Una bussola contro lo spaesamento

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UNA BUSSOLA CONTRO LO SPAESAMENTO
di Marcello Bianchi
Il senso di spaesamento
Il workshop del 25 giugno che ha aperto il ciclo di incontri del progetto Micromacro ha
significativamente messo in evidenza la necessità di disporre di strumenti e occasioni di riflessione
che aiutino i managers a ritrovare l’ orientamento perduto a causa del perdurare della crisi
economica e, per quanto possibile, a formulare ipotesi di soluzione.
Il workshop ha confermato, infatti, la forte presenza di un sentimento di spaesamento che sta
dominando, in questo periodo, lo stato d’animo di tutti, per la mancanza dei punti di riferimento
a cui tradizionalmente ci si ancorava, perché è difficile capire e semplificare una situazione
aggrovigliata sul piano economico e politico, perché non capendo diventa difficile trovare risposte
e vie di uscita, perché vediamo insidie e nemici ovunque e le speranze di superare il periodo
negativo in tempi brevi sembrano svanire e le attese diventano sempre più negative, alimentando
una crisi di sfiducia pericolosissima.
Mi sembra quindi utile ordinare le idee e le emozioni che l’incontro mi ha stimolato, con la
finalità di dare un contributo alla riflessione, in aggiunta a quelli, molti e importanti, che
dall’esposizione dei relatori e dal dibattito sono emersi nel corso del workshop, e con la speranza
di contribuire ad alimentare un dibattito che possa continuare nel tempo, tra un incontro e l’altro.
La ricerca degli alibi
Quando si vive un periodo di crisi, la reazione più comune che abbiamo è quella di trovare degli
alibi che attenuino il disagio e scarichino le responsabilità della situazione su altri. C’è sempre un
nemico da incolpare. E’ successo anche nel nostro incontro.
Il primo colpevole della situazione viene individuato nella “finanza mondiale”.
La lista delle recriminazioni nei confronti di questo mondo è ben nota:
 Il comportamento degli operatori finanziari.
L’origine della crisi viene posizionata al momento del fallimento della banca d’affari
americana Lehman Brothers e quindi al comportamento speculativo degli operatori
finanziari che lo hanno provocato. Costoro sono identificati nelle banche, in particolare
le investiment banks americane (che hanno messo sul mercato i prodotti della cosiddetta
finanza innovativa), negli hedge funds (cioè i fondi di investimento speculativi), nell’high
frequency trading (cioè quelle operazioni di compra e vendita di titoli effettuate da
algoritmi inseriti nei computers che, elaborando informazioni con velocità elevatissima,
riescono a conoscere in anticipo gli ordini dei brokers e condizionano, di conseguenza,
l’andamento del mercato, facendo guadagnare in pochi attimi molto denaro a chi le
attiva).
La componente speculativa dei mercati finanziari è talmente cresciuta che il mondo dei
derivati ha ormai un valore di circa 10 volte superiore a quello dell’economia reale,
facendo perdere alla finanza quel ruolo ancillare e di supporto che tradizionalmente
aveva, acquistando, di contro, una dimensione propria del tutto autoreferenziale.
1

Le valutazioni delle società di rating
Sono comprese nella categoria dei cattivi anche le società di rating, che con il loro giudizio
sul merito del credito degli stati e delle imprese a loro volta condizionano il
comportamento dei mercati, alimentando la speculazione. Sono, inoltre, accusate di
incompetenza e di conflitto di interesse per avere dato valutazioni che la realtà ha
smentito in tempi brevi (come per esempio le triple a assegnate ai titoli tossici della
LehmanBrothers)
 Il comportamento delle banche
Le banche che non hanno più i conti in ordine per la cattiva gestione delle proprie attività
operano restrizioni del credito nei confronti delle imprese che, quindi, non hanno più i
mezzi finanziari necessari per i loro programmi di risanamento e/o di sviluppo.
Inoltre, il management delle banche continua a guadagnare troppo e mantiene una
influenza fortissima sul potere politico.
Il secondo colpevole viene individuato nella insensibilità e negli egoismi di alcuni stati, per esempio
quelli dell’Europa del nord, Germania in primis, che non vogliono caricarsi dei problemi dei paesi
della periferia mediterranea. Questi ultimi, come noto, risentono della presenza di debiti sovrani
elevati e sono penalizzati dalla pressione speculativa dei mercati che provoca l’innalzamento del
costo del loro debito. Più in generale, si accusano i politici dei paesi europei di carenza di
leadership che impedisce loro di agire adeguatamente per ridurre l’impatto della crisi, sia con una
visione pragmatica di breve (per esempio dando maggiore autonomia alla Bce nell’azione di
supporto alle banche e agli stati in modo da far decantare la tensione su gli spread), sia con una più
lungimirante visione di lungo periodo (per esempio rendendo europeo il debito sovrano dei singoli
stati e nel contempo rafforzando le politiche comunitarie, sia fiscali che bancarie, oltre che le azioni
di controllo sulla gestione economica di ciascun paese membro).
Individuati i colpevoli subito dopo si invoca la presenza di “un potere forte” a livello mondiale, o
almeno europeo, che sia in grado di condizionarli attraverso la definizione di regole chiare e la
determinazione a punire chi non le rispetta.
Alcune verità scomode
La ricerca degli alibi è strettamente collegata, nell’animo umano, alla rimozione di verità che ci
disturbano e creano disagio. Le critiche sopra menzionate sono in buona misura condivisibili ma
servono a mettere in secondo piano criticità che sono ben note.
E’ vero, la crisi è stata scatenata dal comportamento scriteriato del modo della finanza,
comportamento che continua a persistere. La storia di BlackRock esemplifica egregiamente, a
nostro parere, questo aspetto. Blackrock , una realtà composita che opera nel mondo della finanza,
gestisce attività di investimento di fondi per un ammontare superiore ai 3700 mld di dollari, pari
cioè al Pil della Germania e dell’Italia, ha partecipazioni in società che offrono i prodotti della
finanza creativa e in altre che li comprano, ha una forte attività di consulenza sulla gestione dei
rischi che si basa sul supporto di “Alladin”, un sofisticatissimo tool di analisi e valutazione del rischio
che opera con sistemi esperti, ha partecipazioni consistenti nelle due principali società di rating
mondiali (Moodys e Standard&Poor), gestisce un fondo salva imprese attivato dal governo
americano per supportare le imprese in crisi, e il suo presidente, mr. Fink, è uno dei massimi
consiglieri del governo Obama sui temi finanziari. Si può ben comprendere il potere di questa entità
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e la capacità di condizionamento dei mercati che essa esercita a propri fini di guadagno o per altri
scopi più misteriosi.
Certo, la creazione dell’unione monetaria europea, senza la contemporanea attivazione di una
struttura centrale che, attraverso la gestione unitaria della fiscalità e dei sistemi bancari, governi
l’economia dell’Eurozona, senza una banca centrale che abbia l’autonomia di battere moneta e di
guidare la politica monetaria, e senza la costituzione di meccanismi di controllo delle effettive
politiche degli stati sovrani, è stato un grave errore di cui oggi paghiamo le conseguenze.
Il vero problema però è che i mercati finanziari speculano sulle situazioni di debolezza effettive
dell’economia reale, laddove esse sussistano. Un trader londinese scriveva recentemente ad un
collega italiano una e-mail in cui si poteva leggere questa frase:” diciamo pure che siamo un po’ più
cattivi dei famigerati hedge fund. Sai anche che puntiamo su titoli e strumenti molto liquidi, e su
paesi che non hanno grandi protezioni legali (vedi l’Italia con la Consob, ah, ah, ah). Da qualche
anno il vostro mercato permette queste movimentazioni, e chiaramente sull’Italia ci ha aiutato la
fusione con la nostra borsa di Londra. E sai bene che molte cose evidentemente le si vuole lasciare
come sono!! Lo so che facciamo uno sporco lavoro, ma il trading speculativo colpisce i paesi deboli,
ed è estremamente remunerativo……”. Volendo vederla in chiave positiva la morale di questa
storia è che gli speculatori esercitano, in maniera certamente interessata, pressioni affinché le
debolezze dell’economia reale vengano eliminate.
La verità è che la crisi di leadership internazionale dimostra che i singoli governi nazionali non
hanno la capacità di intervenire sui centri di potere trasversali della finanza mondiale, e che una
autorità suprema che possa governare un mondo globale e complesso, dove si scontrano in ogni
momento interessi divergenti di stati e di entità sovranazionali, sembra oggi impossibile .Ne è un
esempio, come è stato ben evidenziato nel workshop, la controversa idea di introdurre la cosidetta
Tobin tax, cioè una tassa sulle transazioni finanziarie con lo scopo di penalizzare la speculazione.
L’effetto di una introduzione parziale della tassa, limitato cioè all’Europa o addirittura ad alcuni stati
della stessa, come si sta ipotizzando (a causa del fatto che alcuni stati importanti, a partire dagli
USA e dalla Gran Bretagna,non la vogliono per non penalizzare la propria industria finanziaria) può
avere solo effetti negativi per chi la introduce, spostando i flussi finanziari dai mercati che la
subiscono a quelli in cui non viene applicata.
La crisi di leadership politica a livello mondiale impedisce anche di cambiare i paradigmi di pensiero
e sparigliare con politiche che non siano solo di rigore ma soprattutto di rilancio dell’economia.
Barbara Spinelli ha opportunamente ricordato in un articolo pubblicato su La Repubblica come
l’incaponirsi sulle politiche restrittive di riduzione della spesa e di imposizione fiscale rispecchi
fedelmente ciò che successe nel 1929 , quando il presidente Hoover con una impostazione simile
riuscì a peggiorare la gravità della recessione. Anche Robert B. Reich, un economista americano
fuori dal coro, ha evidenziato con chiarezza nel suo libro “Afterscock” il terribile parallelismo tra la
situazione del 1929 e quella odierna in termini di concentrazione del reddito (l’1% più ricco degli
americani deteneva nel 2007 oltre il 25% del reddito, come nel 1929), suggerendo alle autorità
americane politiche tese a favorire le condizioni per attivare un nuovo patto con il ceto medio che
ridistribuisca il reddito verso quest’ultimo, unica condizione per avere consumi di massa capaci di
dare nuovo slancio alla crescita ( con questo libro Reich ha fornito il supporto teorico al movimento
“Occupy Wall street”).
La realtà è che, come è stato egregiamente ricordato nel workshop, l’elevato debito dell’Italia non è
una invenzione dei mercati ma la conseguenza di sconsiderate politiche di crescita, che il paese ha
subito per trent’anni. In sostanza, abbiamo vissuto al di sopra della nostra reale capacità di creare
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reddito, scaricando sulle generazioni successive l’onere di pagare questa errata politica. La
situazione economica internazionale che nel frattempo si è venuta manifestando ha messo in
evidenza questa criticità. L’illusione che le economie occidentali siano in grado di crescere
ininterrottamente a ritmi elevati, permettendo agli stati indebitati di restituire il debito, sembra
definitivamente svanita. Adesso gli stati indebitati, non potendo più fare leva sulla crescita del Pil,
sono costretti ad attivare il più rapidamente possibile riforme strutturali del sistema economico e
politico che consentano di recuperare adeguati livelli di produttività e la fiducia dei mercati
finanziari e che consentano di smussare le posizioni dei paesi “virtuosi” contrarie alla
“socializzazione europea” del debito.
La Germania, si è sempre ricordato nel workshop, ha capito in tempo la necessità di rimuovere le
cause della stagnazione che negli anni novanta l’aveva indebolita, ed ha operato, in maniera
condivisa a livello sociale, una serie di riforme che le permettono, oggi, di avere quella posizione
dominante che tanto indispettisce i paesi della periferia europea. Gli Usa, invece, non hanno avuto
lo stesso coraggio, nonostante alcuni tentativi dell’amministrazione Obama, e le preoccupazioni che
questo ritardo li penalizzi è molto diffusa, anche se quel paese, più dell’Europa, gode della fiducia
dei mercati, grazie, in particolare, alla forza del dollaro e alla possibilità del governo centrale di
utilizzare adeguatamente le leve della politica economica e monetaria.
Cosa ci aspetta? Quali sono gli scenari futuri possibili?
Eliminare gli alibi e prendere consapevolezza delle verità scomode è una buona partenza per
costruire il futuro, così come lo è la continua consapevolezza dell’andamento della situazione,
operazione quest’ultima egregiamente supportata dal dashboard che viene pubblicato dal Cfmt in
occasione di ogni workshop.
Ma i managers che gestiscono le imprese hanno bisogno di capire non solo l’andamento storico dei
fenomeni macroeconomici ma anche la loro evoluzione prospettica, in modo da poter orientare le
scelte aziendali di breve e di lungo periodo.
Soddisfare questa necessità è complicato, non tanto perché non siano disponibili documenti che
illustrano possibili scenari futuri, quanto per il fatto che mai come oggi l’esercizio di previsione è
difficile per la incapacità dei governi di trovare posizioni comuni e condivise di gestione della crisi (la
citata assenza di leadership) e la conseguente enorme volatilità che i mercati finanziari
manifestano, e per l’intreccio e la reciproca influenza di troppe variabili concomitanti. Ne è
evidente esempio lo scenario predisposto dalla Confindustria alla fine del 2011. Esso prevedeva un
2012 giudicato compromesso per l’Eurozona e segnalava che la sfida era la capacità di preparare
con rapidità le condizioni per poter ipotizzare una inversione di tendenza già nel terzo trimestre del
2012. Il documento indicava che si era ad un bivio netto: da una parte si poteva ipotizzare un
rientro in tempi brevi dalle tensioni sui titoli sovrani e dalla conseguente cessazione delle restrizioni
sui crediti alle imprese, dall’altra, invece, si poteva prevedere di proseguire sulla strada delle
tensioni e delle incertezze. La Confindustria sceglieva fiduciosa la prima strada e prevedeva quindi
un ritorno dello spread btp bund a valori più consoni, con una previsione di posizionamento dei
tassi dei BTp decennali sotto il 5%. In queste condizioni il documento prevedeva una caduta del
valore medio del PIL italiano, per il 2012, pari a 1,6% e una ripresa per il 2013, con un incremento
medio dello 0,6%.
E’ di pochi giorni fa l’aggiornamento di questo scenario con previsioni assai più negative: si ipotizza,
infatti, una caduta del Pil medio per il 2012 pari al 2,4% e un tasso di disoccupazione del 12,4 %
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invece che del 9,%, a causa del permanere, per tutto il primo semestre dell’anno, delle tensioni sui
mercati finanziari e del conseguente elevato costo del debito. Sarebbe interessante sapere quale
sia adesso la valutazione degli economisti di Confindustria sull’andamento del PIl dopo l’accordo
maturato nel Consiglio Europeo della settimana scorsa. Ipotizzano un ritorno a un tasso di
decremento del 1,6% o sono ancora pessimisti? L’accordo, come noto, dovrebbe portare all’
attivazione di misure capaci di sganciare la ricapitalizzazione delle banche dal debito sovrano
(dando nel contempo maggiore potere di controllo alla Bce) e di attenuare significativamente le
tensioni su gli spread dei paesi che sono oggetto dell’attenzione dei mercati finanziari (attraverso
l’utilizzo dei fondi europei -efsf e esm- che peraltro non hanno, al momento, sufficiente
capitalizzazione).
Tutti gli scenari formulati recentemente dal Fondo Monetario Internazionale, dalla Banca d’Italia,
da Prometeia e dagli Uffici studi delle principali banche, pur nella diversità dei dettagli, causata non
solo dalle difficoltà già ricordate ma anche dal fatto che le previsioni sono espresse in periodi
diversi e quindi con aggiornamenti non simultanei, concordano, comunque, sul fatto che nel breve,
la tanto invocata crescita non ci sarà o sarà molto contenuta. Il Pil dell’Eurozona, dovrebbe
decresce dello 0,3%, secondo la Banca d‘Italia, o dello 0%, secondo Banca Intesa. La crescita negli
Usa ci sarà ma in maniera contenuta (+ 2% il PIL, secondo la Banca d’Italia e Banca Intesa ), mentre
è prevista più elevata, ma comunque in diminuzione rispetto all’anno precedente, nei cosiddetti
paesi emergenti (il loro Pil crescerà mediamente del 5,1/4 %, secondo il Fondo Monetario
Internazionale).
Cosa succederà in una prospettiva di lungo periodo? Nessuno scenario lo dice,ma il sentimento di
molti operatori industriali e finanziari è che, almeno per l’area economica occidentale, la ripresa a
partire dal 2013, se ci sarà, avrà dimensioni molto contenute. Concentrando l’attenzione sull’Italia,
si ritiene che la sua crescita difficilmente supererà l’1% medio anno, valori che, peraltro, non
tengono conto della grande incognita di cosa succederà a livello politico al termine del mandato del
governo Monti.
La principale valutazione che i managers possono trarre da queste ipotesi è che la crescita come
l’abbiamo conosciuta nei decenni precedenti molto probabilmente non si verificherà più, e
occorrerà quindi orientare, ancor di più che nel recente passato, l’attenzione su quelle aree del
mondo dove invece potrà manifestarsi con maggiore intensità.
Che cosa si può fare?
Quest’ultima considerazione ci porta a ragionare sul fronte delle possibili soluzioni di uscita dalla
crisi.
Quali soluzioni si possono immaginare per governare la crisi sul fronte dell’economia nazionale.?
Per quanto riguarda l’Italia, la precedente valutazione di probabile bassa crescita del PIL nel lungo
periodo porta alla logica conseguenza che per rimettere ordine nel debito sovrano non possiamo
contare in maniera determinante sulla leva della crescita ma occorre continuare sulla strada delle
riforme strutturali tese a favorire l’apertura dei mercati, l’aumento della produttività e dell’efficacia
nella pubblica amministrazione e la rapidità della giustizia, a creare le condizioni per l’innovazione,
la riduzione del carico fiscale e la ripresa dei consumi.
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In questa ottica la cosiddetta “spending review” diventa un obiettivo rilevante. Al riguardo mi
sembra particolarmente interessante il contributo formulato sulle pagine del Corriere Economia da
Nino Lo Bianco, un noto consulente di management, che suggerisce di attivare modalità più efficaci
dei previsti tagli finalizzati all’efficienza (riduzione dei costi a parità di output). Lo Bianco propone,
invece, di lavorare sul piano dell’efficacia della spesa pubblica e quindi sul rapporto spesa/risultato,
operando con il vecchio e sperimentato approccio dello “Zero based budgeting”, che fu
determinante negli anni ottanta per il risanamento di molte aziende.
Infine, mi piace ricordare che quando le aziende sono fortemente indebitate il management ricorre
,se può, ad azioni consistenti di riduzione del debito attraverso la vendita di assets, iniziando da
quelli non strategici, e, se non basta, attivando azioni di ristrutturazione, in accordo con le banche.
Gli stati possono agire nello stesso modo. Idee al riguardo sono state proposte da più parti e per il
momento l’azione del governo sembra si stia orientando verso la cessione del patrimonio pubblico,
ma con risultati ancora da conquistare.
E le imprese quali strade possono percorrere per uscire dalla crisi vive e più solide di prima?
Questo è il tema che interessa maggiormente i managers, e ritengo che su di esso si debba, in
particolare, sviluppare il dibattito nell’ambito del progetto Micromacro. Espongo, quindi, di seguito
alcune riflessioni come contributo per alimentare la discussione.
La crisi ha impattato sulle imprese in maniera non uniforme.
Quelle che hanno sofferto maggiormente sono state le piccole e medie imprese focalizzate
esclusivamente sul mercato domestico, che tanto ha risentito della caduta dei consumi, e
condizionate dalla restrizione del credito. Come ha messo in evidenza anche il dashboard di
Micromacro, l’unica variabile macroeconomica che continua a presentare variazioni positive è la
domanda estera che ha favorito le esportazioni, molto concentrate però sui paesi emergenti che
non sono facili da raggiungere da parte delle nostre piccole imprese. In questa situazione, l’area più
critica risulta essere il comparto dei servizi e, più in generale. del terziario, dove la spinta alla
concorrenza è stata in passato meno forte. Molte aziende manifatturiere invece, più esposte alla
concorrenza internazionale di quelle del terziario, hanno, ai primi sentori della crisi, messo in atto
azioni importanti di ristrutturazione del modello di business, orientando le azioni di crescita verso i
mercati dei Brics, non solo in termini di esportazioni ma anche di presenza locale, puntando
sull’innovazione di prodotto e servizio, sulla maggiore qualificazione delle risorse umane e, più in
generale, sulle competenze distintive che sono state capaci di creare nel tempo.
Tra i tanti esempi che si possono fare mi pare interessante citare una recente indagine del Corriere
Economia che riporta le storie di successo di alcune aziende che operano in comparti tradizionali e
maturi, come il tessile, le calzature, i componenti per l’edilizia, le gioiellerie e le ceramiche. Ognuna
di queste aziende ha costruito il successo puntando su almeno uno di questi fattori:
 l’innovazione di prodotto,
 la capacità di servire adeguatamente nella propria filiera i grandi brand,
 l’investimento in tecnologia (per esempio nelle stampanti a tre dimensioni che favoriscono
le economie di scala abbinandole alla personalizzazione della proposta di valore),
 l’investimento nelle reti commerciali e distributive,
 l’investimento in attività produttive localizzate nei mercati in crescita,
 lo sfruttamento delle competenze dei distretti, giocate, però, in simbiosi con una struttura
capace di vendere i prodotti in molti mercati,
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 l’impegno, anche finanziario, di proprietà lungimiranti.
La ricetta per difendersi dalla crisi è, ovviamente, diversa da situazione a situazione ed è nella
responsabilità del management e degli imprenditori identificarla e realizzarla. Una classe dirigente
capace non si aggrappa a facili alibi, pur contribuendo positivamente a generare il consenso verso
azioni in grado di incidere sulle situazioni di carenza strutturale del sistema economico e finanziario,
ma trova in se stessa la forza e le idee per costruire un futuro più tranquillo.
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