherut. Sul caso
specifico avvenuto in un locale aperto al pubblico, avrei risolto in modo diverso
autorizzando i genitori della bimba di pochi mesi a nutrirla all’interno del ristorante. Era
la sua pappa portata da casa dentro un thermos. Problemi non ne esistono. Se avevano
bisogno di un piattino oppure delle posate gliele consegnavamo noi in plastica.
Comunque non si arriva mai a negare a una persona, in particolare ad un bimbo così
piccolo, il suo cibo». L’episodio risale allo scorso giovedì all’interno del Gam Gam Bar
Ristorante Kosher. La coppia aveva prenotato il giorno precedente attraverso il sito
“MiSiedo”, specificando l’età della bimba e chiedendo la disponibilità di un seggiolone.
Alla vista di un thermos con la pappa al pomodoro preparata a casa con acqua, pane,
pomodoro, grana, la cameriera ha proibito ai genitori di imboccare la figlioletta per la
presenza del formaggio, derivato da latticini. La motivazione? «Non è kosher».
L’aggettivo significa adatto, conforme, opportuno e indica quei cibi che si possono
consumare perché conformi alle regole. La preoccupazione dei genitori era quella di dare
la pappa ad Ester. Così si sono alzati raggiungendo la Fondamenta della Misericordia.
Qui la famiglia ha potuto cenare, compresa la piccolina con la sua pappa al pomodoro,
accolta simpaticamente in una trattoria veneziana. Nel frattempo “MiSiedo” – definito da
una cameriera «Un portale che non fornisce informazioni corrette» – si dissocia da
quanto dichiarato dal Gam Gam Bar Ristorante Ebraico Kosher e mette in chiaro:
«Abbiamo provveduto correttamente, automaticamente e tempestivamente a
trasmettere al ristorante le informazioni sulla prenotazione ricevute dal cliente (la
presenza di una bambina di otto mesi e la necessità di avere una seduta adatta). Il ceo
di “MiSiedo”, Simone Tomaello, commenta: «Anche in quest’occasione “MiSiedo” è stato
fedele alla sua mission di sviluppare una tecnologia innovativa che cambia il modo in cui
le persone vanno a cena, collegando il ristorante con l’utente nel miglior modo possibile.
“MiSiedo” agisce supportando il miglioramento del servizio e della qualità della food
experience nei ristoranti, facendo vivere all’utente la tradizione, la qualità e il servizio
che il ristorante offre, ma non intervenendo in questo che dipende dal ristoratore e dal
suo staff».
Sull’episodio del divieto di dare da mangiare al Gam Gam Bar Ristorante Kosher la
piccola Ester di otto mesi con la pappa portata da casa (acqua, pane, pomodoro, una
spruzzatina di formaggio grana) perché non conferme alla cucina tradizionale, Rami
Banin della Comunità Chabad–Lubavitch taglia corto: «Sono il rabbino e non do
spiegazioni. Di bambini qui ne vengono a centinaia e li trattiamo tutti benissimo. Anche
quella famiglia è stata trattata benissimo. Le cameriere hanno detto ai genitori di
aspettare un attimo. Se ne sono andati via. Mi avrebbero fatto una telefonata. Senz’altro
sarei arrivato al ristorante e avrei dato loro una risposta adeguata: un piatto e posate di
plastica». La mamma della piccola, Elisabetta De Sandre, ancora incredula, sottolinea:
«Ci dispiace di quanto è successo lo scorso mercoledì in quel ristorante, soprattutto
perché questa reazione alimenta odio e intolleranza verso la comunità religiosa. Ce ne
siamo andati da quel locale aperto al pubblico per non creare disturbo a nessuno. Come
famiglia abbiamo sempre avuto un atteggiamento di grande apertura verso tutte le
culture del mondo e abbiamo sempre apprezzato le proposte dei numerosi ristoranti con
cibi etnici. Ci andiamo spesso. Questo è il nostro pensiero e così educheremo la nostra
figlioletta all’insegna dell’accoglienza». Il rabbino Rami Banin vive a Venezia da oltre 20
anni. Ha fondato in Campo del Ghetto Nuovo una scuola rabbinica e gestisce il Gam Gam
Bar Ristorante Ebraico Kosher che si trova nel Sottoportico del Ghetto Vecchio. Il locale
si affaccia sul rio di Cannaregio dove ha un plateatico. Nel locale si possono assaggiare
pietanze della cucina ebraica e mediorientale. Il personale è giovane e parla diverse
lingue.
IL GAZZETTINO DI VENEZIA
Pag IV La chiesa perde pezzi, vigili del fuoco in azione
Carmini
Venezia, a corto di manutenzione, perde pezzi. Ieri è toccato alla chiesa dei Carmini,
dove l’aureola di una delle statue che ornano la facciata ha dato segni di instabilità.
L’allarme è stato lanciato nel tardo pomeriggio e sul posto sono subito intervenute due
squadre dei Vigili del fuoco che, per prima cosa, hanno transennato la zona del campo
interessata dall’eventuale crollo. I lavori di messa in sicurezza sono poi continuati,
nonostante il buio che avanzava. L’aureola, tra l’altro, rischiava di cadere proprio dove si
trova l’ingresso della scuola d’arte.
Pag VI Ghetto, la “guerra” del kosher tra ortodossi e Comunità ebraica di Vettor
Maria Corsetti
In Ghetto scoppia la "guerra" del kosher. "Guerra" nel senso della competizione in libera
concorrenza e a colpi di pentole e fornelli legata alla migliore pietanza e al rispetto delle
regole alimentari della Torah. Domani alle 12, con una degustazione di piatti tipici
preceduta da un intervento in tema del rabbino capo di Venezia, Rav Shalom Bahbout,
apre i battenti in campo del Ghetto Nuovo "Ghimel Garden", il ristorante della Comunità
ebraica allestito in alcuni spazi della Casa di riposo. Il locale va ad aggiungersi al "Gam
Gam", esistente da tempo a ridosso della porta storica d'accesso al Ghetto, e scelto dagli
Ebrei più ortodossi per il suo rigore a livello di certificazioni kosher. Ed è in questo
contesto, tra ortodossia e Comunità ebraica, che la gastronomia del Ghetto è finita agli
onori della cronaca. Perché prprio il "Gam Gam" (proprietà di "Chabad Lubavitch", tra i
più importanti movimenti filosofico-religiosi del Chassidismo) è al centro dell'attenzione
generale per un "incidente" che ha coinvolto una coppia di Noale, Antonello Scarpa e
Elisabetta De Sandre, insieme alla loro figlia Ester, di appena otto mesi. I quali, dopo
avere prenotato on line un tavolo, e in base alle loro dichiarazioni, non avrebbero potuto
alimentare la piccola con la sua pappina, perché contenente oltre ad acqua, pane e
pomodoro anche una spruzzatina di formaggio grana (la Torah impone la netta
separazione tra carne e latticini, che non possono essere consumati e cucinati insieme o
con i medesimi utensili). La coppia aveva specificato che il thermos conteneva un
derivato del latte, ma il personale del "Gam Gam" avrebbe richiamato il contrasto con le
regole kosher, chiedendo di poter contattare il responsabile per consentire un'eccezione.
A quel punto i due avrebbero cambiato locale. Da parte sua il sito sito "MiSiedo" precisa
di avere comunicato al ristorante «le informazioni ricevute dal cliente», ossia l'età della
bambina e la disponibilità per un seggiolone. «Una tempesta in un bicchier d'acqua minimizza invece il responsabile del ristorante, Rami Banin - Dispiace che queste
persone abbiano scelto di andarsene, anziché aspettare che mi pronunciassi nel merito,
perché sicuramente una soluzione l'avremmo trovata. Tanto più che il personale
(affermazione confermata dai dipendenti, con l'aggiunta che "le regole ebraiche quando
si è tra Ebrei vanno rispettate", ndr) aveva proposto come alternativa alla signora di
allontanarsi per un momento con la piccola, per sfamarla da un tavolino al di fuori del
locale. Ma lei non ha voluto. In ogni caso, se desiderano tornare, qui sono bene accetti».
Nella circostanza, Banin aggiunge «che l'accaduto contrasta con lo spirito in base al
quale il "Gam Gam" è nato, ossia far conoscere la cultura e la cucina ebraica. D'altro
canto, noi siamo noti anche all'estero per la severità che applichiamo nelle certificazioni
Kosher. Se i nostri ragazzi non avessero detto nulla, altri clienti avrebbero potuto
offendersi o preoccuparsi. Ma ripeto, concedendoci un minimo di tempo, una soluzione
l'avremmo trovata».
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8 – VENETO / NORDEST
CORRIERE DEL VENETO
Pagg 2 – 3 In arrivo una nuova ondata di profughi. L’ipotesi: aprire le palestre
delle scuole di Andrea Priante e Mauro Pigozzo
Vertice ad Eraclea: i sindaci del litorale riuniti scrivono una lettera a Renzi. “I turisti
scappano, bisogna cambiare rotta”. Otto impiegati e tremila casi, passano anni per
distinguere tra rifugiati e clandestini
Venezia I profughi a scuola. E non c’entrano i corsi di alfabetizzazione organizzati dai
volontari che si occupano di gestire l’emergenza. Perché stavolta i migranti sembrano
destinati a entrare negli istituti non per studiare, ma per dormirci. La notizia è trapelata
ieri, per ora senza conferme ufficiali: il commissario straordinario della Provincia di
Venezia, Cesare Castelli, avrebbe dato alla prefettura la disponibilità delle palestre delle
scuole per ospitare i profughi. Daniela Beltrame, direttore dell’Ufficio scolastico regionale
del Veneto, è perplessa: «Se il progetto fosse questo, non potremmo che accettarlo,
visto che la Provincia ha la proprietà degli edifici scolastici e può decidere come usarli in
modo autonomo. Ma una scelta affrettata di questo tipo, potrebbe essere un problema.
Le palestre sono delle scuole, dovranno essere fruibili per le attività a settembre e per le
eventuali attività estive programmate. Devono garantire un servizio insomma. Mi auguro
che sia, in caso, una soluzione temporanea e che gli spazi vengano rimessi a posto e
sanificati entro settembre». Beltrame è preoccupata: «Non mi pare una scelta
lungimirante. Già la situazione edilizia delle scuole è delicata e difficile, se poi
aggiungiamo anche questo...». Quella di mettere i profughi nelle palestre è l’ultima
frontiera dell’accoglienza in un Veneto ormai incapace di trovare spazi sufficienti per
l’esercito di disperati che vengono trasferiti con cadenza sempre più frequente. Anche
perché la ricerca di aree demaniali sulle quali installare dei prefabbricati, prosegue a
rilento. Se a Eraclea già oggi potrebbero iniziare i lavori di sistemazione di un vecchio
stabile dell’esercito, i sopralluoghi su altre caserme dismesse non stanno dando i risultati
sperati. Come quello che si è svolto ieri alla «Tombolan-Fava» di San Donà di Piave che,
a detta della prefettura, è «allo stato attuale inutilizzabile per l’accoglienza di profughi».
Eppure le premesse parevano buone: la struttura è di 87mila metri quadri di superficie
di cui 12mila coperti. Peccato che si presenti in stato di gravissimo abbandono senza
contare la presenza di amianto nelle coperture che renderebbe complessa la messa a
norma della struttura. Il problema, quindi, resta. E rischia di aggravarsi: ieri pomeriggio
a Salerno è attraccata una nave tedesca con a bordo 522 migranti. Si tratta soprattutto
di persone ripescate in mare provenienti da Siria, Tunisia, Bangladesh, e tra loro tre
donne incinte, di cui una al nono mese, 413 uomini, 40 minori e un solo bambino non
accompagnato, un undicenne siriano. Solo una parte dei migranti rimarrà nel
Salernitano, mentre gli altri verranno smistati nelle regioni del Nord, a cominciare
proprio dal Veneto. Sempre ieri, dieci profughi sono arrivati a Treviso e subito dirottati
nelle strutture di accoglienza, per poi procedere alle operazioni di fotosegnalamento. A
Vicenza nei prossimi quindici giorni ne sono attesi un centinaio, che verranno quasi
certamente alloggiati in un hotel. Una situazione che manda su tutte le furie il
governatore Luca Zaia. «Il Veneto ha già dato» nell’accoglienza degli immigrati. Lo ha
ribadito anche domenica, parlando dal palco di Pontida. «Lo diciamo al governo - ha
aggiunto - noi veneti conosciamo bene l’immigrazione e la solidarietà, ci sono più veneti
in giro per il mondo che in Veneto ma non siamo andati a riempire le galere in giro per il
mondo». «Noi - ha concluso - davanti a una persona che scappa dalla morte e dalla
fame non diciamo di no» ma Roma chiede di accogliere «immigrati che due su tre non
c’entrano coi profughi». Il dato è confermato: circa l’80 per cento delle domande di asilo
politico viene respinta dall’apposita commissione, perché i richiedenti non ne hanno
diritto. Intanto ieri la Fondazione Moressa ha anticipato i dati di un convegno in
programma a Venezia, che dimostrano come gli arrivi di profughi vadano a sommarsi a
una consistente popolazione immigrata già regolarmente residente in Veneto: gli
stranieri nella nostra regione sono circa mezzo milione - rappresentando così il 10,4%
della popolazione complessiva - e costituiscono una componente significativa dal punto
di vista demografico, sociale ed economico. Nonostante la crisi, negli ultimi 5 anni la
popolazione straniera - composta per un quinto da romeni - è aumentata mediamente
del 21,9% (con punte del 42,6% a Venezia e del 39,5% a Rovigo). La ricerca sottolinea
come gli immigrati regolari portino un contributo economico importante, visto che il
10,8% dei contribuenti veneti è straniero, con un volume di redditi dichiarati superiore ai
5 miliardi di euro.
Eraclea (Venezia) «Abbiamo prenotato una vacanza dal 4 luglio, ma abbiamo paura
dell’ondata di profughi che c’è in Italia. Qual è la situazione a Bibione? Molti nostri
conoscenti hanno disdetto le ferie in Italia. Cordiali saluti, Jana». È una delle e-mail
arrivate nei giorni scorsi dalla Germania direttamente nelle mani del sindaco di San
Michele al Tagliamento, Pasqualino Codognotto. «A Bibione cominciano a piovere le
prime disdette. Governo e Regione devono capirlo una volta per tutte: i turisti tedeschi
ci mettono un attimo a cambiare spiaggia e ad andare in vacanza in Croazia...». È
preoccupato. Come lo sono gli altri sindaci del litorale. Perché va bene la «solidarietà»,
la «carità cristiana» e l’«umano dispiacere» per quei poveri cristi che fuggono dalla
guerra e dalla fame, ma quando scatta l’ora delle vacanze nessuno sembra disposto ad
avere come vicino di ombrellone un gruppo di disperati. Non assistere al triste spettacolo
dei migranti, a quanto pare, favorisce il relax. Sarà pure cinico, ma le e-mail e le
telefonate di turisti allarmati sono un dato di fatto. E i sindaci delle principali località
balneari non possono fare finta di nulla, considerando che quello turistico è il traino
dell’economia veneta, come confermano le stime contenute in un’indagine del Centro
Internazionale di Studi di Ca’ Foscari: fatturato di 11 miliardi di euro, l’8,2% del Pil
regionale, il 13% dei consumi interni e mezzo milione di unità di lavoro. «Salvaguardare
il livello di soddisfazione dei nostri visitatori, significa tutelare aziende, occupazione e
famiglie», dice il sindaco di Jesolo, Valerio Zoggia. Ieri i primi cittadini dei principali
comuni turistici della costa si sono dati appuntamento a Eraclea, che nei giorni scorsi ha
dovuto fare i conti con i 140 profughi alloggiati in un residence a due passi dalla
spiaggia. «La prossima volta potrebbe toccare a una delle nostre città», dice
Codognotto. «Dobbiamo impedirlo». La riunione è durata un paio d’ore. Oltre al padrone
di casa, Giorgio Tolon, e ai sindaci di Jesolo e Bibione, erano presenti i primi cittadini di
Chioggia, Rosolina, Porto Tolle e Cavallino Treporti. Mancava il Comune di Venezia.
«Abbiamo mandato l’invito in Comune nelle scorse settimane, ma nessuno ci ha
risposto. Ora che c’è un nuovo sindaco, speriamo si unisca a noi». E a stretto giro, è
stato proprio il neo-eletto Luigi Brugnaro a suonare la carica: «Uno dei miei primi atti da
sindaco è stato quello di ritirare la disponibilità all’accoglienza dei profughi fatta dal
commissario. Farò la stessa cosa quando sarò sindaco metropolitano. Qui non si parla di
soccorrere persone a cui è affondata una nave ma di gente che da casa sua vuole venire
in Europa». Nell’incontro, gli amministratori delle località balneari hanno affrontato tutti
gli aspetti del problema. Ciascuno con le proprie sensibilità, senza le inutili maschere
dell’appartenenza politica. «Non possiamo lasciarli in mezzo a una strada, ma il
problema va risolto a livello nazionale», ha spiegato Tolon. Il suo collega di San Michele
al Tagliamento è categorico: «Non possiamo mollare, devono capire che se i giornali
stranieri scrivono che sulle nostre coste ci sono i profughi, i turisti scappano». Non è
facile neppure per loro. «Il governo ci ha messo in questo pasticcio e la Regione, invece
di coordinare lo smistamento, ha detto semplicemente “no ai profughi”, col risultato che
le prefetture ce ne mandano a decine». C’è chi avanza un sospetto: «E se i venditori
abusivi si mettessero ad arruolare i migranti mandandoli in massa sulle spiagge?». Il
sindaco di Cavallino, Roberta Nesto, è combattuta: «Sono una cattolica praticante, so
bene che è mio dovere aiutare i meno fortunati. Ma sono anche il sindaco, e come tale
devo tutelare gli interessi dei miei cittadini». Dopo due ore di dibattito si arriva a una
linea condivisa. Al sindaco di Chioggia, Giuseppe Casson, il compito di mettere nero su
bianco una lettera che sarà inviata al premier Matteo Renzi, al governatore Luca Zaia, al
prefetto di Rovigo Francesco Provolo e a quello di Venezia, Domenico Cuttaia, che è
anche coordinatore per il Veneto dell’emergenza profughi. La linea unitaria delle località
balneari è chiara: giusto accogliere i migranti ma nel farlo occorre cambiare rotta.
Gestire il fenomeno in modo «intelligente» - sostengono - significa non spalmare più i
nuovi arrivi sul territorio senza fare distinzioni, bensì salvaguardare quelle realtà
balneari che dall’arrivo dei profughi ne avrebbero un danno d’immagine, e quindi
economico, che a cascata andrebbe a penalizzare l’intera regione. Ai turisti non resta
che attendere la risposta.
Padova. Da un lato c’è un piccolo esercito di oltre tremila persone. Moltissimi hanno la
pelle nera, non sanno una parola d’italiano e per capirli serve un mediatore culturale
capace di tradurre dialetti tribali. Dall’altro lato c’è una stanza, con un tavolo dietro al
quale ci sono quattro persone. Anzi, due stanze con otto persone in tutto: una a Padova
e l’altra a Verona. Il loro compito? Intervistare quell’esercito, scavare dentro le anime
dei soldati in rotta e spulciare tra i loro documenti per capire chi mente e chi è sincero.
Perché tutti vogliono restare in Italia, ma non tutti ne hanno il diritto. Questo è il
principale collo di bottiglia istituzionale della questione profughi, che nell’attesa di
ricevere il decreto della commissione territoriale per il riconoscimento della protezione
internazionale rimangono in Veneto. Invero una parte fugge prima della sentenza, gli
altri rimangono nel limbo. Per mesi, a volte per anni. Vedono i fratelli di sventura
moltiplicarsi intorno a loro e una coda sempre più lunga. Le loro storie sono simili.
Arrivano in qualche modo sul suolo italiano. Vengono «accolti» e smistati. Quando
posano il piede in Veneto finiscono in una struttura allestita quasi sempre all’ultimo
minuto. E qui aspettano la procedura di riconoscimento. Alla fine la svariata umanità
viene incasellata in sole due categorie: o sono migranti economici, ovvero clandestini, o
arrivano da nazioni dove il loro dramma umano ha rilevanza anche politica e
istituzionale. Nel secondo caso hanno il diritto di ottenere un permesso di soggiorno, che
varia a seconda del rischio reale che vivrebbero nelle loro nazioni. Per descrivere il
fenomeno serve partire dalle certezze: le persone che hanno formulato domanda alla
commissione territoriale con sede a Verona, presieduta da Adriana Sabato, o alla sezione
di Padova, presieduta da Antonello Roccoberton. Sono gruppi di lavoro composti da
quattro persone l’uno, con un corollario di eventuali sostituti. A Verona, la commissione
è stata creata per legge lo scorso 2 febbraio, ma è operativa dal mese successivo. Da
allora ad oggi sono state chiuse 330 pratiche. Di queste, solo il 35% (poco più di un
centinaio, dunque) hanno ottenuto uno dei vari «bollini» di protezione internazionale
(vedi scheda ). In coda, però, ci sono ancora 2.100 domande pendenti. Stessa media a
Padova, dove l’ufficio è stato aperto il 16 marzo e dove in attesa adesso ci sono circa
800 persone. Qui le pratiche gestite ad oggi sono state circa 250. In sette casi su dieci,
l’istanza dell’immigrato è stata rigettata, avviando anche qui il complesso meccanismo
dei ricorsi al tribunale ordinario di Venezia. In mezzo a questo iter ci sono le questure,
che dovrebbero fotosegnalare e raccogliere le impronte digitali di tutte queste persone.
Le quali però possono opporsi, e gli agenti non possono forzarli per non commettere il
reato di tortura. La conseguenza di tutto ciò? La sintetizza Gino Balbinot segretario
regionale veneto del Sap, il Sindacato autonomo di polizia. «Ci sono almeno duemila
immigrati che non hanno un volto e un nome», dice. «Stimiamo che in Veneto siano
stati identificati solo il 40% degli arrivati. Impossibile avere dati più precisi: molte di
queste persone se ne sono già andate». A livello nazionale, peraltro, va ancora peggio
sul fronte degli «scomparsi». Giovedì al Consiglio europeo sarà presentato un dossier
richiesto dai paesi contrari alle «quote», secondo il quale in Italia vengono identificati
solo tre migranti su dieci. Un numero imponente, considerato che dal primo gennaio
sono approdate 78.784 persone sulle nostre coste e di queste il 4,9% accolte in Veneto
(3.860). Ne conseguono le stime sui «senza volto». In prefettura a Venezia, dove è
presente il coordinamento dell’emergenza, il referente per l’immigrazione è Antonino
Gulletta. «Se c’è una certezza – spiega – è che tutte le persone ospitate nei nostri centri
di accoglienza sono state identificate». Sulle lentezze, però, non c’è al momento
soluzione. «Ad aprile dello scorso anno c’era una sola struttura simile, a Gorizia, per
Veneto, Trentino e Friuli Venezia Giulia», concede. «Adesso almeno ne abbiamo due in
Veneto». Chi invece propone una soluzione tutta politica è Alessandra Moretti, candidata
alle regionali per il Pd, che chiede al governatore Luca Zaia di smetterla di «giocherellare
con le ruspe». «Basterebbe che la Regione prendesse la competenza di alcune decine di
dipendenti delle province - dice - che li formasse e che affidasse loro, con una semplice
convenzione, il lavoro di pre istruttoria della commissione territoriale per il
riconoscimento». Il motivo? «Velocizzare le carte significherebbe dare più velocemente a
chi lo merita lo status di rifugiato o riconoscere le altre forme di tutela previste dai
trattati internazionali e metterebbe le questure nelle condizioni di espellere coloro che
non hanno titolo».
IL GAZZETTINO
Pagg 14 – 15 All’estero per fare carriera, il Nordest dà meno speranze di Natascia
Porcellato e Annamaria Bacchin
Il 63% degli intervistati ritiene che le opportunità per i giovani siano migliori fuori
dall’Italia
Una carriera per i giovani? Meglio andare a cercarla all’estero. Secondo i dati raccolti da
Demos per l’Osservatorio sul Nord Est del Gazzettino, il 63% degli intervistati di Veneto,
Friuli Venezia Giulia e della provincia di Trento si dichiara moltissimo o molto d’accordo
con l’idea che “per i giovani di oggi che vogliono fare carriera l’unica speranza è andare
all’estero”. Guardando al passato, possiamo constatare una netta crescita di consensi
intorno a questa posizione: rispetto al 2008, l’incremento è di 23 punti percentuali.
L’emigrazione è uno dei tratti che più caratterizzano la storia del Nord Est. Veneto,
Friuli-Venezia Giulia e la provincia di Trento, infatti, contano un’importante e consolidata
tradizione di espatriati. Gli ultimi 7 anni, caratterizzati da crisi economica e mercato del
lavoro in affanno, hanno fatto dimenticare il tempo dello sviluppo impetuoso e della
piena occupazione e hanno riportato al centro la possibilità, o quantomeno l’ipotesi, di
andarsene. Simbolicamente, sembrano concentrarsi in questa prospettiva passato,
presente e futuro. Del passato viene ripreso il tratto migratorio di queste terre; del
presente si riflette la crisi economica e lavorativa; per il futuro, però, sembra non
trovare spazio una maggiore fiducia, ma al contrario si afferma con forza una cronica
assenza di speranza rispetto ai giovani e alla loro condizione di crescita e sviluppo
professionale. Il 63% degli intervistati, infatti, pensa che per i giovani di oggi che
vogliono crescere professionalmente l’unica chance sia fare le valigie e cambiare Paese.
La quota è aumentata in modo costante nel corso degli anni. Tra il 2008 e il 2009 è il
40% a mostrare accordo con questa prospettiva. Nel 2010 la percentuale sale al 46% e
raggiunge il 49% nell’anno successivo. È nel 2012, però, che viene infranta la soglia
della maggioranza assoluta e la percentuale di intervistati che condivide l’idea che per
fare carriera bisogna andare all’estero raggiunge il 58%. Tale quota viene confermata
nel 2013 (59%), ma cresce ulteriormente, superando il 60%, nel 2014 (61%) e nel
2015 (63%). Chi pensa alla partenza come unico viatico per avere una carriera?
Soprattutto la fascia centrale della popolazione, quella che dovrebbe costituire la
principale ossatura della forza lavoro del Paese. Così, la fuga all’estero appare l’unica
speranza al 77% di quanti hanno tra i 25 e i 34 anni, al 72% di coloro che hanno tra i 35
e i 44 anni e al 67% delle persone di età compresa tra i 45 e i 54 anni. Rileviamo
comunque, che anche tra i giovani under-25 e tra gli anziani over-65 le percentuali si
mantengono ampiamente sopra il 50% (58-59%). Considerando, invece, le percezioni
delle professioni, emerge che sono soprattutto disoccupati (87%), operai (73%) e liberi
professionisti (70%) a guardare all’estero per il futuro lavorativo dei giovani. Anche negli
altri settori, però, le percentuali si mantengono al di sopra della soglia della maggioranza
assoluta: gli orientamenti di impiegati (59%) e pensionati (53%), studenti (62%) e
casalinghe (63%), infatti, confermano l’ampiezza e la trasversalità della diffusione di
quest’idea. Curiosamente, infine, anche la maggioranza (57%) di imprenditori e
lavoratori autonomi – coloro che teoricamente decidono su assunzioni ed evoluzione
delle carriere - suggerisce l’espatrio per i giovani professionalmente ambiziosi.
“Ipotizzare un percorso di esperienze lavorative o universitarie all’estero è utile, ma non
certo indispensabile per un giovane che si prepara ad entrare nel mercato del lavoro; a
meno che non si tratti di ambiti specifici come la ricerca scientifica. Ma parliamo, in
questo caso, di un gruppo ristretto di persone. Per tutti gli altri il nostro Paese avrebbe
molto da offrire. Peccato che i ragazzi, oggi, vengano indirizzati verso percorsi scolastici
e facoltà universitarie che non producono potenziali occupati, bensì sicuri disoccupati”.
Ne è convinto Stefano Miotto, Vice Presidente del Politecnico Calzaturiero della Riviera
del Brenta, dove la scuola di design e tecnica della calzatura trova lavoro al 95 per cento
dei suoi iscritti. “Il problema del nostro Paese, dunque – continua Miotto – è la forte
discrasia tra domanda ed offerta. Non siamo ancora evidentemente attrezzati per
orientare i nostri figli a compiere scelte utili per il loro futuro”.
Rimane radicata la convinzione a Nordest che varcare i confini rappresenti l’unica vera
soluzione.
“Lo smarrimento percepito in patria è figlio di una scelta errata che comincia, ripeto,
molto prima. Sarebbe utile, ad esempio, stabilire il numero chiuso in facoltà umanistiche
che alla fine, purtroppo, non portano nuova forza lavoro, quanto piuttosto altra
disoccupazione. Ormai sappiamo che la laurea non è più garanzia di occupazione.
Ciascun genitore o docente, così come ogni studente, ha una responsabilità individuale
che impone di optare per un itinerario formativo utile”.
In questo modo si eviterebbero i viaggi della speranza.
“Dico solo che in Italia con una migliore organizzazione e un lavoro di orientamento
diverso si potrebbe restituire il futuro ai giovani. Un’esperienza, anche di un anno
all’estero, fa bene per togliere il provincialismo di cui siamo intrisi, giova alle nostre
scarse competenze linguistiche, ma non può diventare l’unica opportunità per far
carriera. Un percorso che diventa invece quasi obbligatorio per chi si occupa di ricerca,
perché qui in Italia la strada è molto, molto stretta”.
Come sostenere un nuovo e più virtuoso dialogo tra domanda ed offerta?
“Iniziare dalla scuola, dall’università. Renderle più attraenti sia per gli italiani che per il
resto del mondo. Perché, per il momento, i nostri atenei non sono certo carismatici.
Manca, quindi, una relazione di reciprocità e continua a permanere invece un flusso
univoco che esce dalle nostre università per andare all’estero. Servirebbe una nuova
linea nei dipartimenti che dovrebbe reindirizzare le attività accademiche. Il dialogo tra
università e mondo del lavoro è quasi inesistente, mentre si viene sommersi dalle
pubblicazioni scientifiche dei docenti. E’ indispensabile imparare a saper fare ed è
fondamentale conoscere il territorio osservando l’offerta del mercato occupazionale
attuale”.
Come quello della moda e del lusso. E il Politecnico Calzaturiero della Riviera del Brenta
ne è una chiara dimostrazione. “Chiaramente non rappresenta l’aspirazione di tutti i
giovani, ma una cosa è altrettanto sicura: qui non si producono disoccupati. Perché c’è
armonia tra domanda ed offerta. E perché la Riviera del Brenta è storicamente, e
sempre più, polo d’eccellenza. Il lusso mondiale della calzatura – e delle borse - da
donna si produce in Riviera e il nostro Politecnico approfitta di tale importante presenza.
Perché da noi i docenti non scrivono pubblicazioni. Ma sono stilisti e modellisti che
lavorano per le firme di moda più note al mondo. Il collegamento scuola-lavoro è diretto
e, soprattutto, guarda al territorio. Il Politecnico ha permesso una conservazione del
sapere e, anche per questo, la Riviera continua ad essere polo d’attrazione per le grandi
marche che producono tutta la calzatura donna. Attraiamo investimenti perché in questo
settore siamo eccellenti”.
Pag 21 Giovani con la valigia, ricchezza del Nordest dispersa in Europa di Adriano
Favaro
Gianna, un’amica di mia figlia, sta facendo la maturità. Ma da oltre un anno sta girando
anche l’Europa per trovare (e lo ha trovato) un posto dove studiare antropologia. “Mi
piace - mi ha confessato – voglio fare questi studi e qui in Italia non si trova
praticamente niente; o, se ti laurei, qui non hai alcuno sbocco”. Ha qualche carta in più
– suppongo - di altre coetanee: una mamma (e due nonni) di madrelingua inglese, il
resto della famiglia abituato a girare il mondo. Ma lei, che si impegna in un corso di studi
che in Italia quasi non esiste, è già stata accolta in una ottima università di Londra, dove
ha superato un esame, e sta costruendosi (una tecnica che ormai dovrebbe diventare
metodo) la sua immagine di studente-intellettuale con una specie di self marketing che
alla fine del corso di laurea le dovrà dare ragione. Certo, scrivendo nella sua carta di
identità italiana la professione, dovrà avere il coraggio di sopportare qualche sguardo
strano: antropologo? Che lavoro è? Ma sarà probabilmente la cosa di cui dovrà
preoccuparsi di meno, visto che quasi sicuramente si occuperà all’estero. Conosco anche
Cristoforo, un ragazzo peruviano, approdato quasi due decenni fa in Italia con una borsa
di studio della Croce Rossa. Doveva studiare da infermiere per tornare poi nel suo
difficile Paese (veniva dalle Ande, bellissime, struggenti, ma spesso poverissime) e
ridare linfa a un sistema sociale ed economico martoriato. È rimasto in Veneto, si è
sposato con una connazionale (anche lei uscita dall’America Latina per stare meglio); ha
figli, lavora nel turismo. Due figure di giovani, due percorsi diversi ma un’unica bussola:
l’estero. I perché di tanti stranieri fuggiti da quello che una volta conoscevamo come
“terzo mondo” li intuiamo. Quelli dei nostri figli che vogliono lasciare l’Italia sono molto
più complessi e praticamente sono tanti quanti gli studenti o i laureati che escono dal
Paese. Un problema vero anche se finora ha lasciato indifferente (o quasi) la classe
politica impegnata in dibattiti di ben altro spessore culturale. Eppure i dati per capire la
vastità di questo esodo – un fenomeno mai avvenuto in tali dimensioni sociali e di
ricchezza dispersa dall’unità d’Italia - ci sono tutti e facilmente riscontrabili. Si stima che
dal 2008 allo scorso anno, gli italiani emigrati all'estero siano costati allo Stato – per i
loro studi - 23 miliardi di euro (dall’asilo all’università). Secondo l'Istat, i laureati erano il
19% degli italiani trasferitisi all'estero nel 2009, ma sono già saliti al 24% nel 2013.
Quei soldi sono 23 miliardi dei contribuenti regalati ad altre economie. Se funzionano i
soliti rapporti economici, ma in questo caso dovremmo alzare l’asticella, il 10% di quella
cifra è stata spesa solo nel Veneto: 2,3 miliardi regalati a chi non parla italiano. A chi?
L’Università di Ca’ Foscari, in un recente studio, ha dato nome e cognome dei
beneficiari: sono 4 milioni 387mila (Aire) i cittadini italiani residenti all’estero, le
concentrazioni maggiori risultano in Paesi come la Svizzera e la Germania con oltre
500mila italiani, e la Francia (366mila). Il quei Paesi entreranno anche miliardi o
centinaia dei nostri milioni trasformati in cultura, capaci di farli crescere. Dove, molti
staranno meglio (a meno che non lavorino come cameriere o facchino).
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… ed inoltre oggi segnaliamo…
CORRIERE DELLA SERA
Pag 6 Il rischio che il caso Roma logori anche il governo di Massimo Franco
Ormai il problema non è più tanto la sorte di Ignazio Marino e della sua giunta. La
domanda che ci si pone nel Pd è quanto possa costare una strategia oscillante tra fiducia
e logoramento; tra voglia di azzerare tutto con lo scioglimento e il Comune
commissariato, e tentazione di ripartire con lo stesso «primo cittadino». Il timore è che
alla lunga l’assenza di decisioni chiare delegittimi Marino ma finisca per danneggiare lo
stesso Pd nazionale e il premier Matteo Renzi. Le opposizioni tendono a trasformare il
caos politico romano in una sorta di metafora dello scontro a sinistra e dell’incapacità di
uscirne. È un fatto che l’assedio intorno al Campidoglio sta diventando asfissiante. E le
reazioni, alcune anche scomposte, del primo cittadino fanno capire che capta la strategia
dal vertice del Pd; o almeno di una sua parte. Renzi tace ma i segnali che arrivano dalla
sua cerchia dicono quanto l’ipotesi di un rilancio sia ritenuta inverosimile. L’assegnazione
di una scorta a Matteo Orfini, presidente del partito e commissario a Roma, testimonia
piuttosto la tensione che si respira nella Capitale. La preoccupazione è che prendere
tempo senza né ritirare l’appoggio, né manifestare fiducia a Marino, peggiori la
situazione. Il pericolo è di ritrovarsi con il sindaco della Capitale delegittimato e sempre
più in bilico; e alla fine di assistere alla sua caduta, subendola. Lo scontro è tutto interno
al Pd. Per questo si teme che il Campidoglio si trasformi in uno dei potenziali motivi di
logoramento anche per Palazzo Chigi. Gli inviti ad abbassare i toni sono un tentativo di
scongiurare un conflitto tra i democratici che acuirebbe le tensioni già alte per via della
riforma della scuola e del Senato. Marino appare debole, e non lo rafforzano le dimissioni
di un assessore renziano, che inutilmente accampa solo motivi personali. Non bastasse,
dopo le parole virulente usate dal sindaco contro la destra, Forza Italia ne chiede le
dimissioni con più decisione. Lo stesso ministro dell’Interno, Angelino Alfano, leader del
Ncd, lo critica con durezza per come ha parlato due giorni fa alla Festa dell’Unità. Si sta
delineando un fronte nel quale il M5S soffia sulle divisioni nel Pd; e accusa Renzi di usare
Marino come «capro espiatorio». E Mafia Capitale proietta un alone cupo su tutto. Ma
per Marino le indagini sono un punto di forza, non essendo implicato nello scandalo.
Anzi, rivendica il ruolo di baluardo contro la corruzione. Si vede sindaco fino al 2023. Il
messaggio implicito che manda è: non vi sarà facile liberarvi di me. Questo accentua le
difficoltà di Renzi in una fase di affanno, con la riforma della scuola e centomila
assunzioni appese all’ennesima sfida in Parlamento. E sullo sfondo galleggia il caso di
Vincenzo De Luca, il nuovo governatore pd della Campania che dovrebbe essere sospeso
a giorni dalla carica: un’altra incognita e fonte di imbarazzo.
Pag 32 Un’idea forte di Paese per far ripartire il Pd di Paolo Franchi
Tema. «Il Ritorno del Rottamatore». Svolgimento. Il Pd così com’è non regge (e anzi
ostacola) lo spedito passo riformatore impresso dal suo innovativo segretario, pure
eletto a furor di primarie, al governo. L’antico motto napoleonico tanto caro a Charles De
Gaulle, l’intendance suivra, a quanto pare, non funziona: l’intendenza non segue, o
meglio ti segue solo quando hai il vento in poppa. E dunque il suddetto segretario–
presidente del Consiglio preannuncia la ferma volontà di tornare a indossare le vesti di
un tempo. L’azione di governo è decisiva, certo. Da sola, però, non basta. Bisogna
smantellare e ricostruire il partito in primo luogo in periferia o, come si dice adesso, su
territori sin qui ancora occupati, coi risultati che si sono visti, da signori delle tessere e
capi corrente. Ma per rifare il Pd, e promuovere nuovi gruppi dirigenti, occorre in primo
luogo metterne in chiaro senza reticenze e zone d’ombra l’identità. Che, in un Paese per
sua natura moderato, e anzi, solo che gli si lasci l’occasione di dimostrarlo, di destra, ha
da essere quella di un partito deciso a occupare il centro. L’idea può sembrare antica
(«Avanti al centro con la Dc»), ma questo non vuol dire di necessità che,
opportunamente rimodernata, non funzioni: in fondo è quella che più si attaglia, fatta
eccezione per la parentesi degli ultimi vent’anni, al carattere degli italiani. Matteo Renzi
sembra reagire così alle difficoltà (serie) del suo partito, testimoniate dalla sconfitta
nelle amministrative e dai successivi sondaggi che, per la prima volta, evidenziano che
per il Pd, nel caso (pressoché certo) di ballottaggio nelle elezioni politiche, l’Italicum,
pensato per avere in partenza la vittoria in tasca, potrebbe rivelarsi una trappola.
Lasciamo pure da parte le facili ironie sull’eterna suggestione del ritorno alle origini, e
stiamo al punto. Si può dissentire in tutto o in parte, in attesa di qualche delucidazione
ulteriore, dalla terapia indicata da Renzi (che cosa è oggi, esattamente, il centro, chi
sono i moderati?) e anche dalla diagnosi (siamo così sicuri - basta pensare alla scuola che l’azione di governo non c’entri nulla con i guai del Pd?). Sul fatto che il partito abbia
bisogno di una cura da cavallo, però, non ci piove. Tutto sta a capire se la cura esiste e,
nel caso, se il cavallo è in grado di sopportarla. Può darsi che Renzi abbia in mente
semplicemente un Pd che gli faccia da megafono: se fosse così, fine del discorso. Ma c’è
da sperare che pensi più in grande. A un soggetto definitivamente emancipato da quel
che resta dei post comunisti e dei post democristiani di sinistra, e cioè dai suoi soci
fondatori. A un partito del capo che però non pensi solo ai casi propri al riparo di una
leadership forte ma si riconosca davvero, per istinto politico, culturale e generazionale,
nel suo segretario; si proponga come tramite attivo tra questo e la società; traduca e
incrementi le politiche di governo in iniziativa sui territori. A un partito leggero che
riscopra la passione politica. A un partito aperto, che selezioni nuovi gruppi dirigenti
andandoli a pescare fuori delle proprie mura. C’è a chi piace e a chi non piace, direbbe
Totò. Ma, prima di entrare nel merito, bisognerebbe stabilire se tutto questo rientri
nell’ordine del possibile. Di nuovi soggetti non troppo dissimili si è favoleggiato
un’infinità di volte, dal «partito che non c’è» degli anni Novanta al Pd «a vocazione
maggioritaria» di Walter Veltroni, senza che gli annunci avessero seguiti concreti. A far
difetto, magari, più delle capacità di narrazione e di comunicazione, erano quell’idea
forte di Paese, verrebbe da dire quell’intuizione del mondo senza le quali, anche in tempi
di crisi della politica, né leadership durature né, tanto meno, partiti nuovi possono
prendere corpo. Sta a Renzi il compito di dimostrare di averle. In caso contrario, il suo
annuncio di rivoluzione dall’alto incontrerebbe da subito resistenze attive e (soprattutto)
passive durissime e forse insormontabili. Che sarebbero ancora più forti se il compito di
scalzare i cacicchi fosse affidato a una task force di yes women e di yes men , che molto
difficilmente gli elettori tentati dall’astensione o dal voto antisistema considererebbero
una buona soluzione per i loro dubbi. Le elezioni regionali e amministrative ormai sono
archiviate. Ma le sconfitte qualcosa debbono pure insegnare. Sarebbe un errore molto
serio non riflettere a fondo, per dire, sulla lezione dei casi Paita o Moretti. E dell’iper
renziano Matteo Bracciali ad Arezzo. La città di Maria Elena Boschi. E pure di Amintore
Fanfani, uno che di «rivoluzioni dall’alto» se ne intendeva.
LA REPUBBLICA
Pag 1 Lo straniero interiore che preme alle frontiere di Massimo Recalcati
La difesa del confine o il suo allargamento ha armato da sempre la mano degli uomini.
L'origine della violenza trova nel confine l'oggetto della sua passione più fondamentale:
la distruzione del nemico-rivale muove Caino nel suo sogno narcisistico di essere l'unico,
di far coincidere il proprio confine con il confine del mondo. È il delirio di tutti i grandi
dittatori. Innumerevoli volte, nel corso della storia, il confine è diventato una questione
di vita e di morte. Eppure l'esistenza del confine è necessaria alla vita. Alla vita di una
città o di una nazione, ma anche alla vita individuale. Abbiamo bisogno di confini per
esistere. È un problema di identità. Si può esistere senza avere un senso di identità?
Senza radici e senza sentimento di appartenenza? La psicoanalisi insegna che la vita
psichica necessita di avere i propri confini. Questa necessità non è in sé patologica, né
delirante, ma concerne un polo fondamentale del processo di umanizzazione della vita.
Ecco perché la famiglia (al di là di ogni sua versione tradizionale - naturalistica) resta
una istituzione culturale essenziale alla vita umana. In essa si esprime il bisogno di
radici, di casa, di discendenza, di appartenenza, di riconoscimento che definisce la vita in
quanto vita umana. Non bisogna sottovalutare l'incidenza di questa forte dimensione
simbolica dell' identità. Nei momenti di crisi tendiamo ad accentuare il polo
dell'appartenenza per ritrovare in esso un rifugio contro l'angoscia e lo smarrimento. Per
questa ragione le grandi svolte reazionarie sono storicamente sempre state precedute da
profonde destabilizzazioni dell' ordine sociale. Il bisogno di conservazione è strettamente
connesso alla vertigine provocata dalla caduta del confine identitario. Senza confini la
vita perde se stessa, si polverizza, si frammenta. È quello che insegna drammaticamente
la psicosi schizofrenica: senza senso di identità la vita si disgrega, non ha più un centro,
non sa più differenziarsi, non sa più riconoscersi nella sua differenza. Per scongiurare
questo rischio, come la psicologia delle masse insegna, si può invocare un rafforzamento
del confine, una sua impermeabilizzazione estrema. Il "protezionismo" economico
diventa in questo caso sintomatico: si tratta di proteggere l'identità di una città o di una
nazione minacciata nella sua integrità e nella sua storia; si tratta di difendere il prodotto
"interno" dall'invasione di quello che viene dall'"esterno"; si tratta di ristabilire i confini,
di preservare la propria identità dal rischio della sua alterazione provocata dalla
concorrenza invasiva dell'Altro. È questa una spinta sempre presente nella vita psichica
che, come Freud ha indicato, manifesta una resistenza strutturale al cambiamento: di
fronte al pericolo dell'alterazione dell'identità l'apparato psichico reagisce, infatti,
rafforzando la sua tendenza omeostatica: ridurre le tensioni al più basso livello possibile,
evacuare, scaricare l'eccitazione ingovernabile. E tuttavia esiste un altro polo altrettanto essenziale allo sviluppo della vita psichica come a quello di una città o di una
nazione - che è quello dell'apertura, della necessità di oltrepassare il confine. Se, infatti,
la vita non sa scavalcare il regime ristretto della propria identità, se non sa muoversi dal
proprio bisogno di appartenenza verso una contaminazione con l'alterità dell'Altro,
fatalmente stagna, appassisce, non può che ripetere sterilmente se stessa. In questo
senso la famiglia è tanto essenziale alla vita quanto lo è il suo declino. Per questo Lacan
affermava che il compito più difficile che attende il soggetto nel suo processo di
umanizzazione è quello di fare "il lutto del padre". La vita, come insegna del resto anche
Spinoza, può conservarsi solo espandendosi, oltrepassando il confine che gli è stato
necessario alla sua istituzione. Quando la vita di un gruppo, di una città, di una nazione,
di un soggetto si ammala? Cosa davvero fa declinare la vita, cosa la rende patologica?
La psicoanalisi propone una risposta sconcertante: la vita che si ammala è quella che
resta troppo attaccata a se stessa, che resta vittima della tendenza omeostatica alla
propria conservazione, è la vita che ingessa, cementifica, rafforza unilateralmente il
proprio confine narcisistico. Se il confine serve a rendere la vita propria, questo confine,
per non diventare soffocante, deve, come si esprimeva Bion, divenire "poroso",
permebabile, luogo di transito. Se invece il confine assume la forma della barriera, della
dogana inflessibile, se diviene presidio, luogo impossibile da valicare atrofizza e non
espande la vita. Venendo meno l'ossigeno indispensabile dell'alterità, la vita si ammala e
declina. La necessità del confine va quindi unita con la necessità del movimento e del
transito al di là del confine. In questo senso la difesa della purezza identitaria è sempre
animata da un fantasma fobico che non lascia spazio allo straniero. Ma a quale
straniero? Il nero, l'ebreo, l'extracomunitario? Un altro insegnamento prezioso viene
dalla psicoanalisi: lo straniero prima di venire da fuori, abita in noi stessi. Ciascuno di
noi porta con sé il proprio "nemico"; ciascuno di noi è Caino, ciascuno di noi è straniero
a se stesso. Per questo Freud suggeriva di definire l'inconscio come un "territorio
straniero interno". Dove l'ambiguità di quella espressione ("straniero interno") dovrebbe
essere sufficiente per scalfire l'irrigidimento paranoico-immunologico del confine
identitario. Non si tratta di esaltare un nomadismo senza radici che cancellerebbe le
differenze particolari, di negare ingenuamente la necessità del confine, ma di integrare
innanzitutto lo straniero-interno rendendo i nostri confini più plastici. Avevano ragione
Deleuze e Guattari in Mille piani ad ammonirci: attenzione al «fascista che siamo noi
stessi, che nutriamo e coltiviamo, a cui ci affezioniamo»; attenzione alla spinta cieca alla
conservazione di noi stessi che si nasconde nel proclamare una democrazia finalmente
realizzata che anziché rendere porosi i suoi confini li sa solo armare.
Pag 4 “Basta con le banche, il destino dell’Unione lo scelgano i popoli” di Jürgen
Habermas
La recente sentenza della Corte di Giustizia europea getta una luce impietosa su un
errore di fondo della costruzione europea: quello di aver costituito un’unione monetaria
senza un’unione politica. Tutti i cittadini dovrebbero essere grati a Mario Draghi, che
nell’estate 2012 scongiurò con un’unica frase le conseguenze disastrose dell’incombente
collasso della valuta europea. Aveva tolto la patata bollente dalle mani dell’Eurogruppo
annunciando la disponibilità all’acquisto di titoli di stato senza limiti quantitativi in caso
di necessità: un salto in avanti cui l’aveva costretto l’inerzia dei capi di governo,
paralizzati dallo shock e incapaci di agire nell’interesse comune dell’Europa, aggrappati
com’erano ai loro interessi nazionali. I mercati finanziari reagirono positivamente a
quell’unica frase, benché il capo della Bce avesse simulato una sovranità fiscale che non
possedeva, dato che oggi come ieri, sono le banche centrali degli Stati membri a dover
garantire i crediti in ultima istanza.
GLI SPAZI DELLA BCE - Di fatto, la Corte di Giustizia europea non poteva confermare
questa competenza, in contraddizione col testo dei Trattati europei; ma dalla sua
decisione consegue la possibilità per la Banca centrale europea di disporre – tranne
poche limitazioni – dei margini di manovra di un erogatore di crediti di ultima istanza. La
Corte di Giustizia ha dunque ratificato quell’azione di salvataggio, benché non del tutto
conforme alla Costituzione. Verrebbe voglia di dire che il diritto europeo dev’essere in
qualche modo piegato, anche se non proprio forzato, dai suoi stessi custodi, per
appianare di volta in volta le conseguenze negative del difetto strutturale dell’unione
monetaria. L’unione monetaria resterà instabile finché non sarà integrata da un’unione
bancaria, economica e fiscale. In altri termini, se non vogliamo che la democrazia sia
palesemente ridotta a puro elemento decorativo, dobbiamo arrivare ad un’unione
politica. Fin dal maggio 2010 la cancelliera tedesca ha anteposto gli interessi degli
investitori al risanamento dell’economia greca. Il risultato è che siamo di nuovo nel
mezzo di una crisi che pone in luce, in tutta la sua nuda realtà, un altro deficit
istituzionale. L’esito elettorale greco è quello di una nazione la cui netta maggioranza
insorge contro l’opprimente e avvilente miseria sociale imposta al paese dall’austerità. In
quel voto non c’è nulla da interpretare: la popolazione rifiuta la prosecuzione di una
politica di cui subisce il fallimento sulla propria pelle. Sorretto da questa legittimazione
democratica, il governo greco sta tentando di ottenere un cambio di politica
nell’Eurozona; ma a Bruxelles si scontra coi rappresentanti di altri 18 paesi che
giustificano il loro rifiuto adducendo con freddezza il proprio mandato democratico. Il
velo su questo deficit istituzionale non è ancora del tutto strappato. Le elezioni greche
hanno gettato sabbia negli ingranaggi di Bruxelles, dato che in questo caso gli stessi
cittadini hanno deciso su un’alternativa di politica europea subita dolorosamente sulla
propria pelle. Altrove i rappresentanti dei governi prendono le decisioni in separata sede,
a livelli tecnocratici, al riparo dell’opinione pubblica, tenuta a bada con inquietanti
diversivi. Le trattative per la ricerca di un compromesso a Bruxelles sono in stallo,
soprattutto perché da entrambi i lati si tende a incolpare gli interlocutori del mancato
esito nei negoziati, piuttosto che imputarlo ai difetti strutturali delle istituzioni e delle
procedure. Certo, nel caso di specie siamo di fronte all’attaccamento cieco ostinato a
una politica di austerità giudicata negativamente dalla maggior parte degli studiosi a
livello internazionale. Ma il conflitto di fondo è un altro: mentre una delle parti chiede un
cambiamento di rotta, quella contrapposta rifiuta ostinatamente persino l’apertura di
una trattativa a livello politico: ed è qui che si rivela una più profonda asimmetria.
SCELTE SCANDALOSE - Occorre avere ben chiaro il carattere scandaloso di un tale
rifiuto: se il compromesso fallisce, non è per qualche miliardo in più o in meno, e
neppure per la mancata accettazione di una qualche condizione, ma unicamente per via
della richiesta greca di dare la possibilità di un nuovo inizio all’economia della Grecia, e
alla sua popolazione sfruttata dalle élite corrotte, attraverso un taglio del debito o una
misura analoga, quale ad esempio una moratoria collegata alla crescita. I creditori
insistono invece sul riconoscimento di una montagna di debiti che l’economia greca non
riuscirà mai a smaltire. Si noti che presto o tardi un taglio del debito sarà inevitabile.
Eppure, contro ogni buon senso, i creditori non cessano di esigere il riconoscimento
formale di un onere debitorio realmente insostenibile. Fino a poco tempo fa ribadivano
anzi una pretesa surreale: quella di un avanzo primario superiore al 4%, ridotto poi a un
1% comunque non realistico. Così è fallito finora ogni tentativo di arrivare un accordo da
cui dipende il futuro dell’Ue, soltanto in nome della pretesa dei creditori di mantenere in
piedi una finzione. Per parte mia, non sono in grado di giudicare se i procedimenti tattici
del governo greco siano fondati su una strategia ragionata, o in qualche misura
determinati da condizionamenti politici, incompetenza o inesperienza dei suoi esponenti.
Ma le carenze del governo greco non tolgono nulla allo scandalo dell’atteggiamento dei
politici di Bruxelles e Berlino, che rifiutano di incontrare i loro colleghi di Atene in quanto
politici. Anche se si presentano come tali, sono presi in considerazione esclusivamente
sul piano economico, nel loro ruolo di creditori. Questa trasformazione in zombie ha il
significato di conferire alle annose insolvenze di uno Stato la parvenza di una questione
di diritto privato, da deferire a un tribunale. In tal modo risulta anche più facile negare
qualsiasi responsabilità politica.
L’ADDIO DELLA TROIKA - La nostra stampa ironizza sul cambio di nome della troika, che
effettivamente assomiglia a un’operazione di magia. Ma è anche espressione del
desiderio legittimo di far uscire allo scoperto, dietro la maschera dei finanziatori, il volto
dei politici. Perché è solo in quanto tali che i responsabili possono essere chiamati a
rispondere di un fallimento che porta alla distruzione di massa delle opportunità di vita,
alla disoccupazione, alle malattie, alla miseria sociale, alla disperazione.
Per le sue opinabili misure di salvataggio Angela Merkel ha coinvolto fin dall’inizio l’Fmi.
Questa dissoluzione della politica nel conformismo di mercato spiega tra l’altro
l’arroganza con cui i rappresentanti del governo federale tedesco – persone moralmente
ineccepibili, senza eccezione alcuna – rifiutano di ammettere la propria corresponsabilità
politica per le devastanti conseguenze sociali che pure hanno messo in conto
nell’attuazione del programma neoliberista. Lo scandalo nello scandalo è l’ingenerosità
con cui il governo tedesco interpreta il proprio ruolo di guida.
IL RUOLO TEDESCO - La Germania deve lo slancio della sua ascesa economica, di cui si
alimenta tuttora, alla saggezza delle nazioni creditrici, che nell’accordo di Londra del
1954 le condonarono la metà circa dei suoi debiti. Ma non si tratta qui di scrupoli
moralistici, bensì di un punto politico essenziale: le élite della politica europea non
possono più nascondersi ai loro elettori, eludendo le decisioni da prendere a fronte dei
problemi creati dalle lacune politiche dell’unità monetaria. Devono essere i cittadini, e
non i banchieri, a dire l’ultima parola sulle questioni essenziali per il destino dell’Europa.
E davanti all’intorpidimento post-democratico di un’opinione pubblica tenuta ove
possibile lontano dai conflitti, ovviamente anche la stampa dovrà fare la sua parte. I
giornalisti non possono continuare a inseguire come un gregge quegli arieti della classe
politici che li già li avevano ridotti a fare da giardinieri.
Pag 13 Il “contenitore” del Cavaliere che sta stretto all’altro Matteo di Stefano
Folli
Tra azzurri e lumbàrd sono in gioco le chiavi del centrodestra. Sullo sfondo la tentazione
del modello Brugnaro Pochi credono che Berlusconi possa essere oggi l'architetto di un
nuovo centrodestra. Ancora meno pensano che una simile ricostruzione passi da un
rapporto semi-esclusivo e tradizionale con Salvini: una specie di riedizione del 1994, con
il fondatore di Forza Italia nelle vesti del tessitore e il capo leghista nei panni del nuovo
Bossi. Il fatto è che Berlusconi tende a tornare al passato, ai tempi dei suoi successi; ma
in ventuno anni l'Italia è cambiata al punto che la Lega sta diventando un partito
"lepeniano" e quindi nazionalista, sia pure di un nazionalismo che esiste quasi solo al
Nord. E poi nell'era elettronica è bene fare attenzione alle parole. Il termine
"contenitore", usato nell'intervista al "Giornale", non è dei più felici. È perfetto per
suscitare le ironie del web, come è accaduto, ma non è utile per convincere Salvini a
entrare con i suoi voti, che sono tanti, nel misterioso pentolone dove andrebbe a
mescolarsi con i berlusconiani. In realtà si tratta di un tentativo di aggirare gli attuali
vincoli dell'Italicum. Poiché la legge non ammette le coalizioni, in attesa di cambiarla
l'unico modo é inventare una lista in cui fondere gli alleati, Forza Italia e Lega. Un
contenitore, appunto. Ma non è plausibile che Salvini accetti di ballare secondo la musica
suonata da Berlusconi. Restituire a quest'ultimo, in pieno 2015, le chiavi del
centrodestra, vorrebbe dire smentire tutto il percorso, certo controverso, fatto dal leader
neo-lepenista negli ultimi due anni. Percorso il cui postulato è uno solo: da Arcore non
verrà più nulla di positivo sul piano politico e dunque ci si deve avviare verso sentieri
inesplorati, nel segno del radicalismo anti-europeo. Non a caso persino Bossi, che ormai
non conta nulla nel Carroccio, è tornato a farsi sentire: con argomenti contrari a Salvini
e di fatto a sostegno di Berlusconi. Si capisce allora che l'imminente incontro a due non
darà risultati interessanti. È un'idea di Berlusconi per dimostrare di esserci ancora e per
non lasciare all'altro tutto lo spazio di Pontida. Ma Salvini non ha alcun interesse a
lasciarsi ingabbiare, ora che le elezioni - regionali e comunali - gli hanno dato buoni
risultati. Vero è che in prospettiva la destra dovrà riorganizzarsi: non solo in vista delle
politiche, ma anche del voto nelle grandi città, l'anno venturo. Tuttavia c'è tempo. Il
leghista non può rinunciare al suo messaggio e alla sua retorica. Un' intesa con
Berlusconi sarebbe autolesionista, a meno che non sia evidente che è Forza Italia a
trasformarsi in un partito vassallo della Lega. E nemmeno questo è plausibile. Berlusconi
ha ragione quando sottolinea - e lo dirà al suo interlocutore - che la Lega non è in grado
di espandersi al Sud. Ma Salvini ha dalla sua la perdita di credibilità del centrodestra
tradizionale. Il ventennio berlusconiano ha prodotto un "big bang". Gli elettori sono finiti
nella Lega, nell' astensione, parecchi nel mare dei Cinque Stelle. Ci sono coloro - non
così pochi - che sono rimasti fedeli al vecchio leader di Arcore. E qualcuno ha seguito
Alfano nel tentativo di presidiare una piccola area centrista. Tanti tasselli di un mosaico
da risistemare. Serve un personaggio nuovo, un profilo in grado di rappresentare la
sintesi di un centrodestra che non è più quello di vent'anni fa. Il caso di Venezia
dimostra che l'impresa è possibile con un nome non usurato. Ma scegliere un candidato
premier è più complicato che individuare un sindaco. Certo, Berlusconi e Salvini non
vorranno toccare adesso i temi di fondo. Forse non li affronteranno mai. Eppure, quale
dovrebbe essere la linea sull' Europa, sulla moneta unica? Berlusconi condivide la
posizione di Salvini sui migranti e la sua polemica con il Papa? In fondo, Forza Italia è
nel Ppe, la Lega con il fronte nazionalista. Non sempre la tattica può aggiustare tutto.
LA STAMPA
L’ideologia che condiziona i risultati di Mario Deaglio
Pensavamo che il rinvio sistematico delle decisioni politicamente scomode fosse una
prassi tipicamente italiana; dobbiamo constatare che sta rapidamente diventando una
prassi europea. E’ questa, infatti, l’ottava volta da febbraio che una riunione sul debito
greco, indicata come «decisiva» alla vigilia, si conclude con un rinvio. Una simile
lentezza su una questione nella quale le cifre in gioco, pur importanti, non sono colossali
pare dovuta a tre motivi diversi. Il primo è il «rischio finanziario», ossia il pericolo che il
debito greco provochi un effetto-valanga, travolgendo le banche (greche e di altri Paesi)
che detengono i titoli di questo debito. Il loro valore crollerebbe in caso di non
pagamento, il crollo coinvolgerebbe anche gli operatori che hanno nel loro portafoglio i
titoli di queste banche. Si innescherebbe una catena mondiale di forti ripercussioni
negative, come successe per la banca americana Lehman Brothers, con il pericolo di
nuova recessione mondiale. In realtà, questo rischio appare ben controllato perché la
maggior parte del debito greco è ora sottratta alle normali contrattazioni, essendo
detenuta da grandi istituzioni europee e internazionali che, pur con un segno meno in
bilancio, non sarebbero compromesse da queste perdite. La vera paura, che attanaglia
mercati e governi, è un’altra: visto il parziale condono alla Grecia del debito, altri Paesi
indebitati potrebbero mettersi sulla stessa strada. Perché il Portogallo, che sopporta,
senza contestare Bruxelles, misure economiche molto gravose, a causa dei suoi debiti,
dovrebbe continuare a essere «virtuoso», visto che un grande accordo sul debito greco
dimostrerebbe che la virtù finanziaria non paga? Perché, la Spagna - che tra qualche
mese potrebbe essere governata da Podemos - non dovrebbe opporsi alla continuazione
di pesanti misure di austerità? Questo rischio - che si può definire «rischio politico» non è facile da controllare e rende particolarmente inquieta un’Unione Europea che vede
aprirsi così, la strada della propria disgregazione. Per questo si sta facendo strada l’idea
che, anche nel caso di un’uscita della Grecia dall’euro, dovrebbe essere fissato l’obiettivo
del suo rientro: l’Unione Europea dovrebbe essere pronta, oltre ad accettare un
lunghissimo prolungamento del periodo di restituzione, anche a finanziare trasformazioni
produttive dell’economia ellenica, senza le quali, dentro o fuori dell’euro, l’economia
greca rimarrebbe disastrata. Il rischio che però intimorisce di più la comunità
internazionale è quello di cui si parla di meno e che potrebbe essere definito il «rischio
ideologico». Alcuni mesi fa, in diverse occasioni, il primo ministro greco, Alexis Tsipras,
definì come «ricatto alla democrazia» l’intimazione al suo Paese di restituire, alle date
concordate, quanto ricevuto in prestito. Affermando implicitamente che «la democrazia
passa davanti al debito», Tsipras ha sostenuto che uno stato democratico potrebbe
legittimamente non pagare, specie se i creditori sono banche straniere. Andando ancora
più in là, non manca chi sommariamente invoca la distruzione della ricchezza finanziaria,
che deriverebbe da una nuova crisi, e una «ripartenza da zero». In questo caso, la
Grecia potrebbe diventare la testa di ponte di un nuovo movimento mondiale per il non
pagamento del debito estero, finalizzato al superamento dell’attuale ordine economico.
Le potenzialità «sovversive» di questa posizione spiegano, tra l’altro, il tentativo del
cancelliere tedesco, Angela Merkel, di evitare a ogni costo uno scontro nel quale un
sistema di mercato come l’attuale, che si vanta di aver superato le ideologie, sarebbe
particolarmente vulnerabile. Nell’attuale crisi, solo alla minuscola Islanda è riuscito di
non pagare il debito, ma ha dovuto ugualmente accettare dure misure di austerità che
ne hanno rimesso in piedi l’economia. Prima dell’economia, però, il dilemma posto dalla
Grecia è una questione di grandi scelte preliminari, di ideologia, appunto. Nell’«Edipo
Re», una delle più importanti tragedie greche, rispondendo all’indovinello della Sfinge,
Edipo diede il via ad avvenimenti terribili e luttuosi. Per questo, finché può, a Bruxelles
si preferisce rinviare o rallentare, non rispondere agli indovinelli.
IL FOGLIO
Pag 1 La fuffa del pensiero unico, dal sesso al riscaldamento globale di Giuliano
Ferrara
Dietro le reazioni intolleranti al Family day c’è una nuova religiosità politicamente
corretta. E la chiesa ne è complice
Che il popolo di mamma e papà, come dicono per sfotterli di quei mattacchioni che
credono nella virtù della famiglia, fosse un popolo numeroso, questo è certo. E non è
molto importante la rissa sui numeri. C'erano, erano una marea. Punto. Che sia rilevante
l'avvenimento, che i manifestanti di Roma riescano a mettere la sordina non si dica a un
disegno di legge ma a una cultura radicalmente antifamilista, è da vedersi. La dottrina
che impone di considerare frutto di autodeterminazione lo status sessuale naturale di
uomo e donna dilaga in tutto il mondo, ha per sé il marketing delle emozioni, dei
desideri, dei diritti, agita le bandiere dell'uguaglianza e della lotta alle discriminazioni,
del rispetto della differenza, e questo malgrado la filosofia del gender o dell’indifferenza
sessuale sia il contrario esatto, l'opposto simmetrico, di questi princìpi. C'è già stato in
Francia e altrove un fenomeno genuino di rivolta e di testimonianza controcorrente, ma
è difficile dire se di lì si genererà qualcosa di durevole e influente. Due elementi però
spiccano e fanno certezza. Intanto il carattere intollerante delle reazioni di chi si fregia
con esclusivismo mal riposto dell'etichetta di laico e di progressista. I manifestanti di
San Giovanni sarebbero una retroguardia del pregiudizio, un'orda medievale (e
"medievale", come pensano indistintamente tutti gli ignoranti, vuol dire qualcosa di
malamente, qualcosa di oscurantista che resiste al bagno di luce e di buone pratiche e
felici pensieri che sono il prodotto dei tempi moderni), un'accozzaglia di odiatori
dell'altro, di spregiatori delle libertà civili, di nemici feroci del diritto a ricercare ciascuno
la sua felicità senza far male ad alcuno. I giornali e altri ricettacoli dell' opinione non
riescono ad argomentare con equilibrio, con la misura del dialogo che sempre invocano,
non riescono a pensare nemmeno un solo istante che ci sia ancora spazio per persone,
per gruppi e magari per folle immense che considerano con obiettiva e serena
avversione, e con preoccupazione, l'insegnamento scolastico del gender e il matrimonio
o la filiazione omosessuale. Devono essere per forza nemici dell'umanità, dell'evoluzione,
del progresso, della storia, delle idee giuste in sé e per sé, e delle pensioni di
reversibilità. Gente pericolosa, alleati delle peggiori fobie della destra internazionale,
gente alla quale tagliare la strada con divieti e legislazioni ricattatorie sui temi
dell'omofobia. L'altra cosa che colpisce è l'alleanza, ormai pacifica, tra questo ostracismo
sociale diffuso verso chi eccepisca dubbi non negoziabili sul carattere della più grande
svolta antropologica della storia umana, la parificazione giuridica e culturale dei sessi
ottenuta cancellandone la differenza naturale, e la chiesa gerarchica cattolica, colpita da
diffidenza, grave imbarazzo e come obbligata a una presa di distanza che segnali
l'arretratezza devozionale e di pensiero di queste formazioni sociali orientate alla
protesta. Un vescovo a Milano chiede scusa allo stato e ai media se un uomo di curia si è
permesso di domandare che cosa si studi nelle scuole in materia di amore, sesso,
riproduzione e identità sessuale, sarà sicuramente una insana curiosità di tipo
maccartista, una black list e che Dio ce ne guardi. Un altro vescovo, messo a guardia
dell'ovile episcopale italiano, sfida la credulità ingenua e inautentica dei militanti pro life
e li sbeffeggia per la loro contrizione di fronte alle pratiche abortive. Poi la gerarchia fa
un po' di attenzione, dirama qualche intervista benevola a cose fatte, e sanziona che in
fondo il mondo non è un paradiso e la folla di San Giovanni non era composta da diavoli,
bontà loro, ma questo dopo il fatto, post factum, e a sanatoria dello strano divorzio
dottrinale e di coscienza tra chiesa e fedeli, tra gerarchia e un pezzo almeno del popolo
di Dio. L'intolleranza confessionale delle reazioni e l'atteggiamento secolarizzatore e
supino della gerarchia sono i due elementi chiave che testimoniano il fatto nuovo e
inquietante. Altro che laicità, altro che libertà, altro che diritto eguale: dilaga una nuova
religiosità politicamente e civilmente corretta, va avanti un mondo nuovo nel quale
chiesa e establishment secolarista hanno deciso di riconoscersi fino in fondo,
conducendo pecorelle e citoyens in un unico ovile dove si biascica la fuffa del pensiero
unico, dal sesso al riscaldamento globale. Ed è un guaio serio.
IL GAZZETTINO
Pag 1 La svolta Ue per disinnescare la bomba di Giulio Sapelli
La situazione tra Grecia e Unione Europea ha decisamente assunto una nuova e
sostanziale configurazione. Le questioni ora dovranno prendere in considerazione gli
aspetti tecnici e non politici. Ed è stata la Merkel a dare il via a questa nuova filosofia e
gli altri, come Moscovici per esempio, più realisti del re, hanno emesso perfino un
lusinghiero giudizio positivo sulle proposte greche. Ecco la nuova atmosfera: i greci - si
dice - presentino pure tutte le loro proposte. Non c’è fretta. Occorre meditare e
rimeditare. L 'importante - mi pare si dica a bassa voce - è evitare qualsiasi
manifestazione di panico. Ma ben s'intenda: non tanto o non solo in Grecia, ma in primis
nelle cancellerie europee e ancor di più nelle opinioni pubbliche europee. Guai ora ad
alzare la voce, guai a incitare i greci ad abbandonare condotte "riprovevoli". Wolfang
Schaeuble è stato ripreso e bacchettato dalla sua Cancelliera. E anche gli esponenti dei
Paesi nordici hanno smorzato i toni. Del resto, la Finlandia è entrata in recessione e nubi
oscure si addensano anche sui Paesi baltici. Ma c'è di più: ci sono appunto le opinioni
pubbliche che possono trovare una saldatura con i governi spagnoli o portoghesi, per
esempio, scatenando il gioco dell’invidia e del risentimento nazionale. Ci sono nazioni
che i sacrifici li hanno fatti sul serio e ora vedono altri popoli, ossia i greci, che sembra
potrebbero farla franca. Sappiamo che la popolazione greca è allo stremo, ma gli
egoismi nazionali vanno di pari passo con le menzogne e le calunnie dei fautori dell’
austerità a ogni costo. La situazione potrebbe diventare esplosiva. Invece in Europa ora
nulla deve esplodere. Ecco la mia ”teoria dello sbadiglio” anziché del ”big bang”: tutto
deve smorzarsi, annacquarsi ed essere dimenticato. Sennò, insomma, che si dovrebbe
dire della Francia? Dell' Europa, "la Repubblique" se ne stropiccia: il "je m'en fous," è il
motto prediletto. Eppure la Francia è la sola, con la Germania, a negoziare i passaggi più
difficili del problema greco. Ecco allora la soluzione di cui si parla ormai apertamente:
non si decide nulla né ora né... troppo presto. Junker lo ha detto chiaramente: "I tecnici
devono lavorare sul piano greco e ci vorranno settimane". Ecco disinnescata la miccia, la
bomba grexit non esploderà. Tutti fermi, tutti calmi: è un problema tecnico e non
politico. Ecco la nuova versione e guai a chi racconta un'altra storia. Certo, dietro il
paravento c'è la questione dei rapporti con Putin, c'è la questione dei nuovi rapporti
nella Nato che gli Usa hanno sollevato chiedendo ai tedeschi un forte impegno militare
extra-europeo. Insomma un grande disordine e contraddittorie pressioni. Tutto si tiene
tuttavia perché il grande Vulcano, ossia Mario Draghi nella sua fornace continua a
lavorare tra i carboni ardenti. Infatti, in attesa del pronunciamento che dovrebbe
arrivare in settimana, la Bce si appresta a dare il via libera a un aumento della liquidità
d’emergenza disponibile per le banche greche di 1,3 miliardi, portando il meccanismo
"Ela" a 87,2 miliardi di euro. Così si può esaminare la proposta del premier greco Alexis
Tsipras. I tecnici della Bce, del Fmi e della Ue lavorano e analizzano. Ma senza fretta.
Siamo certi che ci penseranno per bene, tutto il tempo che riterranno necessario. Il
tempo idoneo a far ragionare i creditori e a smorzare le richieste, il tempo che viene
prima del sonno. Sarà un sonno angoscioso e pieno di incubi o un sonno liberatore?
LA NUOVA
Pag 1 L’infinita questione ateniese di Gilberto Muraro
«La soluzione è vicina», hanno dichiarato ieri gli esponenti dell’Eurogruppo; e la Borsa
ha festeggiato. Peccato che sia frase già sentita. Bisognerà davvero chiudere presto,
perché non ha senso lo stillicidio delle rotture e delle riprese che mantiene l’Europa e la
Grecia in un allarme continuo, mentre i mercati finanziari corrono sulle montagne russe.
Il confronto presenta ormai un intreccio così fitto di dati oggettivi e di tesi
opportunistiche, che è difficile dividere la richiesta seria da quella provocatoria. È bene
quindi tornare a riflettere sugli aspetti fondamentali della questione greca. Ci si avvede
allora che, nonostante le apparenze, il debito con l’estero non è il vero problema. Certo,
bisognerà che la Grecia restituisca la tranche al Fmi entro fine mese, ma l’Europa
potrebbe facilmente subentrare, se si trovasse l’accordo sul resto. Il grosso del debito è
con i Paesi europei e contempla già scadenze lontane e interessi molto bassi. Come ogni
saggio creditore che preferisce ristrutturare il credito piuttosto che perdere tutto,
l’Europa concederebbe facilmente ulteriori proroghe e minori tassi d’interesse se si
convincesse che la Grecia tornerebbe per tale via all’equilibrio della finanza pubblica.
Ecco il vero problema della Grecia: dimostrare che ha chiuso il lungo periodo di vita al di
sopra delle proprie risorse e che vuole realizzare un avanzo primario del bilancio
pubblico capace di consentire a tempo debito la graduale restituzione del debito, sia
pure in tempi più lunghi e a condizioni più favorevoli di quanto inizialmente pattuito. Un
altro punto da chiarire è che l’uscita della Grecia sarebbe un male politico e finanziario
per l’Eurogruppo, con una forte turbolenza sui mercati finanziari e un appannamento
delle figure di alcuni leader; ma un male riassorbibile in poche settimane. Tre ragioni a
sostegno della tesi: il pericolo di contagio sui mercati finanziari è molto minore rispetto
al 2010, perché gli altri Paesi mediterranei sono oggi ben più robusti di allora; la Grecia
conta solo per il 2% circa del Pil dell’Eurogruppo; la perdita del compagno di cordata
potrebbe presto essere considerata come il prezzo da pagare per avere una cordata più
coesa e veloce. Non così per la Grecia. L’uscita dall’euro significherebbe infatti una
immediata e forte svalutazione della dracma richiamata in vita, con un import più
costoso e un export più facile. Solo che, alla prova dei dati, l’export greco si è
dimostrato ben poco reattivo al prezzo, a differenza di quanto successo in Italia con le
varie svalutazioni competitive della lira negli anni Novanta. Il problema delle riforme
diventerebbe quindi ancora più necessario e ancora più doloroso. Ma questa oggettiva
convenienza economica della Grecia di restare nell’euro, ben più forte della convenienza
puramente politica per l’Eurozona di mantenerla dentro il gruppo, si scontra con
l’innegabile rivolta dei greci contro l’austerità imposta dalla Troika, che ha impoverito il
Paese e ha dato la vittoria a Tsipras su un programma che tutto prevede tranne una
finanza pubblica virtuosa. Siamo dunque alla paralisi perfetta, con Tsipras che non può
fare ciò che dovrebbe fare e con l’Europa che non può perdere del tutto la faccia? Non è
detto. La via di uscita consiste nel ribadire le regole a regime e nel concedere deroghe
transitorie, come per il paziente che va portato alla normalità tramite una lunga cura. In
pratica ciò significa per l’Europa chiudere temporaneamente con l’austerità e rilanciare
l’economia della Grecia con un prolungato programma di investimenti pubblici e di
sostegno dei redditi; e per la Grecia, rinunciare alle miracolistiche promesse elettorali e
riprendere con serietà la strada delle riforme: una cosa è stimolare i consumi con un
programma forte ma pur sempre temporaneo di sussidi, e altra cosa è mantenere
schemi pensionistici insostenibili o addirittura tornare ad aumentare l’impiego pubblico
già esuberante. Ogni altro accordo che venisse siglato pro bono pacis, sarebbe una
pseudosoluzione; e tempo qualche mese, saremmo di nuovo a dibattere di questione
greca.
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