Capitolo 3 I bipoli e le loro caratteristiche In questo capitolo ci si occuperà delle caratteristiche dei diversi bipoli che progressivamente introdurremo in maniera che possiate familiarizzarvi, poco a poco, con i più comuni tra essi, riconoscerne i simboli ed abituarvi a ‘maneggiarli’ (per ora ... soltanto con la mente ... per motivi di sicurezza fisica). Ricollegandoci a quanto detto nel capitolo precedente, le LK ci consentono, per una qualsiasi rete di bipoli costituita da ‘r’ lati, di scrivere ‘r’ equazioni indipendenti, alcune ai nodi, altre alle maglie. Dal momento che risolvere una rete vuol dire conoscere le correnti e le tensioni in ogni lato, che sono ‘2r’, è necessario scrivere altre ‘r’ equazioni indipendenti che, assieme alle LK, ci diano la possibilità di portare a termine questa missione. Inoltre, dato che le LK sono proprietà topologiche, cioè dipendenti dal solo grafo della rete e non dalla natura dei bipoli posti in ciascun ramo, le ulteriori informazioni che bisogna aggiungere sono relative proprio alla natura dei bipoli presenti in ciascun ramo. Il concetto di caratteristica ci darà la possibilità di specificare questa natura e di completare, almeno concettualmente, l’operazione di risoluzione della rete. 3.1 Caratteristica di un bipolo La caratteristica di un bipolo è il legame funzionale che collega la tensione e la corrente ai suoi capi. Indipendentemente dalla convenzione adottata, essa può, in maniera astratta, essere rappresentata come un certo legame funzionale che collega le variabili che descrivono il comportamento elettrico del bipolo ed alcune loro derivate. Formalmente si può scrivere come una legame tra tensione, corrente e le loro derivate F t , v , i , dv , di , dt dt =0. Nello scrivere la funzione ‘F’, abbiamo indicato le diverse grandezze senza riportare esplicitamente la dipendenza dal tempo, allo scopo di semplificare la notazione adoperata. Detto in questi termini, la caratteristica di un bipolo rappresenta un legame, che può essere di tipo algebrico e/o differenziale, tra la tensione e la corrente che, scritto nella forma implicita riportata, risulta piuttosto 2 − I bipoli e le loro caratteristiche difficile da utilizzare: evidentemente, nella pratica, esso si ridurrà a delle forme più o meno trattabili e/o esplicitabili. Ad esempio, se il legame non dipende esplicitamente dal tempo, il bipolo si dirà tempo - invariante e la precedente relazione diventa: F v , i , dv , di , dt dt =0. Se poi si elimina pure la dipendenza dalle derivate di qualsiasi ordine, la relazione viene detta caratteristica statica e si riduce alla più semplice F v,i =0. Quando è possibile scrivere la caratteristica statica in forma esplicita, in funzione della tensione oppure della corrente, nel qual caso il bipolo è detto ‘diniano’, si possono presentare due casi: a) la caratteristica assume la forma v = r(i) , ed in tal caso il bipolo si dice controllato in corrente, poiché ad ogni corrente corrisponde certamente un’unica tensione, ma non è detto che sia vero il viceversa; b) la caratteristica assume la forma i = g(v) , ed in tal caso il bipolo si dice controllato in tensione, poiché ad ogni tensione corrisponde certamente un’unica corrente, ma non è detto che sia vero il viceversa. Da quanto detto in precedenza si deduce che un bipolo può essere classificato come lineare oppure non lineare se tale è il legame caratteristico che collega tra loro tensione e corrente (ed eventualmente le loro derivate). A titolo di esempio, si riporta, in Figura 3.1, la caratteristica statica di un bipolo non lineare: questo bipolo, sul quale è stata fatta la convenzione dell’utilizzatore, è conosciuto come diodo a giunzione ed occupa un posto importante nella moderna Elettronica. La non linearità del legame tra la tensione e la corrente è evidente dal grafico della caratteristica, che può essere analiticamente espressa dalla relazione i = IS exp v -1 , η VT 3 − I bipoli e le loro caratteristiche in cui IS è un parametro, detto corrente inversa di saturazione, che rappresenta la corrente che attraversa il dispositivo quando esso è sollecitato da una forte tensione negativa lim i = - IS ; v→-∞ η dipende dal tipo di materiale semiconduttore con cui è realizzato il diodo e vale approssimativamente 1 per diodi al germanio, 2 per quelli silicio; VT, infine, è l’equivalente in tensione della temperatura ed è pari a VT = T , 11660 con T temperatura assoluta del dispositivo. A temperatura ambiente (T ≅ 293 K), VT ≅ 25 mV. Notiamo incidentalmente che si tratta della caratteristica statica di un bipolo controllato sia in tensione che in corrente. i IS 0 v Figura 3.1: caratteristica statica di un diodo. Nei prossimi paragrafi forniremo esempi concreti di bipoli e discuteremo in dettaglio le loro caratteristiche. Prima, però, di approfondire con degli esempi il concetto di caratteristica, vale la pena di introdurre il concetto di ‘bipolo equivalente’ che, oltre ad essere un valido aiuto nella risoluzione delle reti, rappresenta anche un potente strumento di pensiero. • Bipolo equivalente Immaginiamo di avere a disposizione un certo numero di bipoli, collegati tra di loro in maniera qualsiasi. È bene sottolineare che abbiamo bisogno di elementi di 4 − I bipoli e le loro caratteristiche connessione tra i morsetti, che negli schemi grafici rappresenteremo con dei tratti di linea, che uniscono i bipoli (in fondo, si tratta di semplici cortocircuiti, come specificheremo meglio nel seguito). Nella pratica, essi saranno realizzati con conduttori ad elevata conducibilità, tipicamente in rame. i(t) A + v(t) B − i(t) A Bipolo equivalente B + v(t) − Figura 3.2: generica rete elettrica. Consideriamo una rete di bipoli qualsiasi, come, ad esempio, quella mostrata in Figura 3.2. Nella rete, abbiamo evidenziato due nodi (A e B) in corrispondenza dei quali si può applicare una certa tensione v(t) ed inviare una corrente i(t). Dato che l’intera rete, ‘vista dai morsetti A e B’, può pensarsi come un unico bipolo, è chiaro che tra la tensione v(t) e la corrente i(t) sussiste un legame che dipenderà dalla natura dei singoli bipoli che compongono la rete e dal modo in cui essi sono collegati tra loro. Tale legame costituisce la caratteristica della bipolo visto dai morsetti A e B. Ora, è chiaro che, se al posto della intera rete terminante con i morsetti A e B, mettiamo un unico bipolo, che abbia proprio la stessa caratteristica del bipolo AB, il resto della rete non ha modo di accorgersi della sostituzione, e tutte le correnti e le tensioni negli altri rami della rete restano inalterate. Per questo motivo, diremo che la rete iniziale, vista dai morsetti AB, ed il nuovo bipolo sono fra loro equivalenti. Riassumendo, diremo che due bipoli, comunque costruiti al loro interno, sono equivalenti quando presentano la stessa caratteristica. Resta inteso che l’equivalenza si limita a ciò che accade al di fuori di questi bipoli, poiché al loro interno essi restano comunque diversi. 5 − I bipoli e le loro caratteristiche Emerge, allora, con chiarezza che, ogni volta che parliamo di bipolo equivalente a una rete, è indispensabile precisare (a meno che non sia evidente) due cose: da quali morsetti si deve considerare la rete; che il bipolo equivalente può sostituire la rete soltanto per gli effetti esterni (dato che ha la stessa caratteristica), ma non può fornire alcuna indicazione su quanto accade all’interno della rete sostituita. • Parallelo e serie di bipoli Nel primo capitolo, si è già visto che, dati due bipoli, ci sono solo due tipi di collegamento realizzabili, e sono mostrati in Figura 3.3. Il primo collegamento prende il nome di collegamento in parallelo, il secondo di collegamento in serie. (a) (b) Figura 3.3: (a) parallelo e (b) serie di bipoli. Per entrambi vogliamo determinare, note le caratteristiche dei due bipoli componenti, la caratteristica del bipolo equivalente. Esaminiamo separatamente i due casi. Consideriamo il parallelo di due bipoli, come indicato in Figura 3.4. I morsetti del primo bipolo sono A e B; quelli del secondo C e D. Applichiamo la LKT alla maglia ABCD: - v 1 + v2 = 0 → v 1 = v2 . L’elemento caratterizzante un collegamento in parallelo consiste, dunque, nel fatto che i due bipoli sono soggetti alla stessa tensione v1 = v2 = v. Per comprendere in che modo possa ottenersi la caratteristica del bipolo equivalente, riferiamoci, con le convenzioni di segno indicate, ancora alla Figura 3.4 e consideriamo le caratteristiche dei due bipoli. In base alla LKC applicata a una superficie gaussiana che contenga i due nodi A e C (oppure B e D) ma tenga 6 − I bipoli e le loro caratteristiche fuori il nodo E (oppure F), la corrente che attraversa il bipolo equivalente è pari alla somma delle correnti che circolano nei bipoli 1 e 2. v1 A + − B i1 i2 E C + v2 i = i1 + i2 i F E + − D v − F Figura 3.4: due bipoli in parallelo. Dunque, per ottenere la caratteristica del bipolo equivalente basta sommare le correnti dei due bipoli in parallelo che corrispondano alla tensione considerata. Consideriamo, ora, due bipoli collegati in serie, come mostrato in Figura 3.5, ed applichiamo la LKC al nodo B - i 1 + i2 = 0 → i 1 = i2 . L’elemento caratterizzante il collegamento sta dunque nel fatto che i due resistori sono attraversati dalla stessa corrente. i1 E + v F − i2 A + v1 − B≡C + v2 − D i = i1 = i2 E F + v − Figura 3.5: due bipoli in serie. Anche questa volta, considerando un nuovo bipolo i cui morsetti siano E ed F (Figura 3.5), chiediamoci quale sia la caratteristica di questo nuovo bipolo. La LKT alla maglia tratteggiata in Figura 3.5, essendo i la corrente che attraversa entrambi i bipoli 1 e 2, quindi anche il bipolo equivalente, suggerisce che, per ottenere un qualsiasi punto della caratteristica del bipolo equivalente, basta sommare le tensioni sui bipoli 1 e 2 in corrispondenza della corrente considerata. 7 − I bipoli e le loro caratteristiche • La ‘targa’ di un bipolo Un fatto pratico che è utile che sappiate subito ( ... e non dimentichiate mai) è che ogni bipolo reale possiede una sua ‘targa’, sulla quale sono riportate le informazioni principali che servono a farlo funzionare nelle condizioni migliori (si dice, in gergo, ‘in condizioni nominali’). Questa targa può essere fatta in diversi modi: a volte, è una vera e propria etichetta applicata al bipolo; altre, è semplicemente scritta direttamente sull’involucro del bipolo; altre ancora, è fatta da una specie di ‘codice a barre’, del tipo di quelli segnati per i prezzi sui prodotti dei supermercati. Tutto questo, però, è evidentemente poco importante: quel che conta è che, sul bipolo, siano segnati i suoi specifici ‘dati di targa’. Vediamo quali sono di solito questi dati, e perché sono necessari, cominciando, come al solito, con un esempio semplicissimo: quello di una comunissima lampadina. Bene, se guardate con un po’ di attenzione (di solito in cima al bulbo di vetro), riuscirete a leggere, ad esempio: 220 V e 100 W, oppure 220 V e 60 W. Cosa ci dicono questi dati? Semplice: che la prima lampada per funzionare al meglio deve essere collegata a una tensione di 220 V. Il secondo dato, quello sulla potenza, ci fornisce anche un’altra informazione: quando alla lampada viene applicata la d.d.p. di 220 V, la potenza elettrica che essa assorbe è di 100 W. Se, infatti, usassimo una tensione minore, diciamo 100 V, la potenza elettrica assorbita dalla lampada sarà sicuramente minore di 100 W. Segue che la lampada praticamente non si accende in queste nuove condizioni (o, comunque, emette una luce fiochissima). Verrebbe fatto allora di dire: applichiamo alla lampada una tensione maggiore di 220 V, in modo che la potenza elettrica assorbita sia maggiore di 100 W e la lampada faccia ‘più luce’. Certamente sì; ma c’è un difetto. Per far più luce, il filamento della lampada dovrà ‘salire’ a una temperatura più alta di quella prevista dal costruttore; dopo poco tempo, il filamento si rompe ... e la lampada è da buttare via. Ecco, allora, cosa vuol dire far funzionare un bipolo nelle ‘condizioni nominali’, corrispondenti ai suoi dati di targa: farlo funzionare in modo che, nel caso della lampada, la luce sia quella desiderata, né di più, né di meno, e duri il più a lungo possibile. Quanto finora detto per il caso della lampadina, vale in realtà per qualsiasi bipolo. Possiamo verificarlo, andando a leggere la targa, per esempio, di una lavabiancheria, una lavastoviglie, un ventilatore. Vedremo che, in tutti i casi, la ‘targa’ del bipolo riporterà i valori nominali di tensione e di potenza elettrica, oltre ad altri ancora, che spiegheremo più avanti. Ma, per ora, quello che vi abbiamo detto sulla targa di un bipolo ... può bastare. 3.2 Resistori 8 − I bipoli e le loro caratteristiche In questo paragrafo, senza pretendere di dare alcuna completa spiegazione fisica dei cosiddetti fenomeni di conduzione elettrica, è opportuno fare almeno un cenno brevissimo che faciliti nella comprensione del funzionamento di quei particolari bipoli che vanno sotto il nome di resistori. • La caratteristica A questo scopo, si ricorda che i corpi materiali si comportano in maniera differente quando sono soggetti a fenomeni elettrici. Tra i costituenti elementari della materia, vi sono particelle cariche elettricamente: elettroni e ioni. Queste cariche, specialmente gli elettroni, sono più o meno legate alla struttura del corpo materiale e, quindi, più o meno libere di muoversi, a seconda della natura dei diversi corpi materiali. Sotto l’azione di una differenza di potenziale oppure di altre forze, le cariche ‘libere’ si muovono, dando luogo ad una corrente elettrica. Da questo punto di vista e con una classificazione per il momento solo grossolana, si può inserire ogni materiale in una scala che vede ad un estremo l’isolante perfetto, un materiale in cui non ci sono cariche libere, o, se presenti, sono del tutto impedite nel loro moto, ed all’altro estremo il conduttore perfetto in cui le cariche, presenti in gran numero, sono completamente libere di muoversi. Il vuoto, per esempio, fin tanto che rimane tale, è certamente un perfetto isolante, mentre un corpo metallico, il rame, per esempio, portato a bassissima temperatura, può essere considerato una buona esemplificazione di conduttore perfetto. Nei materiali metallici, o conduttori di prima specie, le cariche responsabili della corrente sono gli elettroni più esterni degli atomi che costituiscono il materiale stesso. Questi elettroni, debolmente legati ai rispettivi atomi, formano in effetti una specie di nube elettronica che, sotto l’azione di una differenza di potenziale, si mette in moto e produce una corrente. Per un gran numero di conduttori e per un campo di variabilità dei parametri in gioco discretamente ampio, sussiste una relazione di proporzionalità tra la d.d.p. applicata e la corrente prodotta: a questa relazione di proporzionalità viene dato il nome di legge di Ohm. È questa proprio la famosa ... legge di Ohm, che, per l’epoca in cui fu scoperta, i primi decenni del XIX secolo, ebbe meritatissima fama. Ora, però, che le cose possono essere riguardate in prospettiva storica, si comprende meglio che essa gioca, in realtà, il ruolo di una importante caratteristica statica, valida per certi tipi di bipoli, ma non certo quello di una legge generale valida per tutti i circuiti, come è invece il caso della LKC e della LKT. Ciò detto, si torni alla legge di Ohm per illustrarne l’enunciato più chiaramente possibile. Si supponga, allora, di avere un corpo conduttore, schematicamente rappresentato in Figura 3.6, e di individuare sulla superficie che lo racchiude due punti, fra i quali si applica una d.d.p. ‘v(t)’. 9 − I bipoli e le loro caratteristiche (a) + (b) v(t) i(t) v(t) = R i(t) − i(t) + i'(t) v(t) − i'(t) v(t) = - R i'(t) Figura 3.6: la legge di Ohm (a) secondo la convenzione dell’utilizzatore e (b) del generatore. Si supponga, inoltre, di essere in grado di far circolare nel corpo una qualsiasi corrente ‘i(t)’. Una volta fissati i punti di accesso della corrente, il moto delle cariche all’interno del corpo si svilupperà in una ben precisa maniera che non è necessario, però, in questa fase, specificare in maggior dettaglio. Se, in queste condizioni, si immagina di applicare agli stessi punti, diverse differenze di potenziale e si misurano le correnti che ne derivano, si avrà modo di verificare che, raddoppiando la tensione, raddoppia la corrente, dimezzando la tensione, dimezza la corrente, e così via; si ha, cioè, utilizzando, come in Figura 3.6a, la convenzione dell’utilizzatore v(t) = R i(t) , con R ≥ 0. Alla costante di proporzionalità R, che nel Sistema Internazionale si misura in ohm (Ω), viene dato il nome di resistenza del corpo in esame, quando alimentato nella maniera indicata. Questa precisazione è necessaria perché a voler essere proprio pignoli, il valore della costante R, in generale, cambia se cambiano i due punti di applicazione della d.d.p., così come cambia ancora, se, invece di due punti ideali pensiamo a due superfici attraverso le quali la corrente viene portata e prelevata; in questo caso R dipende anche dalla forma ed estensione di tali superfici, dette elettrodi. Per questo motivo ci si rende indipendenti dalla forma degli elettrodi supponendoli, in una situazione ideale, addirittura puntiformi. Per il momento, comunque, tutto questo può essere trascurato dicendo che il corpo ha una sua ben precisa resistenza, non negativa. Dalla relazione riportata, deriva subito che un resistore ha una resistenza pari a 1 Ω quando, ‘alimentato’ ai morsetti con una tensione di 1 V, è percorso da una corrente di 1 A. Naturalmente la stessa legge di proporzionalità può essere espressa nella forma equivalente i(t) = G v(t) , 10 − I bipoli e le loro caratteristiche dove la grandezza G = 1/R prende il nome di conduttanza ed è misurata in siemens (S), anch’essa positiva, tutt’al più nulla. Nella letteratura tecnica anglosassone, l’unità di misura della conduttanza è il ‘mho’, che è nient’altro che la parola ‘ohm’ scritta al contrario. Vale la pena chiedersi come camba, nella forma, la legge di Ohm, se si adotta, per il resistore, la convenzione del generatore, invece di quella dell’utilizzatore. Un momento di riflessione fatta sulla figura 3.6, osservando che la nuova corrente i'(t) è ora opposta alla ‘vecchia i(t)’, di Figura 3.6a, consente di concludere che v(t) = R i(t) = R [- i'(t)] = - R i'(t) , essendo la resistenza R la stessa di prima, vale a dire in ogni caso positiva! Sinteticamente si può dire che la caratteristica di un resistore è v(t) = ± R i(t) , in cui R è la stessa, ha cioè lo stesso valore, sempre positivo, ed il segno ‘+’ vale se viene adottata la convenzione dell’utilizzatore, mentre il segno ‘-’ vale se viene adottata la convenzione del generatore. Naturalmente, i grafici corrispondenti alle due relazioni caratteristiche sono riportati in Figura 3.7a e 3.7b. (a) (b) v 0 v + i R v 0 i − i v + i − R Figura 3.7: caratteristica statica e simbolo circuitale di un resistore. È interessante approfondire l’analisi del contenuto della legge di Ohm allo scopo di cercare di distinguere in essa la parte che dipende dalla forma del corpo da quella che invece dipende strettamente dalla natura del materiale. Per semplicità espositiva assumiamo una forma molto semplice: un cilindro abbastanza lungo rispetto alla sua dimensione trasversale (Figura 3.8). 11 − I bipoli e le loro caratteristiche L ρ R=ρL S S Figura 3.8: resistenza di un conduttore cilindrico. In queste ipotesi, accurate indagini sperimentali condotte da Ohm nei primi decenni del XIX secolo mostrarono che per molti conduttori metallici, in un ampio campo di valori, vale una formula di questo tipo: R=ρL , S dove ρ prende il nome di resistività del materiale (il suo inverso σ quello di conducibilità) e dipende solo dalla sua natura e dalle condizioni fisiche in cui si trova ad operare (ma non dalla forma del corpo), mentre L è la lunghezza e S l’area della sezione trasversale del cilindro. La resistività si misura in Ωm (ohm metro), oppure anche in Ωmm2/m, mentre la conducibilità in S/m. Qui di seguito sono riportati valori indicativi della resistività di alcuni materiali alla temperatura ambiente, misurate in ‘milionesimi di Ωm’ (µΩm). Comprenderete cosa sia il coefficiente di temperatura più avanti. Argento Rame Oro Alluminio Tungsteno Ferro Costantana Carbone Resistività (µΩ/m) 0.0164 0.0176 0.023 0.028 0.055 0.1 ÷ 0.15 0.5 20 ÷ 100 Coefficiente di temperatura (°C-1) 0.038 0.0039 0.004 0.0045 0.006 0.0000031 0.0002 Come si vede rame e argento presentano una resistività molto bassa. Il rame costituisce il miglior compromesso, in termini di bassa resistività e basso costo, e 12 − I bipoli e le loro caratteristiche per questo motivo è di gran lunga il materiale più usato nelle applicazioni elettriche, tanto che nel linguaggio comune rame è diventato sinonimo di conduttore elettrico. Nella Figura 3.9 sono riportati alcuni resistori commerciali. Figura 3.9: realizzazione pratica di resistori. Ad esempio, sapendo che l’area della sezione di una rotaia di acciaio (ρacciaio = 0.18 µΩm) è pari a S = 45 cm 2, concludiamo immediatamente che un tratto di lunghezza L = 15 km presenta una resistenza pari a R = ρ L = 0.6 Ω . S In Figura 3.10 rappresentiamo, ancora una volta nel piano tensione - corrente, la caratteristica v = R i di un resistore ed il relativo simbolo circuitale: la caratteristica è una retta che passa per l’origine, con inclinazione che dipende dal valore della resistenza. L’inclinazione rispetto all’asse orizzontale è ben misurata dal valore della funzione trigonometrica tangente dell’angolo α, in Figura 3.10. Al variare di R, quindi, la retta sarà più o meno inclinata sull’asse delle I: quanto maggiore è R, tanto più verticale tenderà ad essere la retta; e viceversa. 13 − I bipoli e le loro caratteristiche v α v=Ri + i 0 i − R Figura 3.10: inclinazione della caratteristica statica di un resistore. • Dipendenza della resistività dalla temperatura nei buoni conduttori Quando abbiamo introdotto il bipolo resistore, abbiamo sottolineato come la sua resistenza dipenda, oltre che dalla forma del sistema, anche dalla resistività ρ del materiale di cui il corpo è fatto. È ragionevole allora presumere che la resistività di un materiale non sia una costante indipendente dalle condizioni fisiche del materiale stesso. Un fattore importante da cui la resistività dipende è la temperatura del corpo. Resistività del rame 7 ρ(µΩ cm) 6 Valori misurati 5 4 3 T0 Valori calcolati 2 1 0 -200 T (°C) 0 200 400 600 800 Figura 3.11: variazione della resistività del rame con la temperatura. Limitandoci ai buoni conduttori, la Figura 3.11 mostra che la dipendenza di ρ(T) è approssimabile, in un vasto campo di temperature, con una retta. In altri termini possiamo scrivere che 14 − I bipoli e le loro caratteristiche ρ(T) = ρ(T0) 1 + α (T - T0) ; alla costante α viene dato il nome di coefficiente di temperatura del materiale. Data la relazione di proporzionalità tra resistività e resistenze, la stessa dipendenza della temperatura si ritroverà anche nel valore della resistenza, sicché R(T) = R(T0) 1 + α (T - T 0) . I valori di α si trovano facilmente in opportune tabelle per i diversi materiali: generalmente per T 0 si sceglie la ‘temperatura ambiente’ pari a 20 °C circa. Per il rame, prodotto con procedimento elettrolitico, per esempio, tale coefficiente vale α = 0.038 (°C)-1. La curva di resistività mostrata in Figura 3.11 non va a zero al tendere a zero della temperatura, come potrebbe sembrare, ma la resistività residua a questa temperatura è circa 0.02 ⋅ 10-8 Ωm; per molte sostanze, invece, la resistenza diventa zero a bassa temperatura. Resistenza del mercurio 0.14 0.12 0.1 R (Ω) 0.08 0.06 0.04 0.02 0 T (K) -0.02 0 1 2 3 4 5 6 Figura 3.12: la resistenza del mercurio si annulla al di sotto di 4 K. Nella Figura 3.12 è riportata la resistenza di un campione di mercurio per temperature inferiori ai 6 K. In un intervallo di circa 0.05 K la resistenza scende bruscamente a un valore tanto basso da non essere misurabile. Questo fenomeno, chiamato superconduttività, fu scoperto da Kammerlingh Onnes, in Olanda, nel 1911. Sembra che la resistenza dei metalli nello stato di superconduttività sia 15 − I bipoli e le loro caratteristiche veramente zero; infatti, le correnti, una volta che abbiano cominciato a circolare in circuiti superconduttivi chiusi, persistono per settimane senza diminuire, anche se non vi è alcuna batteria nel circuito. Se si aumenta la temperatura appena sopra il valore a cui inizia la superconduttività o se si applica un intenso campo magnetico, queste correnti si riducono rapidamente a zero. Comunque, dall’epoca della scoperta di Onnes sono state individuate molte altre sostanze che presentano un’analoga transizione di fase. Superconduttore Tecnezio Niobio Piombo Vanadio Mercurio Indio Alluminio Cadmio Titanio T C (K) 11.2 9.2 7.2 5.0 4.2 3.4 1.2 0.5 0.4 Questa transizione avviene ad una temperatura, chiamata temperatura critica T C, che varia da sostanza a sostanza, come riportato nella tabella precedente. Perché, per questi materiali, si verifica il fenomeno della superconduttività? La risposta viene da una teoria molto complicata, denominata teoria BCS, dal nome dei tre fisici che l’hanno formulata nel 1957, cioè Bardeen, Cooper e Schrieffer, la quale mostra che, a basse temperature, gli elettroni si muovono a coppie (le coppie di ‘Cooper’), ignorando completamente la presenza del reticolo cristallino: si muovono come se fossero nel vuoto, senza incontrare alcuna resistenza. In tempi recenti, nel 1986, sono state individuate sostanze che diventano superconduttrici a temperature molto più elevate, dell’ordine di 35 K. Alcune sostanze ceramiche, realizzate ultimamente, esibiscono questo fenomeno addirittura a temperature dell’ordine di un centinaio di gradi kelvin. Ebbene, non sembra che a questo ordine di temperature sia possibile la manifestazione della superconduttività secondo le modalità previste dalla teoria BCS. Così la superconduttività ‘ad alte temperature’ aspetta ancora una spiegazione soddisfacente. In attesa di tale spiegazione, sono comunque in corso ricerche tese ad ‘inventare’ materiali che diventino superconduttori a temperature sempre più elevate. Queste ricerche hanno un valore applicativo rilevante: se si riuscisse a realizzare un superconduttore a temperatura ambiente, sarebbe possibile trasportare la corrente 16 − I bipoli e le loro caratteristiche elettrica da una centrale di produzione ad una città senza alcuna ‘perdita’ di energia dovuta all’effetto Joule. • Parallelo di resistori Limitiamoci, ora, al caso di due resistori in parallelo, aventi resistenza R1 e R2, mostrato in Figura 3.13. i1(t) R1 E + v(t) − i(t) F R2 i2(t) Figura 3.13: parallelo di due resistori. Si può scrivere, avendo fatto la convenzione dell’utilizzatore, che v(t) = R1 i 1(t) = R2 i 2(t) . D’altra parte, per la LKC, la corrente i(t) deve essere la somma della correnti i1(t) e della corrente i2(t) i(t) = i1(t) + i2(t) = v(t) + v(t) = v(t) 1 + 1 , R1 R2 R1 R2 somma che può essere anche scritta nella forma i(t) = v(t) , RE in cui, per brevità, abbiamo introdotto la resistenza (equivalente) RE = 1 . 1 + 1 R1 R2 Il bipolo equivalente è ancora un resistore di resistenza RE, conformemente alle relazioni seguenti: v(t) = R1 R2 i(t) = RE i(t) → RE = R1 R2 . R1 + R 2 R1 + R 2 17 − I bipoli e le loro caratteristiche Dato che il parallelo di due resistori rappresenta un’operazione che, con molta frequenza, si presenterà nelle nostre applicazioni, si introduce il simbolo R1 || R2 = R1 R2 , R1 + R 2 per indicare sinteticamente questa situazione circuitale. Consideriamo, poi, il parallelo di N resistori, mostrato in Figura 3.14. Vogliamo trovare il resistore equivalente ‘visto’ dai morsetti AB. i(t) A B + i1(t) i2(t) i3(t) iN-1(t) iN(t) R1 R2 R3 RN-1 RN − Figura 3.14: parallelo di N resistori. Poiché il parallelo impone la stessa tensione VAB ai capi di ciascun resistore, le correnti si possono scrivere nella forma: ik(t) = vAB(t) = G k v AB(t) , con k = 1, 2, Rk ,N. Inoltre, poiché, per la prima legge, la corrente totale i(t) vale N i(t) = ∑ ik(t) , k=1 è immediato ricavare che N i(t) = ∑ k=1 N GkvAB(t) = vAB(t) ∑ Gk . k=1 Pertanto, la conduttanza equivalente di N resistori in parallelo si ottiene sommando le conduttanze di ciascun lato 18 − I bipoli e le loro caratteristiche GE = G 1 + G 2 + + GN , e, quindi, la resistenza equivalente è data da: 1 RE = 1 = GE G1 + G 2 + + GN = 1 1 + 1 + R1 R2 + 1 RN . Nel caso particolare N = 2, ritroviamo immediatamente la formula stabilita in precedenza: GE = 1 = G 1 + G 2 = 1 + 1 → RE = R1 R2 . RE R1 R2 R1 + R 2 • Partitore di corrente Possiamo ora stabilire come si ripartisce la corrente nel parallelo di due resistenze, poiché è questo un caso che si incontrerà molto di frequente. Dato che, come si evince dalla Figura 3.13, i(t) = i1(t) + i2(t) , e le due correnti valgono rispettivamente i1(t) = v(t) e i2(t) = v(t) , R1 R2 si può scrivere i(t) = v(t) + v(t) = v(t) 1 + 1 R1 R2 R1 R2 → v(t) = i(t) R1 R2 . R1 + R 2 Tornando alle due correnti, in definitiva, risulta (regola del partitore di corrente) i1(t) = i(t) R2 R1 + R 2 e i2(t) = i(t) R1 . R1 + R 2 • Serie di resistori Ragionamenti analoghi portano all’individuazione della caratteristica del bipolo equivalente alla serie di due resistori, mostrato in Figura 3.15. Si avrà, dunque, applicando la LKC al nodo A: 19 − I bipoli e le loro caratteristiche - i 1(t) + i2(t) = 0 → i(t) = i1(t) = i2(t) . i1(t) + + R1 v(t) A − R2 v1(t) − + v2(t) − i2(t) Figura 3.15: serie di due resistori. D’altra parte, per la LKT, applicata alla maglia tratteggiata in Figura 3.15, si ottiene v(t) = v1(t) + v2(t) , e quindi, indicando con i(t) e v(t) le grandezze del bipolo equivalente alla serie, otteniamo v(t) = v1(t) + v2(t) = R1 i(t) + R2 i(t) = (R1 + R 2) i(t) = RE i(t) . Segue che il bipolo equivalente è ancora un resistore con resistenza pari a RE = R 1 + R 2 . i(t) R1 R2 RN A+ B − i(t) Figura 3.16: serie di N resistori. In generale, se consideriamo la serie di N resistori, è facile scrivere (Figura 3.16) che la resistenza equivalente vale: RE = R 1 + R 2 + + RN . 20 − I bipoli e le loro caratteristiche La lampadine che usiamo per addobbare l’albero di natale possono essere considerate come N resistori in serie. Ora, come spesso accade, qualcuna si rompe (diciamo che ‘si brucia’) e, come è abitudine diffusa, la togliamo dalla ‘serie’ (in pratica sostituiamo la lampadina rotta con un pezzetto di carta stagnola per realizzare un cortocircuito). Ci accorgiamo, però, che, dopo non molto tempo, se ne rompe anche una seconda, poi una terza, fin quando l’intera serie risulta inutilizzabile. Cosa è accaduto? Si è verificato che, dopo la eliminazione della prima, la corrente che circola nelle lampadine è aumentata perché, avendo sostituito una resistenza con un cortocircuito, la RE è diminuita. Ora, dato che la tensione erogata dalla rete elettrica di casa non è cambiata, la corrente deve aumentare (ve ne potete accorgere notando un incremento della luminosità). Ma un aumento della corrente porta con sé una maggiore potenza assorbita dagli elementi rimasti che sono costretti a lavorare in condizioni più difficili, non certamente, entro i limiti di potenza per i quali erano stati progettati. Ciò produce l’effetto di rottura ‘a valanga’ descritto. Sarebbe buona norma, allora, eliminare la lampadina rotta e sostituirla con un’altra identica funzionante. • Partitore di tensione Vogliamo ora stabilire come si ripartisce la tensione in una serie di due resistenze. Dato che v(t) = v1(t) + v2(t) , e le due tensioni valgono rispettivamente v1(t) = R1 i(t) e v2(t) = R2 i(t) , si può scrivere v(t) = R1 i(t) + R2 i(t) = (R1 + R 2) i(t) → i(t) = v(t) . R1 + R 2 Tornando alle due tensioni, in definitiva, risulta (regola del partitore di tensione) v1(t) = v(t) R1 R1 + R 2 e v2(t) = v(t) R2 . R1 + R 2 Per prendere dimestichezza con il parallelo e la serie di due (o più resistori), qui di seguito, presentiamo alcuni semplici esempi. 21 − I bipoli e le loro caratteristiche Esempio 1 - Calcolare la resistenza equivalente vista dai morsetti AB per la rete mostrata in figura. Si assuma R1 = 12, R2 = 21, R3 = 11. R1 R2 A B R3 La resistenza equivalente richiesta dall’esercizio può essere facilmente valutata operando prima ‘la serie tra R1 e R2’: R = R 1 + R 2 = 33 , e poi, calcolando il parallelo tra R e R3, in modo da ottenere: RAB = R || R3 = R R3 = 8.25 . R + R3 Si noti che R1 non è in parallelo con R3, né lo è R2; soltanto la serie di R1 e di R2 è effettivamente in parallelo con R3. Esempio 2 - Per la rete mostrata in figura, calcolare la resistenza equivalente vista dai morsetti AB. Si assuma R = 6. C R R A R R B D 22 − I bipoli e le loro caratteristiche Tra i due nodi C e D vi è il parallelo tra un resistore e la serie di due resistori, tutti di valore R. Con riferimento alla figura precedente, possiamo concludere che la resistenza equivalente vista dai morsetti AB vale RAB = R + 2 R = 5 R = 10 . 3 3 C R R A A R C 2R 3 2R B B D D Esempio 3 - Verificare che la resistenza equivalente della rete infinita di resistenze mostrata in figura vale RAB = R 3 + 1 . R R R A R R R R R R B La chiave per la soluzione di questo esercizio sta nella seguente osservazione: se la rete si ripete identicamente a se stessa, all’infinito, in qualsiasi punto della catena di celle identiche si immagini di valutare la resistenza equivalente, si dovrà trovare sempre lo stesso risultato, proprio perché la catena è infinita. Questa osservazione giustifica lo schema equivalente mostrato nella figura che segue, schema che porta a un’equazione di secondo grado la cui incognita è la resistenza equivalente desiderata RAB. 23 − I bipoli e le loro caratteristiche R A RAB R RAB R B Imponendo che la resistenza vista dai morsetti AB valga proprio RAB, si può scrivere l’equazione (si tratta di un’equazione razionale, in cui l’incognita si presenta anche al denominatore) RAB = 2R + R || RAB = 2R + R RAB . R + R AB Eliminando il denominatore comune, si arriva all’equazione algebrica di secondo grado R2AB - 2 R RAB - 2 R2 = 0 , che, avendo un discriminante positivo, fornisce immediatamente le due soluzioni reali RAB = R 1 ± 3 . Inutile dire che, delle due soluzioni possibili del problema matematico, quella negativa va scartata perché fisicamente inconsistente: nei limiti dei bipoli da noi considerati la resistenza non può essere negativa! È compito di corsi più avanzati, come quello di Teoria dei Circuiti, mostrare come si possa realizzare un resistore con resistenza negativa, che, in ultima analisi, è un bipolo attivo (si rammenti che sul bipolo resistore intendiamo sia stata fatta la convenzione dell’utilizzatore). • Legge di Joule Cominciamo col determinare, in generale, la potenza elettrica assorbita da un resistore. Sulla base delle definizioni generali date nel primo capitolo, si ha subito, indipendentemente dalla convenzione di segno fatta per il resistore: 24 − I bipoli e le loro caratteristiche 2 pel-ass(t) = v(t) i(t) = [R i(t)] i = R i2(t) = v (t) R (standard) ; 2 pel-ass(t) = - v(t) i(t) = - [- R i(t)] i(t) = R i2(t) = v (t) R (non standard) . In ogni caso, quindi, essendo R ≥ 0, la potenza elettrica assorbita è positiva, come deve essere. C’è da chiedersi ora che ‘fine faccia’ questa potenza elettrica. La risposta è semplice: in un qualsiasi resistore, essa si trasforma completamente in calore. La legge di Joule afferma che un resistore, nel tempo ∆t, trasforma in calore un’energia elettrica pari a ∆u = i2(t) dt . p(t) dt = R ∆t ∆t Ricordando che 1 kcal = 4186 J , possiamo dire che la legge di Joule impone che la quantità di calore ∆Q, sviluppata da una corrente elettrica i(t) che attraversa un conduttore di resistenza R per un tempo ∆t, cioè ∆Q = ∆u ≅ 0.00024 R 4186 i2(t) dt . ∆t Assumendo, poi, che la corrente non vari nel tempo, la relazione precedente diventa ∆Q ≅ 0.00024 R i2 ∆t , e, pertanto, la quantità di calore sviluppata è direttamente proporzionale alla resistenza del conduttore, al quadrato dell’intensità della corrente ed alla durata del passaggio della corrente stessa. Questo effetto è particolarmente dannoso quando i due poli di un generatore di tensione vengono messi a contatto tra loro senza la intermediazione di un apparecchio di sufficiente resistenza, cioè vengono disposti in cortocircuito: in questo caso, l’intensità della corrente è limitata dalla sola resistenza interna del generatore e può diventare molto elevata, tanto grande da sviluppare una quantità di calore tale da bruciare l’impianto. Tuttavia vi sono applicazioni pratiche di grande utilità dell’effetto Joule, alcune delle quali qui di seguito ricordiamo. 25 − I bipoli e le loro caratteristiche - Stufe e fornelli elettrici. Si tratta essenzialmente di fili, costruiti con opportune leghe metalliche ad elevata resistenza, ad esempio al nichelcromo, di notevole lunghezza e di sezione molto piccola, avvolti a spirale oppure ad elica su un sostegno di materiale isolante e refrattario, di solito a base di argilla. Il calore sviluppato dalla corrente può essere utilizzato per riscaldare ambienti, far bollire l’acqua oppure cuocere i cibi. - Valvole fusibili. Sono tratti di filo di piombo (di sezione opportuna), o comunque leghe a basso punto di fusione, che si inseriscono nel circuito, fatto generalmente di rame. Quando, per cause accidentali, l’intensità della corrente dovesse innalzarsi troppo, il calore da essa prodotto fa sciogliere il piombo, che fonde a 327 °C, interrompendo il circuito ed evitando in tal modo il pericolo di incendio. Piombo Rame Rame Figura 3.17: rappresentazione schematica di una valvola fusibile. - Ferro da stiro. È costituito da un’impugnatura P di materiale isolante entro la quale passano i conduttori che fanno capo ad un interruttore K, da una massa pesante M (il ferro, per poter stirare, deve avere un certo peso), da una resistenza R in nichelcromo e da una lastra cromata L, che è quella che si applica all’oggetto da stirare. K alla rete elettrica P M R L Figura 3.18: ferro da stiro elettrico. I fili del circuito, partendo dalla resistenza e percorrendo l’impugnatura, fanno capo, per mezzo di una spina, alla normale presa di corrente. - Scaldabagno elettrico. Il recipiente C, contenente l’acqua da riscaldare, è circondato da un involucro isolante I e, da un apposito condotto A, da cui entra 26 − I bipoli e le loro caratteristiche l’acqua fredda. Nel recipiente si trovano una resistenza R ed un termometro T, tipicamente un’asta metallica che, allungandosi per effetto del calore, interrompe il circuito quando l’acqua ha raggiunto la temperatura massima stabilita, e lo richiude quando la temperatura si abbassa fino al valore minimo, al di sotto del quale non deve scendere. Un secondo condotto B si spinge fino alla parte alta del recipiente. Facendo passare la corrente, il resistore si riscalda e riscalda l’acqua; l’acqua calda, che ha minor peso specifico dell’acqua fredda, sale nella parte alta del recipiente e si scarica, attraverso il secondo condotto, nella vasca da bagno. La parete esterna del recipiente è in lamiera sottile; quella interna in lamiera robusta di acciaio. Il materiale isolante è ordinariamente lana di vetro, costituita da fibre di vetro ottenute trattando il vetro fuso con getti di vapore acqueo. I C R A (acqua fredda) B (acqua calda) T → alla rete elettrica Figura 3.19: schema di uno scaldabagno. - Lampadina elettrica. Le prime lampadine (che erano a filamento di carbone) si devono all’inventore americano T.A. Edison. Una lampadina è costituita da un’ampolla di vetro contenente un filamento metallico, generalmente di tungsteno, un metallo che fonde a 3400 °C. Il filamento è assai sottile e ripiegato parecchie volte per presentare, in un piccolo spazio, una notevole lunghezza e, quindi, una notevole resistenza: il filamento viene così reso incandescente dalla corrente. Se all’interno dell’ampolla si fa il vuoto, la temperatura del filamento raggiunge 2200 °C; se vi si introduce azoto o gas nobili, che non reagiscono chimicamente con il metallo, la temperatura si può elevare fino a 2500 °C, e la luce è più bianca. 27 − I bipoli e le loro caratteristiche L’intensità delle sorgenti luminose si misura in candele; vi sono lampadine che consumano, per ogni candela irradiata, un watt di potenza e durano in media 1000 ore. Altre consumano mezzo watt per candela, le cosiddette lampadine ‘mezzowatt’, e durano (700 ÷ 800) ore. Sul vetro della lampadina è indicata la tensione in volt che deve avere il circuito e la potenza in watt: per una lampadina che consuma 1 watt per candela, 50 watt significano 50 candele; per una lampadina ‘mezzowatt’ significano 100 candele. Due o più lampadine si possono collegare in serie oppure in parallelo. Nel primo caso, le lampadine si accendono e si spengono tutte insieme. rete elettrica L1 C L2 Figura 3.20: parallelo di lampadine. Nel secondo caso, ogni lampadina è indipendente dalle altre e ciascuna può essere accesa o spenta manovrando un commutatore. • Valori di targa Vediamo, ora, quali sono le caratteristiche tecniche più importanti, alcune delle quali abbiamo descritto già in precedenza, che determinano il comportamento elettrico, meccanico e termico di un resistore. Valore ohmico nominale e tolleranza. Il valore ohmico effettivo di un resistore generalmente non coincide con il valore nominale, ma se ne discosta per una determinata quantità, detta tolleranza, esprimibile come percentuale del valore nominale. La tolleranza è comunemente indicata in valore assoluto e condiziona la scelta dei valori nominali. Potenza nominale dissipabile. È tipicamente espressa in watt ed indica la potenza elettrica che può essere assorbita dal componente, ad una determinata temperatura, senza che intervengano alterazioni permanenti nella struttura del resistore. Coefficiente di temperatura. Indica la variazione della resistenza in funzione della temperatura. Tensione nominale massima. Per valori ohmici elevati, indica la tensione di superamento della rigidità dielettrica dei materiali isolanti presenti nel resistore. 28 − I bipoli e le loro caratteristiche Coefficiente di tensione. Indica la variazione del valore della resistenza in funzione della tensione applicata. Coefficiente di resistenza - frequenza. Indica la variazione della resistenza, relativa al valore della medesima in corrente continua, al variare della frequenza. • Realizzazione dei resistori Vi sono due classi: quella dei resistori a resistenza costante, di cui ci occuperemo dopo in qualche dettaglio, e quella dei resistori a resistenza variabile, dipendenti da una grandezza meccanica (potenziometri) oppure dalla temperatura (termistori, varistori). I resistori a resistenza costante si dividono, per la loro realizzazione, in tre categorie: resistori ad impasto, resistori a filo e resistori a strato. I resistori ad impasto sono costituiti da una miscela di carbone (grafite), talco ed argilla legati assieme da resine fenoliche in proporzioni varie a seconda del valore di resistenza che si vuole ottenere; il tutto viene pressato a caldo in forma cilindrica, i terminali metallici (reofori) sono affogati nella massa compressa. Il cilindretto viene sottoposto ad un trattamento termico che ha il compito di polimerizzare completamente le resine. Infine lo si riveste con una custodia isolante (bachelite o ceramica), si bloccano gli estremi con un cemento isolante e si protegge la custodia isolante con una verniciatura a lacca isolante. Indipendentemente dal valore ohmico i resistori vengono realizzati in formati e dimensioni diverse a seconda della potenza dissipabile. Valori tipici, per questi resistori ad impasto, sono 0.25, 0.5, 1, 2 watt. Per concludere, riportiamone le caratteristiche fondamentali: valore di resistenza con tolleranza piuttosto elevata, robustezza sia meccanica che elettrica, piccole dimensioni ed induttanza parassita (si veda anche il seguito) praticamente nulla. Altra categoria e quella dei resistori a filo. Sono costituiti, come la stessa parola dice, da un filo metallico avvolto su un supporto ceramico cilindrico o su un supporto piatto fatto di bachelite. L’avvolgimento viene protetto mediante laccatura resistente a temperature dell’ordine dei 150 °C, o mediante vetrificazione di uno smalto che resiste a temperature dell’ordine dei 350 °C. I due estremi del filo vengono fissati con fascette che fungono anche da terminali. I fili metallici, che generalmente vengono usati, sono costituiti da leghe di nichel e cromo (per le alte potenze), di nichel, cromo ed alluminio (per alti valori di resistenza), di nichel e rame (per resistenze di alta precisione). Il diametro dei fili, oltre che dipendere dal supporto e dal tipo di lega adoperato, è legato al valore di resistenza da realizzare. Generalmente, visto le precisioni ottenibili, questi resistori vengono usati per costruire strumenti di misura, apparecchiature professionali e resistenze campione, a meno che il valore di potenza si mantenga al di sotto dei 2 W. A causa dell’avvolgimento con cui vengono realizzate, non possono essere usate alle alte 29 − I bipoli e le loro caratteristiche frequenze a causa di inevitabili f.e.m. indotte; per ridurre questi effetti reattivi, a volte vengono realizzati avvolgimenti particolari capaci di generare flussi magnetici opposti che si compensano a vicenda (avvolgimento Ayrton - Perry). L’ultima classe è quella dei resistori a strato, costituiti da una sottile pellicola (dell’ordine di alcuni micron) di materiale resistivo avvolta su un supporto cilindrico isolante. Su questa pellicola viene praticato un solco che attraversa, a spirale, tutto il cilindro; i terminali vengono generalmente fissati a pressione agli estremi del cilindro che viene rivestito con un involucro isolante. Le caratteristiche principali di questo tipo di resistenze sono l’alta precisione, l’elevata stabilità ed il buon comportamento alle alte frequenze. Gli strati vengono realizzati con diversi materiali che imprimono al resistore caratteristiche differenti. I materiali sono, tipicamente, il carbone, gli ossidi metallici, i metalli e le vernici metalliche. I resistori a strato di carbone non vanno usati alle alte temperature, presentano valori di resistenza che vanno da 10 Ω a 10 MΩ, con tolleranze dell’ordine del 5%, 2%, 1%, e sono in grado di assorbire potenze di qualche watt. I resistori a strato di ossido di metallo possono essere usati a temperature un po’ più elevate di quelle delle resistenze a strato di carbone; hanno valori di resistenza che vanno da 1 Ω a 2 MΩ, tolleranze e potenza dissipabile dello stesso ordine di grandezza di quelle a carbone. I resistori a strato metallico non sono soggetti ad apprezzabili variazioni di resistenza, tipicamente compresa nell’intervallo 10 Ω ÷ 10 MΩ, con tolleranze dell’ordine dello 0.1% per resistenze comuni, presentano, invece, valori di tolleranza dell’ordine dello 0.01% per resistori ad alta precisione. I resistori a strato ceramico (cermet) hanno valori di resistenza che vanno da 10 Ω a 2.5 MΩ, con tolleranze dell’ordine del 5% e valori di potenza dissipabile di qualche watt. I resistori a strato sottile sono costituiti da una lega di nichel e cromo, o di nichel e cobalto, o di tantalio ed alluminio, hanno valori di resistenza che vanno da 1 Ω a 50 MΩ, con tolleranze dell’ordine del 1%. Infine, i resistori a strato di vernice metallica hanno valori di resistenza compresi tra 1 Ω e 500 kΩ, con tolleranze dell’ordine dell’1% e valori di potenza dissipabile di qualche watt. • Cortocircuito e circuito aperto Due casi speciali si evidenziano immediatamente: quello in cui è α = 0 e quello in cui α = π/2. Discutiamone subito, perché nella pratica, assumono particolare importanza. Nel caso del cortocircuito, essendo nulla la resistenza, dalla legge di Ohm discende che (Figura 3.21) 30 − I bipoli e le loro caratteristiche v(t) = 0 , quale che sia la corrente . Ciò implica che, quale che sia il valore della corrente che circola in questo particolare resistore, detto appunto cortocircuito (ideale), la d.d.p. ai suoi morsetti resta nulla. Esso, nella pratica, può essere realizzato mediante un ‘chiodo’ di rame, abbastanza corto, e di diametro abbastanza robusto. Ad esempio un chiodo di rame lungo 1 cm e di diametro pari pure a 1 cm, è un eccellente cortocircuito, non ‘ideale’, ma ... quasi! La caratteristica statica di un cortocircuito coincide con l’asse orizzontale (delle correnti), come in Figura 3.21. v i 0 i Figura 3.21: caratteristica statica e simbolo di un corto circuito. Prima di procedere oltre, non possiamo fare finta di ignorare che, nella pratica, quando si parla di ‘cortocircuiti’, si pensa a effetti ‘catastrofici’, o comunque a incidenti più o meno gravi. Vediamo di capire perché, cominciando con un semplice esempio. Consideriamo il circuito rappresentato in Figura 3.22, in cui un generatore di tensione (vedi oltre) è collegato a due resistori. Il generatore di tensione eroga ai suoi capi una tensione costante (E), come fa una normale batteria. Non è difficile concludere che la corrente che attraversa i tre bipoli, il generatore di tensione ed i due resistori, è la stessa, indicata con i. i R1 A + B E R2 − C i Figura 3.22: rete per spiegare il ‘catastrofico’ effetto di un corto circuito. 31 − I bipoli e le loro caratteristiche Ora, la rete di Figura 3.22 è costituita da una sola maglia e, pertanto, applicando la LKT, si ottiene: vAB + vBC + vCA = 0 . Sostituendo in questa relazione le caratteristiche dei due resistori vAB = R 1 i e vBC = R 2 i , si ottiene immediatamente che R1 i + R2 i - E = 0 . Dall’ultima relazione si può ricavare facilmente la corrente i= E . R1 + R 2 La potenza elettrica erogata dal generatore è dunque pari a pel-ero = + E i = E 2 E = E . R1 + R 2 R1 + R 2 Ad esempio, per E = 1 kV, R1 = 1 e R2 = 100, si ha che 2 i = 1000 A ≅ 10 e pel-ero = 1000 ≅ 10 kW . 101 101 Il nostro utilizzatore, cioè il resistore R2, corrisponde, dunque, grosso modo a ‘una decina di scaldabagni’ funzionanti insieme. Vediamo ora cosa succede se, per un incidente, la R2 diventa zero, cioè diventa un cortocircuito (perché il nostro dispositivo utilizzatore si rompe). Rifacciamo i conti da capo, in queste nuove condizioni, ottenendo subito: i' = E = 1000 = 1 kA e pel-ero = E i' = 10002 = 1 MW ! R1 + 0 1 Si arriva così a una potenza erogata cento volte maggiore della precedente (10 kW), la quale, ancora una volta, per la legge di Joule, non può trasformarsi in queste condizioni, in altra forma di energia diversa del calore! Ecco, allora, che il 32 − I bipoli e le loro caratteristiche generatore, il resistore R1, nonché i fili di collegamento, per smaltire questo improvviso aumento di calore, debbono riscaldarsi, fino ad arroventarsi, e nei casi più sfortunati fino ad ... incendiarsi. Di qui, i significati catastrofici attribuiti spesso all’innocente bipolo cortocircuito. Il secondo caso di grande interesse corrisponde a quello in cui per qualsiasi tensione ai morsetti, la corrente che attraversa il bipolo è sempre nulla. Si ha, così: i(t) = 0 , per ogni tensione applicata . Un tale bipolo si potrebbe realizzare frapponendo tra i morsetti un perfetto ‘non conduttore’, cioè un materiale isolante. Esso prende il nome di bipolo circuito aperto (oppure a vuoto). v i(t) = 0 0 i Figura 3.23: caratteristica statica e simbolo di un circuito aperto. Tornando all’analogia con il resistore, questo caso, corrisponde a quello in cui è la conducibilità elettrica del conduttore a essere uguale a zero. In tale evenienza, si ha che per qualsiasi valore di tensione ai morsetti del bipolo la corrente che lo attraversa è sempre nulla, come in Figura 3.23. Contrariamente al caso precedentemente illustrato, il ‘circuito aperto’ non richiama alla memoria situazioni ... catastrofiche. Eppure, quando studierete gli impianti elettrici, vedrete che anch’esso può essere talvolta pericoloso. 3.3 Generatori indipendenti Passiamo ora ad esaminare le caratteristiche di quei bipoli che forniscono energia elettrica ai circuiti, cioè i bipoli attivi, e cominciamo da quelli che possono essere considerati ‘ideali’: i cosiddetti generatori indipendenti di tensione e di corrente. I simboli grafici che useremo per indicare questi due bipoli sono mostrati in Figura 3.24. 33 − I bipoli e le loro caratteristiche (a) − + i0(t) (b) e(t) − + i(t) v(t) Figura 3.24: simboli per (a) il generatore di tensione e (b) per quello di corrente. Qualche volta, specialmente se si tratta di un generatore di tensione continua, cioè costante nel tempo, si adotta anche il simbolo di Figura 3.25. E + − Figura 3.25: simbolo talvolta usato per un generatore di tensione costante. Cominciamo col chiederci quale sia la caratteristica di un generatore ideale di tensione. In generale, un generatore ideale di tensione può imporre una tensione variabile nel tempo con una forma d’onda nota ed indipendente dalla corrente che in esso circola, cioè v(t) = e(t), ∀ i(t) . Il fatto che questo generatore eroghi una forma d’onda assegnata quale che sia la corrente che lo attraversa, implica che, a qualunque rete sia collegato, la tensione ai suoi capi assume sempre l’andamento temporale dettato dalla funzione e(t). Tentiamo di spiegare perché questo bipolo è attivo e, tanto per fissare le idee, immaginiamo che esso sia collegato ad una rete ed eroghi una tensione sempre positiva. L’energia elettrica assorbita in un certo intervallo è, allora, pari a t2 Uel-ass(t 1 , t2) = e(t) i(t) dt . t1 La corrente ‘i(t)’ che attraversa il generatore di tensione dipende dalla rete cui è collegato e può essere definitivamente positiva, negativa, oppure a segni alterni. Se essa è negativa, cosa che può accadere, e sul bipolo si è fatto la convenzione 34 − I bipoli e le loro caratteristiche dell’utilizzatore, l’energia elettrica assorbita risulta negativa e da ciò discende che il generatore di tensione è un bipolo attivo. R0 + + e(t) v(t) − i(t) v(t) = e(t) - R0 i(t) − Figura 3.26: generatore reale di tensione. La caratteristica di un generatore ideale di tensione può soltanto approssimare quella di un generatore reale. È infatti implicito nella caratteristica di un generatore ideale di tensione che esso possa erogare una potenza grande quanto si vuole, al limite infinita quando la corrente è infinita. Naturalmente un generatore reale non potrà avere una tale proprietà: se la corrente che circola nel generatore diventa troppo grande la tensione non si mantiene uguale al valore che assume quando la corrente è zero (tensione a vuoto), ma diminuisce fino a tendere a zero e a cambiare segno per un valore di corrente finito che prende il nome di corrente di corto circuito del generatore. Il modo più semplice di rappresentare un generatore reale di tensione (Figura 3.26) è quello di considerare un generatore ideale di tensione con tensione uguale alla tensione a vuoto del generatore reale in serie con un resistore che porta in conto gli effetti dovuti alla ‘resistenza interna’ del generatore reale. Questo modello di generatore reale di tensione tende a quello ideale quando la resistenza interna tende a zero. In modo del tutto simile, si può introdurre un nuovo bipolo ideale in cui circola una corrente con una forma d’onda assegnata e indipendente dalla tensione tra i terminali, i(t) = i0(t), ∀ v(t) . Un tale bipolo, per il quale si possono sviluppare considerazioni analoghe a quelle relative al generatore ideale di tensione, prende il nome di generatore ideale di corrente ed è anch’esso un bipolo attivo, come è facile provare ripetendo le considerazioni presentate per il caso dei generatori di tensione. Invece, un generatore reale di corrente è mostrato in Figura 3.27. 35 − I bipoli e le loro caratteristiche i(t) + i0(t) R0 v(t) − i(t) = i0(t) - v(t) R0 Figura 3.27: generatore reale di corrente. Spesso sui bipoli generatori può essere opportuno non utilizzare la convenzione normale, quella dell’utilizzatore, ma l’altra, che, per questo motivo, viene appunto detta convenzione del generatore. Comunque vi è sempre la massima libertà di adoperare la convenzione che si vuole; solo l’uso e l’abitudine ci fanno preferire talvolta l’una all’altra. • Collegamento di generatori Proviamo ora a prendere in considerazione i due tipi di collegamento, in serie e parallelo, che abbiamo già esaminato nel caso dei resistori, anche per i bipoli generatori. In Figura 3.28 sono mostrati quattro diversi casi ottenuti combinando generatori ideali di corrente e di tensione. Per quanto riguarda i casi a) e b), è facile convincersi che i bipoli equivalenti, applicando la LKT in Figura 3.28a alla maglia segnata e la LKC al nodo A in Figura 3.28b, sono ancora un generatore ideale, rispettivamente di tensione pari a e1(t) + e2(t) , e di corrente pari a i1(t) + i2(t). 36 − I bipoli e le loro caratteristiche i(t) (a) + + + e1(t) i1(t) − + e2(t) v(t) − i2(t) v(t) − − e2(t) i(t) (d) B A i(t) + + I2 (c) i1(t) A i(t) (b) A B A + + − v(t) e1(t) v(t) i2(t) − − − B B Figura 3.28: possibili collegamenti di generatori. I casi c) e d) sono leggermente meno evidenti; per comprendere la natura del bipolo equivalente rappresentato nel caso c), per esempio, non basta considerare che, per il modo in cui il collegamento è realizzato, il generatore di tensione impone la sua tensione ai morsetti del bipolo equivalente. Occorre ancora mostrare che tale bipolo, deve essere in grado di erogare qualsiasi corrente mantenendo costante la sua tensione ai morsetti. Ciò è vero perché, essendo la corrente erogata dal generatore di tensione arbitraria, anche la corrente i(t) totale lo è, perché somma di una corrente fissa i1(t) e di una arbitraria i2(t): i(t) = i1(t) [fissa] + i 2(t) [arbitraria] . Analogamente, nel caso d), avremo un generatore equivalente ideale di corrente. Di proposito abbiamo lasciato per ultimi i due casi rappresentati in Figura 3.29, dato che tali collegamenti danno luogo a contraddizioni insanabili. 37 − I bipoli e le loro caratteristiche (a) i(t) (b) i(t) + i1(t) + v(t) e1(t) + − v(t) − e2(t) − i2(t) + − Figura 3.29: collegamenti impossibili di generatori. Cominciamo ad esaminare il caso a). I due generatori ideali di corrente sono in serie e ‘vorrebbero imporre’ la loro rispettiva corrente ai morsetti del generatore equivalente, la quale d’altra parte non può che essere unica. Se le due correnti sono diverse, ciò crea una situazione assurda, poiché ciò equivarrebbe a scrivere, per esempio, nel caso a) di Figura 3.29: i(t) = i1(t) e i(t) = i2(t) , con i1(t) ≠ i 2(t) ! Il caso b) si analizza in maniera analoga. Infatti, i due generatori ‘vorrebbero imporre’ la loro tensione ai morsetti del generatore equivalente. D’altra parte tale tensione non può che essere unica, laddove deve essere v(t) = e1(t) e, allo stesso tempo v(t) = e2(t), con e1(t) ≠ e2(t). Eccoci ancora una volta incappati in una insanabile contraddizione. Nelle situazioni reali, le cose si sanano, poiché non ci si trova mai di fronte a generatori ideali. Per motivi che chiariremo in seguito, sono comunque da evitare per problemi pratici le situazioni schematizzate in Figura 3.29, come mostra l’esempio che segue. Esempio 4 - Due batterie’ sono collegate in parallelo come mostrato in figura. Determinare le correnti che attraversano le batterie ‘a vuoto’, quando, cioè, sono collegate ad un circuito aperto. I due generatori erogano una tensione costante e sono schematizzati come generatori reali. Si assuma che E 1 = 40, E 2 = 10, R1 = 0.2, R2 = 0.1. 38 − I bipoli e le loro caratteristiche 1 R1 2 i(t) = 0 A R2 + + E1 E2 − i1(t) − i2(t) 3 B 4 Dato che i due generatori sono collegati ad un circuito aperto, la corrente i(t) deve essere nulla (come suggerito in figura) e, per determinare le due correnti i1(t) e , basta applicare le LK. Anche se i nodi 1 e 2 (3 e 4) sono del tutto equivalenti dal punto di vista elettrico, abbiamo preferito riportarli per chiarezza nello schema. Dunque, applicando la LKC al nodo 2, otteniamo: - i 1(t) - i2(t) = 0 → i1(t) = - i2(t) . Invece la LKT, applicata alla maglia formata dai due generatori, ci consente di scrivere: v31(t) + v24(t) = 0 → - E 1 + R 1 i 1(t) + E2 - R 2 i 2(t) = 0 . Riassumendo le due ultime equazioni trovate, otteniamo, allora, il sistema: i1(t) = - i2(t) , R1 i 1(t) - R2 i 2(t) = E1 - E 2 . Risolvendo queste sistema, determiniamo le due correnti cercate: i1(t) = E 1 - E 2 = 100 , i2(t) = E 2 - E 1 = - 100 . R1 + R 2 R1 + R 2 Come potete constatare, le due correnti sono piuttosto elevate e lo diventano tanto più, quanto più le due resistenze interne dei generatori sono piccole. È questo il motivo per cui due batterie non si collegano mai in parallelo: prima o poi, data l’elevata corrente che si instaura tra loro, le ritroveremo completamente scariche. 39 − I bipoli e le loro caratteristiche 3.4 Condensatori Sin dai primi studi sull’elettricità, verso la metà del secolo XVIII, alcuni ricercatori iniziarono a chiedersi se fosse possibile immagazzinare in un conduttore una certa quantità di carica elettrica, facendo in modo che questa non venisse dispersa. Il primo strumento costruito per questo scopo è la cosiddetta ‘bottiglia di Leida’, che deve il suo nome alla città olandese nella quale lo studioso Pieter van Musschenbroek la costruì nel 1745. La bottiglia di Leida era costruita da una bottiglia di vetro rivestita, sia internamente che esternamente, da un foglio di carta stagnola opportunamente caricato; una piccola catena di materiale conduttore in contatto con la stagnola veniva fatta fuoriuscire dal tappo (isolante) della bottiglia. Se si toccava la catenella, si avvertiva una forte scossa elettrica, a dimostrazione che la bottiglia era un accumulatore di cariche elettriche. La bottiglia di Leida rappresenta il primo esempio di condensatore, un mezzo molto semplice per immagazzinare carica elettrica. • La caratteristica Considerate con attenzione la Figura 3.30: in essa abbiamo disegnato due conduttori di forma piana, isolati e posti, faccia a faccia, in un mezzo isolante. Questo sistema viene detto condensatore e, da ora in poi, indipendentemente dalla loro geometria, chiameremo i due conduttori armature del condensatore. Per comprendere l’origine di questo nome, supponiamo che sulle armature, che sono isolate dagli oggetti che le circondano, vi siano cariche uguali ed opposte, + q e - q. Il campo elettrico sostenuto da questa distribuzione di cariche è costituito da linee di forza che escono da un’armatura e terminano sull’altra, linee parallele ed equispaziate nella regione centrale, compresa tra i due conduttori, e si diradano nella regione più esterna (non mostrata in figura). Questo fatto suggerisce l’idea di linee che si condensano, che si accumulano, in una certa regione e supportano l’intuizione che gran parte dell’energia del campo si concentri tra le due armature. Spiegheremo rigorosamente nel seguito questi concetti, per il momento cominciamo ad analizzare il caso in cui il dielettrico interposto sia il vuoto; più avanti rimuoveremo questa ipotesi, ammettendo l’esistenza di un generico dielettrico. 40 − I bipoli e le loro caratteristiche +q h d E A -q Figura 3.30: condensatore piano. Il condensatore è, dunque, caratterizzato da due grandezze: il valore assoluto della carica q dei due conduttori e dalla differenza di potenziale V0 che si instaura tra essi. Insistiamo sul fatto che q non è la carica totale del condensatore, che è nulla, ma è quella, considerata in valore assoluto, contenuta su ciascuna armatura e si può pensare di depositare queste cariche sulle armature, semplicemente collegandole ai due elettrodi di una batteria. Queste due grandezze, che come detto caratterizzano i condensatori, sono legate tra loro dalla seguente relazione, che per il momento non dimostriamo q = C V0 , dove la costante di proporzionalità C è chiamata capacità del condensatore. La capacità dipende dalla forma e dalla posizione relativa delle armature, nonché dal dielettrico interposto tra esse. L’unità di misura della capacità è il farad, in onore a Michael Faraday che, tra le altre cose, sviluppò il concetto di capacità. In particolare si nota che C = q = 1C =1F. V0 1V Nella pratica vengono usati dei sottomultipli, quali il microfarad 1µ F = 10-6 F, il picofarad 1nF = 10-9 F ed il nanofarad 1pF = 10-12 F, in quanto il farad è un’unità di misura troppo grande. Nella Figura 3.30 abbiamo mostrato un condensatore piano i cui conduttori hanno la forma di due armature parallele, di area A, separate da un distanza d: si tratta in ultima analisi di due piatti piani e paralleli, abbastanza estesi e di forma rettangolare. Abbiamo accennato in precedenza che, se colleghiamo ciascuna 41 − I bipoli e le loro caratteristiche armatura ai terminali di una batteria, una carica + q si deporrà su di una armatura, ed una di valore - q apparirà sull’altra. Notiamo ora che se d è piccolo rispetto alle dimensioni delle armature, allora l’intensità del campo elettrico fra le armature è pressoché uniforme e le linee di forza saranno parallele ed ugualmente spaziate, partendo dall’armatura positiva e terminando su quella negativa. Per non complicare troppo la trattazione, supporremo che non vi sia campo elettrico all’esterno del condensatore; in effetti, ciò è a rigore falso dato che, se tale campo fosse veramente assente, cioè se non ci fosse campo al di fuori delle armature, le equazioni dell’elettromagnetismo mostrerebbero una insanabile contraddizione. Poiché, in pratica, la distanza tra le armature è sufficientemente piccola, riterremo trascurabile il campo all’esterno. Per arrivare al calcolo della capacità, è necessario usare la legge di Gauss per il campo elettrico. In effetti, la dimostrazione andrebbe fatta nel caso più generale in cui tra le armature del condensatore sia interposto un dielettrico generico e non l’aria, ma vedremo che l’estensione al caso generico è immediata. Per raggiungere il nostro fine, consideriamo come superficie cui applicare il teorema di Gauss quella indicata con tratteggio in Figura 3.30, cioè una superficie a forma di parallelepipedo di altezza h e racchiusa tra superfici piane di area A, aventi la medesima forma e dimensione delle armature del condensatore. Ricordiamo che la legge di Gauss per il campo elettrico asserisce che il flusso del campo elettrico, attraverso una qualunque superficie chiusa Σ, è pari alla carica contenuta nel volume racchiuso dalla superficie in esame, a meno della costante di proporzionalità ε0: Σ E ⋅ n dS = Q . ε0 A questo punto non ci rimane altro che applicare questa relazione alla nostra geometria. Diciamo subito che il flusso di E è nullo per la parte di superficie che giace all’interno dell’armatura superiore del condensatore, perché il campo elettrico dentro un conduttore è nullo. Similmente per quel che riguarda le superfici laterali, il flusso è nullo dal momento che, nell’ipotesi in cui ci siamo messi, assenza di effetti di bordo, il campo elettrico è parallelo alla superficie, cioè perpendicolare alla sua normale; ciò vuol dire che il prodotto scalare presente nell’integrando non dà alcun contributo. Stesse considerazioni si possono ripetere per le due superfici terminali, le basi per così dire, che in figura non sono mostrate essendo questa in due dimensioni. Ciò che resta è soltanto la parte relativa alla superficie posta tra le due armature e parallela ad esse. Il campo elettrico e la normale alla superficie sono, in ogni punto 42 − I bipoli e le loro caratteristiche di questa superficie, paralleli e concordi; il campo elettrico assume, poi, lo stesso valore in tutti i punti e, pertanto, si ricava il suo valore all’interno delle armature E ⋅ n dS = E A = q → E = q . ε0 A ε0 A La conoscenza del campo ci consente di trovare la differenza di potenziale tra le armature. Sappiamo che essa non è altro che l’integrale di linea del campo elettrico valutato a partire da un qualunque punto PINF dell’armatura inferiore per arrivare ad un punto PSUP qualsiasi dell’armatura superiore. Nessuno ci vieta di scegliere questi due estremi di integrazione sulla stessa linea di campo elettrico e, quindi, P SUP P SUP E ⋅ t dl = - V0 = P INF P INF q t ⋅ t dl = q d , A ε0 A ε0 dove, lo ripetiamo ancora una volta, abbiamo scelto, come linea di integrazione, una linea perpendicolare alle armature, coincidente con una qualunque linea di campo elettrico. Questo è stato possibile in quanto il campo elettrico nel caso stazionario è conservativo rispetto alla circuitazione e non dipende, quindi, dal cammino scelto per congiungere i due punti estremi. Dall’ultima relazione scritta segue immediatamente che la capacità C è pari a C = q = ε0 A . V0 d Questa formula, valida solo per i soli condensatori piani, mostra che la capacità è un parametro che dipende soltanto dalla forma e dalla geometria del condensatore, nonché dalle caratteristiche dielettriche del mezzo interposto tra le armature; in essa, in effetti, compaiono soltanto grandezze geometriche e la costante dielettrica del vuoto. Per condensatori di altre forme si hanno formule diverse che vi riportiamo senza dimostrazione. In particolare, ci interessa farvi conoscere almeno le formule relative ai condensatori cilindrici ed ai condensatori sferici. Nel caso cilindrico, il condensatore è costituito da due cilindri coassiali, di raggi a e b e lunghezza L. Si potrebbe dimostrare che, se il cilindro è sufficientemente lungo, la capacità vale C = q = 2 π ε0 L , V0 ln b a 43 − I bipoli e le loro caratteristiche in cui il significato dei diversi parametri è stato già precisato. Se poi pensate a due sfere concentriche di raggi a e b, la capacità vale C = q = 4 π ε0 a b . V0 b-a Facendo in modo che il raggio esterno sia molto più grande di quello interno, dalla relazione precedente si deduce pure la capacità di una sfera isolata, o, se preferite, la capacità di un condensatore sferico costituito da un’armatura di raggio a ed un’altra armatura di raggio talmente grande da poter essere considerato all’infinito. In formule, risulta: C = 4 π ε0 a b ≅ 4 π ε0 ab = 4 π ε0 a , se b » a . b-a b Le equazioni appena scritte mostrano, come avevamo anticipato, che la capacità dipende dai parametri geometrici della struttura e dal dielettrico interposto tra le armature. Nel caso in cui tra le armature non vi fosse il vuoto, ma un diverso dielettrico, a patto che questo abbia ancora un comportamento lineare ed isotropo, basta sostituire, nelle formule precedenti, ad ε0 la quantità ε = ε0 εr, con εr costante dielettrica relativa. Va fatta anche menzione dei condensatori a capacità variabile, costituiti da un insieme di dischi metallici fissi alternato con un altro insieme di dischi metallici girevoli (mediante una manopola). I dischi fissi e quelli girevoli rappresentano le armature; il dielettrico interposto può essere semplicemente l’aria oppure un altro isolante, come ad esempio la mica. Spostando, mediante la manopola, i dischi girevoli rispetto a quelli fissi si può far variare, entro certi limiti, la superficie delle armature e, di conseguenza, la capacità del condensatore. Comunque, a parte l’effetto di bordo, la corrente che circola in un condensatore, alla luce della definizione della capacità, si collega facilmente alla tensione ai suoi capi per mezzo della relazione q(t) = C v(t) → i(t) = d q(t) = C d v(t) . dt dt È utile fare alcune osservazioni per comprendere come avvenga il passaggio di corrente attraverso un condensatore che, come suggerisce la Figura 3.31, in qualche maniera si interrompe in corrispondenza delle armature. La corrente di conduzione 44 − I bipoli e le loro caratteristiche i(t) passa attraverso un conduttore su quale è interposto un condensatore, ad esempio piano. n n i(t) i(t) Γ + S1 v(t) − S2 Figura 3.31: passaggio di corrente attraverso un condensatore. Quando il flusso di cariche arriva in corrispondenza dell’armatura convenzionalmente ritenuta positiva, la corrente di conduzione cessa ed un altro meccanismo deve innescarsi per trasmettere da un’armatura all’altra l’informazione legata al campo elettromagnetico. Per comprendere di cosa si tratti, consideriamo l’equazione di Ampère - Maxwell H ⋅ t dl = Γ SΓ JLIB + ∂D ⋅ n dS . ∂t Adoperando la curva chiusa Γ di Figura 3.31, scriviamo questa equazione una volta con riferimento alla superficie S1, un’altra con riferimento all’altra superficie S2. Entrambe queste superfici si appoggiano sullo stesso orlo, rappresentato proprio dalla curva Γ. Risulta, allora: H ⋅ t dl = Γ JLIB ⋅ n dS = S1 S2 ∂D ⋅ n dS . ∂t Il primo integrale superficiale rappresenta proprio la corrente di conduzione, dal momento che, per definizione, è JLIB ⋅ n dS ; i(t) = S1 45 − I bipoli e le loro caratteristiche il secondo integrale, che in forza della legge di Ampère - Maxwell deve essere uguale al primo, rappresenta il flusso della corrente di spostamento attraverso la superficie S2. È chiaro, allora, che al di fuori del condensatore la corrente è rappresentata dalla normale corrente di conduzione che, una volta entrata nel condensatore, si trasforma in corrente di spostamento. Questa affermazione prova pure che, per studiare il comportamento elettrico di un condensatore, non possiamo trascurare la corrente di spostamento e dobbiamo usare il modello quasi stazionario elettrico delle equazioni di campo, in cui la densità di corrente di spostamento non viene trascurata, ma viene trascurata la derivata temporale del campo di induzione magnetica. Possiamo allora definire un nuovo vettore densità di corrente totale J = JLIB + ∂D , ∂t costituito sia dalla densità di corrente di conduzione, sia dalla densità di corrente di spostamento e si riconosce, in tutta generalità, che la corrente totale attraverso qualsiasi superficie chiusa è zero. Ciò vuol dire che, come prescrivono le equazioni di Maxwell, il nuovo vettore è solenoidale J ⋅ n dS = Σ Σ JLIB + ∂D ⋅ n dS = 0 , quale che sia Σ chiusa . ∂t Quest’ultima relazione rappresenta l’equazione di continuità della corrente applicata al vettore densità di corrente totale. In definitiva, il condensatore ideale, schematizzato solitamente nei circuiti come in Figura 3.32, è un bipolo la cui caratteristica è, per definizione i(t) = ± C d v(t) , con C ≥ 0 , dt nella quale C è un numero (non negativo) che caratterizza il condensatore, prende il nome di capacità del condensatore, e si misura, come già detto, in farad (F). Il segno presente è ‘+’ se si è fatta la convenzione dell’utilizzatore (come in Figura 3.32); altrimenti, se cioè si è fatta la convenzione del generatore, il segno è ‘-’. 46 − I bipoli e le loro caratteristiche C i(t) − + v(t) Figura 3.32: simbolo del condensatore ideale. Come si vede, in questo caso siamo in presenza di una caratteristica dinamica ‘vera’, poiché la variabile t vi figura in maniera sostanziale attraverso l’operazione di derivazione proprio rispetto alla variabile t. Dal punto di vista circuitale, il condensatore si comporta in maniera tale che, in ogni istante, il valore della corrente circolante nel condensatore è indipendente dal valore della tensione applicata in quello stesso istante al condensatore, ma è invece proporzionale alla derivata nel tempo di questa tensione. Le cariche positive possono, nel condensatore, tanto migrare dai punti a potenziale più alto a quelli a potenziale più basso, quanto risalire in senso inverso, a seconda del segno della derivata nel tempo della tensione. Per fare un paragone automobilistico, possiamo dire che il condensatore è come un’auto con ‘scarsa ripresa’ (tanto peggiore, quanto maggiore è la capacità): un brusco aumento della corrente non determina un altrettanto brusco aumento della tensione. In regime stazionario, il condensatore si riduce a un semplice circuito aperto, dato che, se la tensione è costante nel tempo, si ha i(t) = ± C d v(t) = 0 . dt Per questo, non sarà presente quando studieremo i circuiti in regime stazionario. • Energia immagazzinata Il condensatore è un perfetto serbatoio di energia elettrica, senza buchi. L’energia immagazzinata in un condensatore, in ogni istante e sulla quale è stata fatta la convenzione dell’utilizzatore, dipende soltanto dalla tensione applicata ai suoi morsetti, e vale t UC(t) = t v(τ) i(τ) dτ = C 0 0 v(τ) d v(τ) dτ = 1 C v(t) dτ 2 2 . 47 − I bipoli e le loro caratteristiche Nello scrivere la precedente relazione, si è supposto che, all’istante convenzionale t = 0, il condensatore fosse scarico e si è, pertanto, assunto v(0) = 0. Il condensatore ideale è considerato, evidentemente, un bipolo ‘dotato di memoria’, dato che la tensione ai suoi capi rappresenta una variabile che tiene in conto lo stato energetico del bipolo, istante per istante. È ovvio, infatti, che componenti destinati a immagazzinare energia dell’ordine di qualche joule dovranno avere dimensioni ben diverse da quelli destinati a immagazzinare energia migliaia di volte (o, addirittura, milioni di volte) più grandi. Per rendere più concrete le cose dette, discutiamo un esempio. Esempio 5 - Un condensatore, supposto scarico all’istante t = 0 e di capacità C = 2, viene alimentato dalla tensione v(t) = 6 t . Determinare la potenza e l’energia assorbite nell’intervallo 0 ≤ t ≤ 10. 70 60 C=2 i(t) 50 − + 40 v(t) v(t) 30 20 i(t) 10 t 0 0 2 4 6 8 10 Cominciamo col fare per il condensatore la convenzione dell’utilizzatore come mostrato nella figura precedente. Si ha, allora: i(t) = C d v(t) = 2 d (6 t) = 12 . dt dt Venendo alla potenza e all’energia assorbite, non è difficile concludere che 48 − I bipoli e le loro caratteristiche p(t) = v(t) i(t) = 72 t . L’energia immagazzinata, invece, vale UC(t) = 1 C v(t) 2 2 = 36 t2 . Queste due grandezze sono rappresentate nella figura che segue (i valori della potenza sono espressi, come al solito, in watt, quelli dell’energia in joule). Vale la pena notare che, come già sappiamo, tra esse sussiste la relazione generale: p(t) = d UC(t) . dt 4000 3500 3000 UC(t) 2500 2000 1500 1000 p(t) 500 t 0 0 2 4 6 8 10 • Condensatori in serie e parallelo Spesso è utile usare, anziché un solo condensatore, più condensatori opportunamente collegati tra loro. Molti problemi tecnici vengono risolti tramite questo accorgimento e se il nostro obiettivo è innalzare la capacità complessiva, allora dobbiamo collegare due (o più) condensatori in parallelo, mentre se li colleghiamo in serie, vuol dire cha abbiamo intenzione di ridurre la capacità. Cominciamo dai condensatori in parallelo. La Figura 3.33 mostra tre condensatori di capacità C1, C2 e C3, collegati in parallelo. Quanto vale la capacità del bipolo equivalente al collegamento in parallelo? 49 − I bipoli e le loro caratteristiche A + i(t) v(t) − B i1(t) i2(t) i3(t) C1 C2 C3 Figura 3.33: condensatori in parallelo. Per ciascun condensatore si può scrivere che i1(t) = C1 d v(t) , i2(t) = C2 d v(t) , i3(t) = C3 d v(t) . dt dt dt D’altra parte, in forza della LKC, deve essere i(t) = i1(t) + i2(t) + i3(t) = (C1 + C 2 + C 3) d v(t) = C d v(t) , dt dt essendo C la capacità totale, pari a C = C1 + C 2 + C 3 . Questa formula, dedotta nel caso di tre capacità, può essere facilmente estesa al caso di N condensatori in parallelo, mostrando che la capacità equivalente di N condensatori in parallelo è pari alla somma delle singole capacità C = C 1 + C 2 + C 3 + ... + CN . Allora si evince chiaramente che il collegamento in parallelo può essere usato per innalzare la capacità di un dispositivo. Esempio 6 - Un condensatore piano, di area A e distanza tra le armature d, è riempito con due dielettrici, come mostrato in figura. Determinare la capacità. 50 − I bipoli e le loro caratteristiche εr1 + A/2 − εr2 A/2 Il condensatore si può immaginare come il parallelo di due condensatori di capacità C1 = ε0 εr1 A , 2d C2 = ε0 εr2 A . 2d C1 − + C2 La capacità complessiva vale C = C 1 + C 2 = ε0 A εr1 + εr2 . 2d Passiamo ora al caso dei condensatori in serie. La Figura 3.34 mostra tre condensatori di capacità C1, C2 e C3, collegati in serie. v1(t) + v2(t) − − + C1 C2 i(t) A + v3(t) v(t) + − C3 i(t) − Figura 3.34: condensatori in serie. B 51 − I bipoli e le loro caratteristiche Questo tipo di collegamento si ottiene, come si evince dalla figura, collegando tra loro armature contigue di segno opposto. Anche per questa configurazione siamo interessati a stabilire quale sia la capacità complessiva equivalente. A tal fine notiamo che i tre condensatori, essendo collegati in serie, sono percorsi dalla stessa corrente, per cui i(t) = C1 d v 1(t) = C2 d v 2(t) = C3 d v 3(t) , dt dt dt essendo v1(t), v2(t) e v3(t) le tensioni presenti ai loro capi. La tensione totale v(t) del sistema complessivo è data dalla somma di queste tensioni e, pertanto, i(t) = C d v(t) = C d v 1(t) + d v 2(t) + d v 3(t) = C 1 + 1 + 1 i(t) , dt dt dt dt C1 C2 C3 dove con C abbiamo indicato la capacità totale del sistema C= 1 . 1 + 1 + 1 C1 C2 C3 Questa formula può essere facilmente estesa al caso di N condensatori in serie, affermando che la capacità equivalente ad N condensatori in serie è pari all’inverso della somma degli inversi delle singole capacità C= 1 . 1 + 1 + 1 + ... + 1 C1 C2 C3 CN Nel caso di due soli condensatori collegati in serie, la capacità equivalente è pari a C= 1 = C1 C2 . 1 + 1 C1 + C 2 C1 C2 Da quest’ultima relazione è facile convincersi che questo tipo di collegamento viene usato per abbassare la capacità di un dispositivo. Immaginiamo di connettere due condensatori di stessa capacità C0 in serie; allora, la capacità equivalente risulta C = C0 C0 = C0 , C0 + C 0 2 52 − I bipoli e le loro caratteristiche cioè la metà del valore della capacità di ciascuno dei due condensatori. In generale, la capacità equivalente di un collegamento in serie è sempre minore, al più uguale, della più piccola capacità della catena. Esempio 7 - Determinare la capacità del condensatore mostrato in figura. A + εr1 εr2 − A d1 d2 Il condensatore è costituito da due dielettrici e si può immaginare come la serie di due condensatori di capacità C1 = ε0 εr1 A , d1 C2 = ε0 εr2 A . d2 C1 + C2 − La capacità complessiva, allora, vale ε0 εr1 A ε0 εr2 A d1 d2 = ε ε ε A C = C1 C2 = . 0 r1 r2 C1 + C 2 ε0 εr1 A + ε0 εr2 A d1 εr2 + d2 εr1 d1 d2 Notiamo, infine, che le regole per il calcolo delle capacità equivalenti per condensatori in serie ed in parallelo sono duali rispetto a quelle delle resistenze: ciò vuol dire che la formula per il calcolo della serie di resistenze è formalmente analoga a quella del parallelo di capacità, e viceversa per le resistenze in parallelo. • Realizzazione dei condensatori 53 − I bipoli e le loro caratteristiche Vediamo ora come si possono realizzare i condensatori. Diciamo subito che ai condensatori fissi, gli unici che tratteremo, viene associato un nome dato dal dielettrico interposto tra le armature. I condensatori fissi vengono classificati secondo lo schema che segue. I condensatori con dielettrico di carta vengono realizzati con due armature metalliche e due strisce di carta. Le armature possono essere di alluminio, di stagnola, oppure di rame, e vengono avvolte insieme alle strisce stesse in modo da formare un cilindro. Solitamente per ridurre le dimensioni dei condensatori, questi vengono realizzati con carte metallizzate, in cui il dielettrico di carta ha una faccia metallizzata che quando sarà arrotolata costituirà l’armatura. I condensatori con dielettrico di plastica hanno alto valore di resistenza di isolamento, bassi valori del fattore di potenza e del coefficiente di temperatura, basse perdite ed elevata stabilità. Il dielettrico, in buona sostanza, è costituito da una sottile pellicola di materiale plastico, tipicamente realizzato in poliestere, polipropilene, polistirene, polietilene, policarbonato, teflon o mylar. I condensatori con dielettrico di mica sono realizzati in due modi diversi: ad armature sovrapposte o a mica metallizzata. Nel primo caso, le lamelle di mica sono intercalate alle armature metalliche ed il tutto viene pressato ed impregnato con cere sintetiche, per evitare l’infiltrazione di umidità, e, poi, viene posto sotto vuoto in contenitori di plastica, per proteggerlo da agenti esterni. In quelli a mica metallizzata le armature vengono realizzate spruzzando una vernice metallica, generalmente a base di ossido di argento, su una o entrambe le facce della lamina di mica; il vantaggio di questa procedura è assicurare maggiore stabilità della capacità al variare della temperatura. I condensatori con dielettrico di vetro si realizzano alternando lamine di conduttori con lamine di vetro. Hanno la caratteristica di essere poco sensibili alle variazioni di temperatura e di essere realizzati con una elevata precisione. Grazie a questa ultima caratteristica vengono spesso usati in circuiti a banda stretta con frequenze di lavoro molto elevate. Nei condensatori ceramici, il dielettrico è formato da miscele di ceramiche che vengono trattate con processi di vetrificazione. In qualunque forma vengano realizzati, le armature sono ottenute per deposizione di argento sulle superfici dielettriche. A seconda del tipo adottato di ceramica, si individuano tre differenti categorie di questi condensatori: la prima, a basso valore di εr e con basse perdite, grazie al loro buon comportamento alle variazioni di temperatura e frequenza, vengono usate nella costruzione di oscillatori; la seconda, ad elevato valore di εr e ad elevate perdite, vengono usati in circuiti di accoppiamento; la terza categoria, infine, detta a coefficiente controllato di temperatura, viene utilizzata in quei circuiti in cui è necessario rendere la struttura pressoché indipendente dalla 54 − I bipoli e le loro caratteristiche temperatura dato che questo tipo di condensatori è capace di compensare le eventuali variazioni di temperatura. I condensatori elettrolitici sono costruiti in modo che tra l’anodo ed il catodo trovi posto l’elettrolita conduttore; inoltre, tra l’anodo e l’elettrolita vi è una pellicola di ossido di metallo. La distanza tra le armature è di qualche micron, il che consente di avere elevate capacità (dell’ordine del farad) ed al tempo stesso dimensioni ridotte. Le principali limitazioni sono le elevate perdite e le ampie escursioni della capacità con la temperatura. I condensatori elettrolitici ad alluminio hanno l’armatura metallica fatta di alluminio. L’elettrolita può essere liquido o solido; per quello liquido, si usa generalmente del dimetilacetammide, per quello solido, invece, si utilizza del biossido di manganese. I condensatori elettrolitici al tantalio hanno l’armatura metallica fatta di tantalio. Rispetto a quelli di alluminio hanno dimensioni ridotte, a parità di capacità ovviamente, migliore stabilità e durata maggiore. Anche i condensatori elettrolitici al tantalio vengono realizzati, come quelli ad alluminio, con elettrolita liquido, che può essere acido borico con solfato di sodio oppure acido solforico, e solido, tipicamente biossido di manganese. 3.5 Induttori Immaginiamo di avvicinare due spire metalliche, fino a portarle ad una prefissata distanza; la prima, che supponiamo percorsa da una corrente, genererà un flusso del campo di induzione magnetica nell’altra. Dalla legge di Faraday - Neumann sappiamo che, se questo flusso varia, ad esempio cambiando la corrente della spira inducente, nella seconda spira si produrrà una f.e.m. indotta legata alla variazione nel tempo del flusso concatenato. • La caratteristica In effetti, non è necessario che vi siano due spire per avere un fenomeno di induzione; affinché in una spira appaia una f.e.m. indotta, o meglio autoindotta, è necessario far variare la corrente nella spira stessa. Se invece di una spira consideriamo una bobina con le spire molto vicine tra loro, realizzando, ad esempio, un lungo solenoide come quello di Figura 3.35, il flusso ΦB associato ad ogni singola spira è lo stesso, se siamo nel caso quasi - stazionario magnetico, e quindi la legge di Faraday - Neumann si può scrivere come v(t) = d NΦB(t) = - N d ΦB(t) , dt dt dove con N abbiamo indicato il numero di spire totali e con v(t) la tensione del solenoide, ai capi del quale immaginiamo sia stata fatta la convenzione 55 − I bipoli e le loro caratteristiche dell’utilizzatore. È chiaro allora che la grandezza fondamentale è il flusso concatenato. Per una data bobina si può dimostrare che il flusso concatenato è proporzionale alla corrente che circola nell’avvolgimento, per mezzo di una costante di proporzionalità L nota come induttanza del sistema, che come nel caso della capacità dipende solo dalla geometria del sistema. B i(t) i(t) B Figura 3.35: induttore solenoidale. Quanto appena detto viene così formalizzato N ΦB(t) = L i(t) , ed è vera solo nel caso in cui consideriamo mezzi a comportamento lineare, non devono, cioè, essere presenti materiali magnetici. Sostituendo nella relazione che fornisce la tensione, otteniamo la relazione che lega questa alla corrente circolante nel solenoide: v(t) = d N ΦB(t) = L d i(t) . dt dt L’unità di misura dell’induttanza, come avevamo già anticipato nel secondo capitolo, è l’henry, in onore a Joseph Henry, fisico americano contemporaneo di Faraday. In particolare si nota che L = v = 1V =1Vs =1H. di 1A A dt 1s Notiamo che la caratteristica più importante di questi componenti, che da ora in poi chiameremo induttori, è la presenza di un campo magnetico al loro interno, così 56 − I bipoli e le loro caratteristiche come la presenza di un campo elettrico caratterizzava un condensatore: comincia così ad intravvedersi una certa la dualità tra questi due componenti. Come abbiamo fatto per i condensatori, calcoleremo il coefficiente di auto induzione L per alcuni tipi di induttori di uso frequente. Partiamo dal caso di un induttore solenoidale molto compatto, cioè con le spire molto vicine le une alle altre, supposto in aria, schematicamente rappresentato in Figura 3.36. In questo caso la definizione data di induttanza stabilisce che L = N ΦB . i D C Γ h B × A × B × × × × Figura 3.36: rappresentazione schematica della sezione di un lungo solenoide. Usiamo questa espressione con l’intento di calcolare l’induttanza del tratto centrale di un lungo solenoide di lunghezza h. Come anticipato in precedenza, e come è messo in evidenza dalla relazione precedente, per fare questo occorre stabilire quale sia il flusso del campo magnetico concatenato con l’induttore. Se supponiamo che la sezione trasversale abbia una superficie pari ad S, avremo, assumendo uniforme l’induzione magnetica sulla sezione, ΦB = B S , che, sostituito nella definizione, fornisce il notevole risultato L=NBS. i Se indichiamo con n il numero di spire per unità di lunghezza del solenoide, cioè 57 − I bipoli e le loro caratteristiche n=N, h ed assumiamo che il campo magnetico all’interno di un solenoide sia uniforme e pari a (come tra un momento mostreremo) B=µni, si verifica agevolmente che 2 L = N µ n i S = N µ N S = µ N S = µ n2 S h , i h h cioè l’induttanza di un tratto di solenoide di lunghezza h è proporzionale al suo volume S h ed al quadrato del numero di spire per unità di lunghezza, attraverso la costante µ, che, come sappiamo, è la permeabilità magnetica del mezzo di cui è riempito il solenoide. Che vi fosse una dipendenza dal quadrato del numero di spire era da aspettarselo, visto che, se raddoppia il numero di spire per unità di lunghezza, raddoppia anche il flusso dell’induzione magnetica. Quindi la quantità N ΦB diventa quattro volte più grande e, di conseguenza, anche l’induttanza. Passiamo, ora, al calcolo del campo magnetico generato da un solenoide. Un solenoide è nient’altro che un filo avvolto a forma di elica a passo corto, nel quale circola una corrente i, ed il cui sviluppo longitudinale è predominante rispetto a quello trasversale. In queste ipotesi possiamo supporre, senza commettere un grosso errore, che il campo magnetico all’interno del solenoide sia uniforme e diretto lungo la direzione del cilindro, mentre all’esterno sia zero. In effetti, come vedremo dopo, affinché le equazioni di Maxwell siano verificate, è essenziale che vi sia un campo all’esterno, ma nella nostra trattazione non lo considereremo (proprio come abbiamo detto per il condensatore). Siamo giunti finalmente al calcolo del campo del campo di induzione magnetica all’interno del solenoide e, per questo scopo, utilizzeremo la legge di Ampère - Maxwell alla curva Γ rappresentata in Figura 3.36. La suddetta legge, nel limite quasi - stazionario magnetico in cui ci troviamo, si riduce a B ⋅ t dl = µ0 i , Γ dove la circuitazione a primo membro può essere scomposta in quattro integrali, uno per ciascuno dei segmenti che compongono la curva Γ: 58 − I bipoli e le loro caratteristiche B B ⋅ t dl = Γ C B ⋅ t dl + A D B ⋅ t dl + B A B ⋅ t dl + C B ⋅ t dl . D Il primo integrale, nelle ipotesi di campo uniforme e di tratto di solenoide di lunghezza h, vale B h. Gli altri tre integrali sono tutti nulli; il secondo ed il quarto sono eseguiti su cammini ortogonali alla direzione del campo, e per le note proprietà del prodotto scalare sono zero, il terzo è invece nullo, essendo l’integrale eseguito su di un cammino che si sviluppa all’esterno del solenoide, dove, per le ipotesi fatte, il campo B è nullo. In conclusione la circuizione di B alla curva Γ si riduce al solo termine B h. Passiamo al secondo membro dell’equazione di Ampère - Maxwell: esso, a parte la costante µ, non rappresenta la corrente che circola nell’avvolgimento, ma la corrente che circola nell’avvolgimento moltiplicata per il numero di spire che si concatenano con la curva Γ nel tratto h. Indicato con n il numero di spire per unità di lunghezza, non è difficile convincersi che questa corrente vale i n h, dove n h è esattamente il numero di spire incontrate in un tratto h. La legge di Ampère Maxwell si ridurrà, dunque, a Bh=µnhi, da cui segue l’espressione finale del campo magnetico (uniforme) all’interno di un solenoide B=µni. Questa relazione mostra che il campo di induzione magnetica non dipende né dal diametro, né dalla lunghezza del solenoide, ma solo dalla corrente che in esso circola e da quanto è fitto l’avvolgimento. Per quel che riguarda l’effetto del campo esterno si potrebbero fare considerazioni del tutto analoghe a quelle fatte nei condensatori e concludere che, affinché siano verificate le equazioni di Maxwell, il campo esterno ad un induttore non può essere rigorosamente zero. Esempio 8 - Un solenoide in aria di 10000 spire è lungo 10 cm ed ha una sezione media di 10 cm2. Calcolare l’induttanza. Posto N = 10 4 , µ0 = 4π ⋅ 10 -7 H/m , S = 10-3 m 2 , h = 0.1 m , 59 − I bipoli e le loro caratteristiche si ha: 2 L = µ0 N S = 2 π H . h 5 Prima di passare oltre, riportiamo il valore dell’induttanza di un cavo coassiale, presente in moltissime applicazioni tecnologiche, di raggio interno (anima) a, raggio esterno (calza) b e lunghezza h: L = µ h ln b . a 2π In definitiva la caratteristica di un induttore è v(t) = ± L d i(t) , con L ≥ 0 . dt L’ambiguità nel segno dipende, come al solito, dalla convenzione fatta ai capi del bipolo. In ogni istante di tempo, per un fissato valore di corrente, la tensione può assumere qualsiasi valore nello stesso istante. Il punto centrale da capire è che, nell’induttore, un brusco aumento della tensione applicata non provoca un aumento altrettanto brusco della corrente (come avviene, invece, nel resistore), ma soltanto una accelerazione nella crescita della corrente. Da questo punto di vista, l’induttore è come un’auto dotata di scarsa ‘ripresa’ (e la ripresa è tanto peggiore quanto maggiore è l’induttanza L). Quando ‘schiacciamo l’acceleratore’ della tensione applicata, la corrente aumenta, sì, ma con gradualità, non istantaneamente: è proprio come se l’induttore conservasse una certa memoria della condizione in cui funzionava prima. Per questo, lo consideriamo dotato di memoria. i1(t) I0 0 i2(t) t0 t Figura 3.37: intersezione tra due correnti. 60 − I bipoli e le loro caratteristiche Per rendere il fenomeno ancora più evidente, osserviamo esplicitamente che diverse correnti possono avere, nello stesso istante, lo stesso valore, ma diversi valori della derivata rispetto al tempo, come suggerisce la Figura 3.37. All’istante t0, le due correnti assumono lo stesso valore, ma la derivata di i1(t) è positiva (la curva è inclinata verso l’alto), mentre la derivata di i2(t) è negativa (la curva è inclinata verso il basso). Il segno della tensione non dipende da quello della corrente, perché dipende dal segno della derivata temporale della corrente. Ne deriva che le cariche positive, in un induttore, possono sia ‘cadere’ dai punti a potenziale più alto, sia fare il contrario, cioè ‘risalire’ dai punti a potenziale più basso a quelli a potenziale più alto. • Energia immagazzinata La potenza elettrica assorbita da esso è, in ogni istante, immagazzinata e neppure una piccola parte viene trasformata in calore. L’induttore è come un serbatoio di energia privo completamente di buchi. L’energia, detta magnetica in questo caso, accumulata in un induttore è data, in ogni istante da UL(t) = 1 L i(t) 2 2 . Questa relazione si ottiene, come mostrato per il condensatore, integrando la potenza istantanea. L’energia dipende, quindi, soltanto dal valore della corrente che circola nell’induttore in quell’istante (e non dalla tensione applicata ai suoi morsetti). In regime stazionario, l’induttore si riduce a un semplice corto circuito, poiché, se la corrente è costante nel tempo, la sua derivata è nulla: v(t) = L d i(t) = L ⋅ 0 = 0 . dt Ecco perché, quando studieremo il regime stazionario, gli induttori non compariranno. Esempio 9 - Un induttore, supposto scarico all’istante t = 0 e di induttanza L = 1, viene alimentato dalla corrente (il cui grafico è riportato nella figura che segue): 2t, i(t) = 8 - 2 t , 0 per 0 ≤ t ≤ 2 ; per 2 ≤ t ≤ 4 ; altrove . 61 − I bipoli e le loro caratteristiche Determinare l’andamento della potenza e dell’energia istantanea assorbita. 5 4 3 2 i(t) 1 0 i(t) L=1 + v(t) t -1 -2 v(t) − -3 0 0.5 1 1.5 2 2.5 3 3.5 4 L’esempio richiede la determinazione della potenza e dell’energia assorbite dall’induttore. Fatta la convenzione dell’utilizzatore, cominciamo a calcolare la tensione sostenuta dalla corrente di alimentazione: v(t) = L d i(t) . dt Adoperando questa relazione e ricordando le principali regole di derivazione, non è difficile concludere che 2, v(t) = - 2 , 0 per 0 ≤ t ≤ 2 ; per 2 ≤ t ≤ 4 ; altrove . Nella figura precedente sono rappresentate le due funzioni, corrente e tensione, nell’intervallo 0 ≤ t ≤ 4; al di fuori di questo intervallo, esse sono nulle. Per determinate le potenza, basta eseguire il prodotto 62 − I bipoli e le loro caratteristiche per 0 ≤ t ≤ 2 , 4t, p(t) = v(t) i(t) = 4 t - 16 , per 2 ≤ t ≤ 4 , 0, altrove , mentre l’energia magnetica immagazzinata è data dalla formula UL(t) = 1 L i(t) 2 2 = 2 t2 , per 0 ≤ t ≤ 2 , 32 + 2 t2 - 16 t , per 2 ≤ t ≤ 4 , 0, altrove . La potenza e l’energia sono rappresentate, sempre nell’intervallo 0 ≤ t ≤ 4, nella figura che segue. 20 15 p(t) 10 5 UL(t) 0 t -5 -10 -15 -20 0 0.5 1 1.5 2 2.5 3 3.5 4 • Induttori in serie e parallelo Spesso è utile usare, anziché un solo induttore, più induttori opportunamente collegati tra loro. Molti problemi tecnici vengono risolti tramite questo accorgimento e, se il nostro obiettivo è innalzare l’induttanza complessiva, allora dobbiamo collegare due (o più) induttori in serie, mentre se li collegheremo in parallelo, vuol dire cha abbiamo intenzione di ridurre l’induttanza complessiva, il contrario di quanto accadeva per i condensatori. 63 − I bipoli e le loro caratteristiche Cominciamo dagli induttori in parallelo. La Figura 3.38 mostra tre induttori, il cui simbolo avete gia avuto modo di incontrare durante lo studio delle reti elettriche, di induttanza L 1, L 2 e L 3, collegati in parallelo. Quanto vale l’induttanza del bipolo equivalente al collegamento in parallelo? A i(t) + v(t) L1 − B L2 i1(t) L3 i2(t) i3(t) Figura 3.38: induttori in parallelo. Se applichiamo ad ogni induttore la relazione caratteristica, otteniamo v(t) = L1 d i 1(t) = L2 d i 2(t) = L3 d i 3(t) . dt dt dt La corrente totale del sistema costituito dai tre induttori è data dalla somma delle singole correnti e, quindi, v(t) = d i(t) = d i (t) + i (t) + i (t) = v(t) + v(t) + v(t) , 1 2 3 L dt dt L1 L2 L3 essendo L l’induttanza totale, definita dalla relazione 1 = 1 + 1 + 1 . L L1 L2 L3 Questa formula, dedotta nel caso di tre induttori, può essere facilmente estesa al caso di N induttori in parallelo, mostrando che l’induttanza equivalente al parallelo di N induttori è pari all’inverso della somma degli inversi delle singole induttanze L= 1 . 1 + 1 + 1 + ... + 1 L1 L2 L3 LN Dalla questa formula si evince chiaramente che il collegamento in parallelo viene usato per abbassare la capacità di una struttura. Immaginiamo, allo scopo, di 64 − I bipoli e le loro caratteristiche collegare in parallelo due induttori di stessa induttanza L 0; l’induttanza equivalente, allora, risulta L = L0 L 0 = L0 , L0 + L0 2 cioè la metà del valore dell’induttanza di ciascuno dei due induttori. In generale, l’induttanza equivalente di un collegamento in parallelo è sempre minore della più piccola induttanza della catena. Passiamo ora al caso degli induttori in serie. La Figura 3.39 mostra tre induttori di induttanza L 1, L 2 e L 3, collegati in serie. i(t) L1 + v1(t) A + L2 − + v2(t) L3 − + v3(t) i(t) − v(t) − B Figura 3.39: induttori in serie. Anche per questa configurazione siamo interessati a stabilire quale sia l’induttanza complessiva equivalente. A tal fine notiamo che, per gli induttori collegati in serie, la corrente che attraversa ciascun induttore è la stessa. Ora, applicando ad ogni induttore la definizione di induttanza, abbiamo che v1(t) = L1 d i(t) , v2(t) = L2 d i(t) , v3(t) = L3 d i(t) , dt dt dt essendo v1(t), v2(t) e v3(t) le tensioni ai capi dei tre induttori. La tensione del bipolo equivalente è data dalla somma di questi tre contributi e, pertanto, v(t) = v1(t) + v2(t) + v3(t) = (L1 + L2 + L3) d i(t) = L d i(t) , dt dt dove con L abbiamo indicato l’induttanza totale del sistema L = L1 + L2 + L3 . 65 − I bipoli e le loro caratteristiche Questa formula può essere facilmente estesa al caso di N induttori in serie, affermando che l’induttanza equivalente di una serie di induttori è pari alla somma delle singole induttanze componenti L = L1 + L2 + L3 + ... + LN . Da quest’ultima relazione è facile convincersi che questo tipo di collegamento viene usato per aumentare l’induttanza di una struttura. • Realizzazione degli induttori Veniamo alle caratteristiche costruttive degli induttori. Cominciamo dagli induttori senza nucleo ferromagnetico. Esistono varie formule per il calcolo degli induttori, tutte empiricamente ricavate, quindi approssimate. Con riferimento agli induttori senza nucleo, la formula approssimata di uso più generale per il calcolo delle dimensioni di un induttore, ad un solo strato, è 2 2 L = 987 ⋅ 10 -6 K D N , H dove, come mostrato in Figura 3.40, con L abbiamo indicato l’induttanza in microherny, D il diametro dell’induttore in centimetri, H la lunghezza in centimetri, N il numero di spire, K il fattore di correzione, detto costante di Nagaoka, il cui andamento al variare del rapporto di aspetto è riportato in Figura 3.40. D H K 10 8 6 4 2 0.1 1 10 D H Figura 3.40: realizzazione di un induttore in aria. 66 − I bipoli e le loro caratteristiche La relazione riportata viene risolta generalmente imponendo tutti i parametri tranne uno. Determinati tutti i valori dei parametri, si realizza l’induttanza e si verifica il progetto mediante ponti di misura, per mostrare che l’induttanza realizzata corrisponde a quella progettata. Generalmente la bontà di un induttore dipende dal tipo di supporto impiegato, dal tipo di avvolgimento e dal tipo di filo. Per ridurre la capacità propria dell’induttore, al fine di migliorarne le prestazioni, si eseguono avvolgimenti particolari che riducono questo effetto indesiderato. Gli avvolgimenti tipici sono due: quello ad induttori cilindrici e quello a nido d’ape. Per i primi, la formula utilizzata per il calcolo dell’induttanza è la stessa che abbiamo mostrato in precedenza. Per quelli a nido d’ape la formula empirica è L = 10-3 K N 2 r , dove r è il raggio medio dell’induttore in centimetri. Passiamo, ora, agli induttori con nuclei ferromagnetici, che vengono realizzati al fine di ottenere elevati valori di induttanza con ingombro modesto. Con questi induttori è possibile variare, entro un certo intervallo, mediante spostamento del nucleo rispetto agli avvolgimenti, la permeabilità magnetica e, quindi, l’induttanza. Se l’induttore con nucleo è attraversato da una corrente costituita dalla somma di una continua più una alternata, occorre dotare il nucleo di un traferro, per evitare che la componente continua della corrente determini una magnetizzazione troppo elevata del nucleo. Nel caso in cui ci siamo messi, cioè di corrente somma di due contributi, continua ed alternata, se da un lato la presenza del nucleo aumenta il valore dell’induttanza, dall’altro introduce delle perdite di energia dovute all’isteresi ed alle correnti parassite, che si vanno ad aggiungere a quelle, già presenti, di tipo ohmico. Infine, per concludere, riportiamo la formula che ci consente di calcolare, in via approssimata, l’induttanza di un induttore con nucleo magnetico 2 L = 1.256 N 10 -6 , LF + LA µr SF SA dove abbiamo indicato con N numero delle spire, L F la lunghezza del circuito magnetico del nucleo, L A la lunghezza del circuito magnetico del traferro, µr la permeabilità magnetica relativa del nucleo, SF la sezione trasversale effettiva del nucleo; SA la sezione equivalente del traferro (SA > SF ). 67 − I bipoli e le loro caratteristiche Al fine di eliminare gli effetti di eventuali campi elettromagnetici esterni, o per limitare, almeno in una data zona, il campo magnetico prodotto da un induttore, si è soliti racchiudere l’induttore stesso in un involucro, chiamato schermo. La tecnica che consente di realizzare ciò viene detta schermatura e si differenzia a seconda della frequenza dei campi sostenuti dall’induttore. Infatti, per campi magnetici continui o a bassa frequenza, si realizzano schermature con materiali magnetici ad elevata permeabilità iniziale, mentre si usano materiali metallici ad elevata conducibilità, per campi magnetici ad elevata frequenza. In conclusione, facciamo notare esplicitamente che la schermatura introduce una diminuzione della induttanza stessa. 68 − I bipoli e le loro caratteristiche Appendice: altri fenomeni di conduzione La conduzione nei metalli è essenzialmente affidata agli elettroni che, abbandonando l’atomo o la molecola di appartenenza, migrano più o meno liberamente attraverso il reticolo cristallino, costituendo quello che viene detto mare di Fermi. Gli elettroni sono particelle molto leggere e, pertanto, dotate di grande mobilità. In questa appendice vogliamo esaminare altri fenomeni di conduzione elettrica, legati alle soluzioni ed ai gas. La principale differenza con la conduzione nei metalli è dovuta alla diversa mobilità delle particelle cariche che costituiscono la corrente, dato che, sia nei liquidi che nei gas, partecipa al processo conduttivo non solo il piccolo ed agile elettrone, ma anche il più pesante ione, ottenuto per estrazione di elettroni dagli atomi e dalle molecole. Si intuisce, allora, come la mobilità dei diversi portatori di carica determini le dinamiche dei processi conduttivi e, di conseguenza, le caratteristiche del conduttore in esame. • Definizione di mobilità Le considerazioni fatte sulla mobilità dei vari tipi di ioni possono, in qualche misura, essere rese più quantitative introducendo il concetto di mobilità. Immaginiamo di avere una particella carica (che può essere anche un elettrone), di massa M e carica q, che si muova con velocità (media) v sotto l’azione di un campo elettrico E. Definiamo mobilità della particella, indicata simbolicamente con µ, la costante dimensionale che lega la velocità al campo elettrico, cioè v=µE. Le dimensioni della mobilità sono m v 2 µ = = s = m . E V Vs m Se, nello stesso campo elettrico accelerante, consideriamo due tipi di particelle, una pesante (indicata con una P ad apice) ed una leggera (indicata con una L ad apice), risulta che vP = µP E , v L = µL E . Dividendo membro a membro le due ultime relazioni, possiamo facilmente concludere che 69 − I bipoli e le loro caratteristiche vP = µP < 1 , vL µL cioè che la mobilità della particella più pesante è più piccola, come è ovvio, di quella della particella più leggera µP < µL. Ciò comporta che un elettrone possiede una mobilità molto più grande di quella di qualsiasi altro ione. • Conduzione nei liquidi Nei conduttori elettrolitici la corrente elettrica è costituita dal movimento ordinato di ioni: gli ioni positivi migrano verso il catodo, mentre quelli negativi si muovono verso l’anodo, come mostrato in Figura A.1. Studiando il passaggio della corrente elettrica nei liquidi, M. Faraday, nel 1833, osservò che l’acqua pura è praticamente isolante, mentre diventa conduttrice se si scioglie in essa una piccola quantità di un sale, o di un acido, o di una base. Soluzioni in acqua, invece, della maggior parte dei composti organici, come ad esempio lo zucchero, non sono conduttrici. Chiameremo elettrolita qualsiasi sostanza che, disciolta nell’acqua, la rende conduttrice ed elettrolisi il passaggio della corrente elettrica nelle soluzioni elettrolitiche. Anodo Catodo E Figura A.1: conduzione in un elettrolita. La proprietà di un elettrolita, di lasciarsi attraversare dalla corrente, proviene dal fatto che una parte delle sue molecole è dissociata. Ad esempio, in una soluzione di cloruro di sodio Na Cl, una parte delle molecole è dissociata in ioni sodio, portanti una carica elementare positiva, un’altra parte in ioni cloro, portanti una carica uguale negativa. La carica di questi ioni monovalenti è ancora, in valore assoluto, quella dell’elettrone. L’esperienza mostra che per soluzioni elettrolitiche vale la legge di Ohm, cioè l’intensità della corrente che passa è proporzionale alla differenza di potenziale. Ciò vale finché la temperatura della soluzione non diventa troppo alta, a causa dell’effetto Joule, che ha luogo nei liquidi attraverso un meccanismo simile a quello 70 − I bipoli e le loro caratteristiche che si manifesta nei solidi; se la temperatura è così elevata che il liquido bolle, avvengono in esso fenomeni complicati e la legge di Ohm non è più rispettata. Comunque, la conduzione nei liquidi è particolarmente interessante per tutti gli aspetti legati allo studio di batterie ed accumulatori. • Conduzione nei gas Cominciamo a notare che gli ioni gassosi si formano per cessione oppure acquisto di uno o più elettroni, e non per scissione delle molecole costituenti la soluzione, come invece accade per le soluzioni. Quello che accade è che un elettrone, o più di uno, posto nella parte più esterna della molecola di gas acquista una energia tale da distaccarsi dalla molecola che, inizialmente neutra, diventerà ora uno ione positivo; l’elettrone liberatosi si legherà ad un’altra molecola, facendola diventare uno ione negativo, oppure rimarrà da solo comportandosi, ovviamente, come uno ione negativo. Ciò che rimane da chiarire è cosa renda possibile questa ionizzazione. A tal proposito si definisce agente ionizzante un qualunque fattore esterno, capace di fornire ad uno o più elettroni l’energia di ionizzazione, cioè l’energia che consente la fuoriuscita dell’elettrone dalla molecola. I più comuni agenti ionizzanti sono: la temperatura, la radiazione elettromagnetica e quella nucleare, i raggi cosmici. L’entità del fenomeno della ionizzazione è, per un certo campo di valori, direttamente proporzionale all’agente ionizzante. C’è da dire, però, che si riscontra una situazione di saturazione in cui l’effetto non aumenta più, anche aumentando l’agente ionizzante, in quanto ad un certo punto il numero di ioni che si formano in un certo intervallo di tempo risulta pari al numero di molecole che, nello stesso intervallo di tempo, ritornano allo stato neutro. La ionizzazione non è l’unico fenomeno al quale sono soggetti i gas: quando un gas, in cui siano presenti alcuni ioni, è immerso in un campo elettrico esso subisce quella che comunemente viene chiamata ionizzazione secondaria che consiste nel fatto che gli ioni presenti, positivi e negativi, vengono attratti o respinti dagli elettrodi che generano il campo. In questo modo acquistano una energia cinetica tale che urtando contro le altre molecole provocano un’ulteriore ionizzazione (da cui l’attributo secondaria). I gas non ionizzati si comportano dal punto di vista elettrico come dei perfetti isolanti, ma, dato che non si riesce mai ad eliminare tutti gli agenti ionizzanti, una certa qual conducibilità si riscontra sempre. Ad esempio, la sola radiazione cosmica è talmente penetrante da attraversare qualunque schermo posto a protezione del gas ed è capace di produrre una, sia pur piccola, ionizzazione. Si conclude, allora, che i gas presentano sempre una certa conducibilità. Illustriamo, ora, un esperimento che ci consente di comprendere in che modo si manifesti il fenomeno della conduzione nei gas. Soffermiamoci, per il momento, al caso di un gas mantenuto a pressione costante e supponiamo di eseguire 71 − I bipoli e le loro caratteristiche l’esperimento, mostrato in Figura A.2, in cui consideriamo come gas l’aria secca, a bassa pressione. Come si nota, nel circuito di misura sono inseriti un generatore E, capace di raggiungere anche elevati valori di tensione, ed un amperometro A, in grado di segnalare la presenza di correnti, anche di debolissima entità. Quando il cursore C si trova a coincidere con il punto N, la tensione ai capi del condensatore che contiene il gas in esame è nulla e l’amperometro non segnala alcuna corrente. + M + A A C E − N + + VAB V − B I Figura A.2: circuito di misura della corrente circolante in un gas. Man mano che il cursore si sposta da N verso M, la tensione ai capi della capacità comincia ad aumentare e si rileva una corrente sempre più grande sull’amperometro. Il processo procede in questa maniera fino a quando la corrente non raggiunge il valore di saturazione IS , corrispondente alla tensione di saturazione VS ; in questa situazione, il valore di corrente rimane pressoché inalterato anche se la tensione aumenta (Figura A.3). i IE IS 0 VS VD VE vAB Figura A.3: la corrente che attraversa una gas. Questo fenomeno è detto di scarica oscura perché non è accompagnato da manifestazioni luminose, né acustiche. Se tra gli elettrodi A e B esiste una piccola tensione, gli ioni formati dagli agenti ionizzanti esterni si muovono verso gli 72 − I bipoli e le loro caratteristiche elettrodi di segno opposto, analogamente a quanto accade in una cella elettrolitica; però, finché la tensione è debole, soltanto pochi ioni giungono agli elettrodi, dato che, lungo il cammino, molti di essi vengono neutralizzati da ioni di segno opposto: si ha, quindi, che la corrente assume valori modesti. Aumentando la tensione, cresce il numero di ioni che sono in grado di raggiungere gli elettrodi, cioè aumenta l’intensità di corrente. Quando si arriva al valore VS accade che praticamente tutti gli ioni, man mano che si formano, vengono raccolti dagli elettrodi, per cui, pur aumentando la tensione del generatore, non si rileva alcun aumento significativo della corrente, che rimane bloccata al valore IS . Notiamo che questo valore potrebbe aumentare solo se aumentasse l’intensità degli agenti ionizzanti. Se si continua ad aumentare la tensione tra A e B, accade che dopo la fase di corrente costante, in corrispondenza della tensione VD, l’intensità di corrente riprende ad aumentare, prima lentamente, poi più rapidamente. Quando la tensione raggiunge il valore VE, detto potenziale esplosivo, l’intensità di corrente risulta talmente elevata dà dar luogo ad una scarica a scintilla, caratterizzata da una certa intensità luminosa e da un crepitio. L’elevatissimo campo elettrico presente tra gli elettrodi accelera gli ioni primari a tal punto da renderli capaci di innescare una ionizzazione secondaria per urto, dando origine a nuovi ioni, che a loro volta ne producono altri, e così via, fino ad avere un vero e proprio effetto di valanga ionica che si manifesta con una scarica a scintilla. Per avere un’idea degli ordini di grandezza delle quantità in gioco, diciamo che, se la distanza tra gli elettrodi è circa 1 cm e se tra di essi è interposta dell’aria secca, il potenziale esplosivo è di circa 30 kV. Al fine di capire le cause in grado di cambiare il potenziale esplosivo, riportiamo la legge di Paschen, secondo cui il potenziale esplosivo VE è direttamente proporzionale alla pressione del gas (p) ed alla distanza (d) tra gli elettrodi. L’espressione matematica di questa legge è, ovviamente, VE = k p d . La giustificazione di questa legge è da ricercarsi nel fatto che la scarica a scintilla è una conseguenza della ionizzazione secondaria, la quale ha luogo se gli ioni, prima di urtare le molecole neutre, hanno possibilità di percorrere un sufficiente cammino e di acquistare una sufficiente energia cinetica. È evidente allora che questa possibilità si realizza tanto più facilmente, quanto più piccolo è il numero delle molecole del gas per unità di volume, cioè quanto più bassa è la pressione del gas. In sostanza, diminuendo la pressione diminuisce anche il valore del potenziale esplosivo. Per quanto riguarda la distanza tra gli elettrodi, la relazione tra il modulo del campo elettrico ed il potenziale tra le placche di un condensatore piano E = V/d, evidenzia che, diminuendo la distanza tra gli elettrodi, diminuisce anche la 73 − I bipoli e le loro caratteristiche tensione necessaria per avere tra gli elettrodi stessi un campo elettrico sufficientemente intenso da accelerare gli ioni primari e farli diventare a loro volta agenti ionizzanti (ionizzazione secondaria). Quindi il potenziale esplosivo è tanto più piccolo, quanto minore è la distanza tra gli elettrodi. Vale la pena sottolineare che scariche a scintilla naturali sono i fulmini, che non sono altro che scintille tra due nubi o scintille tra nube e suolo, con tensioni dell’ordine dei milioni e perfino dei miliardi di volt. L’elettrizzazione delle nubi è probabilmente dovuta all’attrito tra le goccioline d’acqua che le costituiscono e le correnti atmosferiche. Catodo Anodo Catodo Anodo → all’inizio → dopo un certo tempo Figura A.4: evoluzione degli elettrodi di un arco voltaico. Se si usano degli elettrodi fatti di particolari sostanze, per esempio di carbonio, è possibile realizzare scariche a scintilla continue e molto intense, generando quel particolarissimo fenomeno che prende il nome di arco voltaico. Mettendo, in un primo momento, i due elettrodi a contatto in modo da far passare corrente nel circuito, dopo un po’ di tempo le estremità degli elettrodi diventano incandescenti, per effetto Joule. A questo punto allontanandoli l’uno dall’altro di qualche millimetro, la corrente continua a passare, nonostante il distacco dei due elettrodi, e tra le estremità si osserva un bagliore assai luminoso, detto scarica ad arco. Il gas tra gli elettrodi è incandescente e fortemente ionizzato; in esso sono presenti anche vapori e particelle provenienti dalla sublimazione degli elettrodi, i quali vengono mantenuti incandescenti dagli urti violenti degli ioni. Gli elettrodi si consumano (Figura A.4) rapidamente: l’anodo si incava, mentre il catodo si appuntisce ed, in questa fase, la temperatura è circa 4000 °C. La tensione necessaria all’instaurarsi del fenomeno è di circa (40 ÷ 50) V. Le applicazioni dell’arco voltaico sono svariate: esso viene usato sia come sorgente luminosa, dato che sprigiona una luce bianca vivissima, sia come sorgente di calore ad elevata temperatura per la fusione di materiali refrattari, per la saldatura elettrica, nei forni ad arco. Quanto finora detto, si riferiva al caso di gas a pressione standard, non troppo bassa. Per eseguire le esperienze a pressioni molto basse è necessario racchiudere gli elettrodi entro un tubo di vetro collegato con una macchina pneumatica, in modo 74 − I bipoli e le loro caratteristiche che sia possibile diminuire progressivamente la pressione del gas. Nell’intervallo tra (300 ÷ 760) mm di Hg, il gas si comporta conformemente alla legge di Paschen, cioè si riduce progressivamente il valore del potenziale esplosivo, ma la scarica a scintilla conserva pressoché inalterate le caratteristiche. Diminuendo ulteriormente la pressione, la scintilla cambia progressivamente aspetto, diventando dapprima regolare e silenziosa, finché al di sotto dei 100 mm di Hg, si trasforma in una colonna luminosa uniforme, che occupa tutto lo spazio tra gli elettrodi e prende il nome di scarica a bagliore. La scarica a bagliore è molto usata per l’illuminazione e per le insegne luminose; il colore della luce emessa dipende dalla natura del gas contenuto nel tubo: il neon puro produce un colore rosso, l’argon emette un colore violaceo, mentre il colore della scarica a bagliore dell’anidride carbonica è bianco. Al di sotto dei 10 mm di Hg, la colonna luminosa comincia ad essere interrotta da zone oscure che diventano sempre più estese, finché la luminosità non cessa del tutto. Questo sembrerebbe in disaccordo con quanto detto in precedenza; in effetti, è vero che i pochi ioni presenti hanno un elevatissimo potere ionizzante, ma è pur vero che la probabilità che essi incontrino una molecola è piccolissima a causa della pressione estremamente bassa e, pertanto, non sono in grado di ionizzarne alcuna.